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Poetica del segreto. Figure femminili nell’opera di Corrado Alvaro 1.

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(1)

Poetica del segreto. Figure femminili nell’opera di Corrado

Alvaro

1.

La Vita

Corrado Alvaro nasce il 15 aprile 1895 a San Luca, paese calabrese in provincia di Reggio Calabria, da cui prenderà i temi, i personaggi, gli ambienti e le problematiche che troviamo nelle sue opere. Come riportato dall’autore stesso, « era un paese di pastori, più che di contadini, e aveva tutto l’Aspromonte pei suoi armenti, ricco, prospero. La borghesia, detta Università, era di tre famiglie di ricchi proprietari. I pastori coi loro anziani e capi abitavano una contrada alta detta il Petto. I maestri d’arte abitavano la parte più bassa del paese, detta il Macigno ».1

La famiglia Alvaro era di modesta estrazione sociale. Il padre di Corrado, Antonio, faceva il maestro. Era un lavoro particolare al tempo, perché chi lo svolgeva non era né povero né ricco, ma veniva visto dagli abitanti del paese come il detentore del sapere, un tramite tra i bisogni di tutti i giorni e le difficoltà culturali. Mentre la madre, Antonia Giampaolo, era figlia di piccoli proprietari terrieri. I due si erano sposati dopo aver vinto la resistenza della famiglia di lei, che diffidava di Antonio in quanto era un « uomo a stipendio ». « Il padre era un tipo singolarissimo, generoso, cordiale, eppure geloso delle proprie cose e della propria intimità, dotato di un bizzarro spirito d’artista, di una sensibilità a suo modo acutissima e di una instancabile e stravagante fantasia, capace di intuizioni illuminanti anche se fornito di una cultura mediocre, loquace e al pari tempo chiuso in se stesso, desideroso di novità e insieme caparbio e amoroso custode delle tradizioni ».2

Di questo uomo Alvaro fa un indimenticabile ritratto in Memorie e vita: Egli era diventato, senza rendersene conto, il regolatore di tutte le manifestazioni del nostro villaggio, e non come impresario o promotore in

1 C. Alvaro, Memoria e vita, in Il viaggio, Brescia, Morcelliana, 1942, p. 10. 2 A. Balduino, Corrado Alvaro, Milano, Mursia, 1972, p. 7.

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prima linea, ma come voce della tradizione, come testimone e fedele. Amava le tradizioni, le consuetudini, le ricorrenze, tutto ciò che è ordine e tutto quanto è memoria e vita. Dicevano che portasse fortuna con la sua presenza, e tutte le mattine del primo d’ogni mese era suo compito entrare nelle case degli amici per primo « col buon piede », bono pede come dicevano i Romani che avevano il medesimo rito. Si levava all’alba e si metteva in giro per le sue faccende. Aveva una voce forte e sonora, di testa, ma piena; non ebbe mai voce da vecchio, per quanto sia morto a settantasei anni. Era la sua voce che si sentiva prima all’alba. Al nostro paese non esistevano, allora, altre botteghe che un’osteria, un negozio di manufatti e di droghe, tenuti da forestieri, gente di Amalfi. Vendite di pane si videro più tardi, dopo la prima guerra europea, e così vendite di generi alimentari. Ognuno aveva le sue provviste annuali d’ogni cosa che serve al vivere. Era una vergogna comperare il pane, il segno della vera povertà. L’occupazione prima di mio padre era quella di girare per le merci che dava la stagione, trattare, esaminare, comprare; prima delle otto, prima della scuola. Che egli facesse questo soltanto per necessità non mi pare. Era innamorato delle cose, degli aspetti delle cose, della loro forma, dei loro colori e della loro consistenza. Era curioso della vita, degli uomini, degl’incontri.3

Questa descrizione, in cui non vi è nessun trasporto emotivo da parte dell’autore, è molto importante perché la figura del padre tornerà spesso nei racconti di Alvaro. Infatti Egli è stata una persona fondamentale nella vita dello scrittore, sia perché fu il suo primo maestro di vita, sia perché, più avanti, diventerà il suo ideale umano. L’autore assumerà lo stesso punto di vista paterno e si identificherà in lui, infatti nel ’42 ne Il viaggio scriverà:

[…] Parlando di mio padre, devo in qualche modo parlare di me. Perché alla fine, dopo la polemica con la paternità, l’uomo finisce con l’assomigliare ad essa, confondersi, continuarla. Io mi sento ora il suo viso, i suoi modi, il suo corpo, le sue mani. Mi sento in qualche modo il suo animo, e senza aver saputo per anni gran che della sua vita, mi sono bastati pochi accenni per capire come passò i trent’anni che ci separano, meno qualche intervallo, fino alla sua morte. […] e mi sentivo, a mano a mano che passavano gli anni, sempre più vicino a lui, confuso con lui. Sul principio la vita è tutto un lavoro per sciuparsi, non assomigliare al padre.4

[…] E un giorno mi sono trovato a riordinare le mie cose come mio padre aveva fatto con le sue, ad affrontare la mia lotta come egli affrontò la sua, a considerare gli uomini come egli li considerava, a essere ugualmente meticoloso e ostinato, a essere felice di tener in serbo una piccola cosa necessaria con l’amore stesso e la stessa fedeltà verso la natura e la Provvidenza.5

Anche la madre avrà un ruolo molto importante nella vita dello scrittore calabrese. Ella era molto diversa dal marito:

3 C. Alvaro, Memoria e vita, in Il viaggio, Brescia, Morcelliana, 1942, pagg. 12 – 13. 4

Ibidem pagg. 34 – 35. 5

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« taciturna, segreta e discreta: dice quello che pensa quando non può farne a meno, e spesso dopo anni e anni ricorda cose precise, parole, atti, ma senza rimprovero, come una testimone »6.

Cresciuta sotto l’autorità paterna e la rassegnazione materna, era accondiscendente, ma non timorosa, dedita ai figli (ne aveva altri cinque oltre a Corrado) e al marito.

Alvaro proverà per la figura materna una sorta di venerazione e le attribuirà tutta una serie di simboli che porteranno alla mitizzazione della donna, senza, tuttavia, allontanare lo scrittore dalla realtà. Nei Settantacinque racconti l’autore descrive la madre richiamandosi alla tradizione cattolica questa è la più bella rappresentazione della figura femminile che troviamo nelle sue opere:

Le madri di campagna non sono abituate alle tenerezze altro che dei figli piccoli… Il ragazzo mangia il creato, le creature, la razza, la famiglia. “Prendi, questo è il mio corpo”, ha l’aria di dire la madre quando gli dà il pane. Ed è curioso vederla come impugna il coltello tagliante, lei che non ha nulla della guerriera, eppure con quel coltello difenderebbe il figlio dai mostri, se necessario. Taglia il pane con misericordia, come se in quel momento avesse pietà di tutto il mondo senza pane.7

Alvaro sarà influenzato da questo ambiente familiare, sociale e storico nella formazione della sua cultura e nell’elaborazione delle sue opere.

Dopo aver frequentato la scuola elementare a San Luca, nel 1906, all’età di nove anni, viene mandato dal padre nel collegio gesuitico di Mondragone, presso Frascati. Tappa obbligata per tutti i giovani del sud facenti parte della piccola borghesia artigianale e contadina. L’autore sotto la guida del più importante grecista italiano, Lorenzo Rocci, a quel tempo direttore del collegio, acquisisce un tipo di insegnamento che « non tendeva a formare nella scuola giovani infarinati di cultura generale, con una somma di notizie più o meno imprecise e senza esperienza. Al contrario, se ne usciva privi di nozioni generali ma abbastanza forniti di una: ed era il metodo per accostarsi alla cultura »8

. « Il ragazzo vuole

6

Ibidem pag. 14. 7

C. Alvaro, Settantacinque racconti, Milano, Bompiani, 1955 8

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conoscere tutto: la vita, le cose del mondo, se stesso, gli uomini, le loro opere: personalmente e integralmente; se ne sente attratto mentre vive una profonda esigenza di affermazione personale »9

.

Alvaro, dopo cinque anni dal suo arrivo al collegio, verrà espulso a causa della lettura di alcune opere, principalmente quelle di D’Annunzio e Carducci che erano state escluse dai programmi d’insegnamento dei gesuiti. L’autore stesso in Roma vestita di nuovo scrive:

leggevo di nascosto Carducci. Me lo aveva veduto sotto il banco un ragazzo che oggi è Principe romano. Se lo fece prestare. Evidentemente gli fu trovato. Conteneva l’Inno a Satana, che io non capivo e che non era di mio particolare gusto, ma c’era. E tanto bastava. L’edizione era di quelle piccole dello Zanichelli col viso plebeo del poeta maremmano, tra un ramo d’alloro ed un’incudine, sullo sfondo di una veduta del Foro romano.10

Questo episodio fu molto traumatico per Alvaro che fu anche costretto a cambiare scuola. Si trasferì in Umbria nel collegio di Aurelia dove frequentò l’ultimo anno del ginnasio, poi tornò in Calabria, a Catanzaro, per portare a termine gli studi liceali. In questo periodo si dedicò molto alla scrittura e frequentò assiduamente la biblioteca comunale di Catanzaro. Nel 1913, con un anno d’anticipo, si diplomò.

Nel frattempo è sempre più vicina la prima guerra mondiale « avversata da molti, ma anche esaltata dai futuristi come igiene del mondo e morale educatrice, o ritenuta mezzo per conseguire libertà e indipendenza, viene a scardinare in tutto il mondo, e soprattutto in Italia, l’assetto equilibrato e il difficile processo di democratizzazione così faticosamente avviato, accentua tutti i mali che trova non risolvendone nessuno ».11

Nel 1915 Alvaro frequenta l’accademia militare di Modena e in seguito parte per il fronte con il grado di sottotenente di fanteria. Al fronte sarà ferito gravemente ad ambedue le

9

M. L. Cassata, Corrado Alvaro, Firenze, Le Monnier, 1974, pag. 8. 10

C. Alvaro, Roma vestita di nuovo, Milano, Bompiani, 1957, pag. 114. 11

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braccia e sarà ricoverato presso l’ospedale militare di Ferrara dove passerà un lungo periodo di degenza. Il braccio destro non guarirà mai completamente.

L’anno dopo inizia a lavorare come giornalista nel Resto del Carlino sotto la direzione di Mario Missiroli. Nel 1919, dopo essersi sposato con Laura Babini, si laurea in Lettere all’Università di Milano e viene assunto dal Corriere della Sera. Non soddisfatto delle mansioni che ricopriva all’interno del giornale perché non in linea con ciò che lui voleva fare, Alvaro decide di rischiare e di ricominciare in un altro giornale. Viene assunto prima dal Tempo e poi dal Mondo di Giovanni Amendola come corrispondente da Parigi questa esperienza allarga le sue conoscenze culturali e i suoi orizzonti. Il Mondo diventerà il maggior organo dell’antifascismo fino al 1926, anno in cui sarà soppresso. Tutti i giornalisti che ne facevano parte arrivarono a scontrarsi con il regime, anche Alvaro che scriveva « volontariamente » i suoi articoli su quel giornale. Aderì anche all’Unione Nazionale, attraverso la quale « per opera specialmente di Amendola, si associarono molti antifascisti dei ceti medi e intellettuali, e che sorse in parte, com’è noto, quale reazione dell’opinione pubblica del delitto Matteotti ».12

« Il suo nome apparve inoltre nel secondo elenco di firmatari della risposta degli antifascisti al manifesto degli intellettuali fascisti che era stato redatto da Giovanni Gentile ».13

Nel 1925 Alvaro iniziò una collaborazione come critico teatrale presso il Risorgimento, inoltre faceva parte della redazione della rivista 900, il cui direttore era Bontempelli, aveva iniziato a collaborare con la Fiera letteraria di Umberto Fracchia e aveva intensificato il suo lavoro da traduttore per risolvere la sua situazione economica precaria.

12

C. Alvaro, Note autobiografiche, in appendice a Ultimo Diario (1948-56), Milano, Bompiani, 1961, pag. 218.

13

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Nel 1927 iniziò a lavorare alla Stampa, ma in seguito fu costretto a emigrare in Germania a causa della situazione italiana, infatti « i continui attacchi, non solo verbali, dei fascisti gli avevano reso sempre più difficile la vita privata e l’attività giornalistica ».14

Durante il soggiorno in Germania Alvaro scrive Gente in Aspromonte che sarà pubblicato in Italia nel 1930, ma l’opera a cui deve il suo successo fu l’Amata alla finestra del 1929 a cui sembra dovesse andare anche il premio Fiera letteraria, « però, il “duce” consultato dalla Commissione, pronunciò un bel “no” e il premio passò a Piero Gadda Conti per il libro “Il Marzo”15

».16

Nel 1931 gli viene assegnato il premio La Stampa per Gente in Aspromonte; secondo la versione di Vigorelli perché « Umiliati e pentiti di avere peccato di zelo e di servilismo chiedendo a Mussolini un consenso e provocandone un divieto, quasi tutti i letterati si coalizzarono col grande appoggio di Malaparte, che ne fece una questione d’onore, e manovrarono per far vincere ad Alvaro il premio maggiore conferito da La Stampa »17

. Ma Misefari in “Alvaro politico” scrive che lo scrittore in questo periodo stava avvicinandosi agli intellettuali fascisti, infatti frequenta Albertini, Giovanni Gentile, Stefano Zweig, Luigi Pirandello e Curzio Malaparte. Inoltre conosce anche la scrittrice Margherita Sarfatti, amante del duce. Questo incontro viene descritto da Alvaro in Quasi una Vita:

Ultimamente mi trovavo a casa di persone di conoscenza, prudentissime e tementi. Di questi tempi tutti stanno attenti ai contatti con gente come me, poco meno che in considerazione di appestato. Ad un certo punto la padrona di casa,

14

A. Balduino, Corrado Alvaro, Milano, U. Mursia & C., 1972, pag. 12. 15 C. Alvaro, Quasi una vita, Milano, Bompiani, 1951, pag. 57.

Su questa vicenda Alvaro scrive: « tornare con una stima dall’estero, un editore, POTER TROVARE LAVORO. UN PREMIO LETTERARIO DELLA « FIERA LETTERARIA », DI 5000 LIRE MI AVREBBE SERVITO, non soltanto pel denaro, ma per l’acquisto di quel diritto di lavorare. Ma i miei colleghi hanno richiesto di compromettermi più gravemente, chiedendo il parere dei politici, e nientedimeno l’assenso della Segreteria del Partito sul mio nome. Vogliono essere in regola, sono zelanti E COSI’ HANNO PROVOCATO UN DIVIETO. E UN DIVIETO IN QUESTE CONDIZIONI È UNA CONDANNA. Ma bisogna soltanto sperare in persone che, pur essendo in regola, non si vietano qualche atteggiamento libero, e per contrastare con un sospetto di servilismo o per civiltà letteraria. Dagli scrittori italiani non c’è da aspettarsi, in genere atteggiamenti simili. Gli scrittori italiani hanno né più né meno che gli atteggiamenti della classe media italiana, in generale ».

16 E. Misefari, Alvaro Politico, Catanzaro, Rubbettino, 1981, pag. 72.

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che tornava da una chiamata al telefono, mi mormorò: « badi che fra poco arriva Margherita Sarfatti ». Capii che dovevo andarmene. Ma mentre mi infilavo il pastrano all’ingresso, suona alla porta ed entra Margherita Sarfatti. Ella dice alla padrona di casa che mi accompagnava: « Vorrei avere l’occasione di conoscere Alvaro ». La padrona di casa mi indica. La signora Sarfatti mi dice: « Avrei piacere di rivederla. Io ricevo tutti i venerdì ». e si avviò di là con la sua aria da generale. La signora Sarfatti è temuta e corteggiata. Nelle mie condizioni, evitato, tenuto in sospetto, capisco che mi offre un’àncora di salvezza, forse senza saperlo, per la sua naturale curiosità degli incontri, per il suo ecclettismo culturale. Basta che mi vedano in casa sua. Non si spiegheranno né come né perché, e io avrò un certo equivoco diritto, a circolare, pur di non accostarmi troppo alla fiamma. Perché questa è l’anticamera di chi comanda.18

La giuria del premio Stampa era composta proprio da queste persone a cui lo scrittore si era avvicinato: Sarfatti (presidente), Ojetti, Malaparte e Pirandello, quindi fu facile assegnargli il premio. Il trionfo di Alvaro non fu una sorpresa né per i fascisti né per gli antifascisti, infatti quest’ultimi pensavano che ormai lo scrittore fosse diventato fascista e facesse parte dell’OVRA, la polizia segreta che fu in azione in Italia durante il periodo fascista. Per i fascisti invece fu un affronto al loro “credo”, visto che Alvaro non si era ancora tesserato, e nella lettera che annunciava la sua vittoria era scritto « Lietissima annunciarle nome autorevoli colleghi commissione tutta conferimento premio « Stampa » Sua opera letteraria. Rallegramenti. Auguri Sua futura adesione. Margherita Sarfatti »19. Da questo momento in poi Alvaro sarà considerato uno scrittore fascista. Un’ulteriore conferma arriva nel 1934 quando pubblica il libretto Terra nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino. Egli dà un’analisi positiva del lavoro di bonifica svolto da Mussolini in quelle terre e parla positivamente anche del duce.

Dello stesso anno sono Il Mare e Cronaca (o fantasia), nel 1938 invece scriverà L’uomo è forte e due anni più tardi Incontri d’amore. Nel 1940 vincerà anche il Premio dell’Accademia d’Italia per la letteratura. A questo punto Alvaro è uno scrittore affermato in Italia e viene considerato tra gli scrittori più rappresentativi del Novecento, anche se « non si può dire che egli fosse giunto al grosso pubblico – cosa che forse il carattere stesso

18 C. Alvaro, Quasi una vita, Milano, Bompiani, 1951, pag. 58. 19

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delle sue opere ostacolava e in parte ostacola tuttora. Dal 25 luglio all’8 settembre 1943, durante i quarantacinque giorni di Badoglio, diresse brillantemente « Il popolo di Roma »; ma all’inizio dell’occupazione nazifascista fu colpito da mandato di cattura e fu costretto a rifugiarsi in Abruzzo, e precisamente a Chieti, dove, nascondendosi sotto il falso nome di Guido Giorgi e vivendo di ripieghi, rimase fino all’arrivo delle truppe alleate ».20

Nel 1944, dopo la liberazione di Roma, istituì il Sindacato Nazionale degli Scrittori insieme a Jovine e Bigiaretti. Nel ’45, mentre la guerra stava giungendo al termine, scrisse L’Italia rinunzia?, un pamphlet in cui Alvaro parla della differenza sempre più marcata tra nord e sud. Per lui questo fu « l’anno più tragico della nostra storia »21

in quanto « l’Italia stava rischiando la sua stessa unità nazionale » a causa di un « conflitto tra nord e sud, latente fin dalle origini dell’assetto nazionale » che « stava arrivando alla sua estrema manifestazione »22

. Questo opuscolo è un incitamento per il popolo italiano, e soprattutto per quello del sud, che dopo il Risorgimento, in seguito alla perdita dei propri valori, aveva trovato sicurezza nello Stato appena sorto, per questo Alvaro scrive:

« La salvezza dell’Italia meridionale, e il risanamento della vita politica e sociale italiana, dipendono proprio dalla industrializzazione di quelle regioni sventurate. La vecchia Italia meridionale sana, patriarcale, leggendaria è un cumulo di rovine; la sua società è una delle più feudali d’Europa; la sua moralità è quella appresa facilmente dall’esempio che gli è venuto dall’alto: non c’è che da immetterla finalmente in una vita moderna, darle sani interessi. Essa non chiede se non questa dignità che solamente il lavoro può darle, e quella personalità che soltanto il fatto di contribuire alla creazione del benessere suo e degli altri può largire. Il lavoro e le sue lotte, e non i benefici dei padroni capricciosi, può risollevarla al livello delle più prospere e sicure regioni d’Italia »23.

Nello stesso anno fondò la Cassa Assistenza e Previdenza di cui rimase presidente fino alla morte.

20

A. Balduino, Corrado Alvaro, Milano, U. Mursia & C., 1972, pag. 14. 21 C. Alvaro, L’Italia Rinunzia, Palermo, Sellerio, 1986, pag. 84. 22 Ibidem pag. 14.

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Nel 1946 venne pubblicato uno dei suoi romanzi più importanti, L’età breve, e l’anno dopo divenne direttore del Risorgimento di Napoli, quotidiano di idee liberali a cui Alvaro diede un’impronta di sinistra. Solo dopo quattro mesi lasciò l’incarico a causa di problemi con il consiglio d’amministrazione. Intanto aveva ripreso a fare il giornalista al Corriere della Sera e al Mondo.

Nel 1951 vinse il Premio Strega con Quasi una vita, raccolta di appunti autobiografica che copre il periodo che va dal 1927 al 1947. « Il diario costituisce come uno zibaldone di vicende e di stati d’animo, che prendono consistenza e rilievo perché sono conseguenze e sintomo di tutta una epoca, il cui tessuto connettivo è dato dalla paura, dalla provocazione, dalla prepotenza: manifestazioni dell’onnipresenza politica che entra fin nella più segreta intimità »24

.

Tre anni più tardi, a causa di un tumore addominale, Alvaro si dovette sottoporre a un delicato intervento chirurgico dopo il quale sperava di guarire, in quanto doveva portare a termine altri romanzi. Ma il tumore attaccò anche i polmoni e lo scrittore si spense l’11 giugno del 1956 nella sua casa romana di Trinità dei Monti.

Alvaro fu uno scrittore molto prolifico ma la sua affermazione avvenne in un periodo molto difficile per il paese che, oltre ad affrontare la crisi del primo dopoguerra, si ritrovò a dover fare i conti con il radicamento del fascismo.

2.

Il quadro storico

Il fascismo si affermò in seguito al « processo di crisi e di trasformazione della società e dello Stato, iniziato in Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento, con l’avvio dei processi di industrializzazione e di modernizzazione, accompagnati da fenomeni di mobilitazione sociale, che coinvolsero il proletariato e i ceti medi, e diedero un forte impulso alla politicizzazione delle masse negli anni che precedono la Grande Guerra. Il fascismo

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nacque dopo la guerra mondiale, ma alcuni motivi culturali e politici, che contribuirono alla sua formazione, sono presenti già in movimenti radicali di destra e di sinistra, come il nazionalismo, il sindacalismo rivoluzionario, il futurismo, sorti prima del fascismo. Questi, movimenti pur con ideologie diverse e contrapposte, avevano in comune il senso tragico e attivistico della vita, la visione della modernità come esplosione di energie umane e conflitto di forze collettive, organizzate in classi o nazioni, e l’attesa di un’incombente svolta storica, che avrebbe segnato la fine della società borghese liberale e l’inizio di una nuova epoca. In senso propriamente politico, questi movimenti radicali e rivoluzionari condividevano il mito della volontà di potenza, l’avversione per l’egualitarismo e l’umanitarismo; il disprezzo per il parlamentarismo; l’esaltazione delle minoranze attive; la concezione della politica come attività per organizzare e plasmare la coscienza delle masse; il culto della giovinezza come nuova aristocrazia dirigente; l’apologia della violenza, dell’azione diretta, della guerra e della rivoluzione »25

.

La trasformazione del movimento fascista in partito avvenne durante il congresso che si tenne a Roma dal 7 al 10 novembre 1921, a causa di una crisi interna tra i vari rappresentanti dei “fascismi provinciali” che non accettavano Mussolini come capo del fascismo, perché era grazie a loro se il movimento era diventato di massa. Alla conclusione del congresso « Mussolini riuscì a far accettare definitivamente il suo ruolo di “duce”, anche se non ebbe comunque una carica ufficialmente predominante nell’organizzazione del nuovo partito. Per parte loro, i capi provinciali ottennero l’abbandono del patto di pacificazione e la valorizzazione dello squadrismo nel Partito nazionale fascista (Pnf), che, con il nuovo statuto, incorporò le squadre come parte integrante della sua organizzazione e del suo metodo di lotta. Alla carica di segretario generale del Pnf fu eletto Michele Bianchi. Calabrese, ex socialista e sindacalista rivoluzionario con una lunga militanza di

25

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agitatore e di organizzatore, interventista e combattente, Bianchi aveva partecipato alla fondazione dei Fasci e guidò il nuovo partito fino alla conquista del potere »26

.

L’ideologia fascista non si basava su una dottrina scritta ma su una serie di simboli e culti, era una vera e propria « religione laica, esclusiva, integralista e intollerante, che aveva come dogma fondamentale il primato della nazione »27

. Fondamentale era la militanza all’interno del partito che si basava: sul culto per la patria, sul cameratismo comunitario, sull’etica del combattimento e sulla struttura gerarchica. I fascisti difendevano la proprietà privata, sostenevano il capitalismo e la collaborazione di classe, in quanto quest’ultima avrebbe portato ad un aumento della produzione che avrebbe permesso una politica estera più potente ed espansiva.

« Il partito fascista non nascondeva la sua avversione per la democrazia e per lo Stato liberale. La democrazia, disse Mussolini nell’agosto del 1922, aveva esaurito il suo compito. Il secolo della democrazia era finito e le ideologie democratiche erano state liquidate. Preparandosi alla conquista del potere, il Partito fascista si proponeva non solo la difesa dell’assetto economico e sociale capitalista, ma voleva realizzare una rivoluzione politica per conquistare il monopolio del potere. Alla vigilia della “marcia su Roma”, Mussolini dichiarò pubblicamente che lo Stato fascista non avrebbe concesso nessuna libertà ai suoi avversari »28

.

I fascisti utilizzarono la marcia su Roma (28 ottobre 1928) per fare pressione sul governo e sul re in modo tale da salire facilmente al potere. Infatti il suo scopo fu quello di destabilizzare i vertici del governo, visto che l’insurrezione fascista sorta in molte città dell’Italia settentrionale e centrale sarebbe sicuramente fallita se fosse arrivata a scontrarsi con l’esercito regolare.

26 Ibidem pag. 24. 27 Ibidem pag. 25. 28 Ibidem pag. 27.

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In questo modo riuscirono a evitare la formazione di un governo Salandra o Giolitti e, dopo che il re si rifiutò di decretare lo stato di assedio per mettere fine all’insurrezione fascista, Mussolini salì al governo.

Il governo Mussolini iniziò il 31 ottobre 1922, ne facevano parte fascisti, esponenti liberali, popolari, democratici e nazionalisti. La Camera e il Senato gli riconobbero la fiducia che diede a Mussolini il potere di attuare riforme fiscali e amministrative. Lo Stato finì nelle mani di un capo militare che voleva metter fine alla democrazia.

La trasformazione dello Stato liberale in regime avvenne attraverso varie fasi.

Inizialmente Mussolini, come capo del governo, cercò l’appoggio dei partiti che volevano cooperare con il nuovo governo in modo tale da riuscire a distruggerli dall’interno. Inoltre mise fine ai partiti antifascisti impedendo loro qualsiasi tipo d’azione, sia attraverso le vie legali che attraverso la violenza degli squadristi. Inoltre sottomise alle sue direttive il Pnf e istituì il Gran Consiglio, il più importante organo direttivo del regime fascista, il cui presidente fu il duce stesso. Ne facevano parte i dirigenti del fascismo e i membri fascisti del governo. « In pratica, questo nuovo organo non solo assunse la guida del partito, ma divenne anche un “governo ombra”, in cui furono preparate le leggi che avviarono la demolizione della democrazia parlamentare. La prima di queste leggi fu l’istituzione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (14 gennaio 1923) »29

. In questo modo Mussolini legalizzò lo squadrismo e lo pose sotto il suo comando.

Nel 1923 la Camera approvò la legge Acerbo che permetteva al capo del governo di aumentare la maggioranza parlamentare attraverso l’attribuzione di un premio di maggioranza alla lista vincente.

Il 3 gennaio 1925 con il discorso di Mussolini alla Camera inizia una nuova fase per il fascismo. A febbraio dello stesso anno viene posto a capo del Pnf Roberto Farinacci, capo

29

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del fascismo integralista, ma all’inizio dell’anno successivo venne sostituito da un altro esponente del fascismo integralista, Augusto Turati. Perché Farinacci voleva mettere il capo del partito sullo stesso piano del capo del governo dando vita a una forma di diarchia che non era ben vista da Mussolini. Turati facilitò l’inserimento del Pnf nel nuovo regime attraverso l’allontanamento dal partito di persone corrotte e ribelli.

L’istaurazione del regime fascista avvenne attraverso l’emanazione di leggi autoritarie formulate da Alfredo Rocco e approvate dai parlamentari fascisti. Queste leggi imposero: la supremazia del potere esecutivo e la subordinazione dei ministri e del Parlamento all’autorità del capo del governo, nominato dal re e responsabile verso di lui solo per quanto riguardava l’indirizzo politico del governo; l’inserimento a capo dei comuni dei podestà che dovevano rispondere del loro lavoro al prefetto; l’abolizione della libertà di organizzazione che nel 1926 portò alla messa al bando di tutti i partiti, tranne quello fascista. Fu reintrodotta la pena di morte per i reati contro “la sicurezza dello Stato” e venne costituito un tribunale speciale per coloro che venivano accusati per crimini contro lo Stato e il regime. La stampa venne fascistizzata. Fu istituita l’OVRA, la polizia segreta che collaborava con quella tradizionale per reprimere qualunque azione antifascista e per tenere sotto controllo gli antifascisti che si erano rifugiati all’estero.

Attraverso la Riforma della rappresentanza politica nacque il collegio unico nazionale e il Gran Consiglio ricevette l’incarico di scegliere i rappresentanti della Camera, tra coloro che erano stati designati dai sindacati fascisti e da altri enti, per la costituzione di una lista di deputati che poi sarebbero stati ammessi o respinti in blocco dagli elettori. « Lo stesso Gran Consiglio divenne organo supremo costituzionale del nuovo regime (9 dicembre 1928), con competenze di rilievo in materia costituzionale, comprese le facoltà di mantenere aggiornata una lista di successori alla carica di capo del governo (che però

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sembra non sia stata mai approntata) e, cosa ancor più significativa, la prerogativa di intervenire nella successione al trono »30

.

Agli inizi degli anni Trenta la struttura del regime fascista era ormai definita, il regime poggiava su solide basi grazie al compromesso tra i fascisti e le istituzioni tradizionali, ma grazie, in particolar modo, all’apparato poliziesco e alla fama che il movimento aveva in Italia e all’estero. Le forze contrarie al regime invece di opporsi decisero di accettare tutti i benefici che derivavano loro dal fascismo, così facendo accettarono di far parte di un regime che imponeva ordine e disciplina sia nella società che in campo lavorativo.

I sindacati antifascisti vennero sciolti, venne vietato lo sciopero e la serrata, fu istituita la Magistratura per risolvere le questioni tra lavoratori e datori di lavoro. Nel 1926 venne istituito un ministero delle Corporazioni, quattro anni dopo un Consiglio nazionale delle corporazioni, che fungeva da organo costituzionale dello Stato, mentre le corporazioni nacquero solo nel 1934. « Negli anni Trenta il corporativismo fu esaltato come la risposta originale del fascismo alla crisi del sistema capitalista, in alternativa al comunismo, ma nella realtà l’ordinamento corporativo fu un nuovo apparato burocratico di scarsa funzionalità, non realizzò affatto la collaborazione paritaria fra lavoratori e datori di lavoro, e tanto meno diede vita a una nuova economia. In campo economico, dopo la politica liberista dei primi anni di governo, il fascismo adottò una politica protezionista, ampliando in misura crescente, soprattutto dopo la crisi economica del 1929, il controllo pubblico sulla finanza e sull’industria, con iniziative come la costituzione dell’Istituto immobiliare italiano (1931) e dell’Istituto per la ricostruzione industriale (1933), che potenziarono l’interventismo statale nell’economia, ma al di fuori dell’ordinamento corporativo »31

. Molto importante per il regime fu la propaganda che avveniva attraverso i maggiori mezzi di comunicazione: la stampa, la radio e il cinema. In questo modo il fascismo

30

Ibidem pag. 36. 31

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pubblicizzava tutti i suoi successi, come “la battaglia del grano” e la bonifica dell’Agro Pontino, e riusciva a mobilitare le masse attraverso i riti e le cerimonie collettive. Le attività propagandistiche inizialmente vennero gestite da un sottosegretario alla stampa e alla propaganda, successivamente divenne un ministero, il Minculpop (ministero della cultura popolare). Fondamentale per l’azione di propaganda fascista fu anche l’attenzione che venne data alla cultura: attraverso l’istituzione dell’Accademia d’Italia, dell’Istituto di cultura fascista e l’adesione di molti intellettuali, come Giovanni Gentile e Giacchino Volpe che si impegnarono a diffonderne l’ideologia, i successi del regime e ad esaltare la figura del duce.

« Il mito di Mussolini fu il fattore principale del consenso che la maggioranza degli italiani manifestò verso il regime, soprattutto negli anni fra il 1929 e il 1940. Il ruolo carismatico del duce ricevette un’esaltazione continua attraverso l’adozione di un sistema di credenze, di miti, di riti e di simboli, che costituì una nuova forma di religione politica e divenne parte essenziale e integrante dello Stato fascista e della politica di massa del partito unico. Gli incontri frequenti del duce con le masse divennero il momento culminante dell’organizzazione del consenso, quando con la preparazione di un’attenta regia, si realizzava la fusione emotiva del capo con la folla, come mistica comunione simbolica della nazione con se stessa attraverso il suo sommo interprete. Attraverso l’organizzazione e la mobilitazione delle masse, il fascismo mirava alla trasformazione del carattere degli italiani per creare un “italiano nuovo”, il quale doveva conformare tutta la condotta della sua esistenza secondo il dogma “credere, obbedire, combattere” »32

.

Per foggiare la figura dell’”italiano nuovo” il fascismo partì dall’educazione scolastica, infatti nel 1923 il governo approvò la riforma scolastica elaborata da Giovanni Gentile, allora ministro dell’istruzione. La riforma in sé non aveva nulla di fascista, ma venne

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modificata in seguito dai vari ministri che si susseguirono, in questo modo si mise sempre di più in risalto la sua funzione politica e arrivò a coincidere con gli scopi dello Stato fascista. Questa nuova riforma prevedeva « l’introduzione del libro di testo unico di Stato per le scuole elementari e la fascistizzazione dei testi per le scuole secondarie. Il comportamento degli alunni fu militarizzato con l’adozione di riti e simboli fascisti nella vita scolastica. Il corpo docente fu sottoposto al controllo del partito, mediante il requisito obbligatorio della iscrizione al Pnf, e il giuramento di fedeltà al regime, che fu richiesto, fra il 1929 e il 1931, agli insegnanti di ogni ordine e grado. Il regime varò, infine, una nuova riforma dell’educazione scolastica, secondo i principi esposti nella Carta della scuola (15 febbraio 1939) elaborata da Giuseppe Bottai, ministro dell’educazione nazionale, che si ispirava a più moderni concetti pedagogici di collegamento fra formazione umanistica e formazione scientifica, dando spazio nelle attività scolastiche anche al lavoro manuale, ma soprattutto ribadiva la funzione politica totalitaria della scuola. La nuova riforma stabiliva un collegamento organico fra la scuola e il partito, tramite la frequenza obbligatorie delle scuole, della Gioventù italiana del Littorio e dei Gruppi universitari fascisti »33

.

In campo politico il fascismo fin dalla sua nascita aveva avuto una vocazione imperialista che dalla fine degli anni venti si orientò verso una politica di espansione economica e politica nei Balcani e verso le conquiste coloniali in Africa, con lo scopo di conquistare il Mediterraneo e di aprirsi una via verso gli oceani. I territori conquistati avrebbero mantenuto la loro identità statale ma sarebbero stati sottomessi alla nazione italiana. L’idea era quella di dar vita a una “nuova civiltà” attraverso la realizzazione di comunità imperiali governate da “popoli giovani”, Italia e Germania.

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« L’ambizioso progetto di una “nuova civiltà” fu corroborato nel corso degli anni Trenta dalla trasformazione del fascismo in fenomeno internazionale, in seguito al diffondersi di movimenti e di regimi con aspetti simili e affini al fascismo italiano […]. Nel 1933, la conquista del potere da parte di Hitler (30 gennaio), che ammirava sinceramente Mussolini come maestro, confermò nel fascismo italiano la convinzione che era ormai prossima l’ora di una svolta epocale, di una radicale alternativa di civiltà, e quindi di uno scontro inevitabile fra le vecchie e decadenti democrazie europee e le giovani e gagliarde nazioni rigenerate e potenziate da regimi fascisti o fascistizzati. In questo clima, Mussolini, maturò la decisione della conquista di un impero coloniale, lanciando una guerra di aggressione contro l’Etiopia (ottobre 1935 – maggio 1936), con l’opposizione della Società delle Nazioni, che votò le “sanzioni” contro l’Italia. Condotta con largo uso di mezzi bellici moderni, compreso l’impiego di gas, e il ricorso a metodi spietati di repressione, usati per stroncare ogni resistenza, anche dopo la fine della guerra, la conquista dell’impero fu accompagnata da un’efficace orchestrazione propagandistica del partito, e rappresentò il culmine del consenso della grande maggioranza degli italiani al fascismo e al duce, il quale coronò la sua apoteosi »34

.

L’avvicinamento dell’Italia alla Germania Hitleriana avvenne dopo la conquista dell’Etiopia. Mussolini abbandonò la Società delle Nazioni e appoggiò Hitler e il generale Franco, nella guerra civile spagnola. Il 22 maggio 1939 Mussolini firmò il “Patto d’acciaio” sancendo così l’alleanza con la Germania. Da questo momento in poi i destini di queste due nazioni furono uniti. Il primo settembre del 1939 scoppiò la seconda guerra mondiale, l’Italia entrò in guerra il 10 giugno 1940. Mussolini era convinto di poter mettere subito fine alla guerra con la vittoria dell’asse ma così non fu. Inoltre il fallimento della campagna di Grecia nel 1940 fece sì che l’Italia fosse subordinata alla Germania.

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« Le disfatte militari subite dall’Italia nel corso del conflitto, la perdita della Libia (23 gennaio 1943) e, infine, l’invasione della Sicilia da parte degli Alleati (10 luglio 1943) segnarono la fine del regime fascista, già in piena crisi per la totale perdita di consenso da parte della grande massa degli italiani e la decisione della monarchia, delle forze economiche e della Chiesa di cercare un’uscita dalla guerra liquidando Mussolini. Una disordinata successione di segretari alla guida del Pnf negli anni della guerra […] contribuì ad aggravare la decadenza del fascismo. L’intera struttura del regime crollò all’indomani del 25 luglio 1943, quando il duce, sconfessato dalla maggioranza dei gerarchi del Gran consiglio, fu destituito dal re e arrestato »35

.

In seguito Mussolini fu liberato e, per volontà di Hitler, venne istituita la Repubblica di Salò che doveva ricondurre il fascismo alle sue origini repubblicane. Così si arrivò in Italia a una guerra civile fra la neonata Repubblica e i partigiani italiani della Resistenza.

Il 25 aprile 1945 i partigiani riuscirono a liberare l’Italia dal fascismo. Il 28 aprile Mussolini venne catturato e fucilato dai partigiani.

Questo è il contesto all’interno del quale si muove Alvaro. Per capire meglio il rapporto che lui ebbe con il regime, da quando Mussolini lo istaurò fino alla sua caduta, nel paragrafo seguente saranno analizzate le sue idee politiche.

3.

Il comportamento di Alvaro durante il periodo fascista

La parabola alvariana durante il periodo fascista è molto ambigua. Inizialmente lo scrittore sanluchese si schiera con gli antifascisti.

Il suo antifascismo va dal 1923, con la sua collaborazione al giornale « Il Mondo » di Giovanni Amendola, e dura fino al 1925, anno in cui gli antifascisti sono costretti ad andare all’estero come esiliati oppure a rimanere in Italia e subire le pressioni del regime. Alvaro per evitare tutto questo si avvicinerà all’ambiente fascista.

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Negli anni in cui scrive per « Il Mondo » Alvaro si trova all’estero, scrive e manda al giornale articoli sulla Francia, qui gli antifascisti si erano rifugiati per fuggire dal regime. Dopo il delitto Matteotti molte cose cambiarono nel mondo del giornalismo. Gli scrittori, anche quelli di terza pagina, iniziarono ad avere paura del movimento fascista. « Neanche Alvaro seppe del tutto sottrarsi a quella specie di Moloch che sembrava aver conquistato le menti dei tutti: la sua opposizione al regime di quel periodo, sia pure sincera, sia pure decisa, passò attraverso il filtro della satira morale, degli aforismi e delle enigmatiche allusività, presentando fatti reali in chiave simbolica, cui non erano estranee certe fascinazioni mitiche. Perché anche in lui era entrato il demone della distinzione fra attività politica e attività culturale »36

.

Alvaro non prenderà mai una posizione netta contro il fascismo, ma cercherà sempre di stare nell’ombra e di non scagliarsi a difesa del popolo oppresso, per quanto questo era quello che molti si aspettavano dagli intellettuali in un paese dove si stava affermando un regime totalitario. Lo scrittore sanluchese non avrà mai una vera e propria ideologia politica. Questo fu dovuto soprattutto all’educazione paterna e all’ambiente in cui era cresciuto; il suo pensiero si basava più sull’etica che sulla situazione reale che l’Italia stava vivendo.

Alvaro si tenne lontano dall’analizzare il rapporto cultura-società, cultura-vita, cultura storia. La società non entrerà a far parte delle sue indagini conoscitive nonostante egli non tolleri i mali che affliggono in questo periodo il paese. Non si chiederà perché avvengano certi eventi. Gli esiti ideologici dello scrittore sanluchese saranno sempre « legati al focolare domestico, al moralismo paterno privo di calore e di orizzonti, alle sottili sofisticazioni dei gesuiti, all’agiografia ufficiale del patriottismo risorgimentale, alla cultura contadina e provinciale della sua terra, dall’aggressività feroce di antichi e nuovi

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barbari continuamente ferita, e resa egoista e diffidente, vendicativa e rivoltosa, agli obbligati impatti della città, alla pochezza delle risorse e alla chiusa ma intensa ambizione: secondo il grandioso disegno paterno, che comincia prima della sua culla »37

.

Nell’Ottobre del 1923 Alvaro cambierà giornale passando al giornale satirico « Becco Giallo » diretto da Giannini, lo stesso uomo che più avanti Mussolini corromperà e utilizzerà come spia dell’OVRA per monitorare gli antifascisti in Francia. Al « Becco Giallo » Alvaro rimarrà un anno, fino al dicembre 1924, e terrà una rubrica dal titolo « SFOTTO’ » in cui prenderà di mira i fascisti e soprattutto Mussolini. Però, essendo conosciuto nell’ambiente fascista, non firmerà mai i suoi articoli con il suo vero nome ma utilizzerà uno pseudonimo, V. E. LENO. Nonostante ciò non attaccherà mai l’ideologia fascista, né si interesserà alle cause del fenomeno fascista, ma se la prenderà sempre con gli individui che ne facevano parte. Probabilmente questo atteggiamento derivò dal suo autobiografismo e dalla sua incompetenza politica che non gli permetteva di analizzare fino in fondo la situazione italiana.

L’aspetto positivo di questo modo d’agire è che Alvaro ci lascia importanti descrizioni sul comportamento farsesco di alcuni intellettuali che erano diventati fascisti.

Alvaro non dirà nulla neanche sulla « questione morale » che scoppiò in Italia con l’insorgere del partito liberale, il quale chiese al re di cacciare dal governo Mussolini e i fascisti.

L’8 novembre 1924 Alvaro aderirà al nuovo movimento fondato da Giovanni Amendola, l’Unione Nazionale delle Forze Democratiche. Facevano parte di questo movimento antifascisti liberali, socialisti, democratici e giovani di nessun partito. Il primo incontro si tenne qualche settimana dopo la fondazione, ma non sappiamo se Alvaro vi partecipò.

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Nel 1925 lo scrittore sanluchese affermò ancora di più il suo antifascismo firmando il manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce. Questo manifesto fu sottoscritto da quaranta intellettuali e uscì sul « Mondo » l’1 maggio 1925. Altri due elenchi di firmatari furono pubblicati dallo stesso giornale il 10 e il 22 maggio, tra i firmatari del 10 c’era anche la firma di Corrado Alvaro.

La situazione degli antifascisti in Italia non era delle migliori. Essi potevano scegliere se rimanere in Italia e battersi contro il fascismo oppure andare in esilio in Francia. Ad Alvaro nel 1924 venne offerta la possibilità di raggiungere gli antifascisti in Francia, ma egli, che aveva amicizie tra i fascisti, decise di rimanere in Italia. Quindi continuò il suo lavoro di giornalista al « Mondo », inoltre iniziò a collaborare: al liberale « Risorgimento »; alla rivista « 900 » fondata da Bontempelli e Malaparte, entrambi fascisti; alla « Fiera letteraria » di Umberto Fracchia, anche questa di stampo fascista. Però non essendo un fascista fu presto allontanato da « Risorgimento ». Questo fu un duro colpo per l’autore sanluchese, ma in questo periodo la persecuzione da parte degli intellettuali fascisti verso i colleghi antifascisti era molto attiva. Alvaro quindi si trovò a dover decidere se continuare a scrivere per i giornali d’opposizione senza essere retribuito o iniziare a collaborare con la stampa di regime. Visto che il suo guadagno dipendeva dal suo lavoro scelse la seconda opzione.

Questa decisione si concretizzò ulteriormente il 16 dicembre del 1925 dopo che Alvaro venne bastonato dagli squadristi a Roma, all’interno di una tavola calda. L’episodio è descritto in Tutto è accaduto, protagonista è Diacono che rappresenta l’alter ego di Alvaro:

« … una sera, entrato in un ristorante, vide un uomo che conosceva e stimava, assai più in età di lui, il quale seduto ad un tavolino presso la vetrina, si stava mescendo da una bottiglia di un quarto un vino biondo. Lo salutò e si accorse, mentre levava il viso, che aveva un occhio pesto e gonfio. « Che è successo?» gli chiese Diacono. « Mi hanno menato », rispose colui con una rassegnazione simile a quella di un animale picchiato, di una gallina in un pollaio, che dopo una lite va razzolando in prossimità delle altre che poco prima l’hanno

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aggredita, e tutto ha ripreso quell’aspetto sereno della natura che dimentica tanto presto le violenze.

« Ma chi?» gli disse Diacono. « Quelli laggiù », rispose colui. Seguendo il suo cenno, Diacono scorse a un tavolo un robusto uomo che stava mangiando circondato da cinque o sei amici; e parlavano animosamente, con le forchette in aria. « Perché non si è difeso? » disse ancora Diacono. « Erano cinque o sei » « Come si chiama lui? » « Decretti », rispose l’altro. Diacono si avvicinò al tavolo di quelle persone, e chiese: « Chi è il signor Decretti? », il più forte del gruppo rispose: « Sono io. Che vuole? » « Vile, siete vile » esclamò Diacono. Il gruppo fu in piedi. Egli aggiunse: « In sei contro uno! Che vigliaccheria! » « Beh, diamole anche a lui » sentì che dicevano. Lo picchiarono; uno lo teneva per la cravatta, tirava tanto che stava per strangolarlo. Gli altri lo percuotevano diligentemente e con metodo sul viso, punto per punto, con l’esattezza con cui un amante bacia i luoghi dolci del viso amato. Egli seguitava a dire macchinalmente, mentre sentiva le labbra gonfie e sanguinanti: « Lo vedete? Siete in sei contro uno, non lo potete negare ». E lo disse fino a quando non perse la conoscenza »38.

Come si può notare dalla lettura del testo il gesto degli squadristi, che solitamente colpivano solamente coloro che erano stati segnalati dal regime, deriva da una provocazione e fu del tutto casuale. Quindi non si può essere d’accordo con i critici che, attraverso questo episodio, sostengono che Alvaro sia stato antifascista.

La persona difesa dall’autore è Adriano Tilgher, suo amico e collega. Egli era stato bastonato perché aveva scritto un pamphlet contro il ministro Gentile, seguendo la falsariga dell’opera “Della causa principio ed uno”, che costò la vita a Giordano Bruno. Alvaro durante il periodo antifascista lanciò molti attacchi al regime attraverso i suoi articoli. Molte meno furono le sue azioni pratiche, una delle quali è descritta dall’autore in Tutto è accaduto:

« Dunque, accadde quella sera mentre si recitava l’Amleto a teatro gremito. Durante il primo atto, dopo che Marcello ebbe detto: « C’è qualcosa di putrido nello stato di Danimarca », una voce, quella di Diacono, gridò: « È in Italia tutto! » Seguì una gran confusione. Le signore si voltarono offese, i signori cercarono con occhi indignati l’insolente, per dargli una lezione. Ma, per quanto s’indagasse sull’autore del gesto riprovevole, esso non fu scoperto. Gli amici di Diacono, che gli stavano vicini, non parlavano, ma non ebbero poi più il coraggio di andare a teatro con lui. Pensavano che egli volesse fare dello spirito, provocare disordini per uno di quegli impulsi dei giovani che non sanno valersi

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altrimenti: cosa frequente a Roma e in Italia, dove l’affermazione della personalità consiste spesso in un talento di fare confusione »39.

Questo gesto in realtà fu compiuto dall’autore « così senza l’idea di compierlo, quasi una specie di automatismo psichico, neppure inconsapevolmente politico: “per uno sfogo, per affermare una personalità, per dire a se stesso di essere vivo”. “Se avesse domandato a Diacono la ragione di quella uscita a teatro e altre cose simili – dice altrove – non avrebbe saputo dare una spiegazione sufficiente”. “Era la tendenza e il bisogno di creare un fatto, un episodio, un disordine e una confusione di cui si sentisse, in cui ci vivesse pienamente”. Non lo aveva fatto per inimicizia col fascismo »40

.

Il 1926 segna l’avvicinamento di Alvaro alla stampa fascista. Ormai lui non collaborava più né con il « Becco Giallo » né con il « Mondo », che era stato soppresso il 31 ottobre 1926 insieme a tutta la stampa di opposizione. Così lo scrittore sanluchese cercò di collaborare con « La Stampa », all’interno della quale lavorava anche il suo amico Pietro Pancrazi. Alvaro mandò molti articoli alla Stampa che furono valutati positivamente, ma il problema principale era la firma, in quanto gli articoli non potevano essere anonimi o siglati ma lo scrittore avrebbe dovuto scrivere il suo nome per esteso. « Era evidente che alla Stampa erano noti gli attacchi persecutori che venivano mossi contro Alvaro da parte di scrittorelli, “letteratoni” di cui parla Carlo Bo, invidiosi o faziosi che si avvalevano della loro appartenenza al P.N.F. per sabotare gli scritti e costringerlo alla fame. I malevoli si eccitavano di più vedendo che anche degli editori stampavano i libri dell’osteggiato scrittore »41

. Alla fine Alvaro trovò lavoro come giornalista presso la rivista « 900 » di Bontempelli e Malaparte, infatti quest’ultimi riuscirono a cogliere subito il vantaggio che la rivista avrebbe ottenuto con la collaborazione di Alvaro, che ne fu soddisfatto.

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C. Alvaro, Tutto è accaduto, pag. 9. 40

E. Misefari, Alvaro politico, pag. 58. 41

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La rivista era stata presentata come la prosecuzione del movimento futurista, nato a Milano nel 1922 per opera di Boccioni, ma con aspetti che rimandavano al passato, come il nazionalismo. La partecipazione di Alvaro a questo movimento è una conferma in più del suo cedimento al partito fascista.

Il suo appoggio alla stampa fascista gli procura molti vantaggi, infatti in questi anni viene pubblicato « L’uomo nel labirinto » dalla Alpes di Milano, ma solo dopo le rassicurazioni di Bontempelli alla casa editrice. In questo periodo Alvaro si chiede cosa sia meglio fare: se continuare ad appoggiare gli antifascisti o passare dalla parte dei fascisti. Così scrive in Quasi una vita:

« Il paese si è assestato con il fascismo e va verso la sua nuova vita. […] Tra morti ed esiliati, l’opposizione si è dispersa. A chi rimane, si chiedono dichiarazioni dei suoi atteggiamenti passati. In genere, si buttano sui morti e sugli assenti le responsabilità delle proprie azioni. Chi non si fa avanti, resta come un bersaglio di cartone, giacché questi hanno bisogno di nemici. Essi stessi si creano un nemico in qualcuno di sperduto e poco insignificante. Io sono uno di questi. Bisogna adattarsi a questo ruolo. Poca gente vi riconosce, neppure quella che affollava le camere dell’opposizione quando pareva che l’opposizione dovesse prevalere. Così ci si ritrova a passare tra sguardi di odio che fanno tremare. [...] Il solo atteggiamento possibile è di assumere la parte che vi danno, anche se è troppo importante per voi. Il nemico si vede sempre più grande di quello che è. E già questo è qualcosa; è esistere. Non c’è di meglio da fare. Bisogna non uscire nei giorni delle loro feste, evitare i luoghi affollati. Chiunque è arbitro della vostra vita, e bisogna dire che hanno ancora degli scrupoli. Potrebbero sopprimervi senza che i giornali dicano una parola. Ma non si sa mai quello che potrebbe servirvi di salvataggio. Di me, per esempio, si ripete una frase che ebbi a dire a Milano lasciando il Corriere della Sera, a uno che mi invitava a conoscere Mussolini, nel 1919. « Non ci vado, dissi, perché non mi piace quello che fa e perché secondo me è un uomo senza avvenire ». Nel suo trionfo, questa frase, ridetta dai suoi amici e riferita a lui fa ridere e mi fa compatire. È gente di cui non si possono misurare le reazioni, e forse su questo si può giuocare per salvarsi. Hanno ancora suggestioni e atteggiamenti culturali, la generosità ostentata dei vincitori, il dubbio che la vittoria possa non essere definitiva. Il paese ne ha avuto abbastanza dell’opposizione e non le perdona di aver perduto. In Italia, guai ai vinti. Ora che il paese assume delle responsabilità, paventa l’idea di doverne rispondere, di tornare indietro, e più si comprometterà più rafforzerà il regime »42.

Il regime fascista aveva instaurato un clima di terrore e Alvaro aveva paura di quello che poteva succedergli nel caso non si fosse schierato dalla parte dei vincitori. Pensa addirittura

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di tornare al suo paese, ma questo pensiero viene subito scartato in quanto tutti i nemici del padre godrebbero di questa decisione. Infatti più avanti, sempre in Quasi una vita, scrive:

« Fa una certa impressione avere giuocata la propria vita, diggià, nella giovinezza. Bisogna scansarsi, farsi piccolo, non trovarsi sulla strada di nessuno. Penso di rifugiarmi al mio paese dove non si è costituita nessuna sezione del partito perché la camicia nera da noi si porta soltanto per un lutto grave. Mio padre non vede volentieri questo ritorno: sono partito per lottare con la vita e non posso tornare vinto, dando ragione all’invidia dei nemici. Andare in provincia, è inutile pensarlo. A Roma, nella Capitale, con le ambasciate, presso il potere, e sapendo che il padrone ha una stima curiosa di me, è possibile tirare avanti senza troppi inconvenienti, a patto di andare cauti. In provincia sarei sottoposto ai capricci del primo che abbia potere. Poiché mi chiedono una dichiarazione sul mio passato, per iscritto, dichiaro di aver partecipato alla lotta dell’opposizione come chi, stando in una casa assediata, la difende, e che questo diritto mi era concesso dalla costituzione. Volendosi assestare dopo la guerra civile, mi pare che possano accettare delle dichiarazioni che non umiliano troppo. Capaci di sopprimervi a un angolo di strada, possono essere sensibili a un atteggiamento legalitario »43.

Intanto « Roma fascista » pubblica i nomi degli intellettuali che avevano firmato il manifesto antifascista e incita i direttori dei giornali fascisti a tenere in considerazione quei nomi e a diffondere il più possibile l’elenco. In quest’ultimo compariva anche il nome di Alvaro.

Lo scrittore sanluchese, per proteggersi, portò a termine « L’età della letteratura: 900 », che può essere considerato il suo primo scritto di stampo fascista, e lo inviò a Bontempelli per farlo pubblicare. Inoltre riprese i contatti con la Stampa a cui chiese di fare l’inviato all’estero, in Germania non più in Francia, dove si trovavano gli antifascisti. La risposta da parte del quotidiano fu affermativa, quindi nel 1928 Alvaro si trovò in Germania dove intrecciò delle relazioni con gli intellettuali fascisti che vivevano lì, in primis Pirandello e Rosso di San Secondo. « Il forzato e volontario doppiogioco non giova al prestigio dello scrittore: il quale, però, almeno nel campo morale, perde ogni credibilità sia presso gli

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antifascisti che presso i fascisti e nel campo pratico, i due buridaneschi fasci di fieno. E lui ha proprio bisogno di guadagnare »44

.

Nel 1929 la casa editrice Buratti pubblicò « L’amata alla finestra », opera composta da trentatré racconti. Il libro ricevette molte critiche positive e fu proposto per il premio della rivista « La fiera letteraria », dell’anno 1929. Alvaro però non vinse il premio, perché la commissione chiese il benestare di Mussolini che si oppose alla vittoria dello scrittore sanluchese, consegnando il premio a Piero Gadda Conti per il libro « Il Marzo ».

Nel 1930 uscì « Gente in Aspromonte », romanzo accettato positivamente dalla critica. Intanto Alvaro si trovava a Roma e frequentava personaggi che facevano parte del movimento fascista, come per esempio Giovanni Gentile e Stefano Zweig, Luigi Pirandello e Curzio Malaparte. Tutte persone che erano consapevoli dell’abilità di scrittore di Alvaro. Tra queste c’è anche Margherita Sarfatti, al tempo amante di Mussolini.

Questo incontro sarà molto importante per Alvaro, anche perché la Sarfatti, come abbiamo detto prima, fu presidente della commissione, composta da Ojetti, Malaparte e Pirandello, che nel 1930 consegnò il premio Stampa ad Alvaro. Lo scrittore sanluchese però continuava ad avere un comportamento ambiguo nei confronti del fascismo.

Questo sentimento pian piano sparì a causa della conoscenza di personaggi influenti che nel momento del bisogno lo aiutarono. « Fu tutto un processo, in Alvaro, di autoriduzione della sua avversione al fascismo. Questo processo – checché se ne dica – è anche la nascita e crescita del suo amaro opportunismo e del suo non del tutto sfortunato trasformismo. Dopo la dissoluzione delle opposizioni borghesi e filoborghesi degli anni ’26, egli ebbe paura di nuove bastonate più gravi di quelle subite in un bar del centro di Roma, nel

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tentativo di difendere Tilgher, e in pari tempo, la stessa libertà di coscienza di tutti gli italiani »45

.

Il 1931 per Alvaro fu l’anno del cambiamento. Il regime fascista stava diventando sempre più forte e lo scrittore sanluchese capì che doveva prendere una posizione, stare contro o a favore del fascismo. Uno degli episodi che lo spinsero al mutamento è l’incontro con la dama romana Pecci-Blunt, probabilmente organizzato da Bontempelli.

Nel salotto di questa dama Alvaro verrà in contatto con molti altri fascisti allargando così le sue amicizie. Ne “Ultimo diario” lui stesso scrive:

« Verso il 1931 la mia situazione ebbe un mutamento. Ero stato condannato al confino, dal 1925 al 1931 avevo conosciuto, per la continua persecuzioni dei giornali, privazioni, umiliazioni e angosce gravi. Dopo il 1931, mi videro in compagnie singolari, grandi signori allora in voga e che tenevano le chiavi del potere e ne conoscevano le parti segrete. Si sussurrò di miei rapporti misteriosi, e naturalmente ch’io fossi tra le spie. Ecco cosa era successo. Era uscito « Gente in Aspromonte ». Mussolini, andando un giorno all’ambasciata del Brasile, domandò a bruciapelo all’ambasciatore se avesse letto libri italiani e se avesse letto il mio. L’ambasciatore disse di no, e Mussolini lo esortò a leggerlo, raccomandandoglielo e dicendo cose che qui non mi giova ripetere. Pochi giorni dopo, io mi trovai nella società di quegli anni più vicini al potere.

«Vidi, da quelle sale, fare anticamera a qualche futuro accademico, vidi fare molte fortune, so che dal 1931 al 1938 avrei potuto avere anch’io fortuna, ma il mio studio consisteva nel rimanere in un ambiente unico, direi storico, in cui trovai pure delle vere amicizie, e molta più intelligenza che non si pensi, qualche volta molta più bassezza che non si immagini, ma che dovevo rimanere quello che ero, lontano dalla tessera del partito e da qualsiasi beneficio e onore. Così riuscii a fare »46.

Il mutamento di cui parla Alvaro fu soprattutto morale. Egli si era unito al fascismo perché aveva bisogno di soldi, ma non chiese mai né onori e né benefici, inoltre non ebbe mai la tessera del partito. Ma ebbe la simpatia di quelli che lui reputava suoi amici, la protezione e rapporti con persone che prima disprezzava.

Nel ’31 Alvaro collabora con riviste fasciste, firmando gli articoli con il suo nome, e si avvicina sempre più ai fascisti e al duce, inoltre viene invitato a Firenze per tenere una

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E. Misefari, Alvaro politico, pag. 78. 46

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conferenza sulla Calabria. In questa sede Alvaro esalta il movimento fascista e tutto quello che i fascisti aveva fatto per la Calabria, ignorando del tutto la realtà calabrese che si trovava oppressa dalla violenza del fascismo agrario.

Nello stesso anno Alvaro venne mandato dal quotidiano « La stampa » in Turchia. Appena rientrato a Roma ricevette una lettera da Cesare Fanti, il direttore amministrativo del giornale, in cui venne chiamato per la prima volta camerata. Questo significa che ormai i fascisti lo vedevano come uno di loro. Ma anche Alvaro ormai non si sentiva più un estraneo nello stare in mezzo a loro. « Sarà stato il premio, saranno state le prove di amicizia offertegli da amici fascisti autorevolissimi, Alvaro non si sente più estraneo a loro; sente del calore per tutti, ma di più, certo, per il “Capo”. Ne sarà prova definitiva il comportamento suo negli anni che verranno »47

.

La conferma che questo periodo per Alvaro fosse molto positivo ce la dà lui stesso in Tutto è accaduto:

« Tutto quanto accade nella vita italiana d’oggi avrà importanza per un secolo: questo è chiaro. E si potrebbero definire tutti i fenomeni italiani di questi anni come la tendenza di tutto il paese a mutare stato personale, familiare, collettivo nazionale; arrivare a condizioni di vita migliori, addirittura a condizioni di vita diverse. Questo accade con una vitalità che questo pur vitale paese ha raramente esplicato nella sua storia moderna. Noi vediamo dappertutto, fin negli angoli più remoti d’Italia, una fretta di rinnovarsi, mutare, gettare quanto è possibile del proprio passato, mutare aspetto alle città, mutare animo, mutare costume. È come se una tradizione per lungo tempo divenuta semplice abito esteriore si fosse rivelata alla vita. Non c’è paese al mondo dove il popolo cerchi, come da noi, di disfarsi con tutta furia di tutto il senso della vecchia vita e delle stesse testimonianze della vecchia vita. Disfarsi degli usi, dei costumi, dei modi, come se una intolleranza giovanile si fosse fatta strada nell’animo di uno dei più antichi paesi del mondo. Osservando fatti come questi, c’è da dirsi una sola cosa: che cioè, se un popolo liquida a questo modo tanto del suo passato significa che ha abbastanza istinto per ricostruirsi un avvenire migliore. Insomma l’Italia colorita ed esteriore sta per scomparire, si sta livellando, si sta atteggiando come se tutto in blocco dovesse diventare una immensa classe dirigente. Insomma, mentre prima era interessante in Italia l’ambiente e la diversità degli ambienti, oggi è interessante l’uomo in sé: un poco sbrigativo, un poco

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brutale, guidato ormai da questo suo istinto di vita, e a differenza dell’umanità di altri paesi mette tutto il suo nel godimento dei popoli comodi e dei benefizi della vita civile. A modo suo, sta costruendo un modo nuovo di essere italiani. Un modo nuovo che spaventa molti, anche me, per esempio, ma che attrae per la sua violenza e la sua forza, per le sue reazioni pronte, per le sue soluzioni inaspettate. Le ragioni di queste trasformazioni e di quest’animo sono facilmente reperibili: si tratta di un paese in cui l’urbanesimo è di data recente, in cui le regioni erano fino a ieri molto lontane dal consorzio civile, con luoghi fino alla vigilia della guerra in uno stato feudale, e da cui pochi anni dopo l’unità cominciò quell’immenso fenomeno della fuga degli elementi più avventurosi verso l’emigrazione e verso le professioni liberali e gl’impieghi. Questo è il fatto fondamentale dello spirito italiano: da noi il popolo è il meno immobile del mondo »48

.

Tutto ciò, ancora una volta, non ha nulla a che fare con « la realtà sociale italiana, con le forze che si muovono, con le contraddizioni che la agitano, con le manifestazioni di classe, con il dramma umano e sociale che la gran parte degli uomini vive »49

. Ma è l’ennesima conferma del cambiamento ideologico alvariano.

Nel 1934 Alvaro pubblica « Terra Nuova. Prima cronaca dell’agro pontino » in cui esalta il lavoro di bonifica attuato dal regime e Mussolini. Questa opera è un’ulteriore conferma della compromissione di Alvaro con il fascismo. Ormai il suo pensiero sul duce era cambiato, non era più quello espresso sui giornali d’opposizione, però non arrivò mai ad adularlo per non perdere quel poco di dignità che gli rimaneva. Alvaro non si limitava a « lodare l’opera in sé, il beneficio che qualche migliaio di braccianti di varie regioni ne avrebbero ricavato, a esaltare, per incoraggiarle, iniziative a favore dei poveri inchiodati alla terra dalla urlante avidità dei grandi proprietari fondiari, nulla d’importante per rimproverarlo; ma lui va fino in fondo nell’offrirsi »50

. Infatti all’interno di questa opera troviamo anche un capitolo, dedicato al duce, dal titolo “Mussolini tra i pionieri” dove traspare perfettamente il mutato pensiero alvariano:

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C. Alvaro, Tutto è accaduto, pagg. 174 – 175. 49

E. Misefari, Alvaro politico, pagg. 88 – 89. 50

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« Come sempre quando si trova davanti la gente del popolo, il Capo del Governo era raggiante… balzò in mezzo al popolo senza perdere nulla della sua solennità, e aggiungendo al suo prestigio la meraviglia di chi lo può guardare a pochi passi di distanza, notare il sorriso, il gesto, l’espressione. Intorno a me si parlavano parecchi dialetti e due o tre lingue straniere. Alcuni tedeschi dicevano: « È umano, supremamente umano »; un francese affermava che una giornata come quella sarebbe l’argomento d’un intero romanzo; e in un dialetto d’Italia qualcuno diceva: « Lui fa tutto ». Tanto che alla fine, quando una nella folla gridò chiamandolo padre, questo appellativo estrememente toccante non suonò strano. […] Uno dei punti salienti del fascino del Capo sulla folla, è che ciascuno si sente in comunione con lui come se egli sapesse tutto, che presto o tardi arriverà, saprà, provvederà. In ogni società si possono ricevere forti offese; ma il popolo pensa sempre che « se egli sapesse » sarebbero asciugate quelle lacrime, sarebbe sollevato quel cuore, riparato il torto e l’offesa. Il popolo italiano ha incarnato in lui un vecchio ideale di giustizia che nella sua storia aveva affidato ai personaggi più diversi »51.

Alvaro, ancora una volta, non vuole vedere la realtà italiana fatta di soprusi, di violenza, dove i diritti civili venivano calpestati e la libertà non esisteva più. Il popolo era costretto a sopravvivere a causa dei problemi irrisolti della società. Ormai egli si era completamente adattato all’ambiente fascista: frequentava i salotti della Sarfatti e della Pecci-Blunt, nei quali incontrava gli intellettuali più rappresentativi del fascismo, come Piradello e Bontempelli.

Il critico Balduino, che sostiene l’antifascismo alvariano, cercò di giustificare l’opera di Alvaro scrivendo nella sua opera dedicata alla scrittore calabrese: « Esso è importante soprattutto come indice dell’uomo Alvaro, capace di riconoscere gli elementi positivi anche nell’operato dei propri avversari, benché ciò potesse portare alla dolorosa accusa di filofascismo. Ed è certo una scusa infondata e immeritata come bastano a provare la vita dello scrittore, la sua opera, il suo profondo e continuo, anche plateale, « engagement » per la rinascita della democrazia e delle più alte doti morali; vero è però che il ritratto del dittatore – che può essere stato in gran parte imposto – quale risulta dal capitolo « Mussolini tra i pionieri », appare piuttosto apologetico e celebratorio; in queste pagine inoltre s’infiltrano a tratti spunti di retorica nazionalista che sono invece assenti nelle altre

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1971-1985: pubblica altri romanzi: Io e lui; La vita interiore; 1934; L’uomo che guarda; Il viaggio a Roma. E pubblica altre raccolte