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Parte seconda. L’infermità.

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Parte seconda. L’infermità.

“I concetti di salute e malattia sono antichi quanto la civiltà stessa. Per millenni, lo sciamano o il prete, hanno cercato di risollevare le persone da ogni genere di avversità umane e solo alcune di tali sofferenze sono oggi considerate malattie. La distinzione tra peccato e sofferenza, tra una guarigione basata sulla fede e una terapia medica, è stata un lento processo storico, tuttora incompleto nelle menti e nelle vite di milioni di esseri umani.” (Thomas Szasz)

1. Infermità e malattia mentale: due termini per un unico concetto?

“Non è imputabile chi, al momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere” sancisce l’articolo 88 c.p.

Preliminarmente ad ogni ulteriore indagine sul concetto d’infermità è opportuno chiarire sin d’ora che la nozione di infermità mentale solleva, oggi più che mai, complessi problemi interpretativi e di accertamento giudiziale. Complessità e delicatezza dell’accertamento sono acuite dalla circostanza che la stessa scienza psichiatrica è attraversata da una crisi d’identità tale per cui non è per nulla univoco e semplice individuare il concetto di malattia mentale.

La tematica verrà, tuttavia, approfondita nel capitolo successivo in quanto le difficoltà interpretative e, soprattutto, le conseguenze che possono derivare dalla scelta di un concetto piuttosto che di un altro, sono strettamente connesse con le neuroscienze e con gli effetti dirompenti che quest’ultime stanno originando nel mondo del diritto penale.

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Il codice Rocco nel disciplinare le cause patologiche che influenzano l’imputabilità ha accolto un indirizzo che potremmo definire “bio-psicologico” per cui non è sufficiente accertare una malattia mentale per dedurne automaticamente la non imputabilità del soggetto, ma occorre altresì appurare se e in quale misura la malattia stessa ne comprometta la capacità di intendere e di volere.

Ma il termine “infermità” coincide con quello di “malattia”?

Se considerato da un punto di vista letterale, il concetto d’infermità è più ampio perché include anche disturbi psichici di carattere non strettamente patologico. La malattia mentale è sicuramente compresa nel concetto d’infermità ma non vi si sovrappone con confini precisi e non lo esaurisce affatto. La differenziazione ha creato non pochi contrasti nella dottrina penalistica: per alcuni, come ad esempio Crespi154, i due concetti sono assolutamente identificabili; altri, ad esempio Mantovani155, considerano l’infermità mentale (nozione di più ampia portata rispetto alla malattia mentale) una deviazione funzionale che prescinde da un’origine necessariamente patologica.

Nella letteratura scientifica, come anche nella giurisprudenza, è tuttavia assunto pressoché pacifico che infermità e malattia esprimano concetti non coincidenti. In particolare, in psichiatria si sottolinea come nella dizione di “malattia” rientrino quelle alterazioni psichiche conseguenti a processi morbosi somatici che interrompono la normale continuità dello sviluppo vitale e che si caratterizzano per l’abnormità, e per le ripercussioni di ordine funzionale: caratteristiche tutte proprie delle psicosi e tra queste, in specie, della schizofrenia. Accanto alle psicosi che costituiscono le malattie mentali per antonomasia, la psichiatria prende in considerazione, coerentemente con l’impostazione del DSM-V156, su cui si avrà modo di tornare più avanti, anche le c.d. “varianti abnormi dell‟essere

psichico”, ossia quelle alterazioni che non rientrano nell’illustrato concetto di malattia ma

che “potrebbero forse venir comprese soltanto ed in parte in quello di infermità. In questa

prospettiva vanno quindi collocati i disturbi di personalità”.157

154

Cfr. Crespi, op. cit. pag. 773.

155

Cfr. Mantovani, op. cit. pag 608 ss.

156

Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, la cui prima edizione risale al 1952, giunto oggi alla quinta edizione.

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D’altro canto, anche la giurisprudenza, in particolare la Corte di Cassazione ha più volte ribadito che “il concetto di infermità recepito dal nostro codice penale è più ampio rispetto

a quello di malattia mentale, di guisa che, non essendo tutte le malattie di mente inquadrate nella classificazione scientifica delle infermità, nella categoria dei malati di mente potrebbero rientrare anche i soggetti affetti da nevrosi o psicopatie, nel caso che queste si manifestino con elevato grado di intensità e con forme più complesse tanto da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi. In tal caso- al fine della esclusione o della riduzione delle imputabilità- è comunque necessario accertare l‟esistenza di un effettivo rapporto tra il complesso delle anomalie psichiche effettivamente riscontrate nel singolo soggetto e il determinismo dell‟azione delittuosa da lui commessa, chiarendo se tale complesso di anomalie psichiche, al quale viene riconosciuto il valore di malattia, abbia avuto un rapporto motivante con il fatto delittuoso commesso.”158

Ne consegue che ove si tenga ferma la distinzione tra i due termini, l’istituto della non imputabilità può subire un’estensione applicativa. Questa maggior ampiezza, del resto, concorrerebbe con lo scopo sotteso alle norme sull’imputabilità: ai fini del giudizio sulla capacità di intendere e di volere, infatti, non interessa tanto che la condizione del soggetto sia esattamente catalogabile nel novero delle malattie elencate nei trattati di medicina, quanto che il disturbo abbia in concreto l’attitudine a compromettere gravemente la capacità di percepire il disvalore del fatto commesso, sia di recepire il significato del trattamento punitivo.

È inoltre opportuno ricordare che in psichiatria vi è una sostanziale differenza tra l’approccio clinico e quello forense: non ogni malattia in senso clinico ha, infatti, “valore di malattia” in senso forense, così come possono sussistere situazioni clinicamente non rilevanti o non classificate nosograficamente, che in ambito forense possono rivestire significatività in ordine all’infermità di cui agli artt. 88 e 89 c.p. di più, lo stesso disturbo può acquisire in un caso, e non in un altro, valore di malattia.

In conclusione, al termine infermità va attribuito un valore generico, mentre al termine malattia, un valore specifico159.

158

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2. L’evoluzione del concetto d’ infermità.

Volendo ricostruire le teorie maggiormente diffuse in dottrina e giurisprudenza sul concetto di infermità non si può non partire dalla concezione più tradizionale e risalente nel tempo in base alla quale il concetto di malattia mentale era ricostruito secondo un modello medico-organicistico. Secondo questo primo modello, le infermità mentali sono vere e proprie malattie del cervello o del sistema nervoso, aventi, però, un substrato organico o biologico. Pertanto, costituisce infermità di mente soltanto il disturbo psichico che poggia su una base organica e/o che possiede caratteri patologici così definiti da poter essere ricondotto ad un preciso quadro nosografico-clinico. Tale paradigma postula la configurazione di specifici modelli di infermità e della loro sintomatologia e propone, dunque, il disturbo psichico come infermità “certa e documentabile” . Conseguenza immediata e diretta è che un disturbo psichico può essere riconducibile ad una malattia mentale soltanto qualora sia nosograficamente inquadrato. Se ne deduce, quindi, che l’accertamento della causa organica rimane assorbito dalla possibilità di ricondurre il disturbo nelle classificazioni nosografiche elaborate dalla scienza psichiatrica, nel quadro-tipo di una determinata malattia. Da ciò consegue che quando il disturbo psichico ed aspecifico non corrisponde al quadro-tipo di una data malattia non sussiste uno stato patologico coincidente con il vizio parziale di mente. Questo primo paradigma fu seguito anche dal legislatore del 1930 che, come si legge nella Relazione al progetto di codice, con il termine infermità intese limitare la rilevanza dell'incapacità alle sole situazioni patologiche clinicamente accertabili.

In conformità a questo primo modello, la Corte di Cassazione ha, poi, affermato che “le

anomalie che influiscono sulla capacità di intendere e di volere sono solo le malattie mentali in senso stretto, cioè le insufficienze cerebrali originali o quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche, contraddistinte queste ultime, da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità, sicché esula dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si sostanziano in anomalie del carattere non rilevanti ai fini dell‟applicabilità degli artt. 88 e

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89 c.p., in quanto hanno natura transeunte, si riferiscono alla sfera psico-intellettiva e volitiva e costituiscono il naturale portato di stati emotivi e passionali” 160

; e che “le

manifestazioni di tipo nevrotico depressive, i disturbi della personalità, comunque prive di un substrato organico, la semplice insufficienza mentale non sono idonee a dare fondamento ad un giudizio di infermità mentale […] solo l‟infermità mentale avente una radice patologica e fondata su una causa morbosa può fare escludere o ridurre, con la capacità di intendere e di volere, l‟imputabilità, mentre tutte le anomalie del carattere, pur se indubitabilmente incidono sul comportamento, non sono idonee ad alterare nel soggetto la capacità di rappresentazione o di autodeterminazione” 161

Secondo questo primo orientamento162 le anomalie che possono essere in grado di influire negativamente sulla capacità di intendere o volere sono solo quelle che sono definite come malattie mentali in senso stretto, ovvero aventi una base organica o biologica, che sia accertabile o documentabile mediante il ricorso alla nosografia ufficiale; di conseguenza sono da escludere le c.d. abnormità psichiche, quali le nevrosi o le psicopatie. Quest’ultime, in quanto caratteropatie163

, sono anomalie che influenzano il comportamento, ma non sono considerate capaci di incidere negativamente sulla sfera intellettiva e di alterare nel soggetto la capacità di rappresentazione o di autodeterminazione.

Quest’orientamento che esclude dall’area della non imputabilità le semplici “anomalie” psichiche, invero, privilegia i parametri clinici di giudizio allo scopo di soddisfare una duplice esigenza di fondo: da un lato, garantire meglio il valore della certezza giuridica grazie allo stretto legame con la nosografia psichica ufficiale, dall’altro, sempre grazie a questo legame, impedire un’eccessiva dilatazione dei casi in cui sia possibile riconoscere la non imputabilità.

Agli albori del Novecento, Freud, attraverso l’esame dei tre livelli della personalità164, scoprì l’inconscio, ovvero un mondo nascosto dentro di noi, privo di confini

160

Cit. in Cass. pen., sez. VI, 09 aprile 2003, in CED Cass. pen. 2003

161

Cass. pen., sez. I., 04 giugno 1991, Catalano e altro, in Cass. pen., 1992, 3040.

162

Ancora sostenuto nelle sentenze 26614/03, 10422/97, 299/91, 13202/90 della Cassazione,

163

psicol. Anomalia del carattere di origine patologica; psicopatia.

164

Il livello più basso e originario, perennemente inconscio; l’Io, la parte ampiamente conscia, che obbedisce al principio di realtà; il Super-io che costituisce la coscienza sociale e consente la interiorizzazione dei valori e delle norme

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fisiologicamente individuabili. Questa scoperta e l’influenza che l’opera freudiana ebbe, determinò la crisi della concezione medico-organicistica. In realtà quattro eventi contribuirono al cambiamento: la psicoanalisi, con la scoperta del mondo psichico e della sua influenza inconscia sull’organizzazione dell’individuo; la dimensione sociologica, che ha sottolineato l’importanza delle relazioni tra individuo e società, allargando la comprensione del disturbo mentale anche a fattori inter-relazionali; il movimento dell’antipsichiatria, che ha negato l’esistenza della malattia mentale, considerandola come il risultato del potere della borghesia all’interno di un conflitto di classe; la psicofarmacologia, che ha demolito il mito dell’incurabilità della malattia mentale, apportando o guarigioni o contenendo sintomi disturbanti o destrutturanti.

In seguito soprattutto all’influenza dell’opera freudiana, iniziò a proporsi il paradigma c.d. psicologico, per il quale i disturbi mentali rappresentano disarmonie dell’apparato psichico, nelle quali la realtà inconscia prevale sul mondo reale, diventando, per il soggetto, più significante della realtà esterna; ed è proprio in questa prevalenza che si manifesta la malattia mentale. Il metodo psicologico, sostenne, inoltre, che nello studio di queste disarmonie vanno individuate le costanti che regolano gli avvenimenti psicologici, valorizzando i fatti interpersonali, di carattere dinamico, piuttosto che quelli biologici, di carattere statico.

Il concetto di infermità quindi si allarga fino a comprendere non solo le psicosi organiche, ma anche altri disturbi morbosi dell’attività psichica, come le psicopatie, le nemesi, i disturbi dell’affettività. Oggetto dell’indagine, quindi, non è più la persona–corpo, ma la persona-psiche.

Intorno agli anni Settanta del secolo scorso si è sviluppato, infine, l’indirizzo sociologico secondo il quale la malattia mentale è disturbo psicologico avente origine sociale, non più attribuibile ad una causa individuale di natura organica o psicologica, ma a relazioni inadeguate nell’ambiente in cui il soggetto vive. Essa nega la natura fisiologica dell’infermità e pone in discussione anche la sua natura psicologica ed i principi della psichiatria classica, proponendo, in sostanza, un concetto di infermità di mente come malattia sociale.

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Nella scienza psichiatrica attuale, infine, sono presenti orientamenti che propongono un modello integrato della malattia mentale, in grado di spiegare il disturbo psichico sulla base di diverse ipotesi esplicative della sua natura e della sua origine. Ciò si traduce in una visione “integrata” che tiene conto di tutte le variabili biologiche, psicologiche, sociali e relazionali che entrano in gioco nel determinismo della malattia: si supera così la visione eziologica mono causale della malattia mentale, pervenendo ad una concezione “multifattoriale integrata” 165

. Trovano così spazio gli orientamenti ispirati ad una prevalenza del dato medico, e, contro i rischi di un facile approccio biologico, si sviluppa la c.d. psichiatria dinamico-strutturale che considera il comportamento umano sotto il duplice aspetto biologico e psichico. In tale contesto, i più accreditati sistemi di classificazione (ad esempio il DSM-IV o l’ICPC-10166) dovrebbero assumere il valore di parametri di riferimento aperto, in grado di comporre le divergenti teorie interpretative della malattia mentale e fungere, quindi, da contenitori unici. Inoltre, rivendicando una maggiore autonomia della valutazione giuridica rispetto alle classificazioni medico-nosografiche, è permesso al giudice di applicare gli artt. 88 e 89 c.p. anche se il disturbo psichico è insuscettibile di un preciso inquadramento clinico, purché si possa fondatamente sostenere che esso abbia in concreto compromesso la capacità di intendere e di volere. Pertanto, oggi, può ritenersi superata la concezione unitaria di malattia mentale, affermandosi, invece, una concezione integrata che comporta un approccio il più possibile individualizzato. Risulta così ampliata la nozione di infermità. Come spiegato nell’articolo dell’Avv. A. Buzzoni:“il concetto di infermità (dal latino in-firmus: non fermo) in ambito

psichiatrico forense, non fa riferimento esclusivamente ad un concetto di disturbo mentale, ma include anche i suoi eventuali rimandi al funzionamento psichico di un determinato soggetto, e dunque, sulla sua condotta globale. In sostanza la nozione di infermità, per assumere rilievo sotto il profilo giuridico, deve necessariamente connotarsi dalla convergenza di un disturbo funzionale conseguente ad una disfunzione mentale in un dato reato,tale da poter pregiudicare in maniera consistente la capacità di autogestione di un soggetto, andando ad influire grandemente e gravemente sulla sua “autonomia funzionale” e andando altresì a connotare l‟atto posto in essere dall‟agente (o subito da

165

Ponti G., Il dibattito sull’imputabilità, in Questioni sulla imputabilità, a cura di Ceretti A., Merzagora I., Padova, 1994, 8.

166

International Classification of Primary Care. Classificazione internazionale delle cure primarie. Pubblicata per la prima volta nel 1987 dal WONCA (World Organization of National Accademic Association of General

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eventuali vittime del reato) mediante un “significato d‟infermità” giuridicamente rilevante”.

L’infermità che dà origine all’alterazione della mente non necessariamente deve essere psichica, ben potendo consistere in una disfunzione di origine fisica ed organica. La nozione di infermità, a voler seguire il modello c.d. integrato, si presta a comprendere anche i disturbi mentali transitori che non potrebbero essere qualificati malattia o infermità vera e propria. Pertanto, ammessa la possibilità della distinzione, non c’è ragione di escludere dal quadro delle infermità rilevanti ai fini degli artt. 88 e 89 c.p. disturbi mentali legati a malesseri fisici, ma consistenti in stati propri della psiche. Analogamente, in merito al momento in cui va riferito l’accertamento dell’infermità mentale, la giurisprudenza afferma concordemente che occorre far riferimento al momento in cui il fatto da giudicare è stato commesso; da ciò deriva che il riconoscimento di un’infermità mentale contenuta in una sentenza non può vincolare il giudice di un diverso procedimento a carico della medesima persona perché l’infermità mentale può non costituire uno status permanente dell’individuo. Se il giudice ravvisa la sussistenza di un vizio totale di mente che abbia privato il soggetto della capacità di intendere e di volere al momento della realizzazione della fattispecie delittuosa pronuncerà una sentenza di proscioglimento e, se ricorrono gli estremi della pericolosità sociale, potrà disporre la misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario ai sensi dell’art. 222 c.p.

Occorre, inoltre, tener presente che, in conformità con il c.d. orientamento psicologico, con la Sent. 9163/05 della Cassazione167, si è sancito che gli stati emotivi o passionali possano incidere sulla capacità mentale del soggetto, purché siano accompagnati da un fattore determinante o nell’ambito di un vero e proprio stato patologico sia pure transeunte e non inquadrabile in una precisa classificazione nosografia; come anche sono prese in considerazione le anomalie del carattere e le c.d. personalità psicopatiche, quando per la loro gravità e intensità, creino un vero e proprio squilibrio mentale e correlabile direttamente con l’azione delittuosa. Tematica su cui si tornerà più diffusamente in seguito. Per giunta, la dottrina giuridica prevalente sostiene, ormai quasi pacificamente, che le cause di esclusione di imputabilità non siano tipiche : “ Le c.d. cause di esclusione (o

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diminuzione) dell‟ imputabilità non sono tassative e dunque accanto a quelle espressamente previste dal codice possono darsene altre, sempre che abbiano effetto di privare concretamente il soggetto della capacità di intendere e di volere.”168

Pertanto l’indagine sull’imputabilità richiede un accertamento sulla presenza o assenza della capacità fondamentali richieste dalla legge, ossia le capacità di intendere e volere, e su qualsiasi fenomeno che le faccia venir meno.

2.1 Disturbi mentali e disturbi di personalità.

La dicotomia salute-malattia ha sempre accompagnato e influenzato la vita dell’uomo, in ogni suo aspetto, perché, come scriveva il filosofo francese Georges Canguilhem: “ la

salute non è altro che un equilibrio continuamente riconquistato su fratture.”169

Proprio Canguilhem, nel suo scritto Il normale e il patologico, del 1943, afferma che il patologico è qualitativamente identico al normale, che anzi esso è una chiave di lettura del normale, giacché ne costituisce, in un certo senso, un’amplificazione e un irrigidimento. Per lungo tempo, il tema della distinzione tra normale e patologico occupò la riflessione filosofica e sociologica, e salute e malattia (mentale) furono concepiti come fenomeni rigidamente contrapposti; a ciò si accompagnò un’equazione, se vogliamo quasi matematica, tra malattia e delinquenza.

Nel tempo, fu proprio la scienza psichiatrica ad abbandonare questa rigida dicotomia, in primis rifiutando l’idea del “pazzo tutto pazzo” in favore dell’assunto per cui non sempre e non necessariamente, la malattia mentale investe tutta la personalità; e in secondo luogo chiarendo che non vi è nessun legame di necessità fra certi tipi di disturbi e certi reati, anche se a livello di frequenze statistiche, vi sono disturbi mentali che sono più spesso ricollegabili alla commissione di reati. Non solo, gli studi della moderna psichiatria hanno anche evidenziato che seppur numerosi disturbi della psiche non sono classificabili come

168

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malattie in senso stretto, non si può escludere aprioristicamente che essi possano incidere sulla capacità di intendere e volere dell’individuo. Tra questi disturbi un ruolo significativo ricoprono i disturbi di personalità, su cui molto si è dibattuto soprattutto in ambito giuridico.

Appare opportuno, giunti a questo punto, fornire un breve quadro dei principali disturbi mentali fin qui individuati dalla scienza psichiatrica.

Innanzitutto, seguendo le indicazioni del DSM170, per disturbo mentale s’intende ogni sindrome di significativo rilievo clinico, meritevole di interesse psichiatrico, connessa ad una disfunzione psichica o biologica o comportamentale che possa produrre disagio o sofferenza o disabilità nel funzionamento sociale e che si accompagni ad un’importante limitazione della libertà dell’individuo. In altri termini, un disturbo mentale è un’affezione patologica che colpisce la sfera cognitiva, affettiva, comportamentale o relazionale di una persona in modo disadattativo, in modo, cioè, sufficientemente forte da rendere problematica la sua integrazione socio-lavorativa.

Quando il disturbo diventa particolarmente importante, durevole o invalidante si parla, in genere, di malattia mentale.

Le malattie mentali vengono solitamente distinte in nevrosi e psicosi.

Le nevrosi sono più frequenti e meno gravi in quanto l’individuo riesce a mantenere un buon contatto con la realtà. Esse possono essere fobiche, depressive, ossessive o isteriche: nelle nevrosi fobiche, è presente nell’individuo una paura irragionevole ed incontrollabile legata a situazioni specifiche od oggetti (es. agorafobia, claustrofobia etc.).

In quelle ossessive, invece, l’individuo è in continua lotta con idee che lo assediano (es. ossessione della pulizia, ossessione di compiere determinati gesti in un ordine preciso etc.). Infine, nelle nevrosi isteriche l’individuo si trova in una situazione conflittuale per cui da un lato ha un bisogno, un desiderio, e dall’altro non può esprimerlo né soddisfarlo a causa della repressione del suo Super-Io. Il bisogno troverà allora espressione in un sintomo isterico, ossia in un disturbo fisico (amnesia, paralisi temporanea, convulsioni, svenimento ect.) non causato da danni reali all’organismo.

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Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, uno dei sistemi nosografici per i disturbi mentali o psicopatologici più utilizzato da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo. Riferimento chiave anche per la giurisprudenza. È oggi giunto alla quinta edizione; la prima edizione risale al 1952 e fu redatta dall’American Psychiatric

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Di contro, le psicosi rappresentano le forme più gravi di sofferenza psichica, dove una profonda lesione della personalità e la rilevante alterazione di molteplici funzioni psichiche, rendono difficile il rapporto con se stessi e il mondo reale.

La psicosi comporta, infatti, un’alterazione della capacità di esaminare, capire, e quindi, adeguatamente giudicare il mondo nel quale il soggetto è inserito. Le manifestazioni fondamentali del fenomeno psicotico possono essere molteplici, in particolare si possono avere: il delirio, ossia un disturbo del pensiero che consiste in convincimenti ed idee che risultano in aperta contraddizione con la realtà, e che non recedono né all’evidenza né alla persuasione (es. uno psicotico con delirio di persecuzione o di influenzamento o di riferimento) o l’allucinazione, che consiste nel vedere, udire, o avere altre percezioni senza che in concreto esista ciò che viene udito o visto. E ancora, sono espressione della psicosi i disturbi del pensiero: il pensiero può andare incontro alla dissociazione, cioè alla perdita dei nessi logici nel susseguirsi delle idee, o all’incoerenza, talché esso risulta assurdo, o incomprensibile; in alcuni casi le persone, le loro parole, le situazioni di vita sono intese in modo distorto. A tutto ciò può aggiungersi, un’alterazione della coscienza dell’Io, una situazione morbosa che compromette il sentimento della propria identità e dell’integrità psichica della propria persona; in tali casi il malato può giungere a non riconoscere più se stesso e persino a credersi un altro individuo.

Occorre tener presente, infine, che la psicosi non è una specifica entità morbosa, ma una sindrome, cioè un insieme di sintomi che si manifestano nel corso di molte affezioni: segni di psicosi si possono osservare in certi disturbi mentali organici (intossicazioni alcoliche o da stupefacenti, cerebropatie171, demenze172), ma sono anche presenti nella paranoia173, in certi disturbi dell’umore e soprattutto nella schizofrenia.

Per l’appunto, la schizofrenia è uno dei più gravi disturbi psichiatrici; essa esordisce più frequentemente nelle prima adolescenza e colpisce con uguale frequenza ambo i sessi. Anche se il decorso della malattia è oggi più favorevole grazie ai progressi farmacologici, questo disturbo conduce ancora frequentemente al deterioramento. Tale malattia venne descritta formalmente per la prima volta dallo psichiatra Benedict Morel, con il nome di

171

Il termine indica ogni malattia del cervello che provoca lesioni anatomiche di tale organo. Fonte: Dizionario della

salute. 172

Con il termine demenza si indica un disturbo acquisito con base organica delle funzioni intellettive che sono state in precedenza acquisite: memoria e almeno una tra pensiero astratto, capacità critica, linguaggio, orientamento spazio temporale, con lo stato di coscienza vigile. Fonte: Dizionario della salute.

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dementia praecox, ma la nascita del concetto sindromico attuale si deve ad Emil Kraepin;

tuttavia fu lo svizzero Eugen Bleuler, nel 1911, a denominare questo disturbo schizofrenia (dall’unione dei due termini greci „‟, cioè dividere e „’, mente) e a descriverne compiutamente i sintomi. Sono state formulate molte ipotesi circa la causa e le alterazioni conseguenti della schizofrenia, ma ad oggi non si ha ancora alcuna certezza circa la sua eziopagenesi; si sono tuttavia individuati alcuni fattori di rischio dovuti a componenti genetiche, complicazioni del parto, fattori biologici e psicologici.

Per ciò che attiene ai sintomi, chi ne è affetto diventa del tutto indifferente a ciò che accade, reagisce in modo assurdo o incoerente agli eventi esterni, perde il contatto con la realtà e si isola in un mondo incomprensibile agli altri.

Al suo interno vengono identificati vari sottotipi: il primo è il tipo paranoico, caratterizzato dalla presenza di un sistema delirante incentrato su tematiche frequentemente persecutorie, di influenzamento, ma anche mistiche, spesso accompagnate da allucinazioni e alterazioni dell’umore, soprattutto nel senso di una modulare riduzione dell’emotività. Il secondo tipo è quello disorganizzato, caratterizzato, appunto, da una profonda disorganizzazione del pensiero e del comportamento, con umore dissintomo e inappropriato, spesso accompagnato da deliri e allucinazioni prevalentemente acustiche sotto forma di “voci”. Il tipo catatonico è, invece, caratterizzato essenzialmente da un disturbo psicomotorio, chiamato catatonia, consistente in uno stato di immobilità prolungata, alternata a scoppi di eccessiva mobilità, oppositività o mutismo, posture bizzarre o movimenti stereotipati. Nel

tipo residuo, mancano i segni psicotici più grossolani, anche se possono persistere il ritiro

sociale, l’inadeguatezza nelle relazioni e l’appiattimento affettivo. Infine, nel tipo misto sono presenti in maniera confusa i sintomi delle tipologie precedenti.

Tra i disturbi mentali, molto importante è anche la paranoia; sindrome cronica caratterizzata da un delirio rigido impenetrabile ove il sentimento di certezza dei propri convincimenti è esasperato al massimo. Si distinguono diverse varietà cliniche di paranoia a seconda dei deliri; il più comune è il delirio di persecuzione, consistente nella convinzione del soggetto che gruppi di potenti stiano tramando contro di lui, talvolta il presunto persecutore è conosciuto dal paranoico; altrettanto comune è il delirio di querela, caratterizzato dal continuo ricorrere alla giustizia del paranoico che si avventura in rovinosi processi per far fronte a torti subiti; e ancora il delirio di gelosia, il delirio mistico-religioso e il delirio di grandezza. Il paranoico appare una persona normale, anche perché i propri

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ragionamenti sembrano aderenti alla realtà, ma nonostante ciò può essere condotto dai suoi pensieri ossessivi a compiere delitti gravi.

Genere senza dubbio rilevante ai fini del presente studio e quello dei disturbi dell’umore. Categoria diagnostica in cui rientrano quei disturbi psichici che si connotano principalmente per un’alterazione dell’umore che sia di durata ed intensità eccessive. I disturbi dell’umore sono per la maggior parte privi di quei sintomi che vengono detti psicotici, ossia idee deliranti e allucinazioni. Tuttavia, nelle forme più gravi, al disturbo dell’umore si possono accompagnare le manifestazioni tipiche delle psicosi. Le cause sono molteplici:familiari, biologiche, psicologiche e ambientali, condizioni mediche gravi e uso di sostanze stupefacenti. Questi disturbi si presentano in forme diverse a seconda dei sintomi e sono suddivisi in disturbi depressivi e disturbi bipolari.

I disturbi depressivi si differenziano dalla normale deflessione dell’umore, perlopiù per la presenza di un’ideazione di colpa. Essi vengono distinti in Disturbo depressivo maggiore (c.d. depressione) e Disturbo distimico. Nel primo, il soggetto evidenzia un’infinita tristezza che si manifesta per la maggior parte del giorno, e che si accompagna a sentimenti di autosvalutazione o di colpa. Inoltre presenta una marcata diminuzione di interesse e piacere per tutte, o quasi tutte, le attività. Per essere diagnosticato come disturbo, i sintomi devono verificarsi per almeno due settimane una o più volte nella vita. Il disturbo distimico, invece, risulta caratterizzato dalla presenza di umore depresso quasi ogni giorno per almeno due anni, accompagnato da sintomi depressivi di entità più lieve, ma costanti, cronicizzati.

Nei disturbi bipolari gli episodi depressivi si alternano in modo imprevedibile agli episodi maniacali. La mania costituisce la situazione opposta alla depressione e anch’essa presenta una vasta gamma di sfumature quantitative. Nel corso di un episodio maniacale si riscontra un umore anormalmente elevato, espansivo o irritabile, della durata di almeno una settimana; inoltre possono anche manifestarsi deliri o allucinazioni congrui all’umore, il cui contenuto è in accordo con i temi maniacali di autostima, potere, cultura o identità ipervalutata, o anche forme con manifestazioni incongrue.

È comprensibile la facilità con la quale, negli stati maniacali, possono commettersi reati, tuttavia in relazione a questa tipologia di disturbi, risulta fondamentale considerare il c.d.

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benessere psichico il soggetto riprende funzionamenti adeguati e recupera quindi, sotto ogni profilo e nella maggior parte dei casi, la piena capacità.

Per quanto riguarda i disturbi di personalità, secondo la Dottrina scientifica in materia, i disturbi della personalità non sono caratterizzati da specifici sintomi o sindromi, come ad esempio il disturbo ossessivo-compulsivo, la depressione o gli attacchi di panico, ma dalla presenza esasperata e rigida di alcune caratteristiche di personalità.

Con il termine personalità (o carattere) si definisce il modo stabile che ciascuno di noi si è costruito, con le proprie esperienze ed a partire dal proprio temperamento innato, di rapportarsi con gli altri e con il mondo.

I tratti che la compongono rappresentano le caratteristiche del proprio stile di vita ed il rapporto con gli altri: così esiste per esempio il tratto della dipendenza dagli altri, o della sospettosità, o della seduzione, oppure quello dell'amor proprio.

Normalmente questi tratti devono essere abbastanza flessibili a seconda delle circostanze: così in alcuni momenti sarà utile essere più dipendenti o passivi del solito, mentre in altri sarà più funzionale essere seducenti.

I disturbi della personalità sono, invece,caratterizzati dalla rigidità e dalla presentazione inflessibile di tali tratti, anche nelle situazioni meno opportune.

Ad esempio, alcune persone tendono sempre a presentarsi in modo seducente indipendentemente dalla situazione nella quale si trovano, rendendo così difficile gestire la situazione; altre persone, invece, tendono ad essere sempre talmente dipendenti dagli altri che non riescono a prendere autonomamente proprie decisioni.

Solitamente tali tratti diventano così consueti e stabili che le persone stesse non si rendono conto di mettere in atto comportamenti rigidi e inadeguati, da cui derivano le reazioni negative degli altri nei loro confronti, ma si sentono sempre le vittime della situazione e alimentano il proprio disturbo.

Così, ad esempio, una persona che presenta un disturbo paranoide di personalità, con il suo comportamento sospettoso, non dando fiducia agli altri, ottiene, spesso, risultati contrari a quelli perseguiti e reazioni aggressive. Da ciò egli trae la conferma dell'idea che non ci si possa fidare di nessuno, non comprendendo, invece, che tutto ciò deriva proprio dal comportamento da lui messo in atto.

(15)

I disturbi di personalità sono suddivisi, secondo la più diffusa classificazione psicopatologica, in tre categorie:

 Disturbi caratterizzati dal comportamento bizzarro.

Sezione che include il Disturbo paranoide di personalità, caratterizzato da una costante interpretazione del comportamento degli altri come malevolo, da cui deriva un comportamento sempre sospettoso; il Disturbo schizoide di personalità (chiamato anche psicopatia disaffettiva), manifestato da una mancanza di pietà, di empatia e aridità affettiva;chi ne soffre non è interessato al contatto con gli altri, preferendo uno stile di vita riservato e distaccato dagli altri. Infine il Disturbo schizotico di personalità, solitamente presentato da persone eccentriche nel comportamento, che hanno scarso contatto con la realtà e tendono a dare un'assoluta rilevanza e certezza ad alcune intuizioni magiche.

 Disturbi caratterizzati da un'alta emotività.

In essa si includono: il Disturbo borderline di personalità, contraddistinto da immotivati accessi d’ira, forte impulsività, forte instabilità sia nelle relazioni interpersonali sia nell'idea che il soggetto ha di sé stesso, con la conseguente oscillazione tra posizioni estreme in molti campi della propria vita; il Disturbo istrionico di personalità, nel quale si tende a ricercare l'attenzione degli altri, ad essere sempre drammatico e a manifestare in modo marcato e teatrale le proprie emozioni; il Disturbo narcisistico di personalità: chi ne soffre tende a sentirsi il migliore di tutti, a ricercare l'ammirazione degli altri e a pensare che tutto gli sia dovuto, data l'importanza che si attribuisce; e il Disturbo antisociale di personalità: chi ne soffre è una persona che non rispetta in alcun modo le leggi, tende a violare i diritti degli altri, non prova senso di colpa per i crimini commessi.

 Disturbi caratterizzati da una forte ansietà.

A quest’ultima categoria si riconducono: il Disturbo evitante di personalità: chi ne soffre tende a evitare in modo assoluto le situazioni sociali per la paura dei giudizi negativi degli altri, presentando quindi una marcata timidezza. Il Disturbo dipendente di personalità, in cui, di contro, chi ne soffre presenta un marcato bisogno di essere accudito e seguito da parte degli altri, delegando quindi tutte le proprie decisioni. E da ultimo il Disturbo ossessivo compulsivo di personalità: connotato da una marcata tendenza al perfezionismo ed alla precisione, una forte preoccupazione per l'ordine e per il controllo di ciò che accade.

(16)

Una chiara esemplificazione dei diversi atteggiamenti che denotano i vari disturbi di personalità si ha nella simpatica immagine elaborata da D.J. Robinson, che si decide di riproporre.

Fig.1

Per concludere questo breve quadro sui principali disturbi mentali appare importante richiamare altre tre categorie di disturbi.

La prima è quella dei Disturbi d’ansia.

Si definisce ansia, quello stato di allarme che si attiva di fronte ad un segnale di pericolo esterno e che comporta una condizione di allerta, di massima attenzione e attivazione di tutte le risorse necessarie alla migliore efficienza del soggetto in previsione di un’eventuale situazione d’emergenza. L’ansia predispone l’individuo a rispondere con comportamenti funzionali alla sopravvivenza, quali la fuga e l’attacco; essa può scaturire non solo da situazioni di reale minaccia fisica, ma anche da quelle circostanze che potrebbero mettere in pericolo l’immagine che si ha di se stesi, la dignità personale o da quelle situazioni che richiedono la migliore prestazione possibile. Le condizioni psicopatologiche di questo gruppo si caratterizzano per la comune presenza, quale sintomo principale, di un’ansia disfunzionale e patologica; e rientrano tutte, con diversi livelli di gravità, nell’ambito nevrotico.

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Il DSM classifica tra i disturbi d’ansia i seguenti:

Disturbo d‟ansia generalizzata. Caratterizzato dalla presenza di un’ansia diffusa e di

preoccupazioni eccessive rispetto ad una pluralità di tematiche e situazioni. Frequentemente l’ansia si accompagna a diversi sintomi quali irrequietezza, facile affaticabilità, difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno e deflessioni del tono dell’umore.

Disturbi da attacchi di panico. Essi sono contraddistinti da un breve periodo di intensa

paura o disagio durante il quale, improvvisamente, si sviluppano alcuni sintomi quali tremori, palpitazioni, sudorazione, sensazione di soffocamento, parestesie, derealizzazione (senso di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi).

Disturbi fobici. Rientrano in questa categoria la fobia specifica, ossia una marcata e

persistente paura provocata dalla presenza o dall’attesa di situazioni precise, e la fobia sociale, espressione con cui si indica la presenza di una paura marcata e persistente di una o più situazioni sociali nelle quali la persona è esposta ad individui estranei o al possibile giudizio degli altri.

Disturbo post traumatico da stress. Disturbo che si può manifestare in persone che sono

state esposte ad un evento estremamente traumatico, nel corso del quale si sono trovate di fronte alla morte, alla minaccia di morte o a gravi lesioni nei propri confronti o nei confronti di altri, e al quale abbiano reagito con paura intensa, sentimenti di impotenza o di orrore. In questi casi, l’evento viene persistentemente rivissuto in diversi modi, tramite ricordi intrusivi, episodi dissociativi di flashback, illusioni, allucinazioni, costringendo il soggetto a vivere in uno stato di perenne allarme.

Disturbo ossessivo compulsivo. È un disturbo che si connota per la presenza di ossessioni,

ovvero pensieri o immagini psichiche ricorrenti che sono vissuti dal soggetto come intrusivi, inappropriati e fonte di ansia. Le ossessioni hanno un contenuto assurdo, talora osceno o blasfemo. Le compulsioni sono, invece, quei comportamenti che spesso si manifestano sotto forma di rituali che il soggetto pone in essere in risposta alle sue ossessioni. Si tratta di azioni ripetitive, concrete o mentali, prive di significato razionale; tra le più comuni il lavarsi continuamente le mani, allineare gli oggetti in un preciso ordine, il controllare più volte di aver compiuto determinate azioni e il compimento di determinati gesti per un numero preciso di volte prima di compiere i successivi.

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Essa racchiude particolari disturbi psichici che attengono esclusivamente alla sfera sessuale, e si connotano per un comportamento sessuale abnorme. Un comportamento può considerarsi abnorme secondo un criterio medico-biologico, che valuta alcuni comportamenti come morbosi, o secondo un parametro sociologico, che identifica come devianti alcune condotte contrarie al costume di un certo contesto culturale. Talvolta le perversioni sessuali implicano il coinvolgimento di partner non consenzienti, e possono perciò configurare dei reati. Tuttavia, non bisogna incorrere nell’errore di credere che tutte le perversioni sessuali comportino la commissione di reati, né tanto meno che tutti i delitti sessuali riconoscano la loro matrice in una parafilia.

Le paralifilie hanno come caratteristica essenziale il fatto che, per conseguire l’eccitazione, sono messi in atto fantasie o comportamenti che vanno al di là di quelli che sono gli abituali schemi naturalisticamente intesi. Si possono quindi distinguere quelle forme ove l’investimento sessuale, anziché rivolgersi ad un partner adulto di sesso opposto, si indirizza verso una figura diversa174. Si hanno quindi pedofilia175, gerontofilia176, zoofilia177. Vi sono, poi, deviazioni sessuali in cui la deformazione consiste nella fissazione

su componenti abitualmente secondarie o del tutto eccezionali dell’atto sessuale, accade così nel voyeurismo178; nell’esibizionismo179; nel frotteurismo180 e nella necrofilia181. Altre deformazioni parafiliache sono il masochismo182, il sadismo sessuale183 e il

feticismo184.

Un disturbo a se stante, per certi versi riconducibile a disturbi legati alla sfera sessuale, è il

transessualismo o disturbo dell‟identità di genere: coloro che ne sono affetti presentano

un’alterazione del sentimento dell’identità personale in ordine al proprio sesso, talché il loro “sesso psichico” è in contrasto con quello che è il loro sesso anatomico. Così come accaduto in passato con l’omosessualità, anche rispetto a tale disturbo la società civile sta

174

N.B. secondo una prospettiva rigidamente biologica, anche l’omosessualità, nella quale l’investimento libidico è rivolto a persone dello stesso sesso, dovrebbe essere inclusa nelle parafilie. Viceversa, il costume attuale, giunto ormai ad una pressoché diffusa accettazione dell’omosessualità, la esclude nettamente dal novero delle parafilie.

175

Ove gli impulsi sessuali si rivolgono verso soggetti impuberi.

176

Ove gli impulsi sessuali si rivolgono a persone anziane.

177

Ove gli impulsi sessuali si rivolgono ad animali.

178

Ove l’interesse erotico consiste soltanto nell’osservazione nascosta di persone estranee che si denudano o che sono impegnate in attività sessuali.

179

ove l’eccitamento è prodotto dal mostrare i genitali ad estranei.

180

Consistente nel toccare una persona non consenziente, o nello strofinarsi contro di essa, in luoghi affollati.

181

Ove l’oggetto dell’investimento libidico è un cadavere.

182

In esso la meta libidica è provare dolore, venire umiliati o comunque provare sofferenza.

183

In cui l’eccitamento sessuale si raggiunge con l’infliggere sofferenza fisica o psicologica al partner.

184

(19)

procedendo verso una sostanziale accettazione, anche in ragione della raggiunta consapevolezza delle grandi sofferenze psicologiche e sociali che questo disturbo comporta. Proprio in ragione di ciò, la Legge 164 del 1982 consente, previ adeguati accertamenti, l’intervento chirurgico e/o il trattamento ormonale, atti a modificare la morfologia degli organi genitali esterni e le caratteristiche sessuali secondarie del corpo, così da renderli in armonia con il sesso psichico del soggetto. In tal caso è consentita anche la rettifica anagrafica.

Da ultimo, appare doveroso un breve cenno ai Disturbi del controllo degli impulsi.

Essi sono denotati dall’incapacità di resistere ad un impulso seppur percepito come pericoloso per se o per gli altri. Rientrano in questo gruppo la cleptomania185, la

piromania186, il disturbo da gioco d‟azzardo patologico187 e il disturbo esplosivo

intermittente188. Si riconducono, inoltre, a questa categoria anche i disturbi del

comportamento alimentare189. Diversamente dalle categorie precedentemente citate, in relazione ai disturbi di quest’ultimo gruppo, appare evidente che soltanto alcuni di essi, e soltanto in situazioni particolari, possono assumere rilevanza penale.

185

Nella cleptomania, il soggetto ruba ripetutamente oggetti inutili e/o di scarso valore economico. Tali soggetti sono incapaci di resistere all’impulso di rubare, pur comprendendo l’inutilità o il rischio di tale comportamento.

186

Ove il soggetto applica ripetutamente incendi, come risposta all’impulso irresistibile di farlo. Impulso che non nasce da desiderio di vendetta o di odio nei confronti di chi viene danneggiato, né tanto meno da finalità lucrative o da particolari ideologie. Esso scaturisce da una sensazione interna di crescente tensione o di eccitazione e da una morbosa curiosità per il fuoco.

187 Il gioco d’azzardo può considerarsi patologico soltanto in presenza di alcuni parametri indicati dal DSM-V, per

esempio se la persona appare eccessivamente assorbita nel gioco, rivive le esperienze passate di gioco, ha bisogno di giocare somme sempre maggiori di denaro, tende a mentire circa il suo coinvolgimento nel gioco e a nascondere le perdite etc.

188

Si manifesta con reiterati episodi di aggressività che recano danno a sé o agli altri. Aggressività che appare

notevolmente sproporzionata rispetto allo stimolo che li ha eccitati, e provoca reazioni improvvise, imprevedibili e molto violente, che tendono a risolversi in un breve lasso di tempo.

189

Disturbi accomunati dalla presenza di un’alterata percezione del peso e della propria immagine corporea nonché dalla conseguente messa in atto di condotte atte ad evitare di prendere peso. I più diffusi sono l’anoressia nervosa (condizione patologica grave, spesso fatale, caratterizzata da un’intensa paura di ingrassare anche in presenza di un evidente sottopeso e da una preoccupazione estrema per il peso e l’aspetto fisico e dal rifiuto di mantenere il peso al di sopra di una soglia minima ritenuta normale. È anoressico il soggetto con un peso al di sotto dell’ 85% di quello previsto in base all’età e all’altezza.) e la bulimia nervosa (condizione patologica grave in cui il soggetto sente il bisogno compulsivo di ingerire spropositate quantità di cibo per poi ricorrere a diversi metodi per riuscire a non metabolizzarlo e, quindi, a non ingrassare. Essa si caratterizza per un’eccessiva preoccupazione per il peso e l’aspetto fisico, per il modo compulsivo di ingerire il cibo, accompagnata da una chiara sensazione di perdita di controllo, e infine per i conseguenti meccanismi

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3. Rapporti tra imputabilità e infermità.

Ad oggi, nonostante i progressi compiuti dalla scienza psichiatrica, dalla dottrina giuridica e dalla giurisprudenza, le perplessità e le incertezze circa i rapporti tra la disciplina dell’imputabilità e le nosografie psichiatriche continuano a perseguitare giudici, periti e studiosi della materia.

Ed in effetti, in concomitanza con i diversi progetti di riforma del codice penale succedutisi nel tempo, si è riproposta la difficoltà di individuare una formula legislativa di rinvio alla scienza psichiatrica in grado di svolgere l’opposta funzione di fornire reale contenuto e al contempo precisi limiti all’imputabilità penale.

L’essenza fondamentale della categoria giuridica dell’imputabilità, così come delineata dall’art. 85 c.p., deve essere rintracciata nella sua funzione di vera e propria delimitazione dell’ambito di influenza della risposta penale: la sanzione penale può infatti legittimamente applicarsi solo a coloro che sono genericamente in grado di pensare e determinarsi all’interno dell’orizzonte di senso dell’ordinamento giuridico.

La “capacità di intendere e volere”, contenuto della definizione di imputabilità, esprime la sintesi delle condizioni psicofisiche che consentono di ritenere l’essere umano in grado di recepire il messaggio della sanzione punitiva. Lo stato mentale richiesto dalla legge per la sussistenza dell’imputabilità risulta, quindi, costituito da due elementi distinti: quello intellettivo e quello volitivo. In relazione al primo costituente, il generico livello intellettivo acquista significato nella capacità del soggetto di prendere coscienza dell’illiceità del fatto, di rendersi conto che il suo comportamento si pone in contrasto con le esigenze del vivere sociale. Il secondo elemento, che presuppone il primo, attiene alla sussistenza della capacità di attivare meccanismi di controllo del comportamento sia inibitori, che promotori.

L’imputabilità si presenta dunque come concetto giuridico che permette di dare contenuto alla “normalità psichica”, giuridicamente intesa, attraverso il rinvio alle capacità psichiche fondamentali e basilari. Normalità che, per ovvie esigenze di funzionamento, si presume normalmente presente; motivo per cui l’onere della prova spetterà a chi sostiene la non imputabilità del soggetto.

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L’articolo 88 c.p., sulla base del parametro di normalità dettato dall’art. 85 c.p., stabilisce i caratteri dell’anormalità psichica: considera infatti vizio di mente, determinato da un’infermità, lo stato di mente190

in cui è esclusa la capacità di intendere e volere.

Tuttavia, come dicevamo, la relazione tra la categoria generale dell’imputabilità e l’infermità quale specifica causa di esclusione risulta essere tutt’altro che chiarita.

Un problema centrale riguarda la tipicità o meno delle cause di esclusione dell’imputabilità: ossia se la stessa possa essere esclusa solo dalle specifiche cause espressamente previste dal codice o se invece, ponendo l’accento più sull’effetto che non sulla causa, se ne possano considerare anche altre. La dottrina giuridica sostiene, ormai quasi pacificamente, che le cause di esclusione dell’imputabilità non siano tipiche, e che, quindi, possono esserne individuate altre; sempre che abbiano l’effetto di privare concretamente il soggetto della capacità di intendere e volere. Ciò vuol dire che l’indagine sull’imputabilità richiede un accertamento sulla presenza o assenza delle capacità fondamentali richieste dalla legge e su qualsiasi fenomeno che le faccia venire meno. Siffatte considerazioni hanno condotto alcuni giuristi a ritenere addirittura pleonastica la previsione dell’infermità quale specifica causa di esclusione dell’imputabilità. In effetti se ciò che conta è la mancanza di “capacità mentali fondamentali”, a prescindere dall’agente causale, diventa superflua ogni discussione relativa al tipo di infermità. Infatti il percorso logico è teoricamente rovesciato: prima si accerta l’assenza di capacità di intendere e di volere e poi lo si riconduce a qualche quadro nosograficamente conosciuto. Seguendo questa linea di pensiero, astrattamente parlando, un quadro di incapacità che non fosse riconducibile a nessun tipo di infermità ai sensi dell’art. 88 c.p. potrebbe comunque giustificare un’assoluzione ai sensi del più generale art. 85 c.p: sarebbe infatti iniquo ritenere imputabile un soggetto con accertata incapacità di intendere e di volere per il fatto che non si conoscono le cause di tale stato di incapacità o per il fatto che non rientra in nessuna etichetta diagnostica.

Una lettura rigorosa della norma sembrerebbe invero suggerire che vi siano due livelli causali distinti: lo stato mentale viziato e l’infermità. E l’imputabilità risulta esclusa dal primo e non dalla causa di quest’ultimo, ossia l’infermità.

190

N.B. lo stato di mente è qualcosa di più limitato, strutturalmente e temporalmente, da quello di personalità ( intesa comunemente comeil complesso stabile dei tratti comportamentali e di temperamento di un soggetto.)ma è anche

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Queste considerazioni appaiono tutt’altro che superflue considerando che spesso si leggono perizie nelle quali di fatto si dibatte sulla causa della malattia mentale, trasferendo direttamente in sede giudiziaria uno scontro scientifico-epistemologico sulla natura della malattia mentale e analisi autorevoli nelle quali i concetti di “infermità” e “stato mentale patologico” tendono a confondersi o quanto meno a sovrapporsi.191

Altra importante questione è, poi, comprendere cosa si vuole intendere per “stato patologico”. Si indica il fattore patogeno della malattia mentale da un punto di vista medico o si intende lo “stato psicopatologico disfunzionale”, ossia l’effetto della malattia mentale, il complesso sintomatologico che può più o meno corrispondere alla formula legislativa della capacità di intendere o volere?

Il tentativo giurisprudenziale di ricondurre ai parametri giuridici dell’imputabilità alcune forme atipiche di infermità si è tradotto secondo alcuni autori (Merzagora, 1999: 611; Ponti, 1994: 9) in pronunce tautologiche. A ben vedere, tuttavia, queste pronunce non sono altro che un tentativo di riportare su un piano funzionale un accertamento che viene a torto trascinato su un piano categoriale. Pare quasi che la categoria nosografia possa mettere al riparo dall’alea dell’indagine funzionale del caso concreto. In realtà, come sottolinea Pavan in un suo scritto192, talvolta il dissenso circa la sussistenza o meno del vizio di mente si è addirittura creato all’interno della stessa categoria diagnostica condivisa. L’autore riporta, in particolare, un caso in su una diagnosi di disturbo borderline di personalità, si innestarono le differenti opinioni di periti e consulenti tecnici: mentre questi ultimi ritenevano che sul disturbo di personalità si fosse innescato al momento del fatto un incontrollabile acting out che aveva condotto il reo, senza imputabilità all’azione; per i periti invece era da escludersi una condizione di totale incapacità di intendere e volere,

“considerato che la personalità dell‟imputato, pur seriamente perturbata, si inquadrava in un Io che non aveva mai perso la sua strutturazione di fondo.” Questa citazione ci

consente di mostrare come accada che il rinvio alle categorie nosografiche per dare certezza al giudizio sull’imputabilità rischi di risolversi in un insuccesso, in quanto di fatto ci si trova poi a discutere sul concreto contenuto psicologico delle suddette categorie. In verità, il senso generale della disciplina sull’imputabilità sembra essere quello per cui un individuo, per essere “scusato” nel compimento di un reato, deve in qualche modo aver

191

Cit. Sammicheli L.- Donzella G., “ I rapporti tra imputabilità e infermità mentale.” in Rassegna Penitenziaria e

criminologica, n.3/2004. 192

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“subito” o “patito” il turbamento del proprio equilibrio psichico. Non interessa tanto la causa del turbamento, quanto piuttosto che abbia subito il turbamento. E pertanto il “vizio di mente causato da infermità” potrebbe intendersi più nel senso di “stato mentale patologico passivamente subito” che non nel senso di “stato mentale patologico nosograficamente riconosciuto”. L’esempio più significativo è quello di quei casi in cui il soggetto si sia volontariamente procurato uno stato di incapacità al fine di commettere un reato: casi in cui ai sensi dell’art. 87 c.p. la disposizione della prima parte dell’art.85 c.p. non si applica. Quindi, in tali casi sebbene il soggetto sia “naturalisticamente” in uno stato di incapacità, giuridicamente viene considerato pienamente imputabile. E ciò perché non è scusabile la causa che ha prodotto lo stato di incapacità. E, dunque, come affermato da un’autorevole dottrina193, di fronte alla portata generale dell’art. 85 c.p., si pongono come

norme eccezionali, e quindi tassative, non le norme che prevedono le cause di esclusione dell’imputabilità, ma al contrario quelle che affermano l’imputabilità nonostante una naturalistica incapacità di intendere e volere.

193

Cit. Romano-Grasso, Commentario sistematico del codice penale, Vol. II, Giuffrè, 1996, tratto da Sammicheli L.- Donzella G., “ I rapporti tra imputabilità e infermità mentale.” in Rassegna Penitenziaria e criminologica, n.3/2004,

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3.1 Articolo 88 c.p. : il vizio totale di mente.

Le cause escludenti l’imputabilità, puntualizzate dal legislatore attraverso criteri predeterminati ma non tassativi, appartengono alle species dell’immaturità fisiologica o parafisiologica (minore età e sordomutismo) e delle alterazioni patologiche (dovute ad infermità di mente o all’azione di alcool o sostanze stupefacenti), descritte complessivamente agli articoli 88 e 89 del codice penale.

Tralasciando l’analisi della condizione di non imputabilità conseguente a minore età e sordomutismo, si è scelto, per coerenza contenutistica, l’approfondimento dello studio delle sole alterazioni psicopatologiche, derivanti da infermità tale da incidere sullo stato di mente.

L'art. 88 c.p. disciplina il vizio totale di mente, statuendo che "Non è imputabile chi, nel

momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere".

La diversa formulazione di tale articolo rispetto alla disciplina prevista dal codice Zanardelli all'art. 46 risponde ad un preciso intento: quello di riconoscere che il vizio, totale o parziale, di mente possa dipendere anche da infermità fisica, purché questa abbia effetto sulla capacità di intendere e di volere.

Ciò emerge chiaramente dalla formulazione adottata dal codice, ove nell’articolo de quo esso parla di semplice infermità, diversamente dall’articolo 222 c.p. dove invece si riferisce espressamente all’infermità psichica. Appare dunque evidente che l’infermità da cui deve trarre origine il vizio di mente può essere localizzata anche in sedi diverse dalla mente 194 ; ed è sufficiente che, da un lato essa abbia generato uno stato di mente tale da escludere o almeno da "scemare grandemente" la capacità di intendere e di volere e, dall'altro che ne sia stata accertata l'esistenza al momento in cui il soggetto ha commesso il reato.

Prima di procedere ad ogni altra disquisizione appare significativo notare come nell’articolo 88 c.p. il legislatore utilizzi la disgiunzione «o» (capacità di intendere o di volere), diversamente dalla congiunzione «e» presente all’articolo 85 c.p.( è imputabile chi

194

Intesa questa quale centro delle facoltà psichiche dell'intelletto e della volere. M. Portigliatti Barbos, G. Marini, in Dorati, I fondamenti giuridici dell‟imputabilità, 2014, In L’altro diritto. Centro di documentazione su carcere, devianza e

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ha la capacità di intendere e di volere): naturalmente la disparità non può intendersi casuale o effetto di una svista legislativa. Difatti, mentre il campo dell’imputabilità si riferisce ad un giudizio complessivo e positivo sulla persona (è imputabile) e richiede quindi una valutazione globale delle dinamiche psichiche della stessa, il vizio di mente può interessare, secondo il legislatore, tratti specifici dell’essere psichico sino alla totale o parziale incapacità dell’agente.

Ferma restando l’unità irripetibile della persona, sul piano dell’esperienza clinica può talora notarsi questa realtà dicotomica (intendere o volere), sicché alla compromissione della dimensione volitiva può non derivare, almeno a livello esteriore della condotta, la disorganizzazione completa o apprezzabile dell’intendere.

All’uopo Gerin sottolinea: “[..] come nelle psicosi esogene in fase acuta (traumi e tumori

cerebrali; psicosi tossiche, tossi-infettive, encefalitiche, puerperali, epilettiche con grave disturbo di coscienza), nei deliri onirici, nell‟idiozia grave, negli stati crepuscolari psicogeni (ad esempio, da spavento), ecc. siano di norma abolite o profondamente alterate entrambe le capacità, quella dell‟intendere e quella del volere; nelle schizofrenie, nelle psicosi maniaco-depressive, in tutte le pulsioni ossessive si può ritenere gravemente alterata o abolita la capacità di volere mentre quella di intendere può risultare più o meno integra.”195

Lo stesso autore tuttavia precisa l’incontestabile difficoltà di separare le due dimensioni psichiche (intendere e volere) nel caso di grave alterazione della capacità di intendere. Così, a titolo esplicativo, in tema di deliri lucidi sistematizzati (paranoia) e di delitto di omicidio del delirante persecutorio che uccide il presunto e ignaro persecutore: il fatto, collegato al disturbo del pensiero, pur inserendosi in un contesto di buona conservazione della personalità, si innesta su un processo intellettivo falsificato da una concentrazione ideativa fuorviante ed il conseguente gesto delittuoso non può ritenersi frutto di capacità di volere, ma di una mera manifestazione di volontà o di un atto che conserva solo esteriormente lo status di atto volontario.

Occorre, inoltre, considerare che al volere, così come all’intendere, partecipano un insieme di elementi concorrenti: le facoltà volitive e le decisioni, infatti, si determinano nell’ambito di contenuti di coscienza, di rappresentazioni, di giudizi, ed anche di sentimenti; e nella

195

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realtà del soggetto che ha agito risulta impossibile enucleare tali facoltà dell’insieme psichico, fatto sempre anche di cariche affettive ed emotive.

È indubbio che le malattie psichiatriche in senso stretto occupino un posto di primo piano nella gerarchia classificatoria delle infermità rilevanti ex artt. 88 e 89 c.p., e questo sia per la tendenziale maggior gravità che per la rilevanza attribuita loro durante la preparazione del codice; non vanno comunque a piori escluse altre anomalie psichiche la cui consistenza psicologica va accertata caso per caso. A riguardo, anche la Corte di Cassazione ha più volte sancito che “ Gli artt. 88 e 89 c.p. postulano un‟infermità di tale natura e intensità

da compromettere seriamente i processi conoscitivi e volitivi della persona, eliminando o attenuando la capacità della medesima di rendersi conto del significato delle proprie azioni e di comprenderne, quindi, il disvalore sociale, nonché di determinarsi in modo autonomo. Le infermità che influiscono sulla imputabilità sono le malattie in senso stretto, cioè le insufficienze cerebrali originarie e quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche. Queste ultime sono contraddistinte da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità, come accade invece per il vasto gruppo delle abnormità psichiche quali le nevrosi e le psicosi[…]”196

.

Rispetto alle abnormità psichiche è interessante notare come nell'orientamento più recente della Cassazione la Corte sottolinei come esse "non integrano il concetto medico-legale di

malattia, ma costituendo varianti anomale dell'essere psichico, sono ricondotte nella categoria della infermità di mente".

In tali casi, diversamente da quanto si verifica per le psicosi, è compito del giudice chiarire se l'anomalia abbia avuto un rapporto motivante con il fatto delittuoso commesso e quindi stabilire in caso di risposta positiva, se l'anomalia sia tale da far ritenere che quel soggetto, in relazione al fatto commesso, non fosse in grado di rendersi conto della illiceità del fatto e di comportarsi in conformità a questa consapevolezza ovvero avesse al riguardo una capacità grandemente scemata, o fosse pienamente imputabile.197

Alla luce di quanto esposto, possono essere requisiti sufficienti dell’infermità anche quelle alterazioni psichiche atipiche e transeunti che, per la loro imponenza, abbiano perturbato, escludendo o diminuendo, le normali capacità intellettive e volitive.

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Il vero punto dolente rimane l’individuazione del grado di degenerazione delle funzioni intellettive e volitive, rilevanti ex art. 88 c.p., al momento della commissione del fatto reato, necessaria al riconoscimento della non imputabilità totale o parziale. Esistono, infatti, forme intermedie, marginali e miste ai quadri psicopatologici che sfuggono alle contratture terminologiche e richiedono un maggiore sforzo interpretativo diretto all’attenta ricostruzione delle circostanze presenti al momento del fatto. Superato il criterio organicistico di estrazione positivista, fondato sull’assioma follia-non imputabilità, si ritiene sussistente il vizio di mente quando il fatto reato si iscriva nell’alveo della patologia di mente di cui l’agente è portatore e si presenti come sintomatico dello stesso disturbo psicopatologico. Il rigore e l’obiettività con cui va accertato lo stato di alterazione psichica al momento del fatto non contrastano con l’esigenza di valutare la rilevanza di altre anomalie psichiche che sfuggono ad una precisa classificazione o ad una chiara eziologia organica. L’assunto fondamentale è, dunque, che ogni condizione morbosa può essere idonea e sufficiente a configurare un vizio totale o parziale di mente, purché la sua veemenza psicopatologica sia tale da escludere o diminuire le capacità di intendere e volere. Questa precisazione conduce ad escludere dal novero delle cause di infermità quei tratti caratteriali e disturbi di personalità che, pur configurandosi come comportamenti abnormi e deviati rispetto alle comuni reazioni agli accadimenti della vita, rappresentano comunque modi di essere della persona e non comportano di per sé un deterioramento, uno scompenso o la destrutturazione dell’intera personalità. Si tratta di disarmonie del comportamento, stabili nel tempo, che non possono costituire, di per sé, premessa valida al riconoscimento di un vizio di mente (si pensi, tendenzialmente, alle psicopatie, alle nevrosi, ai disturbi degli impulsi..). Come dichiarato anche dalla Corte di Cassazione “[..]

la personalità disarmonica, comunemente indicata come personalità psicopatica, non è di per sé indicativa di uno stato patologico incidente che incide sull‟imputabilità, perché normalmente si risolve in anomalie del carattere, e, in forme degenerative, in turbe inerenti soprattutto alla sfera affettiva”198

“ così pure la marginalità e la devianza sociale maggiore non incidono sulla capacità di intendere e di volere ove non si evidenzino nel quadro clinico significativi elementi patologici che, esulando dalle mere disarmonie

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