C linica professionale
Studi Zancan · 1/2018 · 3
L
e professioni che operano nei servizi alle persone sono fortemente condizionate dalle molte richieste di standardizzazione, che negli ul- timi anni si sono concentrate su una strana visione della qualità. Si è pensato che la qualità potesse essere garantita dal controllo e dalla for- mattazione dei processi. È un’idea di qualità sistematicamente utilizza- ta nei processi produttivi di beni strumentali: devono essere tutti uguali a se stessi, devono funzionare tutti nello stesso modo, devono ridurre ai minimi termini ogni tipo di rischio per chi li produce e chi li usa. In questo modo si ottengono quantità industriali di copie dell’originale. Solo l’originale era un artefatto cioè fatto con tutta la cura necessaria per portarlo a standard di qualità di prodotto e di processo costruttivo. Il resto è risultato replicabile di questa strategia.L’accreditamento dei servizi alle persone ne ha tenuto conto fino al punto di rendere impossibile la possibilità stessa di essere servizio «con le persone», di fare servizi con le persone, valorizzando le loro capacità, così che «professionale e non professionale» possano incontrarsi e fare la differenza. È difficile accettare questa possibilità, perché tutto rischia di andare fuori controllo e chi opera nei servizi potrebbe non avere mai chiaro chi fa che cosa, in che tempi, con quali modalità.
La possibilità stessa di agire in condizioni di libera professione nelle organizzazioni di servizio, invece di dare migliori esiti ha comportato «prese in carico» che non si concludono mai, decisioni che non si prendono, servizi non sostenibili, networking fatto di tante relazioni e poche decisioni. Gli andamenti contrari a questa deriva hanno così facilmente legittimato il fare settoriale, prestazionistico, tecnicamente responsabile degli atti ma non degli esiti. Ha avuto buon gioco il lavoro per atti, procedure, messa in sicurezza delle responsabilità. Le conseguenze negative non hanno danneggiato solo i destinatari (le persone) ma l’idea stessa dell’agire pro- fessionale basato su gradi di libertà necessari per fare di più e meglio «per e con le persone».
Nel primo caso (per le persone) tutto rimane chiuso nel «logic model» fatto di pra- tiche che utilizzano gli input in modo razionale così che gli output siano coerenti e il costo efficacia resti dentro il perimetro della misurazione basata sul rapporto tra input e output.
Nel secondo caso, quello delle pratiche professionali che non accettano di ridursi
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Politiche e servizi alle persone
Editoriale
a erogazione di prestazioni (cioè con le persone), all’input organizzativo e professio- nale si aggiunge anche l’input non professionale (personale e sociale), non oneroso per l’organizzazione, con indici di efficienza che incorporano nel rapporto tra input e output la possibilità di ottimizzare gli esiti senza aumentare i costi. Si va cioè ben oltre la qualità procedurale e standardizzata, accettando i rischi di poter fare molto meglio e anche di sbagliare, ma non con errori sistemici come avviene oggi.
In passato per ridurre gli errori professionali si usava la supervisione, cioè un controllo interno, nativo dentro l’agire professionale e anche per questo non intru- sivo e vissuto in modo non penalizzante. Ma la supervisione è stata via via eliminata per paura dei suoi costi. Si possono cioè accettare i costi del fare tanto con pochi risultati ma non i costi più limitati del fare con esiti e vantaggi sociali che giustifica- no abbondantemente l’investimento.
È un investimento di medio e lungo periodo che non garantisce utili a breve, è investimento paziente che può dare rendimenti affidabili, grazie a sistemi di fiducia che mantengono quello che promettono. Investono nei legami tra chi offre e chi ri- ceve, remando insieme verso traguardi condivisi. È la differenza tra assistere, essere assistiti, concorrere al risultato. Ma serve clinica professionale, capace di accostarsi ai problemi, senza temerli e sedarli, maneggiandoli, valorizzando le capacità e le risorse di ogni persona. Se non si rischia non si ottiene di più, se non si condivide non si può fare la differenza e realizzare il passaggio dall’io al noi.
L’inverno del welfare sconta un deficit di professionalità, di clinica professionale, di qualità fredda e in certi casi gelida. Nasce da un’idea di standardizzazione che non appartiene alla natura, ma alla cultura. In natura il gelo dell’inverno protegge la vita e la fa riposare in attesa della primavera. Il passaggio dall’inverno alla primavera non è facile e immediato perché comporta una faticosa e difficile transizione. Per le gemme significa farsi strada in una natura che le mette alla prova fortificandole, così che i fiori e i frutti siano migliori e più abbondanti. Perché per le professioni dovrebbe essere più facile? Perché dovrebbero accontentarsi di storytelling su quello che fanno? Perché dovrebbero accontentarsi di qualità di processo senza risultati, senza esiti umani e sociali? Perché dovrebbero evitare la faticosa ricerca di evidenze scientifiche? Perché dovrebbero accontentarsi di «buone pratiche» povere di risulta- ti? Il futuro non è autocertificazione, narrazione, seduzione. Dopo anni di carestia è tempo di frutti, per guardare alla sostanza, a una clinica professionale capace di essere quello che promette «per e con le persone».
Tiziano Vecchiato
4 · Studi Zancan · 1/2018