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Discrimen » Rischio e pericolo, rischio consentito e principio di precauzione. La c.d. “flessibilizzazione delle categorie del reato”

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RISCHIO E PERICOLO, RISCHIO CONSENTITO E PRINCIPIO DI PRECAUZIONE.

LA C.D. “FLESSIBILIZZAZIONE DELLE CATEGORIE DEL REATO” (*)

soMMario: 1. Premessa. Nozione di “rischio” e di “pericolo”. – 2. La disciplina codicistica dei reati di pericolo. – 3. Le attività lecite pericolose. Il rischio consentito. – 4. Il bilanciamento di inte- ressi. – 5. Rischio consentito e osservanza delle regole cautelari. – 6. Rischio consentito, preve- dibilità e leggi scientifiche. – 7. Il principio di precauzione. – 8. La c.d. “flessibilizzazione” delle categorie classiche del reato.

1. Premessa. Nozione di “rischio” e di “pericolo”

In dottrina non si è ancora pervenuti ad una soddisfacente collocazione e defi- nizione delle nozioni di “rischio” e di “pericolo” ed in particolare non si è riusciti, fino ad oggi, a fornire una risposta condivisa al quesito se si tratti di sinonimi ovve- ro se possa ipotizzarsi una differenza tra le due ipotesi.

Questa difficoltà, se non impossibilità, di distinguere tra rischio e pericolo è del resto confermata dalla circostanza che gli studiosi che hanno tentato di individuare queste differenze sono pervenuti a risultati non solo insoddisfacenti ma addirittura contradditori. Basti pensare che vi è chi individua tra le due nozioni una differenza di tipo qualitativo1 e chi opta invece per una differenza di tipo esclusivamente quantita- tivo ritenendo che “il ‘pericolo’ null’altro è se non un ‘rischio’ caratterizzato da un’alta possibilità di verificazione del danno all’interesse considerato”2. Secondo questa se- conda impostazione il pericolo si risolverebbe nella “probabilità” o nella “rilevante possibilità” del verificarsi dell’evento dannoso; il rischio resterebbe relegato nell’area del mero “possibile”: preveduto nel caso di dolo e prevedibile nel caso di colpa.

1 In questo senso v. V. MilitEllo, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, 17 ss. che ritiene che il rischio afferisca alla condotta e il pericolo all’evento.

2 È questa la definizione di G. Marini, “Rischio consentito” e tipicità della condotta.

Riflessioni, in Scritti in memoria di Renato Dell’Andro, Bari, 1994, vol. II, 539 ss. (v. in particolare p. 542 ss). Per la soluzione quantitativa propendeva anche C. PErini, Prospettive del concetto di rischio nel diritto penale moderno, Garbagnate Milanese, 2002, 17 (n. 39) ma l’Autrice, nel più recente saggio Il concetto di rischio nel diritto penale moderno, Milano, 2010, sembra oggi orientata a ritenere sinonimi rischio e pericolo (v. p. 42, 63, 371 ss.).

(*) Il testo riproduce, con alcuni aggiornamenti, la relazione svolta all’incontro di studio orga- nizzato dal C.S.M. sul tema “Il diritto penale del rischio” tenuto a Roma dal 17 al 19 settembre 2012.

Criminalia 2012

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Fino ad epoca recente era dunque possibile affermare che rischio e pericolo – come del resto è agevole constatare leggendo le definizioni che ne danno i dizio- nari in uso – fossero in realtà concetti sovrapponibili e che indicassero entrambi una situazione o una circostanza da cui può derivare un danno. Al più si sarebbe potuto ipotizzare che la distinzione valesse soltanto a diversificare gli obblighi di intervento preventivo esistenti solo nel caso di accertamento del pericolo mentre il rischio riguarderebbe soltanto il legislatore o il pubblico amministratore.

Non mi sembra comunque che possa porsi in dubbio che il rischio sia comun- que ascrivibile all’elemento oggettivo del reato come elemento preesistente alla condotta che può essere addirittura irrilevante nel caso di produzione di un even- to dannoso. Si è fatto l’esempio3 di una “pacca” sulle spalle che potrebbe anche provocare gravi conseguenze fisiche ascrivibili all’agente a titolo doloso, colposo o preterintenzionale o essere penalmente irrilevante.

Sotto altro profilo era possibile osservare che mentre il termine “pericolo” era ben conosciuto dal nostro ordinamento penale tanto da dare luogo alla previsione, codicistica e non, di una serie cospicua di reati – detti appunto “di pericolo” – il termine “rischio” appariva più una creazione dottrinale utilizzata per caratterizza- re una teoria sulla causalità (“imputazione oggettiva dell’evento” detta anche “teo- ria del rischio”) o per qualificare un orientamento giurisprudenziale che richiedeva percentuali minime di probabilità per ritenere l’evento cagionato causalmente ri- collegato alla condotta (“aumento del rischio”).

Occorre però prendere atto che il legislatore ha recentemente inteso dare una definizione normativa di rischio e pericolo – sia pure ai soli fini della tutela della salute e della sicurezza nell’ambiente di lavoro – anche se è immaginabile che le de- finizioni possano trovare, per la loro aspecificità, un’estensione al di fuori dell’am- bito tematico in cui sono state inserite (per es. al settore ambientale).

L’art. 2 lett. r del d. lgs. 9 aprile 2008 n. 81 (tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) così definisce il “pericolo”: “proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni”. Mentre la lettera s così descrive il “rischio”: “probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppu- re alla loro combinazione”.

Non si tratta di definizioni che si caratterizzino per chiarezza. Sembrerebbe che il pericolo indichi già l’esistenza di una potenzialità di danno; mentre il rischio indicherebbe la probabilità del raggiungimento di una situazione di potenzialità di danno. Insomma si tratterebbe di una distinzione di tipo quantitativo ma dalle caratteristiche omogenee perché nel primo caso (pericolo) il danno è probabile;

nel secondo (rischio)…………lo sta diventando!

3 Da parte di G. Marini, “Rischio consentito” e tipicità della condotta, cit., 550.

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Una prima considerazione: se la definizione ha effettivamente carattere quan- titativo e se l’intento del legislatore delegato era quello di distinguere tra le si- tuazioni che richiedono l’intervento repressivo (penale o amministrativo) e quelle che riguardano esclusivamente il legislatore e la pubblica amministrazione è arduo inquadrare il rischio nel principio di precauzione – di cui parleremo più avanti – al quale si fa riferimento nei casi in cui il pericolo sia solo congetturale. Se un danno sta divenendo probabile è dubbio che possa essere ritenuto congetturale e che si sia ancora all’interno del perimetro che riguarda il principio di precauzione.

2. La disciplina codicistica dei reati di pericolo

Se dunque rischio e pericolo sono (o erano) la stessa cosa dobbiamo prendere atto che il concetto di pericolo era ampiamente presente, come si è già accennato, nella legislazione codicistica vigente per la presenza dei reati di pericolo con interi capi del titolo VI del codice penale (delitti contro l’incolumità pubblica) dedi- cati ai delitti di comune pericolo (capi I, II, III). E, per venire al titolo di questo incontro di studio, può anche convenirsi che, in questa normativa, esistesse già una distinzione implicita tra reati che costituiscono espressione del “diritto penale dell’evento” (reati di danno e di pericolo concreto) e reati che esprimono il “diritto penale del rischio” (reati di pericolo astratto)4.

La disciplina del codice penale dunque già anticipava un processo che non è riferibile all’epoca attuale anche se effettivamente, nel corso degli ultimi decenni, si è avuto un notevole sviluppo dei reati di pericolo astratto (per es. nel campo della circolazione stradale, della sicurezza del lavoro, della sicurezza ambientale e alimentare ecc.) riconducibile, per lo più, allo sviluppo delle tecnologie poten- zialmente pericolose per i beni della persona oltre che all’accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica per questi temi.

È ancora da precisare che i reati di pericolo astratto non coincidono con i reati che, in una logica c.d. “cautelativa”, impongono soglie massime, per es., alle emis- sioni o alla presenza di determinate sostanze negli alimenti. In questi reati, infatti, quando la soglia sia fissata con criteri estremamente prudenziali, non può dirsi che il superamento sia associato ad un probabile effetto dannoso5.

La premessa di questa sintetica analisi è costituita dalla distinzione tra reati di mera condotta e reati di evento. In questi ultimi l’evento può consistere sia nella

4 In questo senso v. C. PErini, La legislazione penale tra “diritto penale dell’evento” e “diritto penale del rischio”, in Legislazione penale, 2012, 117.

5 Su questi aspetti v. C. PErini, La legislazione penale tra “diritto penale dell’evento” e “diritto penale del rischio”, cit., 123 ss. che inserisce queste normative nello schema del “diritto penale del comportamento” e pone il problema del rispetto del principio di offensività.

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lesione del bene giuridico protetto, per es. omicidio o lesioni (reati di danno) sia nella messa in pericolo dei beni protetti (reati di pericolo) nei quali la lesione è sol- tanto potenziale (ovviamente entrambe le situazioni possono presentarsi in alcuni casi di reati plurioffensivi)6.

Si distingue poi tra i reati di pericolo concreto e quelli di pericolo astratto (o presunto).

Nei primi (reati di pericolo concreto) occorre accertare se il bene giuridicamen- te protetto sia stato, nel caso esaminato, effettivamente posto in pericolo; nei reati contro la pubblica incolumità, che costituiscono la gran parte dei reati di pericolo, il fatto tipico è solitamente descritto richiedendosi che sia stata posta in pericolo la pubblica incolumità: si vedano le ipotesi del delitto di strage (art. 422 c.p.), di disastro (art. 434 c. p.) ecc.; in altre ipotesi il pericolo può riguardare beni specifici che generalmente coincidono con il bene protetto dalla norma: nel danneggiamen- to seguito da incendio (art. 424 c.p.) occorre che si verifichi il pericolo di incendio;

nelle ipotesi previste dagli artt. 429 e 431 che si verifichi il pericolo di naufragio o di disastro ferroviario.

In tutte queste ipotesi, dunque, il giudice deve accertare che la pubblica inco- lumità (o altro bene protetto) sia stata concretamente posta in pericolo (chi mette una bomba sotto la casa del suo nemico risponderà anche di strage se si tratta di un luogo densamente abitato ma non se la casa era isolata e abitata soltanto dalla vitti- ma). Si aggiunga che la concretezza del pericolo può derivare anche dalle modalità della condotta (v. art. 445 c.p.: somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica).

Nei reati del secondo gruppo (reati di pericolo astratto o presunto) non è invece necessario che la pubblica incolumità (o altro bene protetto) sia stata concretamente posta in pericolo; è sufficiente che si realizzi la fattispecie tipica del fatto descritto nella norma: incendio (art. 421 c. 1); inondazione, frana o valanga (426) disastro ferroviario (430) ecc. È da sottolineare che la medesima ipotesi di reato di pericolo astratto può assumere, in ipotesi specifiche, natura di reato di pericolo concreto: per es. l’incendio – reato di pericolo astratto – se riguarda la cosa propria (art. 421 c. 2) diviene reato di pericolo concreto perché richiede il verificarsi del pericolo per la pubblica incolumità; e così per i reati di naufragio, sommersione o caduta di aero-

6 Sui reati di pericolo in generale v., di recente, M. zinCani, Reati di pericolo, in Diritto penale, a cura di F. Giunta, Milano, 2008, 202 e, sui reati contro la pubblica incolumità, A. GarGani, Incolumità pubblica, ibid., 542, ai quali si rinvia anche per gli ulteriori riferimenti dottrinari. Per un’esauriente recentissima disamina dei principi affermati dalla giurisprudenza, di legittimità e di merito, sul tema del disastro v. N. CECChini, Attribuzione causale ed imputazione colposa di un disastro, in Dir. pen. e proc., 2012, 282 nonché, con riferimento ad un recente caso che ha avuto larga eco nell’opinione pubblica, P. Pisa, Il naufragio della Costa Concordia: i profili di responsabilità penale, in ibid., 367.

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mobile (art. 428 c. 3) quando la nave o l’aeromobile siano di proprietà dell’agente.

Sulla distinzione tra le due categorie di reati esiste una certa uniformità di opi- nioni in dottrina7. Non tutti gli Autori condividono invece l’equiparazione tra la nozione di reati di pericolo astratto e quella di pericolo presunto. È stato affer- mato8 che nel primo caso (pericolo astratto) il pericolo “non è requisito tipico, ma è dato dalla legge come insito nella stessa condotta, perché ritenuta pericolosa, ed il giudice si limita a riscontrare la conformità di essa al tipo legale” mentre nel secon- do caso (pericolo presunto) “il pericolo non è necessariamente insito nella stessa condotta, poiché al momento di essa è possibile controllare l’esistenza o meno delle condizioni per il probabile verificarsi dell’evento lesivo, ma esso viene presunto juris et de jure, per cui non è ammessa neppure prova contraria della sua concreta inesi- stenza.” E v’è anche chi9 rifiuta proprio il concetto di “pericolo astratto” sul rilievo che “se il pericolo è probabilità di un evento temuto, non si può concepire una species in cui questa probabilità manchi. Ne deriva che nei casi in cui si ravvisa un pericolo astratto, in realtà non si ha una forma speciale di pericolo, ma una presunzione di pericolo, la quale non ammette prova in contrario.”

Anche la giurisprudenza di legittimità si è sostanzialmente uniformata a questi prin- cipi anche se residua un’importante divergenza sulla qualificazione del reato previsto dagli artt. 334 e 449 cod. pen. che è poi l’ipotesi di reato contro la pubblica incolumità che si presenta più frequentemente. Questo contrasto si è riproposto di recente: la sentenza Cass., sez. IV, 14 marzo 2012 n. 18678 (che ha esaminato il caso di una fuoriu- scita di 10 tonnellate di arsenico dallo stabilimento Anic di Manfredonia) ha costruito il reato indicato, nel senso già condiviso da un precedente10, come reato di pericolo richiedendo soltanto che dal fatto derivi un pericolo per la pubblica incolumità.

La quasi contemporanea sentenza 18 gennaio 2012 n. 15444, Tedesco (relativa ad un disastro ferroviario), anch’essa richiamando precedenti conformi11, ritiene invece che, per la configurabilità del delitto di disastro colposo, sia necessario che si verifichi l’accadimento distruttivo.

La tesi della sentenza 18678/12 si fonda sulla collocazione dell’art. 449 nel capo riguardanti i delitti colposi di comune pericolo (peraltro l’art. 449 è rubricato come “delitti colposi di danno”). Ma, su questo aspetto, va rilevato che l’art. 334,

7 Si vedano, esemplificativamente, i recenti testi istituzionali di G. MarinuCCi e E. dolCini, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2012, 207 ss.; F. Palazzo, Corso di diritto penale.

Parte generale, Torino, 2011, 77 ss.; G. FiandaCa e E. MusCo, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2010; T. Padovani, Diritto penale, Milano, 2008, 134 ss.

8 Da parte di F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2011, 206 ss.

9 Si veda F. antolisEi, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2000.

10 Si tratta di Cass., sez. IV, 20 febbraio 2007 n. 19342, Rubiero, in Riv. pen., 2007, 995.

11 V. Cass., sez. IV, 9 marzo 2009 n. 18977, Innino, in Riv. pen., 2009, 960; 17 maggio 2006 n. 4675, Bartalini e altri, in Foro it., 2007,II,550, con nota di R. GuarinEllo, Tumori professionali a Porto Marghera.

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nel disciplinare l’ipotesi dolosa, anticipa la tutela al momento in cui è commesso

“un fatto diretto a cagionare” il crollo o altro disastro. Si tratta, in buona sostanza, di un reato che si consuma col solo tentativo e, proprio per questo, la norma ri- chiede che dal fatto derivi pericolo per la pubblica incolumità ma non che il crollo o il disastro si verifichino effettivamente (quindi si tratta di un reato di evento e di pericolo concreto) .

Nell’ipotesi colposa prevista dall’art. 449 la condotta tipica è descritta come l’azione che “cagiona per colpa un incendio, o un altro disastro” e dunque, da un punto di vista letterale, sembra si richieda che il disastro sia avvenuto (il tentativo non è configurabile trattandosi di reato colposo); anche in questo caso pertanto il reato è di evento (costituito dal disastro) ma in questo caso il pericolo è astratto perché non è richiesto il pericolo per la pubblica incolumità evidentemente ogget- to di presunzione da parte del legislatore e fondato sulle caratteristiche devastanti del disastro. Insomma, secondo questa ricostruzione, nel reato doloso l’evento è costituito dal pericolo per la pubblica incolumità; in quello colposo dal crollo o dal disastro che però devono essersi di fatto verificati.

In esito a questa breve disamina va infine rilevato che i reati di pericolo – in particolare quelli di pericolo astratto – sono stati spesso visti come potenzialmen- te congliggenti con i principi di offensività, tassatività e determinatezza. Su que- sto tema è intervenuta la Corte costituzionale che, con sentenza 1° agosto 2008 n. 32712 ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.

434 c. p. con riferimento al reato di “disastro innominato”. Ha rilevato il giudice delle leggi come – malgrado il concetto di disastro si presenti, nell’art. 434, “scar- samente definito” – la collocazione della norma consenta “di delineare una nozione unitaria di disastro i cui tratti qualificanti si apprezzano sotto un duplice e concorren- te profilo”: quello dimensionale (“si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre ef- fetti dannosi gravi, complessi ed estesi) e quello della proiezione offensiva (l’evento deve provocare “un pericolo per la vita o per l’integrità di un numero indeterminato di persone”).

In precedenza la Corte costituzionale, con la sentenza 27 dicembre 1974 n.

28613, aveva esaminato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 428 comma 1 e 423 comma 1 c. p., in relazione all’art. 449 dello stesso codice sotto il profilo della disparità di trattamento tra i casi di naufragio e incendio di cosa propria – che richiedono l’accertamento del pericolo in concreto – e i medesimi reati commessi su cosa altrui nei quali il pericolo è presunto. La questione era stata

12 In Cass. pen., 2009, 995.

13 In Riv. it. dir. proc. pen., 1976, 599, con nota di F. CarolEo GriMaldi, Brevi note intorno all’accertamento del “pericolo” nella fattispecie di incendio.

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dichiarata infondata perché il naufragio e l’incendio di cosa altrui richiedono un evento potenzialmente idoneo, seppure non concretamente, a creare una situa- zione di pericolo per la pubblica incolumità; la Corte ha comunque ritenuto non irrazionale la scelta legislativa differenziata.

3. Le attività lecite pericolose. Il rischio consentito

È noto che ogni attività umana, comprese quelle apparentemente più innocue, presenta un margine di rischio; in alcuna di queste gli eventi dannosi, pur rarissi- mi, sono però completamente eliminabili (anche lo studio in biblioteca espone al rischio che un libro cada sul capo dello studioso)14.

Quando parliamo di rischio consentito non ci riferiamo a questi casi. Com’è noto esistono (e sono anche frequenti: la gran parte delle attività cui si riferiscono gli studi e le sentenze sulla colpa) attività lecite “pericolose” nelle quali gli eventi dannosi sono in larga misura prevedibili e non sempre evitabili. Ciò non ostante, l’ordinamento le autorizza, per la loro elevata utilità sociale, nell’ambito – appunto – del c.d. “rischio consentito”; concetto che, a tutt’oggi, è tutt’altro che definito da un punto di vista teorico posto che vi sono autori che lo qualificano elemento autonomo della teoria del reato e altri che invece lo ritengono pleonastico15.

E anche il concetto di utilità sociale è stato posto in discussione perché ritenuto

“formula vuota” da chi16 propone di renderne più definiti i contorni con il riferi- mento ai criteri della relatività (l’utilità sociale è relativa ai tempi e alle persone), della legge del minimo mezzo (maggiore è la spinta alla realizzazione dello scopo quanto minore è il pericolo), dell’opportunità condizionata (alla disponibilità di altre soluzioni, all’incidenza dei costi, alla differibilità nel tempo), della legge di reciprocità (come l’utilità elevata giustifica un maggior rischio tollerabile un rischio elevato incide negativamente sull’utilità).

Quando parliamo di “rischio consentito” il riferimento può riguardare anche la medesima attività che in determinate condizioni viene autorizzata e in altre vie- tata (per es. le corse automobilistiche vietate nelle strade ordinarie e consentite nei circuiti17) spesso per ragioni di natura economica o commerciale ovvero per

14 Su questi aspetti v. le considerazioni di G. Marini, “Rischio consentito” e tipicità della condotta, cit., (a p. 545 ss.) il quale evidenzia che la “fascia di rischio” da prendere in considerazione ai nostri fini è mutevole nel tempo per lo sviluppo delle conoscenze e per l’evoluzione tecnologica.

15 Si vedano, su questi aspetti, le considerazioni di C. PErini, La legislazione penale tra “diritto penale dell’evento” e “diritto penale del rischio”, cit., 120 (in particolare nota 7).

16 V. A.R. Castaldo (La concretizzazione del “rischio giuridicamente rilevante”, in Riv. it. dir.

proc. pen., 1995, 1096 (in particolare p. 1098).

17 Ma si vedano, sul tema dei rallies che si svolgono sulle strade ordinarie, le ampiamente

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ragioni che mirano ad estendere le conoscenze scientifiche (si pensi alle attività di esplorazione spaziale).

Anzi è largamente diffusa in dottrina l’opinione secondo cui “una zona di rischio consentito, sia pure di estensione variabile secondo i casi, accompagna tutte le attività lecite, anche quelle che si ritrovano nelle società pre-industriali”18. E v’è chi ricostru- isce unitariamente il concetto di rischio consentito ai fini penali – sia per quanto riguarda i reati colposi che quelli dolosi– sul rilievo che “non c’è dolo, né colpa, senza violazione di una regola cautelare (unitariamente definita)”19 mentre, in una prospettiva diversa, si è affermato20 che “l’intenzionalità dell’offesa, tipica dell’ille- cito doloso, abbassa il quorum di rischi che l’ordinamento è disposto a tollerare, am- pliando così l’area del rischio significativo, imputabile all’autore” con la conclusione che “una condotta qualificabile come irrilevante in relazione a fatti colposi può di- ventare quindi giuridicamente apprezzabile se sostenuta da un’intenzionalità lesiva”.

Quanto alle caratteristiche intrinseche dell’“attività pericolosa” (che nel diritto civile comporta una sostanziale inversione dell’onere della prova: art. 2051 cod.

civ.) queste sono indicate nell’art. 2050 che fa riferimento all’attività pericolosa

“per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati”; la giurisprudenza civile di le- gittimità le ha maggiormente specificate individuandole nella pericolosità intrinse- ca, in quella dipendente dalle modalità di esercizio e in quella derivante dai mezzi adoperati (caratteristiche che non devono necessariamente coesistere)21.

motivate e approfondite sentenze Trib. Ivrea, 10 ottobre 2005, Lavino Zona, in Riv. pen., 2006, p. 70, e Trib. Alessandria 6 febbraio 2006, Pettenuzzo, ibid., p. 1076.

18 Sono parole di A. PaGliaro, Principi di diritto penale, Milano, 2003, p. 301.

19 In questo senso v. L. EusEBi, Appunti sul confine fra dolo e colpa nella teoria del reato, in Riv.

it. dir. proc. pen., 2000, 1053 (v. p. 1070 ss.).

20 Da parte di A.R. Castaldo, La concretizzazione del “rischio giuridicamente rilevante”, cit., 1102.

21 Si vedano, nella giurisprudenza civile di legittimità, Cass., sez. III, 15 ottobre 2004 n.

20334, in Foro it., 2005,I,1794; 2 marzo 2001 n. 3022, in id., 2001,I,1866. Sulla natura oggettiva della responsabilità civile nell’esercizio delle attività pericolose v. Cass., sez. III, 4 maggio 2004 n.

8457, in id., 2004,I,2379; 13 maggio 2003 n. 7298, in Resp. civ. e previd., 2003, 1351, con nota di M. ronChi, Sulla natura della responsabilità per l’esercizio di attività pericolosa. Più di recente i temi della responsabilità civile derivante dall’esercizio di attività pericolose è stato affrontato, tra le altre, da Cass., sez. III, 10 novembre 2010 n. 22822, in Giust. civ., 2011, 1777; sez. III, 13 febbraio 2009 n.

3528 e 30 gennaio 2009 n. 2482, entrambe in Nuova giurispr. civ. commentata, 2009,I,764, con nota di L. Frata, La responsabilità per attività pericolosa del gestore di ippodromo e degli organizzatori di attività agonistiche: due recenti pronunce della Cassazione. Sui rapporti tra art. 2087 c.c. e attività pericolose si è affermato (da Cass., sez. III, 30 agosto 2000 n. 11427, in Orient. giur. lav., 2001, I, 96) che nel caso di lavori che comportino rischi per la salute del lavoratore e che siano ineliminabili, in tutto o in parte dal datore di lavoro “non è configurabile una responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro, se non nel caso che detto imprenditore con comportamenti specifici ed anomali, da provarsi di volta in volta da colui che assume di essere danneggiato, determini un aggravamento di quel tasso di rischio e di pericolosità ricollegato indefettibilmente alla natura dell’attività che il lavoratore è chiamato

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Con larga approssimazione può dunque in conclusione affermarsi che, nelle attività pericolose, ad un più elevato grado di prevedibilità di eventi dannosi corri- sponde anche un minor grado di prevenibilità dei medesimi (qualche volta l’evento dannoso è quasi certo: si pensi all’intervento chirurgico ad elevatissimo rischio senza il quale il paziente è però destinato a morte certa) mentre l’osservanza del- le regole cautelari non può che tendere ad una riduzione del pericolo che però non può, di norma, essere eliminato; le relative regole cautelari sono quindi regole cautelari “improprie” (tali sono quelle che mirano ad una riduzione del rischio di eventi dannosi mentre “proprie” sono quelle che consentono di eliminare il rischio) secondo una definizione22 ormai comunemente accettata.

Va ancora precisato che, nel caso in cui i limiti posti dal legislatore o dalla pub- blica amministrazione nella presenza di certe sostanze negli alimenti o in emissioni potenzialmente nocive siano (almeno colposamente) violati non può più parlarsi di

“rischio consentito” proprio perché è vietato superare quei limiti.

4. Il bilanciamento di interessi

Al di là delle attività vietate tout court – perché ritenute socialmente non utili (o di utilità non così rilevante da consentire l’assunzione del rischio) – le attività pe- ricolose vengono consentite con un bilanciamento di interessi idoneo a conseguire un equilibrio tra rischio assunto e benefici conseguibili e a valorizzare l’obbligo di osservanza delle cautele correlato all’importanza dei beni in discussione (un rischio elevatissimo sarà consentito solo per salvaguardare beni fondamentali: si pensi ai vigili del fuoco che, a rischio della loro vita e qualche volta senza osservare le più elementari regole di prudenza, intervengono per salvare vite umane nel caso di incendi o disastri).

La regola del bilanciamento tra gli interessi contrapposti costituisce la chiave di volta per individuare l’eventuale superamento del rischio consentito: superamento che sarà ammesso solo per la tutela di beni di pari o superiore valore. Per esempli- ficare: l’istruttore di alpinismo non risponderà degli eventi dannosi verificatisi mal- grado il rispetto rigoroso di tutte le regole cautelari che disciplinano questa attività pericolosa. Risponderà invece dei danni provocati se non ha controllato che venga utilizzata attrezzatura idonea e sufficiente o se ha sottoposto i suoi allievi a prove

a svolgere”. Secondo Cass., sez. III, 19 luglio 2008 n. 20062 (in Resp. civ. e prev., 2009, 300, con nota di F. rossEtti, Brevi riflessioni a margine di una sentenza della cassazione in tema di attività pericolose) la consegna ad un terzo, da parte del produttore, di una cosa pericolosa impone al primo – in base all’art. 2050 cod. civ. – di adottare tutte le cautele necessarie perché siano evitati danni.

22 Proposta da P. vEnEziani, Regole cautelari “proprie” ed “improprie” nella prospettiva delle fattispecie colpose causalmente orientate, Padova, 2003.

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superiori alle loro capacità se da queste difficoltà deriverà un evento dannoso; e anche se ha adottato le cautele adeguate alle difficoltà incontrate risponderà se queste prove non erano affrontabili dai suoi allievi).

È ancora da sottolineare che nel bilanciamento non può non essere presa in considerazione la circostanza che la persona offesa si sia autoesposta al pericolo ovvero il medesimo sia stato provocato da altri e a questo rischio l’agente abbia o meno accettato di esporsi23.

Il criterio del bilanciamento costi-benefici è ineliminabile anche nell’attività medico chirurgica che spesso si caratterizza proprio per la necessità di operare una scelta tra il rischio e gli effetti negativi derivanti da una scelta terapeutica rispetto ad un’altra. E ciò non solo nei casi di interventi chirurgici ad elevato rischio ma altresì nelle terapie con farmaci che inducono pesanti effetti collaterali. Nel caso di eventi negativi derivanti dall’opzione prescelta il giudice dovrà valutare, con criterio ex ante, se la scelta sia stata operata non in modo irragionevole ma, per es., seguendo linee guida consolidate che non incontrino controindicazioni nel caso di specie e non potrà essere ritenuto responsabile il medico che a questi criteri si sia attenuto rispettando le regole cautelari pertinenti al caso24.

È stato anche affermato25 che la prevedibilità dell’evento dannoso nelle attività pericolose a rischio consentito discende “da una valutazione naturalistica, statistica, sociologica delle caratteristiche materiali dell’attività intrapresa” mentre la prevedi- bilità cui rinvia il giudizio di colpa è una nozione normativa nel senso che “l’evento è prevedibile, quando l’agente modello può coglierlo in potenza già nel primo disat- tendere alla cautela dovuta”.

5. Rischio consentito e osservanza delle regole cautelari

È opportuno, anche se banale, ribadirlo: “rischio consentito” non significa eso- nero dall’obbligo di osservanza delle regole di cautela ma semmai rafforzamento.

Solo in caso di rigorosa osservanza di tali regole il rischio potrà ritenersi effettiva- mente “consentito” per quella parte che non può essere eliminata. Insomma l’os- servanza delle regole cautelari esonera da responsabilità per i rischi prevedibili ma non prevenibili solo se l’agente abbia rigorosamente rispettato le regole cautelari anche se non è stato possibile evitare il verificarsi dell’evento26.

23 Su questa distinzione v. O. di GiovinE, Il contributo della vittima nel delitto colposo, Torino, 2003, p. 10 ss.

24 In questo senso v. F. viGanò, Problemi vecchi e nuovi in tema di responsabilità penale per medical malpractice, in Il corriere del merito, 2006, 961 (in particolare a p. 971).

25 Da C. PErini, Prospettive del concetto di rischio nel diritto penale moderno, Milano, 2001, p. 118.

26 Nell’attività medico chirurgica questo principio è stato in passato motivatamente affermato

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Si è già detto che, nel caso di attività vietata, l’unica regola cautelare da seguire è l’astensione: se il legislatore l’ha vietata vuol dire che non ha ritenuto, nel bilan- ciamento di interessi di cui si è detto, che l’attività fosse di una qualche utilità o che i benefici fossero tali da compensare i pericoli. L’agente che agisca in violazione del divieto risponde quindi, come si è già accennato, delle conseguenze verificatesi anche se rispetta le eventuali regole cautelari dettate dall’esperienza (o regole cau- telari specifiche preesistenti al divieto).

Non è necessario che l’attività pericolosa sia consentita normativamente; la sua utilità sociale può derivare dalla consuetudine o dal riconoscimento tacito da par- te della comunità. Tra le attività pericolose consentite vanno però distinte quelle espressamente autorizzate perché spesso, nel provvedimento autorizzativo, sono indicate anche le modalità di esecuzione dell’attività e le cautele da adottare perché possano essere svolte con la massima riduzione possibile dei rischi insiti nell’attivi- tà. In questi casi, come è stato affermato in dottrina27, “è ben possibile che si rilevi- no con maggiore sicurezza e chiarezza le eventuali ipotesi di penale responsabilità per violazione degli obblighi di prudenza e diligenza”.

Alcune attività pericolose sono addirittura obbligatorie o necessitate (si pensi alle attività di contrasto dei disastri o della criminalità, ma anche all’attività medico chirurgica d’urgenza) e in questi casi avviene talvolta che la necessità improroga- bile che caratterizza l’intervento richiesto possa ridurre l’esigibilità dell’osservanza delle regole nei limiti di una valutazione comparativa (spesso da operare nell’im- mediatezza e quindi con un più ampio margine di errore) tra costi e benefici (si pensi al comandante di un reparto di vigili del fuoco che deve scegliere nell’imme- diato se sottoporre i suoi uomini ad un elevato rischio per la loro incolumità per salvare persone intrappolate da un incendio o astenersi dall’attività di soccorso;

o all’intervento delle forze di polizia nel corso delle attività di contrasto di azioni criminali).

Proprio perché si tratta di attività pericolose – e proprio perché l’ordinamento accetta l’esistenza ineliminabile del margine di rischio – la persona alla quale è at- tribuita una posizione di garanzia o di tutela nella salvaguardia di beni primari ha un obbligo di ancor maggiore intensità, nello svolgimento delle attività medesime, di ridurre il margine di rischio nei limiti più ristretti che le conoscenze scientifiche, le nozioni di comune esperienza e le disponibilità di materiali utilizzabili consen-

da Cass., sez. IV, 21 novembre 1996, Spina, in Riv. pen., 1997, 593, secondo cui il medico risponde per colpa “solo dei danni prevedibili, ma prevenibili mediante l’osservanza delle leges artis, e non di quelli prevedibili verificatisi, però, nonostante la fedele osservanza delle regole tecniche, trattandosi, in questo caso, di rischio consentito che l’ordinamento si è accollato nello stesso momento in cui autorizza l’attività rischiosa”.

27 Da O. CustodEro, Spunti di riflessione a margine della responsabilità per colpa, in Giust.

pen., 2006, II, 523 (v. c. 531).

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tono. Per fare un esempio: chi organizza soccorsi in alta montagna deve non solo addestrare adeguatamente i soccorritori ma dotarli del materiale più idoneo ad evitare rischi alle persone addette a questa attività altruistica ma pericolosa. Se a questo obbligo avrà adempiuto non potrà certo rispondere di eventi derivati anche da fatti astrattamente prevedibili e dalle conseguenze non prevenibili nelle condi- zioni in cui l’attività si svolge.

Parimenti nelle attività di contrasto alla criminalità le persone preposte dovran- no dotare chi è esposto al rischio di conflitti a fuoco delle attrezzature idonee (armi adeguate, giubbotti antiproiettile ecc.) a ridurre nei limiti del possibile un rischio che è comunque ineliminabile.

In definitiva – è opportuno ribadirlo – nelle attività pericolose consentite, proprio perché la soglia della prevedibilità è più alta, nel senso che gli eventi dannosi sono maggiormente prevedibili (e spesso in minor misura evitabili) rispetto alle attività comuni, maggiore deve essere il livello di diligenza, prudenza e perizia nel precosti- tuire condizioni idonee a ridurre il rischio consentito nei limiti del possibile. Quindi ineliminabilità del rischio non corrisponde ad un’attenuazione dell’obbligo di garan- zia (o di tutela dei beni) ma semmai ad un suo rafforzamento secondo i criteri che si ispirano all’utilizzazione delle regole suggerite dalla migliore scienza ed esperienza.

Basta un semplice esempio per avere conferma di quanto si è detto: le corse au- tomobilistiche vengono consentite in circuiti nei quali è autorizzato (anzi si tratta dello scopo principale cui tendono i concorrenti) il superamento dei limiti ordinari di velocità. Ma proprio per l’esistenza di questo maggiore rischio (consentito) le misure di sicurezza che vengono richieste sono ben più severe a protezione sia degli automobilisti (i materiali e le protezioni delle autovetture devono garantire la maggior sicurezza possibile per i piloti) sia degli spettatori che vengono allocati in luoghi che li garantiscano dalle conseguenze di eventuali incidenti purtroppo ampiamente prevedibili.

Proprio nell’ottica del rafforzamento dell’obbligo di tutela di beni fondamenta- li fu affermato, nella sentenza di primo grado pronunziata nel processo sul disastro del Vajont28, che “per le attività pericolose il punto di riferimento per accertare o escludere la prevedibilità non è costituito dalla conoscenza che l’agente può avere come uomo medio, bensì dalle conoscenze che anche le persone più esperte possono avere sulla attività in questione e sui suoi possibili effetti”. L’evento per non essere punibile deve risultare imprevedibile “anche dal punto di vista di chi vantasse in quel momento il maggior grado di preparazione nel settore o nei settori interessati”.

28 Trib. L’Aquila 17 dicembre 1969, Biadene, in Rass. giur. Enel, 1970, 197. La sentenza di secondo grado, App. L’Aquila, 3 ottobre 1970, è pubblicata in Foro it., 197,II,198 mentre quella della Corte di Cassazione, sez. IV, 15 marzo 1971 n. 810, è pubblicata in id., 1971,II, 717, con nota di P.

MartinElli, Progresso tecnologico e colpa penale: la morale del Vajont.

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Mentre, nel caso di conoscenze scientifiche limitate o incomplete a fronte di rischi elevati, la regola non potrà che essere quella dell’astensione. In questo senso si è ribadito29 che “in settori dove le conoscenze nomologiche non abbiano raggiunto un livello in grado di assicurare un siffatto soddisfacente controllo dei pericoli, ci si dovrà generalmente astenere dall’attività o almeno esporre ai suoi possibili effetti dannosi beni giuridici di valore proporzionato all’efficacia delle cautele adottabili.”

6. Rischio consentito, prevedibilità e leggi scientifiche

È noto che, per la verifica dell’esistenza della prevedibilità dell’evento, occorre rifarsi al criterio dell’agente modello. Agente modello che dovrà utilizzare (oltre alle regole d’esperienza convalidate dall’uso) le pertinenti leggi scientifiche utili a questo fine, ove esistano. Ma ben diverso è il ruolo delle leggi scientifiche nell’ac- certamento della colpa e della causalità.

Per l’accertamento della colpa le leggi scientifiche devono essere utilizzate ai fini della prevedibilità di un evento con una valutazione ex ante che rende (o dovrebbe rendere) riconoscibile all’agente il pericolo del verificarsi di un evento dannoso con la conseguenza del sorgere dell’obbligo di astensione o di osservare determinate regole cautelari.

Per l’accertamento della causalità la legge scientifica dovrà invece essere uti- lizzata, con valutazione ex post (che potrà quindi tener conto anche delle leggi scientifiche formulate dopo la verificazione dell’evento; ciò che è inammissibile ai fini della colpa) diretta a ricostruire l’evento già verificatosi e a confermare, o escludere, l’addebito oggettivo a carico dell’agente. Si è detto30 che questa diffe- renziazione tra le regole di accertamento della colpa e della causalità deriva dalla circostanza che la causalità è una legge descrittiva non deontica e quindi rileva come regola di giudizio non di condotta.

Ma mentre l’accertamento della causalità va compiuto in termini di “elevata credibilità razionale” – nel senso che l’ipotesi scientifica deve avere un elevato gra- do di conferma e le ipotesi alternative debbono essere ragionevolmente escluse31 – nel giudizio predittivo ex ante, ai fini della colpa, la legge scientifica (così come le regole di esperienza) vale a rendere concreto il giudizio di prevedibilità che va ancorato non all’elevata credibilità razionale che l’evento, in presenza di una certa

29 Da parte di G. Forti, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, 465.

30 Da F. Giunta, La legalità della colpa, in Criminalia, 2008, 149 (v. p. 162).

31 In questo senso si è espressa la sentenza Cass., sez. un., 10 luglio 2002 n. 30328, Franzese, ormai oggetto di innumerevoli commenti, che può leggersi in Foro it., 2002, II, 608, con nota di O.

di GiovinE, La causalità omissiva in campo medico-chirurgico al vaglio delle sezioni unite, (ivi sono pubblicate anche le note di udienza del Procuratore generale G. iadECola).

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condotta, si verifichi ma alla possibilità (concreta e non ipotetica) che la condotta possa determinare l’evento.

Per esemplificare: se in sede scientifica si discute se un medicinale provochi gravi effetti secondari è in colpa il medico che lo prescriva, in mancanza di neces- sità, pur esistendo farmaci innocui con uguali effetti terapeutici se il raro evento secondario di cui si discuteva si verifichi in concreto. Se in una fabbrica si accerta empiricamente che gli addetti ad un certo reparto vengono colpiti da una deter- minata patologia l’obbligo cautelare impone di adottare le misure di prevenzione necessarie per evitare il ripetersi degli episodi ancor prima che ne venga scientifi- camente accertata la causa.

Per venire a casi oggetto di pronunce giurisprudenziali anche recenti: si veri- ficano spesso episodi di lavoratori che entrano in ambienti dove si sprigionano sostanze venefiche; se il datore di lavoro o altro garante viene a conoscenza di quanto sta avvenendo non può consentire che altri lavoratori (salvo gli interventi di urgenza per salvare la vita al primo lavoratore) facciano anch’essi ingresso nell’am- biente dimostratosi gravemente pericoloso. Oppure riteniamo che questo obbligo non incomba sul garante fino a quando non sarà stata fornita da soggetti o enti ac- creditati una spiegazione scientifica della natura e composizione delle esalazioni?

Il giudizio sulla colpa non va quindi ancorato all’elevata credibilità razionale (in buona sostanza: ad un elevato grado di probabilità) che quell’evento si produca ma alla concreta possibilità che ciò avvenga32.

In ogni caso l’efficacia delle leggi scientifiche – non diversamente da quelle fondate su regole d’esperienza – non sarà mai diretta e immediata ma dovrà essere filtrata attraverso la regola cautelare. Come è stato affermato33 “il fine di tutela non può essere desunto direttamente dalle leggi scientifiche e di esperienza che pure con- validano l’efficacia preventiva della norma cautelare, dovendosi l’interprete attenere ai termini in cui esse vengono filtrate dalla fonte di produzione della regola. Diver- samente opinando, infatti, si finirebbe per vanificare – anche per quanto riguarda gli effetti che ne discendono sul piano della tipicità penale – la specifica funzione delle regole cautelari giuridiche, che è quella di imporre una determinata cautela standar- dizzata, escludendo al contempo la possibilità di un diverso – e anche più efficace – trattamento del rischio.”

Naturalmente come è possibile accertare l’esistenza del rapporto di causalità

32 Diversa è l’opinione di D. Pulitanò (Colpa ed evoluzione del sapere scientifico, in Dir. pen.

e processo, 2008, 647) secondo cui “il giudizio di pericolo deve essere ancorato (non diversamente dal giudizio di causalità) ad un sapere scientifico corroborato, che consenta di formulare (in termini di certezza) giudizi di probabilità di dati decorsi causali.” Anche se poi il giudizio viene mitigato con l’affermazione che “anche in situazioni di incertezza scientifica seria ha senso porre il problema se, proprio in ragione dell’incertezza, non sia ragionevole adottare misure precauzionali.”

33 V. F. Giunta, Illiceità e colpevolezza, cit., 388.

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anche in base a generalizzate regole di esperienza e in mancanza di leggi scientifi- che di conferma a maggior ragione l’accertamento della prevedibilità dell’evento sotto il profilo soggettivo potrà prescindere dall’esistenza di leggi scientifiche34.

Discutibile è dunque l’affermazione talvolta presente nella giurisprudenza di me- rito35 secondo cui, per far sorgere l’obbligo prevenzionale, occorre fare riferimento al “patrimonio scientifico consolidato” quale criterio per imporre l’adozione della regola cautelare diretta ad impedire un evento che solo allora diviene prevedibile.

Già sotto un profilo di politica del diritto accogliere questa ricostruzione “si- gnifica deresponsabilizzare gli attori della produzione e dell’innovazione tecnica, a favore di un’ottimistica fede nella tempestività e nella neutralità dello spettatore (la comunità scientifica), che non sempre ha il tempo, le risorse e il coraggio per dedicarsi a ricerche difficili e di potenziale serio impatto economico. Inoltre, la tesi criticata ri- schia di incentivare comportamenti poco trasparenti e tempestivi nella comunicazione dei segnali di rischio alla comunità scientifica, e si presta a favorire condotte di ‘inqui- namento’ dei risultati della scienza, attraverso finanziamenti di ricerche orientate a risultati conformi alle aspettative di committenti e sponsor.”36

L’adozione di questo criterio – l’utilizzazione delle regole sull’accertamento della causalità per l’individuazione del sorgere dell’obbligo cautelare – costituisce un’indebita trasposizione delle regole che governano l’accertamento della causalità al tema della colpevolezza.

In tema di causalità si tratta di addebitare oggettivamente un evento dannoso alla condotta colposa dell’agente, di accertare quindi se il fatto è “suo” (se quella morte è stata da lui provocata con la sua condotta inosservante); è ovvio che le regole proces- suali di un paese che si ispira ai principi della democrazia liberale debbano richiedere sul piano probatorio quell’elevato grado di probabilità – in cui si esprimono le regole dell’elevato grado di credibilità razionale e dell’oltre il ragionevole dubbio – che pos- sa consentire di addebitare un evento ad un soggetto determinato.

Ma le regole che disciplinano l’elemento soggettivo hanno natura non di ve- rifica a posteriori della riconducibilità di un evento alla condotta di un uomo ma funzione cautelare e la cautela richiede che si seguano regole di prevenzione anche se non è ancor certo che la mancata adozione provochi eventi dannosi.

34 In senso contrario v. G.P. aCCinni, Criteri di imputazione per colpa tra leggi scientifiche e accertamenti giudiziali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 928.

35 V. Trib. Venezia 22 ottobre 2001, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 1670.

36 Così C. ruGa riva, Principio di precauzione e diritto penale, cit., p. 1766. Diversa la posizione di F. Giunta, Il diritto penale e le suggestioni, cit., p. 242, che, modificando la posizione assunta nello scritto precedentemente citato, afferma che, in situazioni di incertezza scientifica, “risulterebbe assai ardua la stessa riconoscibilità dei presupposti fattuali della condotta doverosa (qual è il grado di incertezza scientifica che l’operatore dovrebbe ritenere sufficiente per affermare la plausibilità del dubbio?) e non meno certo l’ubi consistam del dovere di diligenza, sempre che lo si voglia identificare con comportamenti diversi dall’obbligo (seppur temporaneo) di inazione.”

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L’applicazione all’accertamento della colpa dei criteri utilizzati per l’accerta- mento della causalità comporterebbe, in tema di prevenzione di rischi alla salute, che sarebbe esigibile l’adozione delle regole cautelari (anche di quelle già previste dalla legge !) solo dopo che fosse stato accertato, in termini di elevata credibilità razionale (secondo i criteri indicati nella già citata sentenza Cass., sez. un., 10 luglio 2002 n. 30328, Franzese, in tema di causalità) che alla mancata adozione di regole di cautela consegue un determinato effetto dannoso. Questa operazione ermeneu- tica avrebbe come ovvio risultato quello di porre nel nulla la natura e la funzione di prevenzione svolta dalle regole cautelari dirette ad evitare il verificarsi di eventi dannosi anche se scientificamente non certi (purchè non solo congetturali) ed an- che se non preventivamente e specificamente individuati.

Si faccia l’esempio di un’indagine epidemiologica che abbia consentito di veri- ficare con certezza che, in una certa coorte, gli esposti ad una determinata sostan- za contraggono una forma tumorale in percentuale più elevata rispetto a coloro che non subiscono questa esposizione. Se anche l’indagine epidemiologica non ha caratteristiche tali da consentire accertata l’esistenza della causalità individuale si può escludere l’obbligo per l’agente di eliminare (o ridurre) l’esposizione fino a che non venga convalidata scientificamente l’ipotesi formulata?

È dunque obbligata, a mio parere, la conclusione che (a differenza dell’addebi- to oggettivo per il quale, sotto il profilo della causalità, è necessario accertare che l’evento non si sarebbe verificato con elevato grado di credibilità razionale se fosse stata posta in essere la condotta richiesta) ben inferiore è la soglia che impone l’a- dozione della regola cautelare.

Come è stato affermato in dottrina37 “il principio di colpevolezza sembra rispet- tato nella misura in cui il soggetto, al momento della condotta, possa seriamente rappresentarsi la rischiosità del suo agire o del suo omettere rispetto a determinati eventi, corrispondenti a quelli poi verificatisi, anche laddove sulla pericolosità della condotta non vi sia, ex ante, pieno consenso della comunità scientifica”. E il mede- simo Autore sottolinea altresì l’importanza dei signa facti quanto alla necessità di adozione di determinate cautele facendo l’esempio dell’aumento delle dermatiti in lavoratori che maneggino determinate sostanze: aumento che genera anzitutto, prima che ne venga accertata scientificamente l’origine, l’obbligo di far utilizzare i guanti protettivi.

A non diverse conclusioni rispetto a quelle derivanti dall’esperienza empirica deve pervenirsi nei casi in cui ci si trovi in presenza dei primi approfondimenti scientifici o di studi epidemiologici ancora incompleti o di esperimenti condotti su animali. A meno che i primi esiti siano idonei ad escludere l’ipotesi causale o esistano ragioni plausibili, per es., per ritenere non estensibili all’uomo i risulta-

37 Da C. ruGa riva, Principio di precauzione e diritto penale, cit., p. 1763.

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ti dell’esperimento condotto su animali sorge, o persiste, l’obbligo dell’adozione delle cautele necessarie per evitare il prodursi degli eventi dannosi che, di volta in volta, potranno individuarsi nell’adozione di più rigorose cautele (per es. la ri- duzione dei livelli di esposizione), nell’innovazione degli impianti concretamente ritenuta esigibile o, addirittura, nella sospensione dell’attività quando, per es., non sia individuabile una soglia di dannosità e il rischio sia troppo rilevante.

7. Il principio di precauzione

I casi dei quali abbiamo parlato in precedenza nulla hanno a che vedere, secon- do il mio parere, con i casi per i quali si è correttamente invocato il principio di precauzione (per es. i potenziali danni alla salute provocati dalle onde elettroma- gnetiche, dall’uso dei telefoni cellulari, dall’assunzione di organismi geneticamente modificati). In tutte queste ipotesi si è rimasti, per lo più, a livello del sospetto di possibili effetti negativi sulla salute dell’uomo. Non così per gli effetti nocivi pro- vocati dall’amianto o dal cloruro di vinile per i quali in passato erano già conosciuti effetti lesivi importanti (addirittura mortali quanto alla riduzione dell’aspettativa di vita) e per i quali successivamente si sono scoperte altre gravissime conseguenze tumorali per le quali, dunque, non ha senso invocare il principio di precauzione dovendosi solo verificare l’esistenza della prevedibilità, all’epoca della condotta, di ulteriori conseguenze oltre quelle già conosciute in un determinato momento storico.

È mia opinione, anche se esistono orientamenti diversi, che il c.d. “principio di precauzione” non abbia una diretta efficacia nel diritto penale ma sia volto soltanto ad ispirare le pubbliche autorità nelle scelte di regolamentare, o vietare, l’esercizio di determinate attività quando esista il “sospetto” di una loro pericolosità che però non ha ancora trovato una conferma empirica e tanto meno scientifica38.

38 Sul principio di precauzione si vedano, esemplificativamente, i contributi di D.

Castronuovo, Principio di precauzione e diritto penale. Paradigmi dell’incertezza nella struttura del reato, Roma, 2012; id., Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza. La logica precauzionale come fattore espansivo del “penale” nella giurisprudenza della Cassazione, in L’evoluzione del diritto penale nei settori di interesse europeo alla luce del Trattato di Lisbona, a cura di G. Grasso - L.

PiCotti - R. siCurElla, Milano, 2011, 611; P. sCEvi, Principio di precauzione e imputazione colposa, in Riv. pen., 2011, 1095; C. PonGiluPPi, Principio di precauzione e reati alimentari. Riflessioni sul rapporto “a distanza” tra disvalore d’azione e disvalore d’evento, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2010, 225;

G. Forti, La “chiara luce della verità” e “l’ignoranza del pericolo”. Riflessioni penalistiche sul principio di precauzione, in Scritti per Federico Stella, Napoli, 2007, vol. I, 573; id., “Accesso” alle informazioni sul rischio e responsabilità: una lettura del principio di precauzione, in Criminalia, 2006, 155; C. ruGa

riva, Principio di precauzione e diritto penale. Genesi e contenuto della colpa in contesti di incertezza scientifica, in Studi in onore di G. MarinuCCi, Milano, 2006, vol. II, 1743; F. Giunta, Il diritto penale

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Se invece questa conferma è già stata ottenuta siamo al di fuori del principio di precauzione e può parlarsi soltanto di attuare il principio di prevenzione. Si è detto39 che “il principio di precauzione sembra avere maggiore agio a operare come criterio di politica legislativa, piuttosto che come nuova dogmatica penale”.

Non è un principio indiscusso. V’è infatti chi40 sembra orientato per una diretta efficacia nel diritto penale del principio di precauzione. Si tratta di un orientamen- to che coinvolge l’asserito processo di “flessibilizzazione” dei principi del diritto penale e ne parleremo nel prossimo paragrafo.

Del resto va precisato che la stessa definizione di “principio di precauzione” vie- ne declinata diversamente da chi ne propone un’interpretazione “radicale” (“la regola dell’astensione scatterebbe in presenza di qualunque fattore di rischio potenziale, riguardo al quale la scienza non ha certezza delle conseguenze. L’onere della prova concernente la non rischiosità dell’azione graverebbe sull’agente, che verserebbe in re illicita per il solo fatto di avventurarsi nel campo dell’ignoto”) e chi ne fornisce un’interpretazione

“moderata” che, pur presentando un ampio ventaglio di gradazioni, presenta una nota comune che “consiste nel prevedere, di fronte a una data attività la cui pericolosità è scientificamente incerta, una alternativa al divieto tombale del suo svolgimento.”)41.

Il presupposto per questi interventi da parte delle pubbliche autorità è quindi co- stituito dall’incertezza scientifica sulla dannosità per la persona umana, per es., di una determinata esposizione ad un agente di cui non siano ancora conosciuti gli effetti.

Va peraltro sottolineato come il principio di precauzione abbia già avuto un riconoscimento normativo sia a livello comunitario (v. in particolare l’art. 174 del Trattato Ce il cui comma 2 espressamente prevede che la politica della Comunità in materia ambientale sia “fondata sui principi della precauzione e dell’azione pre- ventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio ‘chi inquina paga’.” )42 sia a livello di legislazione

e le suggestioni del principio di precauzione, in Criminalia, 2006, 227; A. GraGnani, Principio di precauzione, libertà terapeutica e ripartizione di competenze fra stato e regioni, in Ragiusan, 2004, n.

241/242, 28; id., Il principio di precauzione come modello di tutela dell’ambiente, dell’uomo, delle generazioni future, in Riv. dir. civ., 2003, II, 9.

Suirapporti tra diritto interno e diritto comunitario in relazione al principio di precauzione si vedano L. Marini, Principio di precauzione, sicurezza alimentare e organismi geneticamente modificati nel diritto comunitario, in Dir. Unione europea, 2004, 281 nonché le parti dedicate a questo tema negli studi di D. Castronuovo, Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza, cit., 621, e A.

GraGnani, Il principio di precauzione come modello di tutela dell’ambiente, cit., 26 ss.

39 Da parte di F. Giunta, Il diritto penale e le suggestioni del principio di precauzione, cit., 229.

40 V. C. ruGa riva, Principio di precauzione e diritto penale, cit., 1748 ss.

41 Le definizioni riportate sono di F. Giunta, Il diritto penale e le suggestioni del principio di precauzione, cit., 232 ss.

42 Per un panorama completo dei richiami al principio di precauzione contenuti, all’epoca, nella normativa internazionale e comunitaria v. G. Forti, “Accesso” alle informazioni sul rischio e responsabilità, cit., 160 ss.

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interna sia pure nelle parti non direttamente riguardanti le norme incriminatici penali ma solo per quanto riguarda l’indicazione delle finalità cui devono ispirarsi le attività di pubblico interesse (per es. l’art. 178 comma 3° del d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152 – norme in materia ambientale – prevede espressamente che “la gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai principi di precauzione………”; principio richiamato anche dall’art. 307).

Del resto la legislazione in materia alimentare ed ambientale (ma in parte anche quella sulla sicurezza del lavoro) è da tempo sostanzialmente ispirata al principio di precauzione quando fissa limiti predeterminati alla presenza negli alimenti di sostanze potenzialmente pericolose per la salute e alle esposizioni che si assumo- no nocive per la salute umana. Si vedano, tra gli altri testi normativi, il d. lgs. 8 luglio 2002 n. 224 (in materia di organismi geneticamente modificati) e il d. lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (codice del consumo: art. 107 commi 4 e 5) che richiamano espressamente in principio di precauzione.

Quale sia il rilievo che il principio di precauzione sta via via assumendo nella legislazione dei vari Stati lo dimostra inoltre il fatto che in Francia il principio in esame è stato addirittura costituzionalizzato in relazione alla tutela ambientale con- tro danni gravi e irreversibili43.

Anche la giurisprudenza civile di legittimità44 ha avuto modo di occuparsi del principio in esame ritenendo consentita, per es., la tutela cautelare preventiva contro la realizzazione di un elettrodotto ritenuto fonte potenziale di danno alla salute anche se questa decisione non fa espresso riferimento al principio di precauzione – limitan- dosi a censurare la sentenza impugnata per aver affermato che la tutela non poteva essere consentita prima che l’impianto entrasse in funzione – e attribuendo al giudice di merito di accertare la potenziale offesa alla salute anche nel caso di emissioni che rientrino nei limiti di legge. Più recentemente la Corte di Cassazione civile45 ha adot- tato invece una posizione negativa sull’applicabilità del principio di precauzione (che peraltro non viene espressamente richiamato) essendosi esclusa l’illiceità del compor- tamento nel caso di osservanza dei limiti di emissione normativamente previsti.

I casi che vengono in considerazione nell’epoca attuale quando si parla del prin-

43 Si vedano le osservazioni sul punto di D. Castronuovo, Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza, cit., 13.

44 Si veda Cass., sez. III, 27 luglio 2000 n. 9893, in Foro it., 2001, I, 141, con osservazioni di R. FalCo. Un più espresso riferimento al principio di precauzione è invece contenuto nell’ordinanza 7 ottobre 1999 del Tribunale di Milano, ibid., che ha concesso la tutela cautelare pur premettendo che “gli studi scientifici delle conseguenze sulle persone dei fenomeni elettrici e magnetici prodotti dagli elettrodotti ad alta tensione non hanno finora condotto a risultati facilmente verificabili”. Nella dottri- na civilistica si vedano gli studi di A. GraGnani, Principio di precauzione, libertà terapeutica, cit. e Il principio di precauzione come modello di tutela dell’ambiente, cit.

45 V. Cass., sez. II, 23 gennaio 2007 n. 1391, in Foro it., 2007, I, 2124, con nota di F.

MattassoGlio, Tutela della salute e inquinamento elettromagnetico: quale valore per i limiti legali?

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cipio di precauzione sono ben noti: da anni si discute sulla possibile efficienza lesiva delle onde elettromagnetiche provenienti da impianti di trasmissione radio- televisiva ma fino ad oggi non si sono avute conferme scientifiche46 di questi effetti e lo stesso può dirsi per le emissioni derivanti dagli impianti di telefonia cellulare.

E come non ricordare le accese discussioni, anche in sede scientifica, dei possibili effetti dannosi dei prodotti (in particolare di quelli alimentari) geneticamente mo- dificati e gli interventi normativi, già ricordati, che ne sono seguiti anche in attua- zione di direttive comunitarie.

È ovvio che, fino a quando non si abbia una conferma scientifica (o empirica- mente convalidata) degli effetti dannosi di queste esposizioni sulla persona umana il problema non riguarda il diritto penale ma le scelte politico-amministrative che possono essere o meno ispirate a rigore preventivo per evitare danni ad oggi non confermati trattandosi di ipotesi prive di conferma e quindi di concretezza. Si è detto, efficacemente, che “il principio di precauzione si atteggia principalmente a criterio di buona amministrazione; non a caso è principalmente agli enti pubblici che compete attuarlo”47 e che “il principio di precauzione tende ad essere impiegato quale ratio ispiratrice e criterio di individuazione di regole di condotta che, in prospettiva penalistica, ha natura non cautelare, ma pre-cautelare”48.

Questa situazione è stata definita di “incertezza scientifica” ed è stata descritta49 precisandosi che, quando si parla di incertezza scientifica si allude “a contesti in cui si avanzano serie congetture di gravi pericoli per beni fondamentali, pur in assenza di consolidate evidenze scientifiche circa l’effettiva pericolosità di date condotte, prodot- ti o sostanze, o in presenza di dati scientifici discordanti o comunque non pienamente corroborati”. E sostanzialmente analoga è la definizione di recente proposta da altro Autore50 che definisce il principio come “criterio di gestione del rischio in si- tuazioni di incertezza scientifica circa possibili effetti dannosi ipoteticamente collegati a determinate attività, installazioni, impianti, prodotti, sostanze”.

Mi sembra che si possa affermare che, in realtà, il concetto abbia un significato

46 L’affermazione riguarda in generale l’efficienza lesiva delle trasmissioni di onde elettromagnetiche perché la giurisprudenza di legittimità ha invece confermato, in diversi casi, la possibilità di ipotizzare in queste ipotesi, il reato contravvenzionale previsto dall’art. 674 c.p. che, è opportuno ricordarlo, prevede non solo l’offesa alle persone ma anche la molestia (v. Cass., sez. IV, 24 novembre 2011 n. 23262, Borgomeo e altro, inedita; sez. III, 13 maggio 2008 n. 36845, Borgomeo e altro, in Cass. pen., 2009, 927, con nota di A. sCarCElla, Getto pericoloso di cose e inquinamento elettromagnetico; sez. I, 29 novembre 1999 n. 5626, Cappellieri, in Cass. pen., 2001, 145, con nota di G. dE FalCo, Una nuova stagione per l’art. 674 cod. pen.: strumento di tutela contro l’inquinamento elettromagnetico).

47 Così F. Giunta, Il diritto penale e le suggestioni del principio di precauzione, cit., 241.

48 Così C. PErini, Il concetto di rischio nel diritto penale moderno, cit., 561.

49 Da parte di C. ruGa riva, Principio di precauzione e diritto penale, cit., p. 1743.

50 D. Castronuovo, Principio di precauzione e diritto penale, cit., 628 ss.

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