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EVOLUZIONE E RUOLO DEI SISTEMI AGRICOLI E FORESTALIMULTIFUNZIONALI DI MONTAGNA (1)

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– L’Italia Forestale e Montana / Italian Journal of Forest and Mountain Environments 68 (5): 259-268, 2013 © 2013 Accademia Italiana di Scienze Forestali doi: 10.4129/ifm.2013.5.02

EVOLUZIONE E RUOLO DEI SISTEMI AGRICOLI E FORESTALI MULTIFUNZIONALI DI MONTAGNA (

1

)

(*) Dipartimento di Gestione dei Sistemi Agrari, Alimentari e Forestali (GESAAF), Università degli Studi di Firenze;

raffaello.giannini@unifi.it

(**) Accademia Italiana Scienze Forestali, Firenze; antonio.gabbrielli@aisf.it

P remessa

Una analisi dell’evoluzione e del ruolo dei sistemi agricoli e forestali multifunzionali dell’ambiente montano è argomento di estremo interesse, ma di amplissima complessità in quanto la trattazione non può limitarsi ad una analisi di percorsi di tecnica colturale, in quanto

Questo lavoro è l’analisi dell’evoluzione delle attività umane nelle aree montane italiane per quanto riguarda l’uso del suolo in agricoltura e in selvicoltura. Data la vasta area coperta da boschi, l’analisi mette a fuoco le relazioni fra uomo e foresta.

Tre sistemi sono stati analizzati: agricoltura, pastoralismo e selvicoltura che costituiscono le risorse primarie impiegate per le necessità della vita umana come alimenti ed energia. A livello di paesaggio i prodotti agricoli e quelli forestali restano separati seppure legati all’elemento pastorale.

Due casi tipici dei sistemi multifunzionali: il primo nell’area montana alpina come la malga o il maso chiuso, l’altro nella montagna appenninica come il castagneto da frutto.

La documentazione dell’uso del suolo in area montana alpina sottolinea la profonda relazione che si è sviluppata col tempo fra le attività umane e il bosco. Fino alla metà del secolo scorso il sistema agricolo-forestale si è integrato in un complesso di campi-boschi-pascoli dove gli ultimi hanno avuto parte predominante. Oggi il bosco svolge un ruolo primario in quanto un bosco correttamente gestito provvede a diversi servizi.

Parole chiave: sistemi agricoli; castagneto da frutto; pascolo.

Key words: land use; chestnut orchards; pasturage.

Citazione - G

iannini

r., G

abbrielli

a., 2013 – Evoluzione e ruolo dei sistemi agricoli e forestali multifunzionali di montagna. L’Italia Forestale e Montana, 68 (5): 259-268. http://dx.doi.org/10.4129/

ifm.2013.5.02

1

Il presente lavoro è la versione integrale della lettura, tenuta a Firenze durante il 2° Convegno AISSA, (14-17 settembre 2011) che appare, nella versione in lingua in- glese, sul vol. 8, n. 2 (2013) della rivista Italian Journal of Agronomy con il titolo Evolution of multifunctional land use systems in mountain areas in Italy.

viene ad essere coinvolto un aspetto di più vasta portata che è quello che riguarda il rapporto antichissimo che si è instaurato nel tempo e che è presente tutt’oggi, tra uomo e foresta.

L’analisi coinvolge le interazioni tra attività

dei sistemi agricoli e di quelli selvicolturali

anche se, almeno in un primo periodo, questi

ultimi si identificavano nelle utilizzazioni

legnose. Ciò significa fare riferimento alla

gestione del territorio ovvero alla descrizione

ed all’analisi di modelli di uso e coltura delle

risorse primarie sviluppati per soddisfare le

esigenze alimentari, energetiche, di costume

e di ambiente delle popolazioni dei territori

montani.

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Il processo prende avvio quando l’uomo ha compreso il significato:

– dell’impiego ragionato di propaguli (seme) ovvero il passaggio dall’uso della sola rac- colta a quello della produzione e raccolta;

– dell’impiego ragionato di propaguli selezio- nati (selezione e domesticazione);

– dell’impiego ragionato di tecniche di colti- vazione tese a ridurre (eliminare) gli ostacoli che avrebbero potuto incidere sulla poten- zialità produttiva dei propaguli impiegati (tecnica colturale).

Questo percorso, che vede l’inizio nel no- stro Paese oltre 5000 anni fa, non ha subìto nel tempo grosse modifiche perché, pur in modo diversificato, è tutt’ora presente anche nelle zone agricole più vocate che non sono certa- mente quelle di montagna.

Si deve evidenziare anche che all’interesse della produzione agricola primaria, si è asso- ciato subito un percorso parallelo incentrato sull’incremento della produzione di proteine animali attraverso tecniche di allevamento pa- storale e/o zootecnico. Il più antico collante (V millennio a.C.) fra l’uomo ed il bosco è stato forse il pascolo, al quale venivano avviati gli animali via via addomesticati, primi fra i quali, pecore, capre, suini.

Fino a che il bosco fu aperto a tutti, que- sto rappresentava uno spazio disponibile dal quale raccogliere legna morta caduta a terra ed erba mediante il pascolamento degli animali.

Quando le popolazioni se lo appropriarono con la nascita delle Comunità e si cominciò a “coltivare-utilizzare” il bosco abbattendo le piante, il pascolo diventò rapidamente una pratica conflittuale, come conflittuale divenne il rapporto fra il pastore e l’agricoltore il quale, disboscando e coltivando, tendeva a sottrarre al pascolo spazi sempre più ampi.

Il legame tra i tre sistemi di utilizzazione delle risorse naturali rinnovabili, agricoltura, pastori- zia e selvicoltura è stato indubbiamente avviato dalla pastorizia che, evolvendosi nel tempo, si è unita all’agricoltura trasformandosi in zootec- nia, mentre la selvicoltura si scioglieva dal pri- migenio trinomio molto lentamente e fino ad oggi non del tutto scomparso, per assumere un ruolo a sé stante inserendosi con la produzione

legnosa in filiere produttive di tipo industriale.

Tuttavia il legame ha avuto più motivazioni eco- nomiche che tecniche ed in particolar modo il bosco ha rappresentato una irrinunciabile fonte di entrate per i modesti redditi di una magra agricoltura di montagna caratterizzata da tecni- che scarsamente innovative. Ma su queste due funzioni, che potremmo chiamare complemen- tari, sovrastava sempre l’attività pastorale in quanto risultava quella più redditizia.

A livello territoriale e di paesaggio i sistemi assumono una identità multifunzionale propria che prevede una forte interconnessione tanto da divenire un unico oggetto che si inserisce nel controllo e nella gestione del territorio. In effetti il bosco “è stato a guardare”e non poteva fare diversamente quando l’azione dirompente dell’uomo ha deciso la sua eliminazione. D’altra parte l’uomo aveva necessariamente una sola esigenza, quella di disporre nel modo più facile e conveniente possibile aree da destinare alla produzione di beni primari quali gli alimenti e le fonti energetiche. È difficile individuare in questa fase un percorso ragionato e diffuso di gestione selvicolturale della foresta: gli interessi erano concentrati sulla utilizzazione della bio- massa legnosa prodotta dalla foresta naturale che veniva considerata risorsa inesauribile. La necessità di un rapido sviluppo agricolo com- portò la sostituzione del bosco con la coltura agraria a partire dalle aree più favorevoli, ov- vero le aree di pianura. In montagna questo avveniva in prevalenza lungo gli alvei dei fiumi e nei suoli pianeggianti.

Questo processo è continuato quasi fino ai

nostri giorni. Le aree di maggiore conflitto sono

state quelle di montagna dove le caratteristiche

ambientali imponevano forti limiti alla diffu-

sione della coltura agraria. Determinanti gli alti

valori di acclività. Invero le tecniche di siste-

mazione agronomica, quali il terrazzamento,

non hanno impedito la coltivazione della vite

in Valtellina e su la “montagna sul mare” delle

Cinque Terre in Liguria, o quella del farro

nei versanti dell’alta Garfagnana. Tutti questi

esempi indicano però una strutturazione com-

partimentalizzata del territorio in cui i sistemi

della coltura agraria in senso stretto, realizzati

a scapito del bosco, rappresentavano unità ge-

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stionali singoli a bassa integrazione agricola- selvicolturale.

m ultifunzionalità ed inteGrazione

Sorge una domanda: la multifunzionalità dei sistemi agricoli e forestali dove la possiamo tro- vare? Ed ancora: sono noti modelli di gestione integrati tra bosco ed attività agricole?

Parlando di sistemi di montagna del nostro Paese, dobbiamo distinguere due tipologie: una dell’ambiente alpino, l’altra di quello appenni- nico, che sono ben diversi fra loro per moti- vazioni socio-economiche, ma soprattutto, per caratteristiche ambientali.

La regione montana alpina rappresenta circa un quarto della superficie totale italiana (75.000 km

2

) mentre quella appenninica è circa i due quinti, (120.000 km

2

). Si tratta, in totale, di una superficie complessiva pari al 35% di quella nazionale.

In queste due zone sono stati descritti due sistemi polifunzionali dominanti coinvolgenti il bosco: quello alpino con il “pascolo arbo- rato” nel quale, secondo f rancesco P iccioli

(1908), “si tende a conservare le piante che, isolate o in gruppi, coprono più o meno irrego- larmente il terreno ma mai a detrimento della produzione erbacea”; quello appenninico con il “bosco pascolivo” dove “gli animali in giuste proporzioni possono pascolare senza detrimento delle piante o dove in certo modo è tollerato il pascolo”. La grande diversità dei due am- bienti va vista anche dal lato della struttura- zione economico-fondiaria ed aziendale. Una analisi critica del passato rivela la presenza di un elemento comune del mondo di mon- tagna che si estrinseca attraverso un senti- mento diffuso nelle popolazioni ivi residenti che riguarda l’impegno del lavoro quotidiano dedicato al soddisfacimento delle esigenze di vita a livello di unità familiare, più spesso a livello di Comunità. La produzione primaria era perseguita per il “proprio territorio” cioè dove si viveva, più che bene di scambio su cui edificare la sopravvivenza ed il benessere della vita. Tutto ciò è fortemente cambiato negli ul- timi 70-80 anni in quanto la montagna oggi è

capace di fornire efficacissimi servigi, ma che in parte si allontanano dalla multifunzionalità dei sistemi agricoli e selvicolturali.

È sicuramente di aiuto l’analisi di alcuni casi concreti che hanno una storia antica e che rap- presentano importanti punti di riferimento del passato in quanto hanno modellato il territorio che ci è stato consegnato. Questo ci consente un confronto con la situazione odierna da i cui risultati si possono trarre utili insegnamenti per una corretta gestione futura del territorio.

Nell’arco alpino la proprietà è stata ed è oggi pubblica e privata; è rappresentata dalla Comu- nità o dalla singola Azienda. La dimensione del bene può variare molto. Il territorio è dominato dalla presenza del bosco, dai prati sfalciabili, dai pascoli alle quote più alte, dalla presenza di alcune colture agricole spesso limitrofe alle aree urbane. L’unità della struttura aziendale, è ubicata in “montagna” ed è individuabile nella Malga a cui afferiscono pascoli e boschi, patri- monio territoriale comune di Comunità o Re- gole. La Malga è utilizzata, per le attività pasto- rali-zootecniche e per quelle di prima trasfor- mazione del latte, dai proprietari di bestiame residenti nell’area valliva limitrofa, ma anche di provenienza esterna, che attuano o demandano una regolare monticazione e quindi l’alpeggio.

In alcune Regioni l’azienda trova la massima espressione nel “Maso Chiuso” che si identi- fica in una unità aziendale indivisibile nella successione, che associandosi alle contigue a livello di territorio, garantisce la presenza della Comunità. Nel “Maso Chiuso” la superficie a prato-pascolo non supera in media l’8% men- tre quella a bosco raggiunge il 70%. Spesso i pascoli del maso sono insufficienti al carico del bestiame, per cui questo deve essere condotto anche nel bosco che peraltro è l’elemento a cui si ricorre in sede di successione per liquidare le quote spettanti ai coeredi. Nel sistema si crea talvolta un dissidio fra la conservazione del bosco e la normale dotazione di bestiame.

Il filo conduttore che connette e tiene uniti i sistemi è il pascolo che viene praticato anche in bosco creando conflittualità con questo ultimo.

Le filiere produttive possono essere ricondotte

a due tipologie dominanti ovvero a quella della

produzione legnosa ed a quella legata ai pro-

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dotti dell’attività pastorale. La coltura agraria in senso stretto (anche cereali, fagioli e patate, ove è possibile) resta in parte dissociata, legata for- temente alla piccola proprietà, rappresentando comunque componente insostituibile per l’ali- mentazione.

Più in generale però possiamo affermare che il concetto di multifunzionalità è in prevalenza assegnabile all’ecosistema bosco. Il sistema è efficace perché associa le potenzialità di pabu- lum dei pascoli naturali e del bosco con la pro- duzione erbacea prativa che viene conservata (affienagione) ed utilizzata per l’allevamento zootecnico nei periodi più sfavorevoli. In effetti il bosco ha subìto forti contrazioni nella propria superficie tanto che il suo limite superiore ac- cusa un abbassamento altitudinale di 150-200 metri.

Merita ricordare poi che, nell’ambito dell’am- biente alpino, il modello colturale di integra- zione massima tra produzione legnosa e pro- duzione erbacea è rappresentato dal pascolo arborato con larice che è stato diffuso anche a basse quote in esposizioni a forte irraggiamento.

La scelta del larice, albero plurizonale relativa- mente frugale, eliofilo, con chioma leggera com- penetrabile dai raggi solari e decidua, è stata una scelta oculata e riuscita nell’individuazione del migliore compromesso. Il modello è ante- signano a quelli adottati anche ai nostri giorni nell’ambito dell’agroforestry più spinta.

Il rapporto conflittuale tra bosco e pascolo prese avvio da quando ci si rese conto che la so- pravvivenza del bosco non poteva essere messa a repentaglio da un singolo (pastore o bosca- iolo) con grave danno per l’intera comunità, grande o piccola che fosse. Erano necessarie delle regole che fossero in grado di conservare la polifunzionalità del bosco. La Comunità interviene (l’antico Comune medievale) pre- occupata anzitutto della difesa idrogeologica, poi anche della difesa da venti e valanghe, ma anche di conservare la raccolta della legna e di vari frutti, di consentire sia una modesta agri- coltura montana anche nei vuoti del bosco sia il pascolo, ma desiderosa anche di dare lavoro al popolo con piccole industrie locali. È evi- dente in ciò un’interazione economica, primi- tiva quanto si vuole, ma indispensabile per le

popolazioni di un tempo peraltro non troppo remoto. Così, ad esempio, le Regole cinquecen- tesche di Dimaro (Val di Sole - Trentino) pre- vedono che sia la Comunità a gestire il pascolo collettivo, tramite il forestario, eletto ogni anno dai componenti della stessa, il cui compito era quello di raccogliere il bestiame in paese e por- tarlo poi ai “pascoli alti”. La stessa Comunità si preoccupava anche che il pascolo non fosse esercitato sull’altrui proprietà.

L’evoluzione storica e politica che va verso l’unità nazionale, attraverso le Signorie e i Principati, coinvolge anche una innovazione, l’evoluzione legislativa nei riguardi della salva- guardia del bosco. La necessità di promuovere e definire delle regole gestionali scaturisce dal fatto che al bosco viene riconosciuta una va- lenza strategica che contribuisce in modo de- terminante al benessere della comunità. I vari stati preunitari italiani emanano norme che riguardano tutta la gestione forestale, dai tagli ai dissodamenti e al pascolo, fino ai rimboschi- menti volontari. Gli aspetti legislativi si sono poi affinati nel tempo, così come il pensiero odierno ha sancito nel bosco una figura di sog- getto giuridico (c iancio , 2002; 2010).

In queste disposizioni, il pascolo, che legal- mente o illegalmente, continuerà a permanere in bosco fino ai nostri giorni, è di solito limitato a quelle zone dove il bosco non potrà subire danni il che portava anche a procedure di li- cenze preventive.

2

Sull’Appennino un esempio tipico di sistema colturale multifunzionale è la coltivazione del castagno. Forse l’albero forestale che più di tutti è stato influenzato dall’uomo nella sua distribuzione, nell’uso e nella gestione del ter- ritorio, il cui frutto ha fornito alimento essen- ziale per la sopravvivenza di intere generazioni umane di vaste aree montane. Il castagneto da frutto che rappresentava un modello multi- funzionale agro-forestale di per sé, si inserisce nell’economia dell’azienda agraria perché oltre

2

In Sardegna, ad esempio, era il Prefetto ad autorizzare ed emettere norme in grado di conciliare i bisogni reali delle popolazioni con la conservazione dei boschi. Il prefetto aveva sostituito nel 1862 l’Intendente preunitario. Cfr.

M.A.I.C. 1866. Raccolta delle leggi che sono in vigore nel

Regno d’Italia.

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a fornire alimento (frutto da consumo fresco e/o da trasformazione in farina per l’alimen- tazione umana e del bestiame), garantisce una produzione di assortimenti legnosi (legna da ardere e da carbone, legname per industria tan- nica, per strumenti agricoli, per edilizia, ecc.), nonché una attività pascoliva soprattutto ovina.

Tra i così detti “prodotti secondari” non ultima la produzione dei funghi che in molte aree rappresentava per la popolazione locale più povera, vero “miracolo del cielo” perché l’im- pegno ed il lavoro profusi nella ricerca e nella raccolta, veniva premiato alla vendita, con una immediata ricompensa in denaro! Per tutto ciò il castagneto forniva “comodi aggiuntivi” tanto che il valore di una azienda agricola in monta- gna, veniva spesso stimato in base all’ampiezza, efficienza e produttività delle selve castanili (G iorGi , 1960).

Il castagneto è stato diffuso in tutte le Re- gioni del nostro Paese. In alcune è, tutt’oggi, componente dominante del paesaggio collinare e montano, ma anche della storia e delle tra- dizioni locali. La diffusione ha inizio in epoca romana e non solo in Italia, dove si realizza- rono propri e veri castagneti da frutto e boschi cedui. Si rivitalizza nel medioevo, anche per l’indirizzo fornito dagli Ordini Monastici. Il metato locale rustico impiegato per l’essicca- zione delle castagne era presente nel bosco, già nel 13° secolo. Raggiunge in Italia la massima estensione alla fine del 1700 (circa 800.000 et- tari). Sono le crisi demografiche, le carestie, la scelta alimentare cerealicola, che determinano questa espansione. In quell’epoca erano centi- naia di migliaia di contadini e montanari che di- pendevano, per la loro sopravvivenza, in buona parte dalle castagne fresche, secche o sfarinate.

I castagneti erano ben coltivati: la letteratura al riguardo è ampia (d el n oce , 1849; s iemoni , 1870; l odovico P iccioli , 1902, 1922; P o -

lacco , 1838; b ellucci , 1953; G iorGi , 1960).

Nel XVI secolo nella Signoria Medicea in To- scana (esclusi quindi i territori del Ducato di Lucca e Massa,) le selve castanili si estende- vano almeno su 350.000 ettari. Nell’anno 2000 in Italia i castagneti da frutto sono presenti su circa 200.000 ettari (ISTAT, 2000; a dua , 2000, 2006). Per la Toscana sono stimati oggi 75.000

ettari di cui solo 21.000 ettari coltivati (b ellini

et al., 2009). Lodovico Piccioli nella sua “Mo- nografia del Castagno” (P iccioli , 1922), indica il castagneto da frutto come il modello di col- tivazione (forestale), “che meglio di ogni altra coltura rispondeva alle sia pur modeste esigenze di quelle economie chiuse di ambienti di difficili comunicazioni, di scarsa feracità, di densa popo- lazione”.

Di interesse storico le disposizioni di legge relative all’istituzione dell’Officio sopra le selve del 1489, oggi le indicheremmo incentivanti, approvate della Famiglia Guinigi, Signori di Lucca, che imponevano la diffusione e la conservazione del castagneto nella Valle del Serchio riconoscendo ad esso fonte primaria nell’alimentazione. Non siamo completamente convinti, che sia stata una elargizione alla po- polazione dettata da vera benevolenza cristiana, quanto piuttosto l’attuazione di una strategia di sicurezza, del principe pro-domo sua, che con- sentisse il presidio del territorio, per sopportare il primo impatto di armate belligeranti non pro- prio amiche, provenienti da settentrione.

Ancora uno sguardo nel passato anche se le informazioni non sono molto sicure: è proba- bile che fino ai primi decenni del 1800 la si- tuazione della superficie non cambi molto.

Successivamente l’incremento della popola-

zione e la diffusione di nuove specie agrarie

più redditizie, che esigono più terre anche in

montagna per il pascolo e le colture foraggere,

portano a forti disboscamenti generali perché

non sono disponibili nuovi terreni coltivabili,

ma devono essere occupati quelli (partendo dai

più vocati) destinati a bosco. I castagneti se-

guono questa stessa sorte anche per il precoce

interesse del legno di questa specie per scopi

industriali. Quindi, cause sociali strettamente

legate agli ordinamenti economici agrari, che

si associano alla diffusione virulenta di epide-

mie parassitarie, determinano una progressiva

riduzione della superficie delle selve castanili ed

una più forte contrazione della produzione del

frutto che si protrae fino ai nostri giorni anche

se il decremento percentuale accusa un certo

rallentamento a partire dall’ultimo decennio

del secolo scorso. Spesso è il piccolo coltivatore

diretto che permane a coltivare. Nelle aree di

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montagna la suddivisione ereditaria è domi- nata dalla divisione della particella catastale di differente destinazione colturale – i discen- denti non potevano rinunciare al più piccolo campo per il grano e per le colture ortive, per il prato, per il castagneto – e l’azienda è pic- cola così il castagneto può ricevere almeno le cure indispensabili.

Nel periodo pre-bellico, sull’Appennino toscano, la piccola azienda a conduzione di- retta è quella prevalente che dispone di una superficie media di circa 12 ettari: il 20% è seminativo, il 47% castagneto da frutto, il 33% pascolo e altro bosco. Nella trilogia agro-silvo-pastorale domina incontrastato il castagneto da frutto. Nello stesso periodo, della totale superficie a bosco, a Lucca il ca- stagneto occupa il 48%, a Massa il 44%, a Pi- stoia il 27%. La sua importanza non sta tanto nella estensione, che arriva ad occupare circa la metà della superficie aziendale, ma negli stretti rapporti che esso ha con l’azienda nel suo complesso (G iorGi , 1960). Il castagneto contribuisce con un apporto produttivo pari al 15-20% di quello totale, ed un impegno di lavoro del 15-18% di quello aziendale. Questo lavoro era in armonia con l’impegno nel ciclo produttivo annuale, in quanto si svolgeva in mesi durante i quali non si esercitavano altre intense attività. Inoltre attraverso il pascolo, e la parte delle castagne dedicate al bestiame, si dava la possibilità di incrementare il carico i bestiame e le potature, più o meno intense, fornivano legna da ardere e talvolta anche da

“magistero”. G iorGi (1960) fornisce anche un’interessante analisi relativa al periodo post- bellico che dimostra come i forti cambiamenti socio-economici del mondo agricolo abbiano influenzato l’intensità del lavoro annuale nel castagneto. Molto spesso l’unica attività lavo- rativa si riduceva alla raccolta del frutto e que- sto è diffuso ancora oggi, in mancanza della funzione stabilizzatrice che in passato aveva avuto tanto rilievo. Un’altra indicazione sulla produzione lorda aziendale per ettaro per anno suddivisa in due periodi, prebellico (1935-39) e postbellico (1957-59): nel primo periodo la produzione dei seminativi è pari al 43%, al 19% dal castagneto, al 38% dagli allevamenti;

nel secondo periodo il 37% deriva dai semina- tivi, il 62% dagli allevamenti, l’1% dal casta- gneto (G iorGi , 1960).

Non possiamo che prendere atto di questo grande abbandono dei castagneti da frutto.

Questi comunque mantengono come tali una forte multifunzionalità, mentre si è ridotta l’in- tegrazione nell’azienda agraria anche perché è questa ultima che ha subìto un notevole ridi- mensionamento nelle aree interne e di mon- tagna.

D’altra parte i numerosi incontri, seminari, convegni nazionali ed internazionali sul ca- stagno, che si sono succeduti nell’ultimo ven- tennio, sono la dimostrazione evidente di un interesse ancora vivissimo per la coltura del castagno anche se, almeno a partire dagli anni

’80 dello scorso secolo, questo è stato rivolto soprattutto alla produzione di frutti altamente qualificati (a lvisi e G ajo , 1985). Tra l’altro rispetto al passato sono aumentate le funzioni che questo ecosistema ha capacità di fornire.

Ci piace sottolineare quella sociale che incide, attraverso una sollecitazione emotiva, nel man- tenere ancora più vivace ed attuale il richiamo delle tradizioni. Altrettanto importante sono gli aspetti ambientali e paesaggistici e quindi quelli legati alla conservazione della biodiver- sità. Non ultimo l’interesse suscitato da nuove linee di trasformazione del frutto che arrecano successo alla valorizzazione della tipicità e alla realizzazione di filiere corte.

Il fatto che sia manifesto l’interesse nella pro-

duzione delle selve castanili, ha favorito una

attenta riflessione sul ruolo importante che

questo modello colturale può ancora svolgere

nell’ambito del territorio montano, perché

capace di fornire servigi diretti ed indiretti. A

questo proposito il Ministero delle Politiche

Agricole Alimentari e Forestali, attraverso il

parere favorevole della Conferenza permanente

Stato-Regioni, ha approvato un Piano Castani-

colo Nazionale (D.M. n. 4824, 10 marzo 2011

- Tavolo di filiera della frutta in guscio), teso a

favorire la ripresa e lo sviluppo del comparto

(m anzo e b attistini , 2012). Il programma,

anche se sollecitato inizialmente dal settore

economico commerciale della produzione

frutticola, ha dato avvio ad un programma di

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lotta biologica contro il cinipide, nuovo insetto galligeno, ma che riguarda anche, in modo di- retto, la conservazione, non solo produttiva, di un “patrimonio nazionale storico-vegetazionale e paesaggistico” realizzato attraverso un lavoro straordinario iniziato oltre 1000 anni fa.

P rosPettive future

Anche se in forma molto sintetica e concisa le analisi avanti documentate, mettono bene in luce i rapporti profondi che si sono instau- rati nel tempo tra attività antropica e foresta. Il fulcro centrale è l’uomo con le sue necessità, le aspirazioni, le preoccupazioni, ma anche con la soddisfazione che scaturisce dalla compren- sione dell’efficacia del suo impegno nell’ap- plicazione di modelli raffinati di gestione del territorio.

Le aspirazioni di una nuova gestione di vita hanno portato notevoli cambiamenti nei terri- tori montani. Difatti l’uomo per soddisfare le proprie esigenze inserisce una nuova compo- nente, il turismo, che ha subìto forte valenza economica e che si compenetra nella triologia agricoltura-pascolo-selvicoltura. A partire dai primi decenni del secolo scorso, inizialmente nell’ambiente alpino, come richiesta di una parte del mondo di élite, successivamente, anche sull’Appennino ed ancor più oggi come richiesta di massa, è il turismo la vera ricchezza di intere vallate. Questa nuova componente si appropria del territorio dove il paesaggio, che è disegnato dall’alternarsi dei sistemi agricoli e forestali ed ha per sfondo scenico, pareti e pic- chi rocciosi, suscita grandi emozioni attrattive e si identifica come luogo ideale per la pratica di numerose attività sportive. La popolazione locale plaude ed avalla questo ingresso, lo fa- vorisce con forza spesso con scarsa o non ri- conosciuta consapevolezza relativamente alle possibili conseguenze dell’impatto che può arrecare a livello territoriale. Urbanizzazione, servizi ed indotto connesso, piste da sci, cicla- bili e sentieristica, impianti di risalita e di inne- vamento artificiale, si inseriscono, anche con violenza, nel paesaggio portando profonde modifiche spesso poco rispettose di una ge-

stione ecosostenibile e di una conservazione degli ecosistemi naturali. In queste situazioni, in cui certamente prende forza uno sviluppo economico, l’impegno del lavoro quotidiano nei confronti della produzione primaria subi- sce un drastico ridimensionamento. Permane l’interesse verso la foresta intesa anche come risorsa rinnovabile della materia prima legno:

le filiere ad essa correlate, conservano attrat- tiva economico-finanziaria perché legate al mondo della trasformazione industriale ov- vero riescono ad integrarsi con le attività del turismo.

Dovremmo sviluppare considerazioni per il

futuro. Problema alquanto arduo. I cambia-

menti socio-economici sono stati immensi e

dirompenti. D’altra parte anche il territorio lo-

cale è comunque globalizzato: l’inquinamento

atmosferico non è prodotto dall’ambiente

montano, ma è da questo subìto anche se le

fonti sono distanti decine di migliaia di chi-

lometri. Siamo concordi nel riconoscere che

nell’ambito dei sistemi agricoli e forestali di

montagna del nostro Paese fino alla metà del

secolo scorso il legame dominante della trilo-

gia campo-pascolo-bosco era costituito dal pa-

scolo il quale assunse carattere di multifunzio-

nalità dominante. Oggi è la foresta che svolge

questo ruolo primario. I dati relativi ai cam-

biamenti delle destinazioni d’uso del territorio

negli ultimi ottanta anni sono eloquenti nell’e-

videnziare un aumento della superficie fore-

stale pari a circa il 52% ed un decremento di

quella destinata alla produzione foraggera del

78%. Nelle situazioni favorevoli il bosco ha ri-

conquistato naturalmente e questo aspetto ha

valore aggiuntivo di estremo interesse. Le mo-

tivazioni sono molto robuste. Tra l’altro, da un

punto di vista generale, gli ecosistemi forestali

forse più di altri, possono essere considerati

capitali vantaggiosi in quanto una loro ge-

stione corretta consente di fornire flussi diver-

sificati di servizi. Così non può essere sottova-

lutato il loro ruolo in termini di conservazione

della biodiversità e della variabilità genetica: il

suolo forestale rappresenta lo scrigno più pre-

zioso, anche perché solo in parte conosciuto,

del germoplasma animale e vegetale. Gli eco-

sistemi forestali sono sempre stati elemento

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primario nella istituzione di aree protette in generale e dei Parchi terrestri in particolare, rappresentando oggi, nello stesso tempo, per le Comunità montane, fondamentale strumento economico e di integrazione territoriale anche per il pascolo, la fauna selvatica, il turismo. Da un punto di vista funzionale le foreste sono ric- che di caratteristiche proprie tra cui una gran- dissima complessità. È questa caratteristica che consente ancora le possibilità di protezione del territorio, la regolazione delle risorse idriche, la mitigazione nei confronti degli effetti dei cambiamenti climatici attraverso l’accumulo di Carbonio e riduzione di CO 2 (l uyssaert et al., 2008; s chmidt et al., 2011) che si aggiungono a quelle dei prodotti commerciali ed energetici.

Una proposta per il futuro dei boschi di ca- stagno è d’obbligo. Si deve prendere atto di una riduzione notevolissima dei castagneti da frutto, promossa da fattori concomitanti tra cui lo stesso cambiamento socio-economico del mondo agricolo e la diffusione di vari patogeni.

Il processo di abbandono ha determinato pro- fonde trasformazioni, ma nello stesso tempo ha sollecitato azioni dirette alla salvaguardia dei mi- gliori castagneti da frutto che assolvono, come indicato, nuove importanti funzioni. Si ricorda la costituzione di iniziative che hanno come obiettivi la conservazione e l’ampliamento dei castagneti e la valorizzane del frutto. Del resto si dispone dei risultati di una vasta sperimen- tazione sulle tecniche di ripristino di questi so- prassuoli (G iannini e P roietti P lacidi , 1997).

Il fatto che alla riduzione della superficie delle selve castanili sia corrisposto un notevole incremento dei cedui di castagno è da consi- derarsi fatto di estremo interesse: la superficie forestale rimane invariata mentre si dispone di soprassuoli altamente produttivi. L’impegno riguarda la valorizzazione della biomassa at- traverso l’applicazione di modelli colturali più efficienti e l’individuazione di filiere produttive ad alto tasso imprenditoriale.

I tentativi di sostituzione dei castagneti con altri tipi di bosco non hanno avuto in Italia grande successo rispetto ad atri Paesi. Alcuni esempi che prevedevano l’impiego di specie esotiche nell’ambito di una selvicoltura pre- valentemente produttiva (Piemonte, Toscana,

Calabria), pur raggiungendo anche ottimi risul- tati sotto l’aspetto biologico, non hanno avuto seguito soprattutto per motivi economici (del resto in Italia il rimboschimento non è più at- tuale), ma anche per la difficoltà nel realizzare la superficie minima indispensabile ad una azienda forestale legata ai cicli produttivi di lungo tempo per cui appare problematico ri- proporre questa operazione su vasta scala.

La elevata frammentazione della proprietà nei castagneti ha favorito l’abbandono dei ca- stagneti nei quali ha agito con provvidenza, una veloce dinamica successionale consen- tendo l’introduzione, l’affermarsi e lo sviluppo naturale di nuovi soprassuoli forestali costitu- iti dalle specie tipiche delle fasce di vegeta- zione in cui questi erano stati realizzati o da quelle presenti nelle loro vicinanze ed in grado di disseminare. La letteratura in questo settore è molto vasta: si ricorda la diffusione del pino silvestre e dell’abete bianco rispettivamente nei castagneti da frutto in provincia di Savona ed a Vallombrosa (Firenze) (P atrone , 1960;

m aGini , 1967; m aGini e P iussi , 1967). Inter- venti colturali tesi a favorire questo processo sono auspicabili.

La conservazione di entità naturali di forte at- trattiva ecologico-naturalistica e di importanza per la sopravvivenza umana, può essere affron- tata attraverso l’individuazione e l’attuazione di metodi di gestione che di volta in volta consi- derino una salvaguardia ed interventi colturali ecocompatibili (G iannini e s usmel , 2006).

In questo secondo caso è sempre più diffusa la presa di coscienza di preservare la più alta efficienza della funzionalità dell’ecosistema foresta. Gli insegnamenti di Gayer avviati nel 1880 e ripresi successivamente dalle Scuole Forestali di Svizzera, Francia ed Italia, hanno rappresentato riferimenti dottrinali per una sel- vicoltura diretta alla locuzione closed to nature, basata cioè su fondamenti ecologici ( de P hiliP -

Pis , 1972; s usmel , 1991). Occorre nello stesso

tempo porre attenzione al significato profondo

del concetto di uso diversificato del bosco per-

ché è sempre più diffusa l’idea della presunta

illimitata capacità di fornire servigi da parte

delle foreste, che trascura un’analisi dei forti

dualismi esistenti tra questi (G iannini , 2011).

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In questo momento è attualissimo il dualismo che sorge tra una gestione forestale fondata sulla ricerca del più corretto compromesso tra naturalità e prelievi di biomassa, ovvero tra im- magazzinamento di Carbonio e produzione di energica.

Viviamo un momento di grandi difficoltà a livello globale in cui la crisi energetica deter- mina situazioni emotive forti, ma questo non deve impedire scelte gestionali ragionate nel corretto uso delle risorse. Del resto in Italia è nata la pioppicoltura, modello colturale ante- signano della produzione di biomasse legnose fuori foresta. Forse in questa direzione dovreb- bero essere diretti gli sforzi maggiori per sop- perire anche alle richieste di biomasse avendo presente però le difficoltà insite nel disporre di nuove terre disponibili viste le carenze mon- diali alimentari e quelle nel reperire le forze lavoro per la realizzazione di nuovi impianti.

La possibilità di un’alta molteplicità di uso da parte del bosco impone una corretta gestione di questo soprattutto per il benessere delle nostre future generazioni.

SUMMARY

Evolution of multifunctional land-use systems in mountain areas in Italy

This work presents an analysis of the evolution of the human activities in the Italian mountain areas, as regard to the agricultural and the forestry land-use. Due to the large area occupied by woodlands, the analysis focuses on the relationships between Man and forests. Three closely linked systems have been analysed: agriculture, pasturage and silviculture, which are primary resources employed to satisfy human life needs for food and energy.

At a landscape level, crops and forest products remain departmentalised, even if linked to the pastoral element.

Two typical cases of multifunctional systems have been described: the first one related to the alpine area (Malga and Maso Chiuso), and the second one concerning the Apennine area (chestnut orchards).

The documentation on land-use in mountain areas underlines the deep-seated relationships that have developed over the time between the human activities and the forest. Until the middle of the last century, the agriculture-forestry systems were integrated into a field- pasture-woodlands complex where the pasture portion was dominant. Today, the forest plays the primary role, since they offer an advantageous capital; correctly managed they can provide a diversified flow of services.

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