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173 CAPITOLO VIII

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Academic year: 2021

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CAPITOLO VIII

L'ETICA

Strettamente connessa all'acquisizione di questo sistema più aperto e non

strettamente genetico di gestire i propri comportamenti, connessa più in generale alla valutazione del significato dell'intera evoluzione culturale, che ci ha liberato dallo stretto determinismo dei geni, è la questione etica: quanto siamo davvero liberi di scegliere i nostri comportamenti?

IL PROBLEMA DELLA LIBERTÁ.

Già Spinoza scrisse: "Gli uomini si credono liberi soltanto perché sono consapevoli delle

proprie azioni, ma inconsapevoli delle cause che le determinano". Siamo coscienti di desiderare ma non conosciamo le cause che determinano il nostro desiderio, perché la mente pensa ciò che l'appetito gli fa pensare. I processi decisionali, come molti altri processi mentali, si svolgono infatti al di fuori del nostro controllo cosciente, e i nostri personali criteri di scelta e di giudizio dipendono da sinapsi che non sappiamo da cosa siano state modellate. Cioè dipendono, come sappiamo, da geni, da esperienze, da fattori casuali e anche 1 dal rapporto tra emotività e ragionamento. Le scelte

avvengono di solito sulla base delle nostre emozioni, anche se la corteccia ci fa credere

diversamente. Il nostro corpo sceglie tra le alternative proposte dai geni, ulteriormente arricchite da quelle fornite dall'esperienza, e sceglie di solito in modo automatico, senza consapevolezza

razionale.

Ciò significa che siamo determinati e non liberi? Risponde Boncinelli che se l'”io” comprende il nostro corpo, il problema non si pone più di tanto: se non siano dualisti, se è il nostro corpo che decide, allora il corpo siamo noi. Ma se l'”io” è immateriale, allora è prigioniero del corpo2!

La divisione tra corpo e mente genera evidentemente dei problemi che altrimenti non insorgerebbero.

Certamente le nostre scelte sono spesso determinate da molteplici fattori, di cui spesso siamo inconsapevoli. Anche se i geni vengono arginati dall'esperienza, questa poi ci determina a sua volta. Ma abbiamo già detto che la molteplicità delle cause è già una prima forma di libertà: una causa sola determina, ma una molteplicità di cause...libera! Una libertà assoluta non esiste, è sempre e solo questione di misura, ma

oggettivamente siamo comunque più liberi degli animali, dunque più liberi dei nostri antichi progenitori, perché abbiamo una gamma maggiore di comportamenti possibili. Abbiamo anche visto che, facendo leva sull'esperienza, noi tale gamma l'allarghiamo attivamente e qualche volta consapevolmente; dunque la libertà sembra legata alla nostra

creatività, è ciò che creiamo.

Siamo liberi nella misura in cui l'indeterminazione genetica ha limitato il potere determinante dei geni, facendoli incidere solo per un terzo, e delegando al caso da una parte e alla società dall'altra, attraverso le cure parentali e la cultura, di provvedere al resto. Certamente, come abbiamo visto, esistono casi di estrema sfortuna, per cui qualcuno nasce con gravi difetti genetici (si tratta però solo dell'1o del 2% della popolazione) ed ha il futuro dettato e scritto dai geni; per tutti gli altri, non c'è predisposizione che non sia multifattoriale e su cui dunque non possa incidere l'ambiente, lo stile

1 "Verso l'immortalità", pag. 127. 2 "Quel che resta dell'anima", pag. 136.

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di vita. Nella vita organica il determinismo ha dunque molti gradi e molte sfumature e s'intreccia continuamente con la probabilità; qualche volta è fortissimo, ma più spesso è qualcosa con cui fare i conti. Per tutti coloro su cui non grava una pesante tara ereditaria, non esiste dunque il fato. La tecnica poi contribuisce ad affrancarci dal determinismo perché se ad esempio conosco i miei rischi genetici posso scegliere uno stile di vita che non mi faccia ammalare. L'uomo è dunque sempre più artefice della propria fortuna. La libertà sembra essere tutto ciò che abbiamo strappato alla nostra biologia e al determinismo e affidato all'ambiente e alla società dapprima in modo inconsapevole – attraverso l'indeterminazione genetica – poi in modo sempre più consapevole – attraverso la

razionalità e la tecnica – e proprio tale consapevolezza è ciò di cui dobbiamo essere più orgogliosi. Proprio il nostro sforzo razionale di valutazione e di controllo consapevole ci permette un grado di libertà e di consapevolezza ben maggiore, anche se – come sappiamo – talvolta ci

illudiamo soltanto di decidere razionalmente, mentre le decisioni sono emotive. Le nostre decisioni sono generalmente il frutto di tanti elementi di cui non siamo consapevoli, ma così come cerchiamo il senso anche dove non c'è, ci riteniamo sempre consapevoli e responsabili, anche quando non lo siamo del tutto. Il confine tra responsabilità e irresponsabilità non è infatti netto, la realtà sta nel mezzo ed è di nuovo sempre e solo questione di misura. Capire cosa

dall'esterno ha motivato un crimine, quanto per esempio le brutte esperienze o la cattiva educazione vi abbiano inciso, non significa giustificare chi l'ha compiuto, perché individuare le cause e gli elementi che l'hanno determinato non significa negarne le responsabilità. (Boncinelli ritiene che se in America il comportamentismo ha prodotto la morale del farsi da soli, in Europa la psicoanalisi ha indotto questo brutto vizio del giustificazionismo3). Occorre condannarne il

responsabile innanzi tutto per difendere la società. Se lo giustifico sulla base della sua storia personale, lo tratto da automa e non da persona libera. Nessuno dentro di sé si sente davvero incapace d'intendere e di volere, anche se può non essere consapevole dei condizionamenti subìti; chi agisce rivendica quasi sempre la propria libertà (questa è però un'argomentazione introspettiva, nonostante che egli giudichi ingannevole l'intropezione). Nessun

abbrutimento può rendere un uomo pari ad una bestia, perché l'evoluzione con noi ha ormai varcato irreversibilmente questo limite.

Ognuno di noi si sente e si considera responsabile delle proprie azioni, anche se per opportunismo, per sottrarsi alla giustizia può affermare di non esserlo. La questione della libertà si riduce insomma a quella della responsabilità4, e quando assumo la responsabilità delle mie azioni, per il meccanismo

della "anticipazione determinante", mi comporto in maniera più assennata, mi comporto cioè in maniera conforme al mio pensiero.

Vero è che talvolta non usiamo la nostra libertà, cadendo vittime del conformismo, perché fa fatica essere liberi, costa energia decidere ogni volta tutto da soli e noi siamo pigri e accettiamo

passivamente i valori che altri hanno costruito o che fanno parte del nostro passato e ce li portiamo dietro ma non corrispondono più al nostro presente, perché nel frattempo siamo cambiati, come la vita impone. Inoltre decidere dà angoscia, perché così facendo possiamo ritrovarci isolati e questo ci crea disagio emotivo. È molto più facile accodarci agli altri con quello spirito gregario che si appoggia sui nostri istinti e sul riconoscimento.

Un certo determinismo è del resto innegabile, perché senza di esso non saremmo neanche liberi delle nostre azioni, in quanto non potremmo valutarne le conseguenze ed agire in funzione di queste. Scrive a pagina 86 de "Il posto della scienza" :"...se veramente fosse morto il

determinismo, sarebbe andata in crisi non solo la scienza, ma una quantità enorme di attività umane. Se il determinismo fosse morto non avrebbe più senso fare niente. Perché compiere

3 “Il male”, pag. 146.

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un'azione se i suoi esiti sono indeterminati? Perché adoperarsi per perseguire certi obiettivi? Se il determinismo fosse morto non avrebbe neppure senso infilare la chiave nel cruscotto e ruotarla per avviare il motore dell'auto. Tanto varrebbe recitare una poesia o prendere a calci la macchina. Tutti sanno per esperienza che non servirebbe a molto." Prosegue dicendo che senza determinismo non può esservi né scienza né libertà, perché io scelgo in funzione delle conseguenze prevedibili della mia scelta, e non vi può essere libero arbitrio là dove non so quali conseguenze avrà il mio agire. Un determinismo assoluto è dunque sterile come un indeterminismo assoluto5. Abbiamo anche visto che il determinismo pare corrispondere alla logica

della permanenza, sostenuta da chimica, fisica e genetica, senza la quale neanche la vita e l'evoluzione sarebbero possibili. Nella vita deve sempre esserci un po' di determinismo, ma accanto al caso, alla contingenza e alla probabilità.

Lo scienziato assume dunque il determinismo pragmaticamente, altrimenti non potrebbe fare il suo mestiere6; ma nelle differenti situazioni il determinismo ha gradi differenti.

Il determinismo naturalistico è poi ben diverso dall'essere determinati da Dio; nel primo caso si è determinati dal nostro corpo o dalla natura, mentre nel secondo si è eterodiretti.

Dopo aver lungamente discusso con Giorello intorno al tema della libertà per due interi paragrafi (il 3 e il 4) de "Lo scimmione intelligente", al termine del libro, a pagina 201-202, afferma che

"potremmo concludere, paradossalmente, che la libertà non c'è, come non c'è la salute perfetta, ma è utile comportarci come se ci fosse, e che tutta la nostra vita è tesa a stabilire non tanto il kantiano regno dei fini, ma il regno della libertà, la quale non è immediatamente data, ma può essere costruita vivendo". E poche righe dopo: "L'assoluto e l'universale si possono raggiungere, anche in etica, solo approssimativamente, asintoticamente, e

lavorando artigianalmente, ovvero in relazione ai vari casi individuali". Insomma, il meglio che riusciamo ad ottenere da noi stessi è ciò che costruiamo, inventiamo e

creiamo, ma questo per lui è possibile soltanto attraverso l'uso della razionalità e in particolare di quella collettiva. La libertà dunque non esiste come valore assoluto, ma esiste soltanto in una certa misura e consiste soprattutto nell'allargamento dei nostri schemi comportamentali operato dalla creatività, che per Boncinelli è

prevalentemente razionale.

Abbiamo visto che i valori sono spesso autolimitanti come crisalidi che vanno usati finché fanno crescere, ma che devono poi essere distrutti e ricostruiti, riconosciuti nella loro relatività, altrimenti diventano le basi dei fondamentalismi, del razzismo, delle guerre. E la libertà, non è forse un valore e per giunta assoluto? Boncinelli si pone il problema e risponde che un valore è valido finché tende a massimizzare o minimizzare qualcosa. Nel caso della libertà, "ciò che si massimizza è la capacità di usufruire delle proprie risorse"7.

Dunque la morale è convenzionale e i valori cambiano con i tempi e con gli individui. C'è insomma un'etica anche se Dio è morto8, per quanto essa sia variabile e mutevole. A differenza della

conoscenza che è cumulativa, nella morale siamo però individui soli, anche se immersi nel Collettivo, perfettamente paragonabili quanto a parte genetica a quelli che erano i nostri antichi progenitori, incapaci come siamo di fare tesoro degli insegnamenti e delle esperienze altrui. Sapere cos'è giusto e cos'è buono non significa farlo, perché la teoria è una cosa e la pratica è un'altra; a tavolino possiamo stabilire che è giusto fare una certa cosa, ma poi quando agiamo ne facciamo un'altra, perché quanto meno nel quotidiano agiamo spesso in modo automatico e irriflesso.

5 "Lo scimmione intelligente", pag. 123. 6 "Lo scimmione intelligente", pag. 125. 7 "Lo scimmione intelligente", pag. 144. 8 "Dialogo su etica e scienza", pag. 60.

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Inoltre, è difficile scegliere ciò che è buono, come vorrebbe l'etica kantiana, perché ciò che è buono o desiderabile per me può non esserlo per gli altri, dal momento che non esiste un criterio oggettivo e universale. Per dire se un'azione è buona dovrei prevederne e valutarne l'effetto, dovrei sapermi proiettare nel futuro, pensare a lungo, meditare; occorre un tempo che quando agiamo manca. Siccome la vita ci trova per definizione impreparati a viverla, perché viviamo una volta sola, occorre cercare di prevedere al meglio gli eventi, così che la bontà di un'azione è forse data dal suo "contributo ad aumentare la regolarità e la prevedibilità delle cose del mondo"9, vale a

dire forse dal progressivo allargamento delle nostre aspettative e conoscenze collettive per comprendere il mondo. L'etica rappresenta perciò uno sforzo conoscitivo, e la scienza, che dà il massimo contributo a capire tali regolarità, sembra dunque rappresentare il massimo dell'etica.

L'ETICA DI KANT

Abbiamo visto quanto Boncinelli ammiri Kant e la sua filosofia intorno al problema della

conoscenza, ma il suo atteggiamento cambia radicalmente quando si passa alla ragion pratica: "Che su questo Kant abbia deragliato, lo si vede dalla famosa frase a proposito del cielo stellato sopra di me e della regola morale dentro di me. Mentre il cielo stellato l'hanno visto tutti, l'hanno cantato tutti, e si può oggettivare, la coscienza morale è un concetto che oggi

possono usare, forse, solo i preti; perché: che cos'è la coscienza morale? Qualcuno dovrebbe rispondere a questa domanda10".

Come abbiamo visto, si è consapevoli talvolta soltanto ad azione avvenuta. Ma quand'anche la decisione che prendo è frutto di una volontà, essa è anticipata dal potenziale di prontezza della corteccia motoria che manda un segnale, dunque è sempre il corpo che decide, non la mente, nonostante la nostra impressione.

Una qualsiasi decisione, di un uomo come di un animale, è una discontinuità che dipende esclusivamente da un circuito di neuroni, che in animali molto elementari può essere costituito anche da un solo neurone o perfino da un recettore-effettore11. Man mano che si sale nella scala

evolutiva il numero degli elementi che s'interpone tra recettore ed effettore aumenta: la differenza è solo questa12. All'inizio tutto succedeva probabilmente in modo molto meccanico, come reazione

automatica ad uno stimolo, come può avvenire in un robottino che va a ricaricarsi quando sente che è scarico, ma nel corso dell'evoluzione le cose si sono molto complicate provocando una

moltiplicazione delle reazioni possibili. Quindi si tratta di un fenomeno meccanico, inizialmente fisico, irriflesso e inconscio, che può talvolta diventare consapevole; vale a dire che la nostra mente non dirige e non comanda il nostro corpo, ma ne prende atto e vi si adatta, o forse ne emerge, facendoci falsamente credere di essere il decisore. La nostra coscienza razionale non determina i nostri

comportamenti reattivi, anche se è certamente più responsabile per le nostre valutazioni razionali.

Il passaggio dal piano cognitivo a quello comportamentale non è semplice, come vorrebbe invece l'”intellettualismo etico”13. Il piano cognitivo è aperto infatti all'apporto delle esperienze altrui e

della cultura collettiva, perché è cumulativo ed è dunque capace di progresso, mentre il piano pratico, morale, comportamentale è squisitamente individuale e perciò pressocché impermeabile alle influenze sociali o culturali, perché i nostri istinti sono sempre quelli dei nostri antenati più antichi e si è, a questo livello, individui soli, incapaci di fare tesoro delle esperienze altrui.

9 "Il male", pag. 190.

10 "Che fine ha fatto l'io?", pagg.113-114. 11 "Che fine ha fatto l'io?", pag. 122. 12 "Che fine ha fatto l'io?", pag. 125. 13 "Che fine ha fatto l'io?", pag. 201.

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Se davvero i nostri "inventari genetici" non sono suscettibili di evoluzione in base all'esperienza e all'apprendimento - come Boncinelli afferma - se non c'è

un'evoluzione, per quanto lenta, dei comportamenti anche di tipo reattivo, allora siamo tristemente condannati in futuro ad una specie di schizofrenia, per cui ad un aumento di cultura e di tecnologia non può che corrispondere un aumento di

disagio!

IL DISAGIO EMOTIVO

È proprio perché non abbiamo istinti indiscussi, a differenza degli animali, che ci sentiamo orfani di qualcosa d'indubitabile e che ricorriamo al sacro. È per paura della nostra libertà, quindi

indirettamente della nostra razionalità e della nostra responsabilità, per il bisogno di seguire decisioni che non abbiamo preso noi, per autolimitarci, che inventiamo il sacro, ed infatti sacro deriva da sacer, tremendo14. Per la stessa ragione inventiamo il diritto naturale o la

verità assoluta; abbiamo cioè creato costruzioni talvolta splendide, che sono insieme il nostro orgoglio e la nostra condanna, perché mentre all'inizio hanno una funzione propulsiva poi finiscono per limitarci allorché cresciamo ulteriormente.

In noi, come in ogni essere vivente, c'è una carica vitale che ci fa esprimere per quelli che siamo. Ogni animale anche inconsapevolmente fa di tutto per mantenere se stesso e la propria prole vivi15 e

ottiene tutto ciò attraverso meccanismi omeostatici semplici o complessi.

Ma la nostra corteccia cerebrale complica le cose e pone in discussione la nostra stessa spinta vitale16. Il prezzo della nostra consapevolezza e della capacità di mettere in relazione cose diverse fa

sì che diventi un'abitudine chiedersi il perché di tutto, anche laddove non c'è un perché, vale a dire chiedersi sempre"il senso". C'è una spiegazione evolutiva, come abbiamo detto, perché sono proprio i nostri meccanismi biologici, a partire da quelli di pertinenza e di rilevanza, che

c'insegnano a farlo; ma niente funziona bene dappertutto, non esistono passe par tout, e ciò che funziona bene in una cosa può crearci altrove dei guai, facendoci incorrere nell'animismo. Ci sentiamo inoltre insoddisfatti quasi perennemente. La felicità di aver finalmente ottenuto qualcosa di ambìto dura poco e subentra il desiderio di qualcos'altro, perché abbiamo sempre la smania di cambiare, la necessità di qualcosa di nuovo da esplorare. Tale insoddisfazione è probabilmente lo sprone della nostra capacità di innovazione e di evoluzione, ma ci rende spesso più tristi che lieti. Siamo inoltre emotivamente contraddittori ed ambivalenti, "capaci di volere e non volere al medesimo tempo la stessa cosa"17, per il semplice fatto che le emozioni sono

sempre mischiate e quelle positive sono inscindibili da quelle negative (anche se poi sappiamo che non hanno quasi mai lo stesso peso). Siamo contraddistinti cioè da un "dissidio emozionale" che è poi quello che Hegel chiamava "contraddizione", ma che in questo caso non indica una

contraddizione logica e razionale, in quanto il nostro corpo è pre-logico. Però le contraddizioni emergono soltanto quando valutiamo le cose razionalmente: “Nell'antilope non c'è

contraddizione, come non c'è nel lupo e forse nell'orangutan”18. Se ho ben capito ciò che

intende Boncinelli, non sono d'accordo. Affinché emergano in noi i contrasti interni, che sono poi alla base del disagio psichico, non è affatto necessario che noi ne acquistiamo una consapevolezza razionale. Le fonti dei nostri contrasti interiori sono tre: geni, educazione infantile ed esperienza di vita. Siamo certamente

14 "Lo scimmione intelligente", pagg. 193-194. 15 Pag. 117 de "Il male".

16 Pag. 118 de "Il male".

17 "Lo scimmione intelligente", pagg. 195.

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consapevoli quando è l'esperienza acquisita che entra in collisione con una delle altre componenti, ma se il contrasto riguarda i contenuti dell'educazione infantile rispetto alla nostra parte innata, esso rimane probabilmente al di sotto della consapevolezza di tipo razionale. Molti problemi d'ordine psicologico

corrispondono, credo, a contraddizioni di questo tipo, tra istinti ed educazione, senza coinvolgere la razionalità.

Altro contrasto che pone in disagio soprattutto l'uomo contemporaneo è quello tra l'individuale, in cui regna sovrana l'emozione, e il Collettivo, dove invece domina la razionalità e che tende a spersonalizzare. (Anche questa forma di contrasto si riduce quindi a quella tra l'emotivo e il razionale, tra la nostra origine – l'unica fiamma – e ciò che siamo diventati attraverso l'evoluzione che individualizza sempre più). La razionalità e il Collettivo non possono sostituirsi al "vissuto" né aiutare l'individuo a risolvere i propri turbamenti: "Il nostro cuore è sempre in tempesta e la mente razionale non aiuta molto, quando non dà una mano a complicare le cose"19.

I nostri istinti sono quelli dei nostri antichi progenitori, perché l'educazione non entra e non può entrare nel genoma. Quando lasciamo che un'azione di violenza inizi in noi, è poi difficilissimo fermarla, esattamente come accade con uno sbadiglio o con uno starnuto: deve terminare. Gli istinti possono essere tenuti a bada dalla ragione solo finché non li si lascia andare, dopodiché non vi si può più intervenire, perché il comportamento diventa compulsivo, esattamente come negli animali. Le violenze umane più efferate sono spiegabili per via della "bestia che è in noi", cioè con la nostra parte istintiva e animalesca quando non la teniamo a bada mediante la corda d'oro della razionalità, quando cioè allentiamo l'inibizione degli istinti, a cui la razionalità di solito provvede. Anziché parlare ogni volta di casi di follia e di raptus, dovremmo parlare della nostra ordinaria animalità temporaneamente fuori controllo. Spesso è nell'ambito della famiglia che

scoppia quest'aggressività, perché è proprio qui che regna l'ambivalenza e il non-detto, il represso e il "fuoco che arde sotto la cenere"20.

Tutto ciò che riusciamo ad ottenere con la nostra civilizzazione è infatti qualcosa di appiccicaticcio, una specie di "tunica culturale", pronta a saltare in qualsiasi momento lasciando il campo libero agli istinti più retrivi21. La razionalità, la società e la cultura possono fino ad un certo punto tenere a

bada la nostra animalità, e quindi è un dovere della società, vale a dire del Collettivo, intervenire soprattutto con la prima educazione, perché questa si scolpisca nel cervello e lo modelli in modo irreversibile. Dunque la società può e deve sopperire alle falle del genoma.

Io non credo che il ricorso alla nostra animalità spieghi tutto il male gratuito che l'uomo produce, al contrario. Lo stesso Boncinelli ammette che in natura il male gratuito è quasi inesistente, perché tra specie diverse la violenza serve a

procacciarsi il cibo mentre all'interno della stessa specie gli scontri servono a stabilire gerarchie22

. Casomai, mi pare che tutto ciò derivi dal fatto che il male, come il bene, s'è sganciato in noi dalle motivazioni di sopravvivenza, come succede nella razionalità, e che quindi l'uno e l'altro sfidino la natura, eccellendo sia nel positivo che nel negativo.

È possibile rieducare le nostre paure (e la nostra animalità) attraverso l'uso della corteccia, ma

19 "Il male", pag. 86. 20 "Il male", pag. 214. 21 "Il male", pag. 224.

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si tratta di un còmpito difficile, di cui l'ultimo Boncinelli sembra dubitare sempre di più23.

Per lui, anche se non esiste un bene e un male assoluto, tendenzialmente il bene è ciò che costruiamo, è un portato della cultura, della nostra razionalità e umanità, mentre il male è il portato degli istinti, dell'emotività irriflessa, della naturale entropia. Tutto ciò può anche essere vero, ma solo in parte, perché il “male razionale”, freddo, lucido, deliberato e gratuito, mi sembra coesistere in maniera indubbia accanto a quello che deriva dai nostri istinti.

Abbiamo già detto che nell'uomo la motivazione istintuale alle azioni viene sempre più sostituita dal giudizio di valore, che è tanto più forte quanto più vi è mescolata una connotazione emotiva. La valutazione di per sé può essere propulsiva o inibitoria, ma a lungo nella nostra società è stata del secondo tipo, cercando di disciplinare, attenuare o perfino sopprimere gli istinti. Essa ha una componente cognitiva e viene quindi continuamente costruita e ricostruita durante la vita dell'individuo, ma è anche in parte innata.

Infatti i bambini hanno dei valori primitivi o innati, del tipo " buono/cattivo, fa bene/fa male, rassicurante/pericoloso, distinto/confuso”, etc., che vengono definiti "da dentro", a cui si sovrappongono i valori sociali derivanti dall'educazione e definiti "da fuori"; queste due categorie differenti saranno in seguito difficilmente distinguibili. (Mi sembra una riformulazione della distinzione tra genetico e "quasi innato", tra istinto e primo apprendimento)

I valori non sono stabiliti per sempre, ma evolvono insieme con la cultura. Sono dunque relativi. (Ho già sottolineato come questo relativismo contrasti con l'affermazione della immodificabilità del nostro cervello, che peraltro si costruisce in buona parte anche grazie alla società durante la prima educazione, e che dunque risulterà

biologicamente – anche se non geneticamente – diverso da quello dei nostri antichi progenitori.)

In una democrazia, politica o scientifica che sia, non può mancare un certo relativismo, che "non vuol dire non avere valori, tutt'altro! Vuol dire avere valori che si è disposti a mettere in discussione24". I valori sono innanzi tutto vincoli che limitano o autolimitano la libertà, perché

come abbiamo visto nascono con una funzione inibente rispetto alle nostre motivazioni istintuali, anche se possono assumere una funzione propulsiva. Sono fondamentalmente creati dall'uomo, e mano a mano che questo anche individualmente cambia e cresce culturalmente, nel corso della sua vita, dovrebbe impegnarsi anche a cambiarli. Essi danno senso al nostro agire e ad essi ci affidiamo spesso in maniera automatica e acritica, soprattutto nelle situazioni quotidiane e abituali, senza mai porli in discussione, tanto che diventano spesso superstizioni. I valori possono a loro volta

ingenerare emozioni; per essi si combatte e si uccide, e finiscono infatti per essere i "padri nobili di tutte le guerre"25; dobbiamo quindi avere il coraggio di rivederli. Bisognerebbe

perciò farne un ricambio periodico così come si fa il "cambio degli armadi" col succedere delle stagioni.

Se non lo si fa, si diventa conformisti, che significa che autolimitiamo la nostra libertà. A questo proposito, cita la "banalità del male" di Hannah Arendt: Soggiacere ai comandi altrui e "lasciar correre" ci rende complici dei misfatti. Boncinelli richiama più volte la necessità che l'uomo non sia abitudinario e che abbia l'ardire di cambiare e di cercare strade nuove, visto che la vita è per definizione cambiamento. Ma l'uomo ha talvolta paura della propria libertà e preferisce accodarsi ai valori dei più. Come sostiene Fromm, molti desiderano essere succubi di qualche principio e

abbandonano i loro valori non perché non ci credono più ma per opportunismo, diventando simili ai camaleonti, che prendono il colore dell'ambiente. Quando i valori sono socialmente condivisi sono

23 Vedi nell'intervista che gli ho fatto, a pag.215. 24 "Lo scimmione intelligente", pag.141. 25 "Lo scimmione intelligente", pag.120.

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spesso automatici, mentre quando sono poco condivisi ci sentiamo insicuri e in disagio, perché ci poniamo in rotta di collisione con gli altri. L'uomo è pigro, e probabilmente anche pavido per insicurezza, ed usa il sistema dei valori ereditati anziché sforzarsi di rivederli razionalmente. Dal momento che il comportamento pratico è stato da Boncinelli definito impermeabile alla teoria, è ben strano che si possa pensare di modificarlo razionalmente! Se si pensa di ottenere un risultato di questo tipo è perché

sappiamo per esperienza che ciò che impariamo faticosamente e razionalmente prima o poi diventa automatico ed emotivo.

La revisione dei valori mi pare che corrisponda all'uso – anche in questo campo – della razionalità o “sistema 2”, mentre lo spirito gregario rappresenta il molle lasciarsi andare agli automatismi di ciò che pensiamo di sapere attraverso il “sistema 1”

Alla base dello spirito gregario c'è certamente il meccanismo del riconoscimento, che non esiste in rettili ed anfibi, ma esiste oltreché nell'uomo anche in molti mammiferi e uccelli. Proprio le cure parentali, poiché fondano il riconoscimento, sembrano essere alla base, oltreché di sentimenti positivi come l' amore romantico, anche del conformismo, del razzismo e in conclusione della "banalità del male", a dimostrazione che tra bene e male il confine non è netto e vi sono infinite sfumature in cui la distinzione è puramente quantitativa. Ma in tal modo si ammette anche un'origine culturale e sociale del male, accanto a quella istintiva. Occorre ricordare che è la stessa evoluzione naturale che nelle sue fasi fondamentalmente conservative tende a privilegiare i valori medi, dunque c'invita al conformismo, anche se noi, dall'alto della nostra evoluzione culturale, possiamo giudicarlo inadeguato. Però in caso di contrasto tra natura e cultura Boncinelli sceglie sempre la seconda, pur riconoscendo che alla prima bisogna comandare ubbidendo e volgendo al nostro interesse ciò che sarebbe contro di noi. I nostri maggiori valori, sia ad un livello cognitivo che comportamentale, per lui sono quelli che costruiamo, specie se consapevolmente.

ANCORA SUL MALE

Da bambini – ci dice Boncinelli - non ci rendiamo conto dell'esistenza del male e della realtà delle cose, viviamo trasognati, illusi e protetti dai nostri genitori, che fanno di tutto per nasconderci l'amarezza della realtà. Costoro - sembra accusare più volte - ci educano spesso a non vedere le cose come sono. Ci formiamo così aspettative impossibili da realizzare, che ci condannano alla disillusione. Infatti quando col risveglio dell'età adulta vediamo il mondo coi nostri occhi, ne restiamo delusi e costruiamo dei miti su un passato utopico, che invece non è mai esistito, immaginando che certamente un tempo le cose funzionassero bene. Ne deduciamo che la realtà è cambiata, mentre siamo noi ad essere cambiati perché abbiamo acquisito la capacità di vederla com'è. Molti miti, come quello del Paradiso Terrestre, non sono che la proiezione, forse, delle illusioni della nostra infanzia.

Boncinelli afferma di voler affrontare il tema del male, come quello della malattia e della morte, da un punto di vista scientifico, perché la letteratura in materia fin qui non l'ha fatto.

Il male, come il bene, non esiste di per sé, anzi questi due concetti sono inseparabili e sono distinguibili soltanto per una questione di misura. Si tratta di nostre creazioni, variabili a seconda del punto di vista (cita a questo proposito le Operette Morali di Leopardi, e infatti

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molti dei suoi argomenti su questo tema ce le ricordano).

“Occorre innanzitutto distinguere il male naturale da quello voluto. Il primo, tra cui ci sono la malattia e la morte, è espressione della naturale entropia, che domina laddove prevale la casualità degli eventi, che da sola, senza una solida base di conservazione, tende al caos e tenta continuamente di disgregare la vita. La legge dell'aumento dell'entropia può essere forse considerata "all'origine di tutti i mali, se non il male in sé"26. (Se, come qui afferma,

il caso è uno strumento dell'entropia, sembra dunque non procedere casualmente, come fin qui s'era detto, ma secondo la logica dell'entropia!)

Scienza e ragione sono le armi più potenti con cui la vita ha imparato a difendersi dall'entropia. Per attenuare il male naturale occorre dunque far appello alla cultura27. Dietro al male naturale non c'è

l'intenzione di nessuno, a meno che non vogliamo cadere nell'animismo. Invecchiamo e moriamo soltanto perché dopo l'età riproduttiva la natura non ha più alcun interesse nei nostri

confronti, e ci abbandona. Vale a dire che smette di lottare per perpetuarci, per cui i nostri tessuti si logorano e soprattutto si logorano i nostri meccanismi di autoriparazione, che sono invece tanto efficienti nell'infanzia e nella giovinezza. La natura dunque usa gli individui come strumenti in funzione della riproduzione e della sopravvivenza della vita in generale, del genoma in generale, ma sembra non avere alcun interesse per l'individualità di per sé, che invece rappresenta per noi un valore, che è d'origine puramente culturale (forse la nostra stessa individualità fenomenica è una

costruzione culturale a cui la natura non è minimamente interessata). Non c'è dunque nessuna intenzione malevola della natura nei nostri confronti; essa semplicemente ci lascia andare perché non le serviamo più, smette di fare attraverso di noi la sua battaglia contro l'entropia, che è la legge dell'universo, ma la prosegue con altri mezzi, con altri individui più idonei.

Il dolore di per sé, sia fisico che psichico, abbiamo visto che è strettamente connesso al piacere da un punto di vista neurologico, perché si avvale di sostanze premianti come endorfine ed encefaline. Inoltre non rappresenta necessariamente un male, perché può essere al contrario molto utile in quanto funziona come campanello d'allarme che c'ingiunge di cambiare, di curarci, di agire oppure che ci avverte che dobbiamo congedarci dalla vita. Come già abbiamo detto, il cancro, come più in generale ogni malattia, deriva dagli stessi meccanismi di proliferazione e differenziamento cellulare che permettono la sopravvivenza e dalle stesse mutazioni che governano l'evoluzione biologica28.

Per quanto riguarda il male intenzionale, è inseparabile dal bene, perché costituisce con questo un continuum. Tra i nostri vizi e le corrispondenti virtù, anche se sembrano contrapporsi, non c'è una differenza se non quantitativa, perché ciò che a piccole dosi è positivo, a dosi maggiori diventa negativo, ed è tutta questione di misura. Per esempio, l'aggressività è positiva quando è usata per proteggere il proprio nucleo familiare ed è strettamente collegata alla carica vitale, tanto che quando la si esclude si cade in depressione. Altrettanto è per l'egoismo, che in certa misura è salutare, o per l'invidia, che secondo Bertrand Russell è alla base della democrazia, e così via: sia le inclinazioni cosiddette positive che quelle negative possono quindi essere sia un difetto che un pregio a seconda della quantità. Inoltre la demarcazione tra vizi e virtù ha una componente convenzionale, che varia da cultura a cultura, di epoca in epoca.

26 "Il male", all'inizio di pag. 90. 27 "Il male", pag. 226.

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