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IL GABINETTO DEL DR. ACKELMANN. Daniele Messina

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Academic year: 2022

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IL GABINETTO DEL DR. ACKELMANN Daniele Messina

15.9.1992

Ricevo una lettera dell'ufficio di collocamento (ted.: Arbeitsamt): mi devo presentare all'ufficio medico del comune, il giorno 2 ottobre, alle ore 8 per sottopormi a regolare visita medica presso il Dr. Med. L. Ackelmann. In caso contrario si minacciano le sanzioni previste dalla legge, paragrafo tal dei tali, comportanti la sospensione immediata del mio sussidio di disoccupazione.

Mi guarderò bene dal mancare. Quei 900 marchi al mese saranno pochi, ma ne ho bisogno per sopravvivere. Oramai sono disoccupato da quattro anni e, vista la congiuntura economica, non ho molte speranze per il futuro. Per fortuna mi hanno riconosciuto l'invalidità sul lavoro, il che mi da diritto a ricevere gratis una riqualificazione professionale. La visita medica a cui mi hanno invitato non è altro che routine: una semplice tappa del necessario iter burocratico.

Inizio subito a tirar fuori tutti i documenti richiesti: il certificato d'invalidità, i formulari dell'assicurazione, i reperti medici, le diagnosi e gli attestati di servizio; raccolgo tutto in una cartella che metto nel cassetto centrale della scrivania in attesa del grande giorno.

2.10.1992.

Bing! Alle ore 7 e 58 (la puntualità prussiana vuol dire due minuti prima) entro in uno stanzone ampio, con pochi strumenti medici, due tavoli ed una segretaria decentemente seduta dietro la macchina da scrivere. Il Dr. Ackelmann è un anziano signore in camice bianco che mi pare d'aver già visto da qualche parte.

«S'accomodi, prego», mi fa con aria ufficiale.

Io mi siedo e dispongo ordinatamente sul tavolo tutti i certificati che mi sono portato appresso. Lui non li degna d'uno sguardo e mi domanda a bruciapelo:

«Da che anno a che anno è stato alle scuole elementari?».

Io cado dalle nuvole. E cosa c'entra con la visita medica? «Non me lo ricordo più con precisione. Se me l'avessero detto prima. Le avrei portato volentieri i certificati scolastici», faccio notare. «Ma nessun internista se n'è mai interessato».

Lui non risponde alle mie obiezioni ed incalza: «Mi dia delle date approssimative».

«Ecco, mi pare d'aver incominciato la prima classe nel 1954 e dovrei aver finito con la licenza elementare, credo nel 1960. Ma non ne sono sicuro».

«E quanto dura la scuola elementare in Italia?».

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«Cinque anni, di questo sono sicuro».

Valli a capire questi burocrati, mi dico mentre lui fa dei calcoli, ma è meglio non fare troppe storie.

«Lei, quindi, ha impiegato sei anni per compiere le elementari, Lei doveva essere un bambino mentalmente in difetto».

«Ma niente affatto, io ho impiegato i miei normali cinque anni e non ero certo peggio degli altri» controbatto «se le risultano sei anni è perché non mi sono ricordato le date giuste».

Ma Ackelmann resta zitto guardandomi scetticamente. lo sono perplesso: non ho mai visto un medico comportarsi così. Non capisco perchè. Adesso però sto in guardia, e bado a calcolare le date giuste quando lui passa a domandarmi anche delle scuole medie e del liceo. Al termine gli ripropongo gentilmente la lettura dei miei certificati, sperando che finalmente dia inizio alla visita medica.

Lui mi spedisce nella cabina a spogliarmi, ed intanto detta qualcosa alla segretaria.

Appena esco lo trovo in agguato: «Mi dia il braccio. Le misuro la pressione».

Gli offro il sinistro perché si trova dalla sua parte.

«Ma no, le ho detto il braccio destro, non ha capito?»

Reagisco confuso e gli chiedo pure scusa. Solo più tardi mi verrà in mente che lui non m'aveva precisato quale braccio porgergli. Scommetto che se gli avessi porto il destro, mi avrebbe rimproverato che dovevo dargli il sinistro. Del resto, non credo che la pressione del sangue sia tanto diversa sui due lati del corpo! Dopodiché Ackelmann mi misura il peso e l'altezza. Mi ausculta il cuore con lo stetoscopio, mi fa respirare profondamente, mi prova il riflesso tendineo col martelletto; più tardi mi interrogai sul perché il Dr.

Ackelmann portasse il camice bianco, visto che le analisi, cui sottoponeva i suoi pazienti, erano così banali.

«Cosa Le impedisce di lavorare?» mi fa scrutandomi con aria di profonda autorevolezza.

«Può leggerlo sul certificato d'inabilita dell`ufficio d'assistenza. Si tratta solo di un'inabilità parziale che non mi impedisce altre attività: al computer, per esempio».

«Lei vuole imparare a programmare?››

«Non proprio. Uso il mio computer per scrivere articoli che escono sporadicamente su diversi giornali. Siccome i miei datori di lavoro sono contenti, vorrei approfondire ulteriormente questa direzione»

«Mi occorre un giudizio psicologico su di Lei. Non si preoccupi, questa visita non la dovrà pagare lei di tasca sua», mi fa trapassandomi con uno sguardo di profondo disprezzo, «gliela paga il comune».

Non lo sopporto e m'arrischio a rispondergli: «È ovvio, dato che ho versato regolarmente tutti i contributi di tasca mia, quando avevo un lavoro regolare».

«Si, conosco quest'argomento», mi fa con aria annoiata. E mi indica la cabina.

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Non credo d'aver lasciato la porticina socchiusa di proposito, dev'essere stato un caso.

Fatto sta che mentre mi sto rivestendo sento Ackelmann dettare alla segretaria:

«ll paziente cerca di nascondere dietro ad oscuri disturbi la sua incapacità professionale».

Questo è troppo. Questo non lo accetto. Esco dalla cabina: «Ein Moment! Non sono d'accordo! Lei ha asserito una cosa completamente falsa su di me! Si vada a riguardare tutta la documentazione che le ho portato: è firmata dal Dr. Grimm, che e lo specialista più quotato della città. Come si permette di metterla in dubbio?»

«Quello che ho dettato è un carteggio interno. Lei non deve preoccuparsene», mi fa seccamente. Ma non m'incanta. Perche il camice bianco lo so portare anch'io, all'università, quando veramente mi serve.

«Ed invece io me ne preoccupo perché mi riguarda personalmente. Lei non può negarlo, ho sentito bene dalla cabina!» dico indicando la porta socchiusa. Ackelmann si rende conto della piccola panne incorsa nella procedura. lo finisco di riabbottonarmi la camicia con le dita tremanti. Devo cercare di restare calmo, mi ripeto. I miei segnali d'allarme interni stanno squillando, e in tali circostanze cerco naturalmente di battere in ritirata. Ma, ogni qual volta inizio la manovra, squillano ancora più forte. Devo quindi restare ostinatamente al mio posto, anche se preferirei essere a qualche chilometro di distanza. Senza rendermene conto sto perdendo ogni inibizione; il che in Germania è un grosso svantaggio, tranne che per i naziskin.

«La visita è finita. Può andarsene», mi fa Ackelmann indicandomi seccamente la porta.

«Mi dispiace, ma non me ne posso andare fintantoché non sarà chiarita questa faccenda»

«Ci sono altri pazienti fuori! Non ho più tempo per lei!»

«Allora si affretti a chiarirmi quelle assurdità che ha dettato», replico facendo qualche passo verso la segretaria per sbirciare sulla macchina da scrivere. Ma lei è lesta a sfilare il foglio.

«Non le hanno insegnato a rispettare le regole della Demokratie, al Suo paese?›› sibila Ackelmann frapponendosi.

«Ma certo, sono proprio le regole della democrazia che mi garantiscono il diritto di prendere in visione gli atti. Non le conosce?››

Vista la mia ostinazione, Ackelmann, sempre più irritato, mi ordina di mostrargli la lingua.

«Ma come. La visita non era finita?››

«Mi mostri la lingua, faccia come le dico!»

«E va bene. Tanto mi fa piacere mostrargliela. Eccola!»

«La tiri più fuori. Ancora di più!»

«Hllllll...»

«Ancora più fuori!»

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«Di più non ce ne ho».

Ho capito che sta cercando di angariarmi (ted.: shikanieren) secondo l'usanza dei sergenti della Bundeswehr, in modo che alla fine ti senti uno straccio, un mucchio di merda, e non hai più voglia di stare a contestare. Me l'hanno raccontato i miei compagni di studio (ted.: Kommilitonen). Ma io che tedesco non sono, e men che mai una recluta, lo fronteggio strafottente, con le braccia sui fianchi, facendogli una bella linguaccia. La segretaria ride di nascosto.

Ackelmann si tira indietro e mi guarda rabbuiato. Poi torna alla carica. Ne va della sua autorità.

«Lei si rifiuta di fare come le ho detto?».

«Ho fatto del mio meglio per accontentarla, ma di che si meraviglia? Dopotutto è lei a reputarmi un incapace...».

«Allora cercherò d'aiutarla», mi fa con tono comprensivo, «s`immagini d'avere davanti a sé Willy Brandt...».

«Come, Prego? ...».

«Non conosce l'ex-cancelliere federale Willy Brandt?»

«Ah, lei dice quello che s'è inginocchiato davanti al monumento ai caduti di Varsavia?

Ed ha commosso tutto il mondo?››.

Ma Ackelmann non ne pare altrettanto entusiasta: «Bene, si concentri intensamente, sempre più intensamente su Willy Brandt, e vedrà che la lingua la tirerà fuori per intero».

«Guardi, funzionerebbe molto meglio se davanti mi vedessi Franz Josef Strauss», controbatto pronto.

«Che è morto! Lei ha oltraggiato la memoria d'un defunto!», mi rinfaccia con l'aria di un moralista profondamente risentito.

«E lei, allora, non oltraggia un moribondo? Si dice che Brandt sia gravemente malato e non gli resti molto da vivere».

«Gott sei Dank! Così ci toglierà finalmente il peso della sua presenza».

«Ah, ma che bello sentire questo dalle labbra d'un medico! Che bello, proprio da uno che ha prestato il giuramento d'lppocrate!».

La segretaria è allibita.

«Adesso basta! Tiri fuori quella maledetta lingua, o gliela tiro io con le tenaglie!».

«Ah, pure le tenaglie, adesso! ...Ma che cosa si crede Lei, di stare ancora ad Auschwitz?».

Mi si rivolta come una Vipera: «Umvermschaemt! Spudorato!» grida afferrandomi per il bavero, «Via, fuori di qua, raus!» mi spinge verso la porta, mi caccia via in malo modo:

«Non la voglio mai più rivedere!!».

Mi dispiace che le cose siano andate così. Mi ricordo che da bambino mia madre mi ammoniva sempre: «Ah, quella lingua un giorno ti caccerà nei guai». Ma non mi pento.

Io ero andato con intenzioni pacifiche: sono stato aggredito a tradimento ed ho risposto

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colpo su colpo, Frase storica: «Dalle ore sei viene risposto al fuoco» (ted.: Ab sechs Uhr wird zurueckgeschossen)... Rido sarcasticamente: ancora oggi fa parte delle “buone tradizioni" locali, dare moralisticamente la colpa a chi replica agli attacchi, anziché all'attaccante, soprattutto se il primo è straniero.

Improvvisamente mi ricordo dove avevo già visto il Dr. Ackelmann: in un film di Ingmar Bergman. Questi grandi artisti dicono sempre la verità! Credo che il suo personaggio si chiamasse - se ben ricordo - Dr. Vergerius ed il film s'intitolava L'uovo del sergente. Lo vidi appena uscito, oltre dieci anni fa. Fece un breve giro e scomparve.

Quanto lo rivedrei volentieri! E' ambientato nella Germania degli anni '20, ma le atmosfere, le vicende e i personaggi ricordano tanto quelli degli anni '90.

E così, per trovare un po' di conforto alla mia amarezza, mi reco nella videoteca più fornita della città. Constato subito che quel film di Bergman nessuno lo conosce: ma esiste assolutamente (ted.: überhaupt) mi chiedono? Ma sì, che esiste überhaupt!. Allora guardiamo sull'enciclopedia cinematografica e troviamo Das Schlangenei, I977. Una breve nota critica avverte trattarsi d'un filmetto di scarso valore. Il commesso mi spiega che merce del genere non è reperibile. Pazienza, dovevo saperlo: pure del film Alexander Newskzij di Eiscnstein non si trova una copia a rovistare per tutta la Germania. Anche quello dubitano che sia mai esistito. Uberhaupt.

5.10.1992.

Mi reco dal mio medico internista per raccontargli quello che è successo; ometto solo il battibecco finale per non ferire i suoi eventuali sentimenti nazionali. Non si sa mai.

Il Dr. Grimm è una persona mite e gentile, mi ha sempre trattato con molto rispetto ed io lo ricambio.

«È incredibile», mi sfogo con lui, «dalla fine del medioevo un medico è tenuto ad appoggiare le sue diagnosi con prove scientifiche. Se lei fa l'asserzione che il mio fegato è malato, può dimostrarla in base a procedimenti analitici ben precisi descritti nella letteratura internazionale. Ma il Dr. Ackelmann, tutto quello che ha fatto è stato misurarmi l'altezza fisica, il peso. La pressione del sangue, il riflesso tendineo ed il senso dell'equilibrio. Ed inoltre m'ha guardato la lingua. È possibile diagnosticare da questi reperti che il paziente è un parassita sociale?».

A voce bassa il Dr. Grimm mi fa intendere che il suo collega gode d'una pessima fama nell'ambiente perche sfrutta senza scrupoli la posizione di potere da cui e inamovibile.

E' sempre stato un viscerale xenofobo (ted.: Auslaenderfeind), ma in passato dissimulava tutto dietro una facciata perbene.

Poi, da un paio d'anni a questa parte, ha perso ogni ritegno. Le sue vittime sono numerosissime, e nessuno può farci nulla.

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«Da due anni a questa parte?» osservo io «vuol dire dal giorno della riunificazione tedesca?....».

Silenzio.

Il Dr. Grimm è davvero una brava persona, una dimostrazione vivente che non tutti i tedeschi sono come li ha mostrati Bergman, mi dico tornando a casa in bicicletta; il guaio e che quanto più sali nella gerarchia, tanto più te li trovi davanti, quei tipi lì. Mi ricordo la conferenza d'un sociologo dell'Università di Magonza, qualche anno fa, sugli occulti meccanismi di cooptazione nella societa

tedesca...

7.10.1992

Hannover. Sono venuto per tenere una conferenza su una regione italiana presso un'istituzione culturale locale. Al termine gli organizzatori m'invitano in un ottimo ristorante di Herrenhausen; c'intratteniamo piacevolmente, poi facciamo un giro notturno del centro e verso le 23 ci congediamo davanti al mio hotel.

A letto riaffiorano i ricordi sgradevoli dell'Arbeitsamt, mi turbano, mi angosciano. Ho paura che mi tolgano il sussidio di disoccupazione, non so come farò ad andare avanti e che direzione prenderà il mio futuro. Ho tetri presentimenti. Mi rivolto qua e là senza riuscire a prender sonno.

Il giorno appresso, verso le due del pomeriggio, m'addormento al volante della mia auto che esce dall'autostrada a 130 all'ora. Fortuna vuole che in quel punto non ci sia il guardrail né la massicciata, ma un bel praticello verde allo stesso livello della carreggiata.

Mi desto di soprassalto e vedo che sto filando dritto contro un segnale stradale. Sterzo disperatamente, ma non posso evitare che l'urto mi prenda tutta la fiancata, deformandola con un danno che poi il carrozziere valutera non inferiore ai settemila marchi.

Il brutto è che non ho l'assicurazione del corpo auto, poiché da due anni a questa parte le società tedesche si rifiutano d'assicurare gli stranieri, o lo fanno con premi maggiorati di oltre il 100%. Ho appreso dallo «Spiegel» che i loro manager hanno classificato tutti gli stranieri nelle categorie a rischio a seconda della nazionalità, chi più chi meno. Ai tedeschi invece, che notoriamente guidano così bene, a loro concedono ogni polizza, anche quando si tratta di giovinastri scapestrati.

Comunque non mi lamento, dato che nell'urto non ho riportato ferite o contusioni d'alcun genere, proprio nulla. Potevo finire ben diversamente! Un'altra fortuna insperata:

nel frattempo non è passata alcuna vettura della Polizei. Altrimenti mi toglievano la patente, e per riaverla dovevo faticare il decuplo d'un appartenente alla razza germanica.

Così riporto l'auto sull'asfalto e me la svigno alla chetichella.

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12.10.1992

Helmut, vecchio amico e Kommiliton, oggi è un awocato di successo. Purtroppo il suo studio è lontano trecento e passa chilometri, e così la nostra comunicazione non è ottimale.

Al telefono si congratula con me per come son riuscito a districarmi con l'incidente stradale: è improbabile, mi dice, che la Polizei venga a darti noie: «per quel che riguarda il dottore dell'Arbeitsamt è evidente che ha oltrepassato il limite della sua competenza emettendo a tuo danno dei giudizi negativi privi di serio fondamento scientifico».

«Allora posso citarlo per danni morali e materiali.».

«In linea di principio potresti; ma bada che ci sono diversi ostacoli burocratici messi ad hoc. lo ti dico che dietro tutto questo c'è del metodo. Per prima cosa tu devi reclamare il tuo diritto ad avere visione degli atti. Non possono negartelo, ci sono sentenze ben precise a proposito».

«Buono a sapersi. Per me la burocrazia tedesca è un mondo straniero al quadrato. Ma domani vado dall'impiegato dell'Arbeitsamt e lo costringo a leggermi gli atti. Ho un'idea:

mi porto appresso un magnetofono nascosto e registro il nostro colloquio. Così l'inchiodo alle sue dichiarazioni».

«L'idea non è tanto buona. Per quanto mi riguarda non hai bisogno di farmi ascoltare alcun nastro, perché ti credo. Però guardati dal farlo ascoltare ad altri, perché registrazioni di straforo negli uffici pubblici sono contrarie alla legge. Se ti scoprissero ti ritroveresti nella cucina del diavolo (in ted.: in der Teufelskueche)».

Tutto chiaro. Appena finita la telefonata prendo la cassetta che tenevo pronta e ci registro la suite dei Racconti di Hoffmann.

13.10.1992

«Desidero farle notare che mancano meno di dieci minuti a mezzogiorno, e c'è altra gente fuori che aspetta».

«E che ci vuole per leggermi gli atti? Massimo due minuti. Eh via, su, mi faccia il piacere!»

L'impiegato acconsente di malavoglia, quasi cedesse al capriccio d'un bambino viziato.

Estrae i miei atti dall'archivio ma poi non me li legge per intero, capisco che qua e là salta delle frasi imbarazzanti.

«Il Gutachten dice che lei sembra più anziano della sua età e che il suo aspetto dà nell'occhio...». Qui omette qualche frase, forse essa pure formulata in gergo poliziesco (ted.: aufallen = dare nell'occhio), «e che, discutendo con lei, risulta impossibile portarla sull'essenziale, ma che lei divaga e si disperde in cose irrilevanti, che fornisce risposte confuse, che ha delle idee fuori della realtà riguardo al suo futuro. Che mostra una grave inerzia nel seguire il filo dei pensieri. Le manca la capacità di concentrarsi, l'agilità mentale e la capacità d'adattamento.... (nuovo omissis dell'impiegato). Conclusione: Herr

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... è idoneo per lavori manuali non pesanti e non ha alcuna prospettiva nei corsi di riqualificazione professionale».

Sono trasecolato. Chiedo di esaminare io stesso quegli atti.

«Spiacente, non si può. Sono atti interni».

«Ma contengono cose che mi riguardano!»

Mi mostra da lontano un segno su un quadratino: «Qui è segnato che gli atti non possono essere mostrati al paziente».

«Ma queste sono solo regole burocratiche e non possono privarmi d'un mio sacrosanto diritto. Io lo so che esistono precise sentenze del tribunale a questo riguardo››.

«Ne sono a conoscenza e so che prevedono delle eccezioni. Io non posso prendere la responsabilità di mostrarle questi atti per la sua stessa sicurezza. Qui sta scritto che c'è il pericolo serio che lei si suicidi dopo averli letti».

Trasecolo completamente.

«Ma quando mai?! ....›› Scoppio a ridere: «Questa pure! Ma ma è roba da...Non ha alcun senso! E quando mai in vita mia ho tentato, ma quando mai ho esternato propositi...?! E meno che mai a quel Doktor del... che so io!››.

L'impiegato osserva freddo e distanziato; probabilmente vede nelle mie escandescenze una prova della labilità della mia personalità. Allora un po' mi contengo. Gli chiedo se questa, secondo lui, sia la diagnosi d'un internista: da quando in qua la fisiologia ha a che vedere con le stime psicologiche? Non sapevo d'avere il “vizio assurdo”, e sarei proprio curioso di sapere con quale metodo scientifico lo avranno diagnosticato. Neanche l'impiegato lo sa, e m'invita a rivolgermi al Dr. Ackelmann per maggiori delucidazioni.

«Rivolgermi a quello? Piuttosto mi rivolgo all'avvocato››.

All'impiegato sfugge una gaia risata. Eh già, tanto lo sa bene che noi disoccupati non abbiamo denaro da investire in liti legali. Guarda l'orologio e mi chiede un piacere.

«Volentieri», rispondo. Mi sento obbligato.

«Socchiuda la porta un attimo e guardi se c'è ancora gente in attesa».

Eseguo: «Nessuno» Che nel frattempo si siano tutti suicidati? L'impiegato si rilassa ed accende una sigaretta.

Si giustifica: «Sa, ho avuto una giornata faticosa».

«La capisco. Anch'io››.

7.2.1993

Ad una festa di carnevale organizzata per i lavoratori italiani faccio la conoscenza con un'altra vittima del Dr. Ackelmann, essa pure con il bollo di deficiente congenito (non so se con quello di aspirante suicida). Bocciato: niente riqualificazione. Si chiama Liborio, ma preferisce raccontarmi la sua disavventura in tedesco perche è nato e cresciuto in Germania e l'italiano lo mastica a fatica.

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All'inizio è un po' reticente, si vergogna del suo risultato; ma quando vede che io racconto la mia esperienza senza peli sulla lingua, mi guarda meravigliato: «Anche Lei?››.

Gli ho proposto di darci del “tu”, ma lui si ostina con le forme di cortesia, perché soffre di un complesso d'inferiorità. E' uscito dalla scuola differenziale (ted.:

Sonderschule), ha ventotto anni, e prima lavorava come muratore in un'impresa di costruzioni. E' sopravvissuto per miracolo ad una caduta di cinque metri; dopo un paio di mesi d'ospedale, s'è ripreso lentamente, ma la colonna vertebrale non gli tornerà più a posto. Anche a lui hanno riconosciuto quanto meno invalidità possibile, ma sempre quel tanto che non basta per vivere.

Allora ha avanzato richiesta per ricevere un posto in un istituto per la riqualificazione professionale ed è stato inviato alla visita “di routine” dal Dr. Ackelmann, dove ha subito lo stesso trattamento a me ben noto. Lui, però, che non possiede alcun concetto di scientificità, s'è lasciato stordire dal carisma accademico e non ha trovato il modo d'opporsi. Senza nemmeno rendersene conto s'è lasciato menare per il naso ed alla fine, quando ha osato esprimere qualche rimostranza, s'è sentito rispondere: «Se non le piace come vanno le cose da noi, perché non fa ritorno al suo paese?››.

Povero Liborio! Con la poetica espressione “Suo paese” (ted.: Ihre Heimat), Herr Doktor intendeva quella località sperduta sull'altopiano solfifero siciliano dove lui è stato in vacanza, qualche volta, da bambino. Roba da mettersi a piangere dalla commozione.

8.5.1995

Son riuscito a scovare una copia-pirata del film di Bergman e mi sento realizzato come fra' Guglielmo di Baskerville quando mette le mani sul libro proibito del Maestro.

Una magra consolazione, dato che tutte le mie prospettive sono andate in fumo.

L'Arbeitsamt è riuscito finalmente a sospendermi il sussidio di disoccupazione ricorrendo ad un trucco mancino. Dal mio fascicolo sono scomparsi inspiegabilmente dei documenti importanti che avevo consegnato di persona alcuni mesi fa. E adesso loro mi rinfacciano che non glieli avrei mai portati.

Protestare e mostrare le fotocopie autenticate non è servito a nulla: infatti «le fotocopie dimostrano solo che i documenti sono stati redatti, non che siano stati consegnati».

Dietro tutto questo c'è del metodo, m'aveva avvertito Helmut.

Se adesso gettassi la spugna e me ne tornassi in Italia, farei esattamente quello che essi desiderano. Premierei la diligenza dei loro sforzi per sbarazzarsi degli stranieri. Son certo che saluterebbero la mia partenza col tono sospiroso d'una barcarola:

«Ah, che peccato (ted.: Ach, wie Schade!) non vederla mai più! Ma dopotutto Lei ha voluto così! Non è forse vero che ogni essere umano porta nel fondo del cuore, indelebile, la nostalgia del suo paese? Oh, quanto è bello che voi siate attaccati alla vostra Heimat, come noi alla nostra!»

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Magari metterebbero nella mia bisaccia una fettina di torta per scongiurare il pericolo che in patria diffonda brutte dicerie su di loro.

Daniele Messina (Mannheim – Germania) Premio Pietro Conti, I Edizione

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