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Erminio Risso, Laborintus di Edoardo Sanguineti. Testo e commento, Lecce, Manni, 2006, pp. 326.

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, Laborintus di Edoardo Sanguineti. Testo e commento, Lecce, Manni, 2006, pp. 326.

Nel 1961, Alfredo Giuliani apponeva una noticina al termine della sua Introduzione al- l’antologia I Novissimi in cui, mentre manifesta- va la sua gratitudine a Elio Pagliarani, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti e Antonio Por- ta per avergli fornito oralmente o per iscritto la materia necessaria alla redazione delle note ai testi, si scusava con il lettore del fatto stesso di averle redatte, dubitando che potesse gradire di essere messo sull’avviso «con sommarie para- frasi, precisazioni di fatti e sparsi cenni stilisti- ci», tanto da chiedersi: «Proverà interesse a im- maginare altri commenti?».

Se l’imbarazzo, più o meno simulato per captatio benevolentiae, di Giuliani nel presenta- re testi annotati ha soprattutto a che fare con la storia della lettura della poesia contemporanea, ritenuta ormai, in tempi di verso libero e di ab- bandono della tradizionale separatezza del codi- ce poetico, comprensibile, la speranza, espres- sa in forma interrogativa, che altri lettori si sen- tissero sollecitati al commento non si è rivelata vana. Nel corso del secondo Novecento, studiosi di diversa formazione, come Fausto Curi, Niva Lorenzini, Ciro Vitiello, Elisabetta Baccarani, Sabrina Stroppa hanno infatti puntato la loro attenzione sul testo più rappresentativo di quel- la stagione, Laborintus di Edoardo Sanguineti, affrontandolo in maniera complessiva o trasce- gliendone alcuni testi o aspetti. Solo ora, però, a cinquant’anni di distanza dalla sua uscita nel- la collana “Oggetto e simbolo” diretta da Ance- schi, presso l’editore Magenta di Varese. l’ogget- to più oscuro del Novecento poetico italiano tro-

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va il suo primo puntuale comentum nello straor- dinario lavoro esegetico compiuto da Erminio Risso, che ha condotto un’edizione commenta- ta di Laborintus secondo i canoni del “classico”:

una densa introduzione che sistematizza quan- to già acquisito dalla critica e propone i risulta- ti, per larga parte inediti, di una lunga e perso- nale ricerca, l’adozione di un criterio filologico per la redazione dei testi, la stesura di cappelli introduttivi e note esplicative per ciascun testo.

Composto in due grandi fasi di attività poe- tica, collocate agli estremi di un arco tempora- le di tre anni e mezzo - da gennaio a luglio 1951 (l’anno della «grande monomania», sez. 4.) e da ottobre 1953 a luglio 1954, con una pausa di quasi due anni, interrotta in due sole occasio- ni, a maggio e novembre del ’52, per la stesura rispettivamente della sez. 16 e della 17 -, Labo- rintus riunisce 27 sezioni (cioè 33, per la caba- la…) che si danno nel contempo come insieme organico e sequenza differenziata di scritture e posizioni poetiche, dove le situazioni narrative, che pure sono presenti e che mantengono una certa riconoscibilità, tendono ad esaurirsi nella misura della singola sezione. Ne consegue che la definizione di “poemetto” per un’opera che, fin dal titolo rubato all’Ars poetica di Everardus Alemannus, elegge la struttura archetipica del labirinto a simbolo del caos, della complicazione della realtà sia esterna, del mondo, sia interna, del soggetto, risulta un poco fuorviante.

Dal punto di vista della fabula, se di fabu- la si può parlare a proposito di un’opera come Laborintus, tre grandi figure archetipali, Las- zo Varga, proiezione dell’io, del soggetto, Ellie, l’Anima junghiana ovvero l’immagine femmini- le che è in ogni uomo e che simboleggia la par- te erotica, e Ruben, l’aiutante dell’io ma anche 1’Animus junghiano ovvero la parte raziona- le, vivono, sullo sfondo di una geografia lunare

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del tutto nominale, esperienze primarie media- te dalle iconografie dell’immaginario alchemico, che conducono verso una dolorosa e travaglia- ta venuta alla luce, per via linguistica («questo linguaggio che partorisce» sez. 10), del rimosso della cultura europea. Questo poderoso movi- mento di emersione, di cui Laborintus si fa por- tatore, nasce, come dirà Sanguineti nell’intervi- sta rilasciata a Fabio Gambaro, da una reazio- ne di insofferenza anarchica nei riguardi di un tessuto culturale sentito come largamente ina- deguato alle esigenze storiche. I primi anni Cin- quanta, infatti, si presentavano agli intellettua- li più avveduti come il compimento di un’epoca iniziata, come aveva rilevato Savinio nella sua Fine dei modelli del 1947, quarant’anni prima del 1900: un periodo di stanchezza su cui San- guineti aveva insistito anche in alcuni saggi cri- tici di quegli anni come Da Gozzano a Monta- le (1954), dove il presente è definito come un

«tempo stanco e scarsamente operante […] tem- po che segna in ogni caso una scansione, un ar- resto», o come Poetica e poesia di Soffici (1954), in cui la scarsa attenzione all’opera del fiorenti- no è imputata «alla più stanca vita presente del- le nostre lettere, della nostra poesia». La pulsio- ne anarchica, di rivolta, di volontà di rovescia- mento dei modelli che circolava alla metà del XX secolo non soltanto in Europa, specie nel- la pittura, con l’espressionismo astratto, e nel- la musica, con 1’atonalità, si traduce in poesia nel rifiuto reciso della sua consolidata concezio- ne immaginativa e impressionistica, da correg- gersi o con massicce dosi di concettualizzazione (anche lessicale, come è il caso degli astratti in -ione, -zione) o di caotico accumulo di immagini (come nella sez. 8). nonché nel rifiuto dell’ege- monia di un modello lirico che si pone come co- dice separato e selettivo, da far esplodere per via antilirica e antipoetica attraverso il rimescola-

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mento dei linguaggi tecnici, specie quello psica- nalitico, e delle lingue antiche e moderne.

Ben consapevole che, teste Stalin, «le con- dizioni esterne è evidente esistono realmente»

(sez. 1), vera e propria epigrafe ideologica di La- borintus, Risso dedica il primo dei 17 paragra- fi che compongono il denso saggio introduttivo, Anarchia e complicazione, alla ricostruzione del- l’hic et nunc, del contesto culturale e, in partico- lare, del clima post-atomico, in cui l’opera viene concepita, sottolineando come, dopo Hiroshima e Nagasaki, il concetto tradizionale di “apocalis- se”, millenaristicamente inteso, si sia arricchito di una nuova e ancor più angosciosa connotazio- ne: quella della distruzione totale, non più preve- dibile e al contempo estremamente possibile.

Nei paragrafi successivi dell’introduzione, vengono trattate da Risso tutte le questioni fon- damentali che ruotano attorno a Laborintus: dal problema della genesi del testo, di cui si segnala la pubblicazione di una decina di sezioni sulla rivista fiorentina «Numero» tra il 1951 e il 1953, a quello delle scelte formali, che portano al par- ticolare verso lungo sanguinetiano, strutturato per giustapposizione di tasselli; dal ruolo del- la dimensione onirica, della psicanalisi, del sur- realismo (e dell’immaginario filmico bunuelia- no) all’importanza di Artaud per il «modo di met- tere in scena il corpo, frammentato e separato, ridotto ai singoli organi» (pp. 25-26); dall’impie- go del linguaggio medico-clinico nella sua ac- cezione propriamente anatomico-corporea e in tutta la sua dimensione diafasica, al mistilin- guismo “grandangolare” di un’opera che spezza 1’uniglossia per accogliere greco, latino, specie medievale, francese, tedesco e inglese; dalla tra- sposizione del montaggio cinematografico nella scrittura, quale nuovo modello per la sintassi, al ricorso al realismo e all’allegoria in funzione antinaturalistica.

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A sua volta, il commento ai singoli testi, che tende a darsi come microsaggio corredato di brevi note, apre molteplici direzioni di inda- gine, riprendendo e approfondendo, oltre ai nu- merosi percorsi originali anche le segnalazioni della critica precedente. Così, sulla scorta del- le indicazioni di Vitiello, Risso sottolinea il ruo- lo dell’alchimia, mediata costantemente dallo Jung di Psicologia e alchimia (1944) che Sangui- neti aveva letto nella traduzione italiana pubbli- cata da Astrolabio nel 1950, e che viene da lui intesa come repertorio di simboli, come enciclo- pedia dell’immaginario collettivo, tanto che, in un scritto datato 1977 e raccolto nel Giornali- no secondo, dal titolo La repressione simbolica, dirà che Jung funziona da «enorme “ritorno del rimosso” […]: dall’alchimia all’astrologia, dalla mistica alla “Synchronizitàt”, dallo yoga ai man- dala, […] agli Ufo»; e del testo di Jung importa- no molto le tavole illustrate che hanno ispirato alcune situazioni laborintiche, secondo un pro- toprocedimento ecfrastico che avrà poi un note- vole sviluppo in Sanguineti, dal Giuoco dell’Oca fino alla sezione Ecfrasi di Senzatitolo. Ancora, attraverso cappelli introduttivi e note, si deli- nea chiaramente e in tutta la sua complessità il peso di Dante, non solo riletto alla luce di Eliot e Pound per un ripensamento del plurilinguismo in chiave mistilinguistica, ma assunto come pa- radigma di una poesia iperintellettuale; emerge il ruolo capitale di Freud scopritore dell’incon- scio e teorico della natura composita dell’io («io sono una moltitudine». sez. 2). nonché della ten- sione tra ciò che emerge alla coscienza e ciò che è rimosso ma che deve emergere affinché 1’io, la coscienza, si riappropri di una parte alienata di sé; infine, si intravede la presenza di Marx, ri- chiamata nella figura di Moneybags (sez. 18).

Oltre a passare al vaglio dei testi quanto gli studiosi avevano sparsamente individuato circa

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le presenze culturali di Laborintus – e non sono poche le volte in cui viene precisato, circostan- ziato, approfondito, corretto quanto asserito, ad esempio, dal primo commentatore di Laborin- tus, il Giuliani dei Novissimi –, Risso si spinge molto più in là, andando a scovare una messe di intarsi meno visibili, di difficile attribuzione e spesso francamente inattesi, capaci di illumi- nare i profondi crateri del tessuto tellurico del testo: valgano, come esempi tra i molti, la sco- perta di Le Corbusier dietro agli «objets à réac- tion poétique» della sez. 4 oppure l’individua- zione della rilevantissima presenza dell’Estratto dell’Arte Poetica di Aristotele di Metastasio nella sez. 23, fonte che lo stesso Risso aveva già se- gnalato nel suo saggio Un nuovo fabbro per nuo- ve questioni di fabbricazione. Cinque bagattelle per Laborintus, apparso nel primo numero del 2000 di «Poetiche» (ma si veda anche il saggio Goldoni e Sanguineti: travestimenti, presenze la- birintiche. La sez. 23 di Laborintus), uscito su

«Problemi di critica goldoniana» del 2005.

Di particolare interesse è anche un vero e proprio studio sulla citazione, o meglio sul- la “strategia della citazione” sanguinetiana, rin- tracciabile nelle note alle sezioni, dove il trat- tamento cui Sanguineti sottopone i materiali linguistici provenienti da altri testi si conden- sa nei verbi laborintizzare e sanguinetizzare, co- niati per indicare una prassi scrittoria che si at- tua nei modi della ricontestualizzazione e della risemantizzazione dell’inserto: la citazione non si dà come prelievo chirurgico di una struttura linguistica di cui vengono conservate ortogra- fia e sintassi, ma come brano, o meglio, bran- dello spaesato, che trova accoglienza nel testo sanguinetiano in virtù di un’avvenuta assimi- lazione, che non è adesione, tanto che l’elenco delle marche autoriali riconoscibili non coincide con la costellazione delle auctoritates del poeta,

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semmai con le esperienze e le occasioni di lettu- ra depositatesi nell’io necessariamente compo- sto e frammentato del suo autore.

Opera consapevolmente costruita su una straordinaria concentrazione simbolica e frutto della stratificazione dei molteplici, ma mai infi- niti, significati (i «molti sensi estesi» della sez.

5), Laborintus invocava lettori, «analizzatori e analizzatrici», fin dalla prima sezione; ma, no- nostante i fondamentali suggerimenti interpre- tativi forniti da Sanguineti stesso in più occa- sioni e i contributi della critica, continuava a rimanere ancora, dantescamente, una «vivan- da» dalla ragione «faticosa e forte» che necessi- tava dell’accompagnamento di quel pane «san- za lo quale […] non potrebbe essere mangiata».

Il commento di Risso ci offre una chiave sicu- ra per la comprensione dell’opera e i discorsi su Laborintus, lungi dall’essere chiusi, possono ora riaprirsi sotto una luce novissima.

Manuela Manfredini

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