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Indice. Premessa. Capitolo primo. Teatro-cultura e teatro di massa ai tempi del fascismo. Capitolo secondo. I Carri di Tespi.

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Indice

Premessa

Capitolo primo

Teatro-cultura e teatro di massa ai tempi del fascismo

Capitolo secondo

I Carri di Tespi

Capitolo terzo

Teatro di propaganda

Capitolo quarto

Il teatro d’evasione

Capitolo quinto

La censura teatrale in Italia

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Capitolo sesto

Forzano-Mussolini

Appendice documentaria

Appendice iconografica

Bibliografia

NOTA REDAZIONALE:

Questa tesi si compone di 2 0 0 pagine

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Premessa

La decisione di intraprendere questa ricerca, volta a ricostruire il comportamento del governo fascista nei confronti del teatro, è nata dal desiderio di approfondire le vicissitudini teatrali di questo periodo storico, vicissitudini che, a parer mio, meritano una particolare attenzione.

La prima fase del mio lavoro è stata quella di ricostruire i caratteri salienti dell’intervento organizzativo e politico realizzato dal fascismo, in ambito teatrale, durante il ventennio (1922 – 1942).

L’analisi si concentra sostanzialmente sugli anni Trenta, perché è proprio in questo periodo che il regime decide di intervenire direttamente sulle vicende teatrali attraverso iniziative quali il Convegno Volta e la promozione di grandi esperienze teatrali di massa all’aperto come i Carri di Tespi.

Mi sono avvalsa, oltre che dei testi, anche di importanti riviste dell’epoca e ho esaminato sia le tematiche della copiosa drammaturgia popolare di carattere nettamente fascista, non molto apprezzata né dal pubblico né dalla critica, sia i copioni del più amato e seguito “teatro d’evasione”, soffermandomi più a lungo su quelli dell’autore Aldo De Benedetti.

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Ho quindi proceduto ad un’analisi accurata degli spettacoli teatrali censurati dal governo fascista, facendo luce sui motivi e sulle problematiche riscontrati nei provvedimenti presi dal censore stesso.

Ho proseguito il mio studio ponendo l’attenzione sulla figura di Mussolini come coautore di opere drammaturgiche insieme a Giovacchino Forzano.

Ricerca che non è stata semplice per la scarsità del materiale, ma è stata molto interessante per conoscere e approfondire la partecipazione personale al teatro, e in particolare alla scrittura teatrale, del duce stesso.

Infine, ho completato il lavoro corredandolo con particolari immagini, fotografie e documenti funzionali ad una migliore lettura del documento.

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Capitolo primo

Teatro-cultura e teatro di massa ai tempi del fascismo

Il significato del teatro varia in relazione al periodo storico e al contesto sociale cui si fa riferimento. Nel Novecento ciò che contraddistingue il teatro non è più la finzione ma invece la messa in scena della vita contemporanea.

L’Italia si vede investita da un processo di politicizzazione della vita pubblica negli anni dopo il 1922, quando l’influenza dello Stato fascista diviene determinante col progressivo consolidarsi del regime. In effetti, l’intervento dello Stato nei confronti del teatro è sempre stato prima di quegli anni molto modesto, mentre in questo periodo il governo di Mussolini s’impegna ad attivare una propria politica culturale favorendo una serie di interventi legislativi e la fondazione di molti istituti culturali.

Per tutti gli anni Venti il teatro vede progressivamente diminuire il suo pubblico a vantaggio del cinema a causa delle difficili condizioni economiche in cui versa e ciò mette in gravi difficoltà il governo fascista che in quegli anni non è mai riuscito ad agire in modo determinato di fronte a questa situazione.

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Il clima muta, invece, a partire dagli anni Trenta, quando lo stato fascista comincia ad occuparsi seriamente del teatro e a vederlo come un settore non più secondario, impegnandosi su tutti i fronti possibili: sistemi di finanziamento pubblico, repertori, calendari delle stagioni, censura dei testi, riorganizzazioni delle filodrammatiche, controllo delle compagnie e tournèes all’estero.

E’ importante ricordare gli aspetti più interessanti dell’orientamento teatrale fascista: nel 1929 vengono costituiti i Carri di Tespi1, teatri itineranti; nel 1930 è istituita la Corporazione dello spettacolo che ha lo scopo di studiare e ricercare, in armonia con gli interessi dell’economia nazionale, le soluzioni dei problemi riguardanti le industrie del teatro e del cinematografo e le altre affini e di assicurare un luogo di collaborazione permanente fra i datori di lavoro e i “prestatori d’opera, intellettuale e manuale, comunque interessati ai rami dell’industria su sindacati”. Un decreto governativo ha affidato alla Corporazione, la cui presidenza è stata offerta a Silvio D’Amico, la possibilità di emanare norme sulle condizioni di lavoro delle categorie rappresentate e promuovere tutte le iniziative necessarie alla migliore organizzazione dell’attività teatrale e cinematografica2.

Più tardi, nel 1934 è costituita l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, il cui statuto prevede la nomina di un Presidente, un Direttore, una

1 Vd. capitolo seguente.

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Commissione Artistica e un Consiglio dei professori. Nel corso triennale gli insegnamenti per gli allievi attori consistono in due materie fondamentali:

recitazione e storia del teatro, poi viene la danza, la ginnastica, la scherma ed elementi di canto. Alla fine del triennio gli allievi attori e registi devono dimostrare le tecniche acquisite attraverso un saggio finale da loro rappresentato. Vi era poi la proibizione di partecipare, senza autorizzazione della scuola, ad attività teatrali fuori dall’Accademia e l’obbligo d’iscrizione al Partito Nazionale Fascista. I primi anni scolastici vedono la presenza in Accademia di maestri come Tatiana Pavlova e Guido Salvini e attrici come Irma Grammatica e Wanda Capodaglio3.

Segue nel 1935 la nascita dell’Ispettorato del Teatro alle dipendenze del sottosegretariato di Stato per la Stampa e Propaganda: istituzione che prevede la centralizzazione della censura4. Secondo criteri uniformati nei confronti delle proposte delle compagnie teatrali, questa istituzione evita che ogni copione sia sottoposto a vis ti e pareri diversi a seconda delle piazze in cui si è ospitati.

Tale iniziativa viene molto apprezzata perché, praticamente, sin da quando il fascismo è arrivato al potere, critici teatrali e drammaturghi parlano di una

“crisi” del teatro, sia lirico che di prosa, crisi caratterizzata dalla bancarotta

2 Cfr. Gianfranco Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo , Bologna, Il Mulino, 1994, p. 126.

3Ivi, pp. 180-181.

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finanziaria, dalla disoccupazione e da un diminuire dell’interesse del pubblico. Nel 1923, infatti, le varie associazioni di scrittori, proprietari di teatri e attori si uniscono nella Corporazione nazionale del teatro allo scopo di trovare una soluzione comune dei loro problemi. L’anno successivo tengono a Milano una conferenza in cui viene approvato un ordine del giorno in cui si chiede un più efficace intervento del governo nazionale nella vita del teatro italiano (una richiesta che in seguito sarebbe stata ripetuta spesso). La reazione di Mussolini alla crisi assume la forma di una circolare che ordina ai prefetti di offrire appoggio e assistenza agli attori e alle compagnie teatrali locali. Con l’aggravarsi della depressione e il peggioramento della situazione, Mussolini interviene concedendo sussidi ad alcuni dei teatri più importanti, e richieste di aiuto arrivano molteplici da tutta Italia. Il risultato è stato l’inizio di quella fatale politica di sussidi permanenti che aveva caratterizzato l’approccio mussoliniano alla crisi del teatro durante l’intera vita del regime5.

Viene così a costituirsi un pensiero nazionale dello spettacolo, nel cui vigile e costante esercizio si progetta la “norma” drammaturgica, l’ottimizzazione di quello che è corretto e conveniente argomentare secondo l’etica e il buon gusto.

4 La competenza della censura passa nel 1931 dalle prefetture al Ministero degli Interni, dove rimarrà fino a che nel 1935 si formerà il Ministero per la Stampa e la Propaganda, trasformato poi, due anni dopo, in Ministero della Cultura Popolare.

5 Cfr. Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso , Roma-Bari, Laterza, 1975, pp.109-110.

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Insomma la centralizzazione della censura e la creazione di scuole nazionali d’arte drammatica lasciano intendere la volontà di una politica che trova nella cultura lo strumento di un’espressione nazionale degli apporti tradizionali: sono ritenuti minori i pericoli di una omologazione rispetto a quelli di una serie di manifestazioni. Quindi, attraverso le numerose decisioni governative prese, s’intuisce come il fascismo sia riuscito a realizzare una ristrutturazione della vita teatrale nazionale tramite un’impegnativa azione dello Stato. Sicuramente fu una politica deprecabile perché regolata da una concezione assolutista dello Stato, ma nonostante questo, oggi, non se ne possono negare gli aspetti positivi.

Un altro punto da chiarire è l’interesse di Mussolini nei confronti del

teatro: non è vero, come molti sostengono, che egli non si occupa della vita teatrale, anzi, è estremamente attento in materia e non manca di dare il proprio aiuto politico e finanziario alle iniziative avviate dagli autori drammatici più importanti o più promettenti. Questa tesi è avvalorata dall’importantissimo discorso che il Duce stesso tiene il 28 aprile 1933, al teatro Argentina di Roma, in occasione del cinquantenario della SIAE (Società Italiana Autori e Editori) parlando agli scrittori:

Ho sentito parlare di crisi del teatro. Questa crisi c’è, ma è un errore credere che sia connessa con la fortuna toccata al cinematografo.

Essa va considerata sotto un duplice aspetto, spirituale e materiale.

L’aspetto spirituale concerne gli autori: quello materiale, il numero dei posti. Bisogna preparare il teatro di masse, che possa contenere 15 o 20 mila persone. La “Scala” rispondeva allo scopo quando un secolo fa

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la popolazione di Milano contava 180 mila abitanti. Non risponde più oggi che la popolazione è di un milione. La limitazione dei posti crea la necessità degli alti prezzi e questi allontanano le folle. Invece il teatro, che, a mio avviso, ha più efficacia educativa del cinematografo, deve essere destinato al popolo, così come l’opera teatrale deve avere il largo respiro che il popolo le chiede. Essa deve agitare le grandi passioni collettive, essere ispirata ad un senso di viva e profonda umanità, portare sulla scena quel che veramente conta nella vita dello spirito e nelle ricerche degli uomini. Basta con il famigerato

“triangolo”, che ci ha ossessionato finora. Il numero delle complicazioni triangolari è ormai esaurito... Fate che le passioni collettive abbiano espressione drammatica, e voi vedrete allora le platee affollarsi. Ecco perché la crisi del teatro non può risolversi se non sarà risolto questo problema6.

Con questo discorso il Duce precisa la necessità di un teatro di grandi passioni collettive da presentare alle masse. Egli auspica un teatro “di masse” che significa “per masse” di spettatori, non di attori.

Alcuni autori, però, interpretano queste parole troppo alla lettera, pensando che per “teatro di masse” s’intenda teatro dove agiscono migliaia di attori per un pubblico di dieci o venti mila spettatori.

Infatti, esattamente un anno dopo questo appello, il 29 aprile 1934, un gruppo di autori (Alessandro Pavolini, Luigi Bonelli, Gherardo Gherardi, Sandro Feo, Raffaele Melani, Corrado Sofia, Carlo Lisi e Giorgio Venturini) con la regia del giovane Alessandro Blasetti7, porta sulla scena lo

6 Il discorso di Mussolini è riportato da Roberto Forges Davanzati, Mussolini parla agli scrittori, in

“Nuova Antologia”, n°3, maggio-giugno 1933, p. 191.

7 Alessandro Blasetti: direttore e insegnante di recitazione della prima scuola di cinema con sede all’Accademia di S. Cecilia, patrocinata dal Ministero dell’Educazione Nazionale e dalla Corporazione dello Spettacolo, dal 1932 al 1934 e dal 1935, anno d’inaugurazione del Centro Sperimentale di Cinematografia, al 1942 insegnante di regia e recitazione in questa scuola. Regista cinematografico di molti film, tra cui: Sole (1929), suo primo film, incentrato sulla bonifica delle paludi Pontine, che ottiene la lode di Mussolini e di

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spettacolo che avrebbe dovuto realizzare l’assunto mussoliniano del teatro di masse.

Il 18 BL8, questo è il suo titolo, viene allestito a Firenze, sulla riva dell’Arno che fronteggia le Cascine, sopra un palcoscenico di oltre 250 metri, davanti a circa venti mila spettatori, ma si risolve in un avvenimento scenico piuttosto confuso e stucchevole. La rappresentazione si svolge in tre quadri e mostra la storia che ha per protagonista un camion militare - il Fiat 18 BL appunto - che nel primo quadro riesce insieme all’autista, a giungere fino alle trincee nemiche, rendendo possibile la vittoria dell’esercito italiano; nel secondo quadro l’autocarro serve a sbaragliare la sovversione comunista all’interno di una fabbrica, prima di avviarsi a partecipare alla marcia su Roma. Nel finale, invece, dopo la vittoria mussoliniana, il vecchio camion assiste ad immagini di vita lavorativa nei campi della nuova Italia fascista9. La scelta attuata da Alessandro Pavolini di un camion come martire/eroe può non sembrare ovvia, se si pensa alla posizione di preminenza che il sistema ferroviario occupa nell’immaginario fascista. Infatti, a partire dalla fine dell’ottocento i treni erano divenuti un simbolo privilegiato di modernizzazione e progresso in tutto il mondo, e soprattutto in un paese

molti critici per il suo populismo fascista e per la sua fusione di crudo realismo e di idealismo eroico;

Resurrectio (1929), il primo film sonoro italiano; 1860 (1933), forse il migliore tra i suoi primi film, anticipa numerose tecniche che più tardi sarebbero diventate canoniche nel cinema del neorealismo; Vecchia Guardia (1934); Quattro passi tra le nuvole (1942). Mentre per il teatro nel dopoguerra segue la regia di: Il tempo e la famiglia Conway (1945), Ma non è una cosa seria (1945), La foresta pietrificata (1947) e La regina degli insorti (1951).

8 Vd. Appendice iconografica (foto n. 30, p. 198).

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arretrato come l’Italia. Inoltre, i treni rappresentavano in qualche modo il potere di un governo centrale, in contrasto con l’automobile, identificata, fin dai tempi del Manifesto di fondazione del futurismo (1909), con l’individualismo moderno.

Quindi, sospesi tra i treni e le automobili, stanno i camion10. Questi sorgono come emblema della collettività agli albori della storia dei

trasporti moderni in virtù del loro legame, condiviso con gli autobus, con l’industria e il proletariato urbano, da una parte e, in coppia coi trattori, con l’agricoltura e il mondo contadino dall’altra. A differenza dei treni, la collettività dei camion non può immediatamente identificarsi con lo stato; e anzi, dato l’eccezionale grado di autonomia e la libertà di movimento di questo sistema di trasporto, camion e camionisti furono da sempre associati non tanto con la società quanto con il mondo duro del proletariato fuorilegge11.

Allora, nel momento in cui compare il problema di come rappresentare gli inizi della rivoluzione nell’ambito del primo “teatro di masse per masse”, il gruppo di autori riuniti da Pavolini raggiunge facilmente un accordo. La rivoluzione e la guerra mondiale che l’ha preceduta possono essere

9 Cfr. Gianfranco Pedullà, Il teatro italiano cit., p. 202.

10 Vd. Appendice iconografica (foto n. 1, p. 175).

11 Jeffrey T. Schnapp, “18 BL” Mussolini e l’opera d’arte di massa , Milano, Garzanti, 1996, pp. 71-72.

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impersonate molto efficacemente da un camion, il veicolo per definizione della “nazione proletaria”12.

Come già accennato precedentemente, le redini di questo spettacolo Pavolini le affida alla giovane regia del trentatreenne Alessandro Blasetti.

Blasetti, però, avrebbe affermato che era stato Mussolini in persona

a chiamarlo a dirigere il 18 BL: <Mussolini immaginò uno spettacolo per una folla di ventimila spettatori e volle che fossi io a dirigerlo. Creai uno spettacolo dal titolo 18 BL, il nome di un camion… Fu il più grande fiasco nella storia del teatro internazionale. Questa fu… la sola volta che Blasetti ricevette i complimenti di Mussolini… Disse: “Ciò ha dimostrato una capacità d’iniziativa, di forza, di resistenza, di solidità. Straordinario”>13. Ma, poiché Blasetti distorce lievemente il concetto di teatro di massa di Mussolini e omette di menzionare qualsiasi altra occasione in cui il duce intervenne in suo favore, vi sono buone ragioni per dubitare di questa affermazione. Fonti d’archivio indicano che fu Pavolini ad organizzare il 18 BL e a sceglierne i principali protagonisti. Sicuramente Mussolini fu tenuto al corrente dei progetti per i Littoriali, ma il suo relativo distacco è confermato dalla sua decisione di non intervenire alla rappresentazione di 18

12 Ivi, p. 74.

13 Elaine Mancini, Struggles of the Italian Film Industry during Fascism 1930-35, Boston, G. K. Hall &

Co., 1986, p. 113.

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BL. Pavolini scelse di ricorrere a Blasetti soltanto verso la fine del gennaio del 1934, quando il processo di stesura era già avviato da tempo14.

Sta di fatto che per questo spettacolo il giovane regista deve affrontare numerose difficoltà, tra cui una delle più grandi, risulta

essere senza dubbio la costruzione di un teatro all’aperto in grado di poter ospitare circa ventimila persone (proprio in base alle disposizioni del duce).

Non si scoraggia, anche se ha a disposizione poco tempo, circa due mesi, si mette all’opera attorniato da validi scenografi e coreografi, nonché da dozzine di operai e ruspe che si cimentano per la creazione di questa immensa arena15.

Il luogo scelto per il 18 BL era utilizzato come discarica, perciò il progetto di Blasetti risulta anche come una sorta di bonifica suburbana. Il posto in questione, chiamato l’Albereta dell’Isolotto, infatti, era tagliato in due da un profondo vallone che però ora viene fatto allargare per trasformarlo in una cabina di regia e in una postazione per luci. Come osserva Cipriano Giachetti:

14 Jeffrey T. Schnapp, “18 BL”: Mussolini e l’opera cit., p. 97.

15 Nella descrizione di Pavolini, l’impresa fu realizzata con l’assistenza della città e dell’esercito: “Operai reclutati fra i fascisti privi di occupazione sterrano l’immensa platea, modificando il profilo delle colline, terminano le strade, in unione agli operai e alle macchine del Comune di Firenze, il quale in questa occasione ha dato, coi suoi dirigenti e coi suoi uffici, alto esempio di come una mentalità aggiornatissima sappia pervadere le pubbliche amministrazioni. Uguale esempio ci hanno fornito, in collaborazione cordialissima e piena di comprensione, le Autorità militari, le quali sono venute incontro in mille modi, ponendo a disposizione compagnie di zappatori per i lavori di sterro, sezioni fotoelettriche, mitragliatrici, batterie di artiglieria e molto altro indispensabile materiale umano e meccanico”. L’affermazione di Pavolini

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Una collina con un fronte di 250 metri ha servito da palcoscenico:

un’altra collina, quasi del tutto artificialmente, in faccia alla prima, sulla riva dell’Arno, è stata utilizzata per la platea: fra le due un vallo profondo, che era un po’ la fossa dell’orchestra e il posto di rifornimento, la cuffia del suggeritore e la cabina di direzione16.

I lavori sono faticosi e complicati, Blasetti lungo le pendici delle colline artificiali fa ricavare una dozzina di piazzole per la preparazione delle scene dello spettacolo, come strade, trincee e botole per i movimenti degli attori, dell’artiglieria, dei cavalli e dei camion. Inoltre vengono installati dei telefoni da campo per facilitare la comunicazione tra le piazzole e la cabina di regia.

Durante la rappresentazione un elemento che il regista cura con particolare attenzione è senza dubbio l’illuminazione, l’alternanza di

luci e ombre. Questo anche perché, non potendo esistere un sipario, e dovendo seguire gli spostamenti dei protagonisti da una scena all’altra, Blasetti ha bisogno della luce come coordinatrice dell’azione: mentre potenti riflettori illuminano lo svolgimento della scena, altre scene possono venir preparate nelle zone rimaste nell’ombra.

Un secondo elemento di fondamentale importanza per rendere la tensione drammatica del 18 BL, è il sonoro e più in particolare l’avvicendamento di

sulla collaborazione delle autorità è smentita da numerosi documenti contenuti nell’Archivio Blasetti che rivelano la disperazione del regista per la loro lentezza e incompetenza. (Ivi, p. 98).

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silenzio e suoni “rumorosi”. Le dimensioni del palcoscenico sono tali che vengono collocati microfoni un po’ ovunque per garantire la diffusione dei pochi, tersi monologhi, dialoghi e momenti corali dell’opera. La partitura musicale, le canzoni e gli effetti sonori sono tutti preregistrati per essere trasmessi dagli stessi altoparlanti utilizzati dai microfoni17.

Per quanto concerne i posti a sedere, la platea è ideata a forma di rettangolo, con un lato curvo, cinta tutt’intorno da un argine d’erba di circa tre metri d’altezza; palchi e loggioni vengono abbandonati a favore di un solo settore piano per non creare differenze di visibilità.

Viene fatta però una distinzione: tra i più costosi biglietti riservati (5000 posti sono venduti a dieci, venti o cinquanta lire l’uno) che sono disposti lungo l’asse centrale del teatro, e i “popolari” (15000 posti venduti a tre lire l’uno) relegati invece ai lati della platea. Questa distinzione tra settori di posti ha anche lo scopo di corrispondere ad un’elaborata coreografia sociale, a sua volta riflessa nella rappresentazione, che l’opera propone, della dialettica tra l’uomo di massa e l’individuo eroico. Inoltre, non vengono distribuiti biglietti omaggio e il solo sconto concesso è per i dopolavoristi18.

16 Cipriano Giachetti, Il teatro ai Littoriali di Firenze, in “Comoedia” n. 16, giugno 1934, p. 18.

17 Jeffrey T. Schnapp, “18 BL”: Mussolini e l’opera cit., p. 80.

18 Ivi, p. 85.

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Il regista all’inizio pensa alla creazione di un unico ingresso per accedere al teatro, cioè attraverso un doppio ponte di barche illuminato da torce. Subito dopo, però, deve cambiare obbligatoriamente idea, visto che la dotazione di imbarcazioni fluviali militari risulta insufficiente.

Decide, quindi, di adottare una soluzione che prevede una doppia entrata19. L’ingresso sul lato d’Oltrarno del fiume è riservato ai possessori di biglietti

“popolari”, i quali, una volta entrati nello stadio immerso in una cortina di fumo, sarebbero rimasti affascinati dallo spettacolo di dieci immensi libri aperti, sormontati da baionette. Potenti fasci luminosi vengono puntati, poi, contro le pagine bianche dei libri in modo che questi ne riflettano la luce sulla platea20.

Il pubblico “d’élite”, invece, raggiunge i suoi posti numerati seguendo un itinerario limitato al versante cittadino del fiume. Dopo l’attraversamento dei quartieri eleganti e delle sedi delle ambasciate della Firenze ottocentesca, giunge fino alla vera entrata del teatro, un ponte di barche fluviali illuminato da torce rette da barcaioli.

Ma, nonostante la plateale organizzazione e la minuziosa cura dei particolari, nei confronti di questa rappresentazione la critica è generalmente negativa, lo spettacolo non piace: la mancanza di coesione fra le varie scene e il

19Vd. Appendice iconografica (foto n. 2, p. 176).

20 Jeffrey T. Schnapp, “ 18 BL”: Mussolini e l’opera cit., p. 86.

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fronte troppo vasto sul quale si svolge la vicenda distraggono ben presto il pubblico.

Su «Scenario» Guido Salvini si domanda se la mancanza di “tessuto connettivo”, “quella specie di armonia che lega le varie azioni, e fa sì che l’animo del pubblico resti sospeso e avvinto per la durata dello spettacolo”, non fosse dovuta magari ad un “difetto di realizzazione, di affrettata preparazione”:

Tecnicamente il Blasetti aveva molto ben disposto il suo palcoscenico, con la contropendenza del piano superiore che permetteva alle figure di entrare e uscire dal campo visivo con celerità. Ma se egli ebbe l’esatta visione della massa controluce - ottimo effetto quello dell’artiglieria che prende posizione al galoppo - dimenticò forse la necessità del primo piano, cioè di dar valore in qualche momento, con un gioco di luce violento, a qualche cosa o a qualche persona su cui l’attenzione degli spettatori dovesse sostare per qualche minuto.

Mentre nel cinema questo effetto lo si ottiene col primo piano effettivo, e serve a distribuire le inquadrature chiaroscurando l’azione, in un palcoscenico come quello dell’Albereta, così lontano dal pubblico, l’effetto non poteva raggiungersi con un concentramento violento di raggi luminosi. L’abbiamo visto al finale, sul camion morente: ma era troppo tardi21.

Salvini nota altri problemi riguardo questa rappresentazione, come la

mancata illuminazione sulla danza e i difetti della musica, cioè del suono.

Manca quello che è un elemento necessario e indispensabile allo spettacolo

21 Guido Salvini, Spettacoli di masse e “18BL”, in “ Scenario”, n. 5, maggio 1934, p. 254.

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teatrale all’aperto, cioè la magia della musica e del canto. Mentre di contro si è accorto della cura meticolosa dimostrata dal regista nel disporre i controluce e nel creare coi “razzi a paracadute, effetti mirabili d’illuminazione che vorremmo chiamare fredda, aderentissima alle scene di guerra”22.

Dunque, i limiti della rappresentazione sono molti, lo spettacolo risulta poco efficace, ma ambizioso. Non si può però misconoscere come questo primo tentativo, comunque, indicasse le grandi possibilità per gli spettacoli a venire.

Il progetto di un teatro di massa viene posto anche al centro delle discussioni del Convegno Volta, organizzato a Roma nell’ottobre 1934 e dedicato alle questioni più importanti del teatro drammatico europeo.

Tale manifestazione, che il fascismo organizza per mostrare al mondo la grandezza e l’apertura della sua cultura, vanta la presidenza di Pirandello e la segreteria di Marinetti e i partecipanti sono molti tra i più conosciuti scrittori, registi, esponenti del teatro mondiale.

Nel corso del Convegno si affrontano numerosi temi, dal rapporto tra il teatro drammatico e le altre forme di spettacolo, alle architetture dei teatri in epoca contemporanea. Si discute pure sul teatro di massa e spetta proprio

22 Ivi, pp. 253-255.

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a Pirandello, nel discorso di apertura, prendere posizione su questa dibattuta questione in favore di un rinnovamento edilizio dell’edificio teatro:

In tutte le sue manifestazioni la vita rifugge dalle antiche distinzioni, sia di caste sia di privilegi comunque acquisiti; e si ha perciò l’impressione che i teatri, come furono costruiti nei tempi in cui tali distinzioni erano vive, siano luoghi ormai anacronistici, da cui quasi istintivamente ci si allontana.

E’ da augurare che dalle proposte e dalle discussioni di questo Convegno risulti che il provvedimento più efficace e il mezzo anche più pratico per riaccostare il popolo al teatro sia quello di costruire queste nuove sedi: e forse con ciò sarebbe risolto anche, nello spirito, l’auspicato teatro di masse. Sale appropriatamente architettate, capaci d’accogliere tanto pubblico da pagare largamente le spese dello spettacolo, tenendo il prezzo dei posti pari a quello dei cinematografi, e i posti senz’altra distinzione tra loro che quella inovviabile della maggiore o minore distanza dalla scena; e palcoscenici di nuova attrezzatura e dotati di tutti i nuovi mezzi tecnici perché ogni rappresentazione possa diventare anche spettacolo, più proprio e non meno attraente di quello a cui la cinematografia ha ormai abituato il pubblico23.

Il presidente, quindi, è dalla parte di coloro che propongono piccoli cambiamenti, come approntare sale più “moderne”, adatte sia ad una società meno rigorosamente divisa in classi, sia ad affrontare la concorrenza col cinematografo e dotate, infine, di un palcoscenico tecnicamente pronto a recepire gli esperimenti più avanzati sul linguaggio della scena.

23 Reale Accademia d’Italia. Fondazione Alessandro Volta. Atti e convegni. Convegno di lettere. 8 -14 ottobre 1934. Tema: il teatro drammatico, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1935, p. 21.

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Massimo Bontempelli24 si dimostra molto interessato all’argomento e, prendendo la parola, insiste soprattutto sull’analisi del pubblico: è solo

“con” e “per” un pubblico diverso che può nascere il teatro nuovo, il Teatro di masse, che è anche il titolo della sua relazione:

A ogni epoca, o caratteristica frazione di epoca, interessa quello che è il suo spettacolo tipico, nato con lei e da lei. Per questa ragione, lo spettacolo sempre e dappertutto è stato una forma, in vasto senso, popolare: e il teatro è decaduto quando si è creduto di poter fare del teatro per gli eletti25.

Egli, perciò, ritiene che nell’epoca fascista il teatro debba ritornare ad essere popolare e antiborghese. Ed oltre a questo aggiunge:

Dicevo dunque, teatro in vastità, a sentimenti elementari e panorami amplissimi. Con questo solamente potremo ristabilire l’equilibrio, e l’autore di spettacoli avrà il suo corrispettivo adeguato dalla parte del pubblico. A questo teatro in vastità, a questo teatro, diciamo pure, per folle, la folla accorrerà, non come stanca e fredda giudice, ma come un personaggio. La sua partecipazione al dramma rappresentato sarà piena26.

24 Massimo Bontempelli (1878 – 1946). Scrittore e autore drammatico, professore di lettere, quindi giornalista, fu accademico d’Italia ed eletto nel 1946 senatore alla I legislatura della Repubblica.

Estremamente ricettivo di moduli culturali, iniziatore o fautore di movimenti artistici (come il futurismo), s’impone fra le figure più rappresentative della vita letteraria italiana nei primi decenni del sec. XX, in sede sia polemica che creativa.

25 Teatro di masse, in Reale Accademia d’Italia. Fondazione Alessandro Volta cit., p. 142.

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Bontempelli polemizza con l’atteggiamento elitario del teatro di avanguardia del primo Novecento a favore di un teatro in vastità, un teatro per le folle

“un teatro di passioni primordiali e azioni lineari, il cui corrispettivo, il cui collaboratore più intenso, sarà il pubblico passionale eccessivo e traboccante, che abbiamo cominciato a conoscere negli stadi”27.

Egli, infatti, vuole creare a teatro un nuovo tipo di rapporto col pubblico e lo ravvisa nel “tifo” sportivo:

Quello dunque che occorre rintracciare per capire la situazione teatrale odierna, è il pubblico.

Ebbene, oggi, se voglio studiare la formazione di un nuovo atteggiamento del pubblico di fronte al fenomeno spettacolo, se voglio analizzare l’autentico pubblico, più che alla prosa, più che all’opera, più che al cinema, debbo cercarlo nelle folle domenicali che assistono al campionato di calcio28.

Dopo aver descritto che cos’è il “tifo”, Bontempelli conclude:

26 Ivi, p. 146.

27 Massimo Bontempelli, L’avventura novecentista, Firenze, Vallecchi, 1974, p. 265.

28 Teatro di masse,in Reale Accademia d’Italia. Fondazione Alessandro Volta cit., p. 147.

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In questo genere di pubblico io amo prevedere il pubblico del teatro di domani. Il teatro di prosa o di musica, è decaduto appunto quando è decaduto il tifo. Dei due termini necessari al fenomeno “spettacolo”, cioè il pubblico appassionato e la produzione, uno, il primo, è pronto.

Credo, all’inizio della Terza epoca, tra questa aura di primordio che dobbiamo con tutte le nostre forze favorire, credo all’avvento di un teatro di masse, un “teatro di ventimila”, il cui collaboratore sarà il pubblico passionale ed eccessivo che abbiamo cominciato a conoscere negli stadi29.

Bontempelli, dunque, risulta d’accordo con un presupposto dell’epoca, quello del rifiuto dello spettatore critico in favore di uno spettatore totalmente immedesimato nel rito teatrale.

In più, per poter dire la sua, come ha fatto, dovrà affrontare l’umiliazione di tenere conto dei “necessari borghesi”:

Naturalmente, una civiltà teatrale non può accontentarsi di un solo atteggiamento. Accanto al teatro di masse il teatro minore, quotidiano, dovrà continuare a vivere, con i suoi fini particolari; dovrà riprendersi, diciamo coraggiosamente, il teatro per i borghesi, il teatro d’abitudine, d’ordinaria amministrazione. Ma l’esistenza dell’altro, dello spettacolo a vaste linee, a sentimenti elementari, avrà un benefico influsso anche sul teatro quotidiano per i necessari borghesi. Così accadrà che alla somma loro, cioè alla nuova vita teatrale che una creazione a grandi linee potrà dare all’epoca nuova, finirà per essere affidato in gran parte il compito di sborghesizzare la borghesia, che è il compito principale della “rivoluzione continua”30.

29 Ibidem.

30 Ivi, pp. 147-148.

(24)

Per quanto riguarda la prospettiva “materiale” di Mussolini, sempre sul teatro di masse, è Gaetano Ciocca, ingegnere industriale, a proporre durante il Convegno un progetto architettonico di sala teatrale per oltre ventimila spettatori ideato sulla base di studi su rapporti spaziali tra l’azione scenica e il pubblico.

Il teatro di massa da lui concepito avrebbe offerto al maggior numero possibile di spettatori, il miglior spettacolo possibile al costo più ridotto:

Il teatro di massa è quello che dà al massimo numero di spettatori la possibilità di godere lo spettacolo migliore con la minima spesa… Uno spettacolo lirico normale alla Scala di Milano costa centomila lire. Se gli spettatori sono duemila, il costo è di cinquanta lire a testa. Se gli spettatori fossero ventimila, il costo discenderebbe a cinque lire a testa.

Ora è assai più facile trovare ventimila cittadini in grado di spendere cinque lire che non duemila cittadini in grado di spenderne cinquanta.

Tutto il nocciolo della crisi del teatro e della necessità sociale degli spettacoli di massa è racchiuso in queste piccole cifre31.

Ciocca, però, si rende conto che non sarebbe abbastanza aumentare solo le dimensioni del teatro. Quello che serve è una rivoluzione estetica: “il teatro enorme chiama il palcoscenico enorme. L’attitudine scenica a incatenare

31 La tecnica del teatro di masse, in Reale Accademia d’Italia, Atti del Convegno di Lettere cit., pp. 177- 178.

(25)

l’attenzione delle folle, colpirne l’immaginazione, suscitarne la passione, non si concilia con la ristrettezza dei palcoscenici”32.

Il progetto di stadio da lui presentato è costituito da due cerchi intersecatisi, di cui il più grande accoglie la platea, il più piccolo, centrato sul perimetro di quello maggiore, rappresenta un palcoscenico bipartito girevole33. In questo modo il pubblico si abitua a vedere lo spettacolo della scena ora di fronte, ora di fianco, ora di dietro, come osserva la vita stessa.

Al Convegno viene presentato anche un altro progetto, concorrente a quello di Ciocca, che svolge un ruolo determinante nel dare forma alla visione mussoliniana di un “teatro per ventimila”, si tratta del progetto di Telesio Interlandi. Questi concepisce una propria proposta nella forma di un teatro circolare per quindicimila persone, coperto da una cupola sostenuta da un’intelaiatura di metallo34.

Un suo esplicito modello sono gli stadi sportivi contemporanei, difatti, il palcoscenico non si trova più in fondo alla sala, ma al centro di questa, così da focalizzare l’attenzione visiva e auditiva del pubblico, come se si trattasse del palco dei pugilatori o del campo di calcio in uno stadio35.

I settori della platea sono strutturati in modo che non ci siano più differenze di posti. Questo livellamento tecnologico delle differenze sociali in nome

32 Ivi, p. 178.

33 Vd. Appendice iconografica (foto n. 3, p. 177).

34 Vd. Appendice iconografica (foto n. 4, p. 178).

(26)

della disciplina e della democrazia si sarebbe esteso anche all’acustica e alla visibilità del teatro, che sarebbero state uniformate grazie all’impiego delle tecniche più moderne e avanzate, in modo da imporre solo variazioni minime sul prezzo, comunque basso, del biglietto. Analogamente, tra palcoscenico e platea si sarebbe istituito un rapporto d’intercambiabilità: al termine di ogni atto dello spettacolo, la massa di attori in palcoscenico e tutta l’attrezzatura sarebbero stati abbassati a livello della platea per mezzo di un macchinario idraulico; la scena si sarebbe allora trasformata in luogo di pubblico ritrovo dove la massa degli spettatori avrebbe potuto conversare e muoversi liberamente36.

Il critico romano d’Amico37, dal canto suo, contesta fermamente questi progetti pronunciandosi contro l’ipotesi del teatro di masse come fatto tecnico:

Diciamolo fra noi, - aveva detto nel dibattito seguito alla relazione di Ciocca - è alquanto strano questo fenomeno, tutto proprio del tempo nostro, per cui a risolvere i problemi del teatro drammatico vediamo

35 Cfr. Jeffrey T. Schnapp, “18 BL”: Mussolini e l’opera cit., p. 54.

36 Ivi, pp. 55-56.

37 Silvio d’Amico (1887 - 1955). Scrittore e critico drammatico, direttore dell’Enciclopedia dello Spettacolo.

A Roma frequentò le facoltà universitarie di giurisprudenza, lettere e filosofia, laureandosi in giurisprudenza. Dal 1911 fu assunto nel Ministero della pubblica istruzione, Direzione generale antichità e belle arti. Dal 1915 al ’17 fu volontario nella prima guerra mondiale. Nel 1923 lasciò il Ministero, essendo stato nominato professore di storia del teatro nella R. Scuola di Recitazione presso l’Accademia di S.

Cecilia in Roma. Nel 1935, invitato dal governo a formulare il progetto per un’accademia d’arte drammatica in Roma, ne fu nominato presidente, conservandovi la cattedra di storia del teatro. Ha fondato , e dal 1932 al ’36 ha diretto insieme con Nicola De Pirro, la rivista teatrale “Scenario”, oltre ad aver collaborato per moltissime altre riviste.

(27)

offrirsi, prima degli autori, gli architetti e gli scenotecnici. Voglio dire che questi architetti, anche geniali come il Gropius qui presente o come l’ammiratissimo Ciocca, hanno un poco l’aria di mettere il carro davanti ai buoi. Essi offrono la forma, prima che sia apparso lo spirito;

e lo fanno con l’aria di sperare, se non di profetare, che lo spirito nascerà dalla forma. Per noi invece è fuor di dubbio che il procedimento dev’essere inverso. Prima il repertorio; poi il suo teatro38.

D’Amico non sopporta che i problemi del teatro pretendano di essere risolti prima dagli architetti e dagli scenotecnici che dagli autori; non si può certo, secondo lui, creare un nuovo grande codice spettacolare che sia indipendente dai testi che si decide di utilizzare. Il testo deve rimanere comunque l’elemento più importante dello spettacolo.

Le disquisizioni intorno all’argomento sono tante e continuano a persistere anche alla fine del Convegno; le esperienze del teatro di massa negli anni

Trenta comunque, appaiono come un tentativo da parte del governo di usare la scena come uno strumento di consenso ed insieme una volontà di

modernizzazione.

38 Cfr. Pietro Cavallo, Immaginario e rappresentazione, Roma, Bonacci, 1990, p. 18.

(28)

Capitolo secondo

I Carri di Tespi

Quando si parla di teatro dell’epoca fascista, non è possibile dimenticare quella che più d’ogni altra è stata la manifestazione per eccellenza di quel periodo: vale a dire l’esperienza del “Carro di Tespi”39. E’ una delle iniziative che meglio hanno caratterizzato la politica culturale perseguita dal Governo fascista nel corso degli anni Trenta.

L’Opera Nazionale Dopolavoro (OND) ha ideato e organizzato, fin dal luglio del 1929, dei teatri mobili, i Carri di Tespi, appunto, per portare il teatro nelle regioni e nelle città dove di teatro o non ce n’è affatto o ce n’è assai poco. Si tratta di dar corpo allo slogan fascista: “andare verso il popolo”, il quale popolo non è visto come soggetto ma come oggetto di storia: si tratta di acculturare il popolo, di sviluppare nei suoi confronti una politica teatrale.

39 Questo nome è stato scelto non a caso per riecheggiare una delle più antiche forme di teatro girovago:

Tespi, fu un attore greco vissuto fra il VI e V sec. a. C., considerato da alcuni il fondatore dello spettacolo tragico, rimase celebre per aver girato di città in città l’intera Grecia a bordo di un carro, sul quale allestiva i suoi spettacoli.

(29)

Questi complessi artistici, drammatici e lirici, rappresentano un’originale forma di teatro all’aperto e nascono da un’idea di Giovacchino Forzano40,

probabile conoscitore delle esperienze di “Teatro ambulante” promosse da Firmin Gémier41 in Francia prima

della grande guerra.

Lo scopo dei Carri di Tespi è quello di raggiungere, tramite un’organizzazione ambulante, soprattutto i centri minori sprovvisti di teatri mobili - non escludendo tuttavia le grandi città - e di offrire al pubblico spettacoli di alto livello a prezzi popolari. Si tratta dunque di un’impresa che riconosce al teatro un importante valore educativo e che al contempo mira a destare meraviglia negli spettatori per l’efficienza dell’organizzazione, per l’imponenza e la modernità delle strutture e per la bontà del prodotto artistico offerto.

La struttura, comune a tutti i Carri, è costituita da un palcoscenico in armatura metallica, ricoperto e dotato di cupola Fortuny (che permette di realizzare i più ricercati e più avanzati effetti illuministici e scenografici), di fronte al quale viene disposta una platea all’aperto circondata da tribune.

Atto ad essere montato e smontato con stupefacente velocità in qualsiasi

40 Giovacchino Forzano, drammaturgo e regista di teatro di prosa e lirico vissuto dal 1883 al 1970.;

coautore con Mussolini di 3 opere teatrali: Campo di Maggio, Villa Franca, Cesare.

41 Firmin Gémier (nome d’arte di Firmin Tonnerre), attore e regista drammatico e cinematografico francese nato nel 1869 a Aubervilliers (Seine) e morto nel 1933 a Parigi. Viene ricordato soprattutto per la creazione di un teatro ambulante magnificamente organizzato che porta un po’ ovunque una troupe di prim’ordine e un repertorio scelto. Questa idea gli è nata perché considera il teatro fisso un’eresia, infatti, per lui il vero teatro è quello che cambia posto, che va davanti alle persone, proprio dove esse si trovano.

(30)

piazza, il Carro di Tespi è una struttura completamente autonoma, sia dal punto di vista tecnico che da quello artistico.

La rappresentazione inaugurale avviene il 4 luglio sul Piazzale del Pincio a Roma con l’ Oreste di Vittorio Alfieri e Il Falconiere di Pietro Ardena di Leopoldo Marenco. E per capire la reazione degli spettatori è interessante leggere un resoconto del «Corriere della Sera» del 20 giugno 1929 (Forzano e il Carro di Tespi):

Nulla ci pare sia stato trascurato per dare alle popolazioni godimento.

Lo scopo educativo dell’impresa voluta dal presidente del Dopolavoro è stato perseguito -non solo in questa prima scelta del repertorio, ma anche nei quadri scenici offerti agli occhi degli spettatori [...].

All’aprirsi del sipario è un oh di meraviglia. La scena dell’Oreste è grandiosa e suggestiva. La cupola Fortuny fa il suo dovere a puntino e offre la sfilata delle sue nuvole cangianti e la meraviglia dei suoi mutamenti di tono [...]. E che dire all’impressione che farà sulle popolazioni rurali la vista di un bosco, al primo atto del Falconiere, con i romantici cipressi [...]? Gli spettatori volontari di Senago battono le mani ogni volta che hanno occasione di vederlo e, al cospetto di quello che la tecnica scenografica del realismo ha raggiunto in questi ultimi anni, spalancano tanto d’occhi. Ma altre sorprese ha preparato il Forzano, valendosi d’altri mezzi meccanici. Le grida e il tumulto della folla nell’Oreste sono riprodotti da un grammofono, s’innalzano solenni temi corali. Non spingerà l’ingenuo spettatore di qualche sperduto villaggio, cauto, fin dietro la baracca del palcoscenico per scoprire le cento persone che cantano?42.

42 Franca Angelini, Teatro e spettacolo nel primo Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 232.

(31)

Lasciata Roma, questo Carro intraprende il suo primo giro nell’Italia meridionale e, durante due mesi, percorre 13 province e dà 67 rappresentazioni in 35 paesi43.

Mario Corsi44, storico del teatro, nel suo Il teatro all’aperto, afferma che

“ovunque parve come un dono del regime, e un dono grande, effettivamente era. Il pubblico rozzo, ma intelligente, lo comprese e spalancò gli occhi attoniti dinnanzi agli spettacoli: i primi ai quali in molti paesi, assisteva. E se anche non sempre ne intese lo spirito, sempre ne gioì; e ovunque i comici vaganti furono accolti e salutati come messaggeri di liete novelle, e in più luoghi si sentirono sollecitati a fermarsi ancora o a tornare”45.

Dopo il notevole successo riscontrato da questo primo esperimento, l’anno dopo, nel 1930, i Carri di Tespi di prosa aumentano e diventano tre, mentre quello destinato al teatro lirico rimane uno, ma è molto più imponente.

I Carri di Tespi drammatici dotati di una platea di duemila posti, con un palcoscenico fornito di piattaforma girevole, iniziano il loro giro artistico ai primi di luglio a Gardone con la rappresentazione de La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio alla presenza dell’autore stesso.

43 Cfr. Mario Corsi, Il teatro all’aperto in Italia, Milano-Roma, Rizzoli, 1939, p.268.

44 Mario Corsi (1882 – 1954). Giornalista, commediografo, scenarista e regista cinematografico. Inviato speciale e corrispondente dei quotidiani <L’Idea nazionale> e <La Tribuna> (1907 – 1924). Gravemente ferito nella prima guerra mondiale, si accostò al cinema nel 1917 e diresse alcuni film tra cui Frate Sole. Per quanto riguarda il teatro, ha illustrato gli aspetti della vita e del costume teatrale con innumerevoli articoli e saggi solo in piccola parte riuniti in volumi. Poligrafo brillante e informato, collaboratore delle maggiori riviste teatrali italiane fra le due guerre, redattore-capo e vice-direttore di <Scenario>, ha collaborato a questa Enciclopedia (per la parte illustrativa) nella sua fase preparatoria.

45 Cfr. Mario Corsi, Il teatro all’aperto in Italia cit., p. 268.

(32)

Si danno 198 rappresentazioni in 168 località di 58 province.

La selezione e la conduzione degli attori, scelti tra i migliori, è affidata a Giovacchino Forzano.

Ogni Carro dispone di una propria compagnia che comprende numerosi componenti tra cui attori, ballerini, musicisti e tecnici e le rappresentazioni sono di autori quali Goldoni, D’Annunzio, Forzano46, Rosso di San Secondo, Chiarelli, Bonelli e Pirandello, ma non solo47.

L’arrivo dei Carri di Tespi costituisce già in sè un avvenimento, grazie all’aspettativa creata dalla stampa, ai manifesti e agli sforzi dell’OND per coordinare il trasporto di operai e contadini delle campagne per assistere allo spettacolo. L’eccitazione raggiunge però il suo culmine il giorno dello spettacolo, quando i camion fanno il loro ingresso sulla piazza centrale della città e subito un esercito di tecnici, assistiti da centinaia di aiutanti ingaggiati per l’occasione, si mette all’opera per erigere l’armatura di tela e acciaio, posizionare luci, montare scene e sipari e disporre i sedili per il pubblico48. Forse, ancor più della rappresentazione in sè, il pubblico rimaneva attonito e sbalordito dal come questi Carri, arrivati in paese, prendessero possesso di

46 Vd. Appendice iconografica (foto n. 5, p. 179).

47 Vd. Appendice iconografica (foto n. 6 p. 179 e n. 7, p. 180).

48 Cfr. Jeffrey T. Schnapp, «18BL»: Mussolini e l’opera d’arte di massa cit., p. 31.

(33)

una piazza, drizzassero le tende e in maniera rapidissima innalzassero l’ossatura del loro palcoscenico49.

Tutta questa preparazione ha uno scopo preciso: esibire l’efficienza dell’organizzazione corporativa e come tale viene celebrata dai propagandisti del regime:

Tutto è intelligenza e certezza e precisione. Lo scheletro dinanzi agli occhi estasiati della gente prende corpo e forma, si fa pareti e pilastri e volte. Dal martello al bullone, alla carrucola, alla dinamo, alla centrale che distribuisce e moltiplica e arresta la corrente per le luci, tutta la gamma dei mezzi come tutta la serie dei tecnici, sono lì avanti al popolo che vede e impara quanto rapido e facile sia per la scuola innovatrice fascista il passaggio dalla materia rude allo stile, all’armonia, alla bellezza. Là è il miracolo del trasformare, delcostruire, di fare ubbidire cose uomini tempo spazio, dico, il miracolo dell’età corporativa50.

I tre Carri di prosa e quello lirico, a parte le dimensioni più grandi di quest’ultimo, possono essere considerati identici per quanto riguarda la struttura, il montaggio, il funzionamento, gli spostamenti e la gestione.

Per quanto concerne il Carro drammatico e l’analisi delle sue caratteristiche tecniche, Mario Corsi osserva che ciascun Carro si compone di un piano scenico sostenuto da un’ossatura di tubi di ferro, sormontato da una

49Vd. Appendice iconografica (foto n. 8, p. 180).

(34)

copertura a mantice, anch’essa con tubi metallici, reggente la cosiddetta

“cupola Fortuny”51, ricoperta esternamente da un tendone. Il palcoscenico ha le dimensioni dei teatri normali: profondità dell’avanscena 2,65 metri;

lunghezza 15,75 metri; profondità della scena 9 metri; larghezza 15 metri;

altezza 7 metri.

Ogni Carro dispone di un palcoscenico girevole che consente la divisione dello spazio in tre parti perfettamente uguali, su cui si possono montare altrettante scene e si possono ottenere rapidi cambiamenti a vista, senza bisogno di chiudere il velario.

Il Carro è anche dotato di un impianto elettrico moderno e perfetto52 con un’apposita cabina attrezzata in maniera da consentire qualsiasi effetto luminoso; di una colonna di automezzi costituita da un autotreno per il trasporto della compagnia, e di un ultimo, così detto di fortuna, che segue la colonna ed è riservato ai macchinisti e ad una piccola officina per le riparazioni urgenti.

50 Paolo Orano, I carri di Tepi dell’OND, Roma, Casa editrice Pinciana, 1937, p.19.

51 La cupola Fortuny era una cupola elissoidale e fu inventata dal grande scenografo e artista Mariano Fortuny. Consisteva in un “sacco” di tela di quasi 10 metri di lunghezza sospeso ad un’armatura di tubi e tenuto ben teso da un potente aspiratore elettrico disposto sul retro. Con la proiezione di una luce indiretta sulle sue lisce superfici, si potevano creare campi sconfinati, luminosi e apparentemente infiniti;

su di essa disegnavano allora paesaggi celesti, nuvole in movimento, cieli stellati e tramonti con tale efficacia da poter essere facilmente scambiati per la vera volta dei cieli che la sovrastava. (Jeffrey T.

Schnapp, «18BL» Mussolini e l’opera cit., p. 34).

52 Vd. Appendice iconografica (foto n. 8, p. 181).

(35)

La compagnia e il personale tecnico di ogni Carro sono scritturati dall’OND per almeno due mesi, quanto dura il giro del Carro, che s’inizia nei primi giorni di luglio e si conclude alla fine di agosto.

Di solito dà due spettacoli in ogni località. Dopo il secondo i tecnici provvedono allo smontaggio del teatro e della platea e al carico del materiale sugli automezzi. Ed allora la colonna parte per arrivare a mattino inoltrato nella nuova località dove, scaricati tutti gli elementi del teatro, si provvede di nuovo al loro montaggio. Nel pomeriggio dello stesso giorno arriva nel luogo l’automezzo con la compagnia e la sera ha luogo lo spettacolo53. Fino ad ora mi sono soffermata a descrivere gli aspetti tecnici di queste

“carovane dell’arte, del sogno, della gioia, della poesia” - come le ha definite Paolo Orano nel suo libro: I Carri di Tespi dell’OND - ma è di notevole interesse anche, potere osservare il repertorio dei Carri di Tespi di prosa durante i loro dieci anni di vita: dal 1929 al 193954.

Rispetto ai Carri di Tespi drammatici, quello che certamente desta maggiore impressione per l’imponenza delle strutture e per il numero delle persone impiegate al suo funzionamento, è sicuramente il Carro di Tespi lirico.

Inaugurato il 24 agosto del 1930 a Torre del Lago con La Bohème di Puccini, il Carro di Tespi lirico vanta un palcoscenico di vastissime dimensioni (525 metri quadrati) dotato di un boccascena alto 8 metri e largo

53 Cfr. Mario Corsi, Il teatro all’aperto in Italia cit., p.288.

(36)

1855. Ricoperto tutt’intorno da tendoni impermeabili, il palcoscenico è preceduto da un proscenio largo ben 35 metri e profondo 5, sotto il quale trova posto un golfo mistico di 120 metri quadrati. La platea, composta da una serie di sedie disposte a scacchiera, può contenere tre mila persone (non più di due mila, invece, il Carro di Tespi di prosa) e lo stesso numero di spettatori trova posto sulle tribune. A seconda delle varie esigenze, i posti a sedere possono essere aumentati fino a raggiungere una capienza attorno ai dieci mila spettatori56.

Inevitabilmente diverso anche il numero del personale artistico e

tecnico scritturato dai due Carri: quello lirico richiede, in media, l’impiego di circa seicento persone, mentre per il Carro drammatico sono sufficienti dai venti ai trenta attori e non più di quindici tecnici.

In entrambi i casi i repertori offerti sono basati quasi esclusivamente su opere di autori italiani, per il teatro musicale quelli più frequentemente allestiti sono Rossini, Bellini, Verdi, Puccini e Mascagni57.

I percorsi seguiti cercano di toccare, attraverso una serie di tappe distanziate fra di loro da non più di cento chilometri, tutti i centri più piccoli delle varie regioni italiane.

54 Vd. Appendice documentaria del repertorio dei Carri di Tespi di prosa a p. 174.

55 Vd. Appendice iconografica (foto n. 9 e 10, p. 181).

56 Cfr. Mario Corsi, Il teatro all’aperto cit., pp. 284-285.

57 Vd. Appendice iconografica (foto n. 11 e 12, p. 182).

(37)

Ma, se da un lato i Carri di Tespi si propongono di raggiungere la maggior parte dei centri sperduti e sprovvisti di strutture teatrali stabili, dall’altro non manca di sostare anche nelle grosse città già fornite di una o più sale teatrali che operano nel corso della stagione invernale. E’ il caso di Roma, Milano, Firenze, Bologna, Napoli, ma anche di Siena, Livorno, Taranto, Genova, Venezia, Trieste e tante altre.

Sicuramente i Carri di Tespi si rivelano una delle espressioni più significative di una forma di propaganda teatrale direttamente voluta e controllata dal regime fascista. Il Carro di Tespi fondamentalmente

si propone di lasciare nel pubblico un’immagine di imponenza e funzionalità, riflesso dell’efficienza e delle capacità organizzative della forza politica che governa l’Italia. E l’intento ha buon esito, perché il regime, grazie a questa fondamentale iniziativa, riesce a fare in modo che il popolo non consideri più il teatro diritto esclusivo

di una sola categoria di persone, ma si senta finalmente partecipe e incluso nella magica atmosfera poetica dei teatri mobili. E questa è stata senza dubbio una mossa astuta.

Per tutto il ventennio fascista gli spettacoli presentati dai Carri di Tespi segnalano risultati di pubblico molto elevati. E l’OND investe gran parte delle sue risorse per la realizzazione di queste iniziative.

(38)

Ma come ha notato Victoria De Grazia “la vendita dei biglietti copre soltanto una parte minima delle uscite: nel 1933-34, al culmine della depressione, l’OND spende per i Carri di Tespi oltre un quinto delle sue uscite nette annue, di gran lunga la più importante voce del bilancio”58. Oltre allo sviluppo dei Carri di Tespi, alla ristrutturazione delle filodrammatiche e alla diffusione del teatro radiofonico, un altro importante strumento propagandistico per il regime e promozionale per il teatro è sicuramente l’esperienza del Sabato teatrale, organizzato direttamente dal Partito Nazionale Fascista, dall’OND e dal Ministero per la Cultura Popolare a partire dal 1936, nel pieno della campagna etiopica.

L’iniziativa del sabato teatrale riguarda sia gli spettacoli lirici che quelli di prosa, ai quali possono assistere, acquistando direttamente dal Dopolavoro cittadino il biglietto ad un prezzo molto conveniente, o coloro la cui retribuzione mensile non supera le 800 lire o gli studenti e i soldati.

C’è da dire che anche questa risulta un’ impresa artistica di successo, lo riporta il fatto che nel 1937 si calcolano 435 recite con circa mezzo milione di spettatori59.

A proposito del Sabato teatrale è significativo citare un intervento di Bottai60 alla radio nella rubrica «Cronache del Regime»:

58 Victoria De Grazia, Consenso e cultura di massa n ell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 189.

59 Cfr. Nicola De Pirro, Il teatro per il popolo, Roma, Novissima, 1938, p. 12.

(39)

Il tifo è un fenomeno dello spettacolo sportivo. Ma perché? Perché allo spettacolo sportivo il popolo assiste al completo, partecipandovi con tutta la gradazione dei suoi sentimenti. Mandate sulle gradinate di uno stadio il pubblichetto concentrato alle prime a venti e più lire la poltrona e lo vedrete freddo, inamidato, distante. E, al contrario: mandate nelle gallerie, nei palchi, nelle platee, nelle barcacce dei teatri, popolo mescolato, d’ogni condizione e mestiere, e avrete il tifo, autentico tifo per questo o quel dramma, per questa o quella musica. E sarà di per sè un grande risultato l’aver portato una manifestazione collettiva, decisamente, sul piano dello spirito. Solo così, come si è creato uno sport nazionale, che tiene testa valorosamente agli sports di qualsiasi altra Nazione, sicreerà un teatro nazionale. Riconosciamolo. Di tutti i mezzi che il Ministro della Propaganda e il Direttore Generale del Teatro potevano escogitare per sollevare il teatro italiano dalla sua decadenza, quello seguito è il più accorto. Essi potevano tentare, e l’hanno in parte tentato, d’avere nuovi drammi, nuove musiche, nuovi autori, nuovi attori. Ma quello di avere, di fare, di costruire un nuovo pubblico, traendolo dagli strati più diversi del popolo, è più che un espediente: è una condizione necessaria, cui corrisponde il Sabato teatrale”61.

Si capisce quindi che nella società fascista il popolo torna ad essere il grande protagonista della vita civile e il teatro torna ad essere rito e comunione intima popolare.

Il pubblico diviene parte integrante dello spettacolo e s’immedesima in ciò che vede ed è questo quello che fondamentalmente interessa al regime.

60 Giuseppe Bottai (Roma, 1895-ivi, 1959). Figura intellettuale e politica di grande rilievo: giornalista- politico; Ministro delle Corporazioni nel 1929, Ministro dell’Educazione Nazionale dal 1936 e fondatore con Vecchietti e Cabella della rivista «Primato» nel 1940.

61 Nella rivista « Il dramma», n. 1, febbraio 1937, p. 1.

(40)

Infatti, i Carri di Tespi non creano un nuovo teatro ma creano un nuovo modo di fare teatro in relazione al pubblico: l’arrivare nella piazza del paese, il disporre tutti gli attrezzi necessari, l’organizzarsi alla perfezione, il montare le strutture e il giorno seguente smontarle, fa parte dello spettacolo-festa cui gli spettatori sono chiamati a partecipare.

(41)

Capitolo terzo

Teatro di propaganda

La propaganda del regime spinge affinchè gli autori italiani interpretino in maniera profonda il tempo che stanno vivendo, vale a dire quello della Rivoluzione fascista.

C’è un’insistente volontà di creare un teatro che simbolicamente possa rappresentare l’epoca fascista e il tentativo di questa particolare forma di teatro va sotto il nome di teatro di propaganda o teatro militante.

Durante tutto il ventennio proliferano numerosissimi copioni teatrali scritti da militanti fascisti. Tali autori sono dilettanti di varia estrazione professionale (maestri, giornalisti, avvocati, ma anche operai, casalinghe e disoccupati) che s’impegnano a farcire le loro opere di situazioni, miti e parole d’ordine riconducibili alla propaganda fascista.

Questi lavori teatrali sono di diverso genere (dalla prosa alla rivista di varietà) e celebrano o la nascita del fascismo, collegandola strettamente alla prima guerra mondiale, o le conquiste sociali e militari del regime.

Il teatro a cui si fa riferimento è molto più diffuso di quanto si possa credere; infatti, esistono migliaia di copioni di questo genere e sono

(42)

consultabili presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma nel fondo Censura Teatrale del Ministero della Cultura Popolare, dove sono conservati tutti quei lavori teatrali passati al vaglio della censura (un esame minuzioso e accurato condotto in prima persona da Zurlo62 e che riguarda qualunque cosa debba essere rappresentata, in qualunque teatro, sia anche lo stanzone di una parrocchia o il teatrino di un’organizzazione del partito).

Ogni anno centinaia di autori si affannano ad inviare all’ufficio censura lavori improntati ai temi agitati dalla propaganda fascista, dichiarando esplicitamente che la loro opera intende essere un ulteriore momento di diffusione delle parole d’ordine del regime, non si può d’altro canto non sottolineare che celebrare le imprese e le conquiste sociali e militari del fascismo significa per i nostri autori rivivere anche parte della propria esistenza o di quella degli amici e parenti più cari (un gran numero di copioni è dedicato o ispirato

all’impresa, più o meno eroica, del genitore, del fratello, magari del fidanzato).

Il teatro diviene così un modo per poter entrare nella storia e, nel contempo, offre la possibilità, mettendo in scena eventi di cui si è stati più o meno

62 Leopoldo Zurlo, incaricato del compito di censore teatrale dal 1931 al 1943.

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