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Busta paga errata in eccesso

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Busta paga errata in eccesso

Autore: Redazione | 23/05/2019

La busta paga è un documento redatto dal datore di lavoro e può accadere che contenga degli errori.

Un documento particolarmente atteso da milioni di lavoratori italiani, poiché l’arrivo sancisce il pagamento dello stipendio. Parliamo della busta paga, ossia, di quel documento mensile con cui il datore di lavoro informa il lavoratore di quanti soldi gli ha versato sul conto a titolo di stipendio. La busta paga, al pari di qualsiasi

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documento, può contenere tuttavia degli errori e in questo caso possono esserci delle sorprese per il lavoratore.

Cosa succedere, in particolare, in caso di busta paga errata in eccesso? Il dipendente è chiamato a restituire le somme ricevute oltre quanto realmente spettante?

La risposta è sì e vedremo, in questo articolo, che il datore di lavoro ha diritto di recuperare le somme che ha erogato in eccesso ai dipendenti. Tuttavia ciò deve avvenire nel rispetto di alcuni principi importanti che riguardano, innanzitutto, il tempo che il datore di lavoro ha a disposizione per il recupero e le modalità con cui procedere al recupero stesso.

Busta paga: cos’è?

Il rapporto di lavoro è, al pari di qualsiasi altro rapporto contrattuale civilistico, un rapporto di scambio. Il lavoratore si impegna a mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative per un certo orario. Il datore di lavoro, dal suo lato, si obbliga a versare al dipendente, a cadenza mensile, una certa somma di denaro detta stipendio o retribuzione.

Il pagamento dello stipendio mensile è, quindi, la principale obbligazione del datore di lavoro.

L’operazione potrebbe sembrare molto semplice e lineare: se il contratto prevede che il datore di lavoro debba versare al dipendente uno stipendio mensile di 1.000 euro, questi effettua un bonifico mensile di 1.000 euro e lì finisce.

Niente di più lontano dalla realtà. Il datore di lavoro, infatti, è in base alla legge un sostituto d’imposta. Ciò significa che mentre un lavoratore autonomo provvede in autonomia a versare i propri contributi previdenziali e a pagare le tasse sul reddito percepito, nel caso del lavorare dipendente questi obblighi sono posti a carico del datore di lavoro il quale è sostituto proprio perché si sostituisce al dipendente nell’assolvimento dei propri obblighi sia verso il fisco (Agenzia delle entrate) sia verso la previdenza (Istituto nazionale della previdenza sociale).

Per essere chiari: il datore di lavoro non può erogare direttamente al dipendente la retribuzione pattuita. Prima deve infatti calcolare quante tasse vanno pagate al fisco su quella retribuzione e quanti contributi previdenziali vanno pagati

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all’Inps su quello stipendio. fatto questo calcolo, queste somme devono essere trattenute dallo stipendio del dipendente e riversate ai relativi enti. Alla fine di queste operazioni si ottiene lo stipendio netto che viene materialmente accreditato dal datore di lavoro sul conto corrente del dipendente.

Per dare conto al lavoratore delle operazioni effettuate dal datore di lavoro sul suo stipendio è stato introdotto l’obbligo di consegnare ai lavoratori la busta paga, detta anche cedolino o prospetto paga.

Busta paga: cosa contiene?

La busta paga mensile contiene una serie di informazioni che riepilogano la posizione lavorativa del dipendente e danno conto delle operazioni effettuate sul suo stipendio nel periodo di paga.

In particolare, il cedolino deve contenere le seguenti informazioni:

nome, cognome, data di nascita, codice fiscale del dipendente;

livello di inquadramento del dipendente;

data di assunzione del dipendente;

contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro;

generalità del datore di lavoro e matricola Inps/Inail;

mese di paga;

retribuzione erogata al dipendente, suddivisa in (i) paga base, (ii) superminimo individuale, (iii) scatti di anzianità, (iv) indennità relative a specifiche modalità di esecuzione della prestazione di lavoro (es. indennità di cassa);

trattenute previdenziali operate dal datore di lavoro per il pagamento della quota di contributi Inps posta a carico del lavoratore (di solito si attesta intorno al 9%);

trattenute fiscali operate dal datore di lavoro per il pagamento dell’Irpef (Imposta sui redditi delle persone fisiche);

eventuali somme a favore del dipendente erogate da Inps o Inail che

“passano” comunque per il tramite della busta paga (es. indennità di malattia, indennità di infortunio, indennità di maternità, assegni per il nucleo familiare, etc.);

somme trattenute dal datore di lavoro sullo stipendio per pagare i Fondi di previdenzia e/o assistenza sanitaria integrativi (ad essere trattenuta è la

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quota di contribuzione posta a carico del lavoratore);

valore economico dei fringe benefit (es. auto aziendale ad uso promiscuo);

altre somme erogate o trattenute dal datore di lavoro sulla paga.

Busta paga: errori

L’elenco delle informazioni presenti nella busta paga ci fa capire che, ogni mese, all’atto del pagamento dello stipendio, il datore di lavoro deve porre in essere un numero considerevole di calcoli in base ai quali trattenere le relative somme.

Come tutti i calcoli, anche quelli relativi alla busta paga possono presentare errori ed irregolarità. In questi casi può emergere che al dipendente è stato versato un netto in busta maggiore o minore di quello che gli sarebbe spettato.

Il problema si pone soprattutto quando la busta paga è errata in eccesso. Il datore di lavoro, per fare un esempio, ha sbagliato a calcolare la trattenuta per i contributi o per l’Irpef e da questo errore deriva la corresponsione al dipendente di uno stipendio errato in eccesso, più alto del dovuto. Cosa fare in questi casi?

Busta paga errata in eccesso: il recupero dell’indebito retributivo

Quando il datore di lavoro eroga delle somme in eccesso rispetto al dovuto si configura un indebito retributivo, ossia, la percezione da parte del lavoratore di somme che non gli sono dovute e che sono, dunque, indebite. In questi casi, con i limiti che vedremo, il datore di lavoro che si avvede dell’errore può recuperare le somme erogate in eccesso. Innanzitutto, però, occorre che il datore di lavoro agisca per il recupero dell’indebito retributivo nel termine di dieci anni.

La giurisprudenza ha infatti affermato che il diritto del datore di lavoro alla restituzione di somme indebitamente percepite dal lavoratore si prescrive nel termine decennale. Non si applica dunque la prescrizione quinquennale prevista per somme erogate ad intervalli mensili (come lo stipendio). La giurisprudenza ha anche affermato che il termine di prescrizione decennale decorre anche durante lo svolgimento del rapporto di lavoro e non occorre dunque aspettare la fine del rapporto per far partire le lancette dell’orologio.

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Recupero dell’indebito retributivo: le modalità

Un altro tema importante attiene alle modalità con cui il datore di lavoro deve porre in essere il recupero di quanto indebitamente erogato al dipendente. E’

evidente che se questa somma fosse ingente, infatti, un recupero troppo concentrato nel tempo creerebbe grossi problemi al dipendente che si vedrebbe fortemente ridotto lo stipendio.

Sotto questo profilo si applicano le regole generali previste dalla legge per la pignorabilità dello stipendio. Da ciò deriva che il datore di lavoro non è autorizzato ad effettuare delle trattenute sui successivi stipendi, a titolo di recupero di quanto erogato in eccesso, per somme che superano un quinto dello stipendi ossia, il 20% dell’assegno retributivo mensile.

Anche nell’ottica della correttezza e della buona fede contrattuale, è evidente che un errore commesso dal datore di lavoro non può risolversi in un forte disagio per il dipendente e, dunque, al di là del limite del 20%, il datore di lavoro dovrà scegliere delle modalità di recupero delle somme che consentano di ridurre al minimo il disagio per il lavoratore, anche considerando la situazione specifica del lavoratore.

Somme erogate in eccesso con continuità:

vanno rimborsate?

Abbiamo chiarito che i soldi erogati in eccesso dal datore di lavoro vanno restituiti, a meno che non siano decorsi dieci anni e si sia dunque prescritto il credito dell’azienda. Inoltre, abbiamo visto che il recupero deve essere effettuato in modo corretto, senza aggravare troppo il dipendente.

Ora dobbiamo chiederci, però, se le somme date in eccesso devono sempre essere restituite.

In particolare, questa domanda si pone in quei casi in cui le somme erogate in eccesso non sono un incidente di percorso, ma la normalità. L’azienda, in altre parole, non si sbaglia un mese a calcolare la busta paga ma, con continuità, eroga al dipendente una retribuzione superiore a quella pattuita.

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In questi casi si consolida nel dipendente il legittimo affidamento ad una retribuzione maggiore del dovuto. E’ come se il datore di lavoro avesse deciso di aumentare lo stipendio del dipendente senza comunicarlo, versando mese per mese un assegno più pesante.

In questi casi, la Cassazione cambia la propria posizione, sempre a favore del diritto al recupero dell’indebito retributivo, ed assume un’attitudine favorevole alle r a g i o n i d e l l a v o r a t o r e . C i ò i n q u a n t o , s e c o n d o l a C o r t e [ 1 ] l a corresponsione continuativa di un assegno al dipendente è generalmente sufficiente a farlo considerare, salvo prova contraria, come un elemento della retribuzione.

In parole semplici, se mi dai sempre 1.200 euro al mese, anche se avevamo pattuito 1.000 euro al mese, io mi convinco che mi hai aumentato lo stipendio di 200 euro al mese e questa somma diventa un pezzo della retribuzione. In questi casi, la somma non costituisce un indebito retributivo, in quanto entra a far parte dello stipendio, e non deve essere dunque restituita.

Non solo. Di questa somma occorre tenere conto per il calcolo di tutte quelle altre somme che prendono a riferimento la retribuzione mensile (i cosiddetti istituti retributivi riflessi). Si pensi al trattamento di fine rapporto, al calcolo dei ratei di tredicesima e quattordicesima mensilità, all’indennità sostitutiva del preavviso, all’indennità in caso di licenziamento illegittimo, etc.

E’ il datore di lavoro, in questo caso, a dover dimostrare l’insussistenza di una ulteriore voce retributiva. Ciò può avvenire, ad esempio, dimostrando di aver commesso un mero errore.

Note

[1] Cass. n. 22387 del 13.09.2018. Autore immagine: 123rf com.

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