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2. IL CODICE MARCIANO FR.XIII
2.1 IL MANOSCRITTO
La Geste Francor è arrivata ai giorni nostri nell’unico esemplare del Codice
Marciano fr.XIII, spesso abbreviato in V13, con la collocazione numero 256 del
Fondo Francese della Biblioteca Marciana di Venezia dove è attualmente conservato. Il codice vi è pervenuto nel 1734 grazie al lascito di un nobile veneziano, Giovambattista Recanati, e si presume che precedentemente fosse appartenuto alla collezione dei duchi Gonzaga di Mantova. A sostegno di questa ipotesi è l’inventario dei manoscritti appartenenti al duca Francesco Gonzaga, compilato nel 1407 al momento della sua morte, dove al numero 44 si cita un testo terminante con le parole finali della Geste Francor; gli studiosi, ad
eccezione di Thomas1, concordano su questa corrispondenza e sull’attribuire la
produzione del manoscritto all’area veneto-emiliana. Oggetto di studio dall’inizio
del XIX secolo, deve il suo titolo a Pio Rajna2, che nel 1925 ne fece una
riproduzione in fac-simile; attualmente ne esistono due edizioni integrali, pubblicate negli anni 1986 e 2009, e curate rispettivamente dall’italiano Aldo
Rosellini e dalla studiosa americana Leslie Zarker Morgan3. Carla Cremonesi4 si
1
A. Thomas sostiene infatti che l’incipit corrispondente al numero 44 dell’inventario dei Gonzaga possa corrispondere a una versione dell’Ugo d’Alvernia. La sua ipotesi però rimane isolata. Cfr THOMAS 1881.
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Paris aveva proposto come titolo nel 1865 Pépin et Charlemagne e successivamente La Geste de France. Gautier, sempre nel 1865, preferisce Charlemagne de Venise, e Rajna cambia idea al proposito tre volte: in un primo momento lo intitola infatti I Reali di Venezia, modificato in Reali franco-italiani, e infine decidendosi per il Geste Francor che richiama il titolo di Paris. La titolazione è stata poi mantenuta da tutti i successori. La scelta di Francor rispetto a de France è dettata allo studioso da una sensazione di maggior pertinenza con l’ambito medievale e l’individualità dell’opera; cfr. Introduzione di ROSELLINI 1986, p. 159. Le parole Geste Francor si trovano inoltre nella stessa Chanson de Roland ai vv. 1443 e 3262 come pseudoriferimento storiografico. Si tratta di una caratteristica forma genitivale con significato «le gesta dei Franchi».
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A cui si fa riferimento rispettivamente con ROSELLINI 1986 e ZARKER MORGAN 2009. La prima è utilizzata come edizione di riferimento in questo lavoro per i rimandi al testo; una scelta dettata da ragioni pratiche che non implica giudizi di merito. Cfr. anche le recensioni di CAPUSSO 1990, EVERSON 2001, BERETTA 2011, GIANNINI 2012.
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CREMONESI Carla, Berta da li pè grandi. Codice Marciano XIII, Introduzione, testo, note e glossario, Milano-Varese 1966, Berta e Milone – Rolandin. Codice Marciano XIII, Introduzione, testo, note e glossario, Milano-Varese 1973, e Le danois Ogier. Enfances-Chevalerie. Codice Marciano XIII, Introduzione, testo, note
2 occupò singolarmente della maggior parte dei poemi che compongono il ciclo ed aveva manifestato l’interesse di compiere una riedizione integrale, se pure a puntate, del Codice Marciano XIII, ma non riuscì a completare il proprio lavoro. Il Macaire è l’ultima delle storie contenute nella Geste Francor, ma la prima ad essere pubblicata come testo autonomo - da Adolf Mussafia nel 1864, dall’editore parigino F. Guessard nel 1866 -, anticipando di parecchi anni l’edizione integrale del ciclo. Guessard attribuisce proprio a questo poema il maggior valore dell’intera compilazione e che da solo la rende meritevole di
un’indagine più approfondita5.
Il codice è un palinsesto membranaceo che riutilizza pergamene di grosso spessore e di varie grandezze, raschiate, trattate e girate perpendicolarmente, contenenti atti notarili dell’area bolognese. Il manoscritto misura 330 x 222 cm, ma i fogli riutilizzati nella trascrizione erano probabilmente di grandezza doppia, poi tagliati e usati perpendicolarmente al senso della scrittura originaria. Alcuni fogli erano già inizialmente rovinati, così che si vede lo stesso scrittore far aggirare alla sua narrazione i buchi delle pagine. Il primo foglio è in pessimo stato, la lacuna che presenta fu riparata negli anni passati con una toppa, che veniva però a coprire parte del testo; molti versi risultano illeggibili, i primi che si possono distinguere con sicurezza sono:
Sor tot les autres fu de major renon. Bovo no le querì no merçé ni perdon…
Mentre l’explicit recita :
Explicit, liber Deo gracias ame(n) ame(n).
La rilegatura in pelle scura porta impresso lo stemma della Biblioteca Marciana con il leone di S.Marco e la scritta DOON DE MAY. ROM sul dorso. Il primo titolo con cui compare nei cataloghi è infatti quello di Doon de Mayence, che venne
5
3
inizialmente accettato senza ulteriori controlli6. Ribadito dal catalogo del
bibliotecario Zanetti7 che nel ‘700 lo presenta ancora come romanzo di Doolino
di Magonza e riporta l’ipotesi di Bernard de la Monnoye, per il quale l’opera sia
da attribuirsi interamente al compositore francese Re Adenes8. Sulla
controguardia si trovano tutte le collocazioni assunte nel susseguirsi dei suoi spostamenti: Arm. C – Th.III, poi cancellata e sostituita da Arm. LIV – Th.2-3, a sua volta soppiantata da ZZ 3; in alto a sinistra si trova quella attuale, Mss. Francesi – Fondo Antico n.° 13 – 256.
Composto da 95 fogli, numerati in alto a destra sul recto in cifre arabe9, per un
totale di 17067 versi, per lo più decasillabi, o dodecasillabi, suddivisi in 474 lasse assonanzate di estensione variabile, è corredato da quattordici illustrazioni, o
rozzi disegni a penna10. Se effettivamente non sono un esempio di grande
raffinatezza, bisogna riconoscere loro una notevole chiarezza descrittiva e una forte carica espressiva. Nel Macaire troviamo le rappresentazioni dell’attacco del cane al banchetto e di alcuni momenti della battaglia finale; Carlo Magno vi è riconoscibile per l’elmo a forma di drago che indossa. Bisson, riguardo al, considerando l’estrema semplicità di rigature, impaginazioni e tecniche illustrative, ha ventilato l’ipotesi che il trascrittore del Marciano XIII possa essere un artigiano meno esperto, un semi-professionista, o addirittura un copista
amatoriale, che lavora solo per un uso personale11. La scrittura è opera della
mano di un unico copista che scrive in gotica libraria italiana, di piccolo modulo, con alcuni lettere distintive quali la a maiuscola, di forma onciale, la d con asta
6
Cfr. GUESSARD 1857, p. 394.
7
ZANETTI 1741, pp. 258-9. A lui si deve la prima sommaria catalogazione a stampa della collezione dei codici antico-francesi posseduti dalla Biblioteca Marciana.
8
Adenet le Roi, autore francese operante nella seconda metà XIII secolo, a cui è riconosciuta la paternità delle chansons de geste Li roumans de Berte aus grans piés e Les enfances Ogier. Queste sono state effettivamente riconosciute come modelli dei corrispondenti poemi contenuti nella Geste Francor, ma con diverse variazioni.
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È presente anche una seconda paginazione in numeri arabi posta al centro del margine inferiore che conta 190 pagine. Cfr. RAJNA 1925.
10
Cfr. ROSELLINI 1986, Introduzione, p. 12 e BISSON 2008, p. 56.
11
Servirebbe però un confronto con codici o di contenuto diverso o di provenienza geografica diversa per affermazioni più fondate al proposito. Cfr. BISSON 2008, Introduzione, p. XVIII.
4 parallela al rigo e la cediglia a forma di virgola. La narrazione non è suddivisa in poemi, mentre l’inizio di ogni lassa viene evidenziato da una lettera rossa più grande, così come l’inizio del verso è segnalato da una lettera barrata in rosso.
L’unico spazio bianco si trova al foglio 31r, in corrispondenza della fine della
Chevalerie Bovo e dell’inizio del Karleto, ma non ci sono ulteriori indizi a lasciar supporre un tentativo di suddivisione dell’opera. I fogli sono raggruppati in dodici quaderni, di cui undici di otto e l’ultimo di sette carte; l’inizio di ogni quaderno è segnato da un richiamo nel margine inferiore del verso. I fogli sono di misure variabili e il testo vi si dispone generalmente su due colonne di quarantanove righe l’una. Le rubriche, anch’esse in inchiostro rosso, vengono attribuite a tre mani diverse e sono sicuramente posteriori alla trascrizione del testo; esse anticipano gli eventi contenuti nella lassa che segue o riassumono quanto successo nella precedente, e sono presenti per quasi tutte le lasse. L’attribuzione ad altri rispetto al trascrittore della narrazione è confermata da tutti gli studiosi
che hanno visionato il manoscritto, da Reinhold12 e Rajna13, fino al più recente
Bisson14; vengono attribuite a un primo copista le rubriche dei ff.1-8, ad un
secondo quelle del solo f.9, e ad un terzo infine quelle dal f.10 sino alla fine. Le rubriche sono state aggiunte in un secondo momento, ma lo spazio per loro era già stato lasciato da chi ha scritto il testo. Nonostante questo, i rubricatori hanno a volte lasciato lo spazio in bianco, non lo hanno riempito completamente o, molto spesso, hanno scritto fuori da tale spazio.
Il manoscritto è acefalo e probabilmente mutilo15. Avallando l’ipotesi che lo vede
corrispondere al codice appartenuto ai Gonzaga, 123 fogli sarebbero già andati persi prima del 1708, data dell’acquisto da parte di Recanati, e numerose sono state le supposizioni su quali storie avrebbero potuto precedere l’inizio in medias res della storia di Bovo. In alcuni casi a trarre in inganno sono state anche le
12
Joachim Reinhold, Die franko-italienische Version des Bovo d’Antone, «Zeitschrift für romanische Philologie», 35 (1911) p. 555. 13 RAJNA 1925, p. 23. 14 BISSON 2008, p. 56. 15 Cfr. CINGOLANI 1987.
5 numerazioni dei fogli, che riportano ad esempio un 135 presente sul foglio 1r; Zarker Morgan frena entusiaste considerazioni al riguardo, imputandolo probabilmente a una delle collocazioni del manoscritto nel corso delle sue peregrinazioni. Cingolani ipotizza, cautamente affiancato da Rosellini, che avrebbero potuto esserci altri testi susseguenti, basandosi principalmente su un verso che avvia la narrazione del Macaire e che ritorna uguale proprio al termine di questa, uno spiraglio a nuove storie che sarebbero seguite, ma sulle quali non si possiede alcun dato concreto e sulle quali si possono solo avanzare delle supposizioni.
2.2 LA DATAZIONE
Il codice è concordemente datato da quasi tutti gli studiosi come del XIV secolo,
sulla base della scrittura16 e di alcune particolarità delle illustrazioni che
orientano verso la metà del secolo17. Tuttavia non è escluso che i disegni possano
essere stati aggiunti in un secondo momento; le lettere però ancora visibili come indizio di inizio lassa per il copista lo confermano in una prima metà del
Trecento18. La maggior parte degli studiosi ritiene il codice copia di un esemplare
andato perso da collocare fra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo. Lejeune19
anticipa invece entrambe le datazioni, rispettivamente al XII secolo per quanto riguarda l’archetipo, e al XIII secolo per il codice derivatone; la sua ipotesi si fonda sulla presunta corrispondenza fra le storie narrate dalla Geste Francor e le sculture di Antelami a Borgo San Donnino, l’attuale Fidenza. Partendo da un altro
16
GUESSARD 1857, p. 395.
17
D’ARCAIS 1984, pp.593-4: la studiosa colloca le miniature poco dopo la metà del XIV secolo in base alla presenza di elementi gotici nelle architetture di balconi e finestre, opera di un artista proveniente dalla regione veneziana. I disegni vengono definiti «très amusants, mais assez frustres et populaires par la vivacité de la représentation animale et l’imagination caricaturale avec laquelle sont dessinés les personnages. […] la verve populaire et spontanée qu’illustre le ms.fr.XIII, en particulier dans les représentations des animaux».
18
RAJNA 1925, p. 25.
19
6
tipo di fonti, Cremonesi20 presuppone la derivazione da un altro testo basandosi
su labili reminiscenze dantesche, e soprattutto sulla famosa testimonianza di Lovato Lovati a proposito dei cantori di piazza di gesta francesi: se queste narrazioni raggiungono il loro massimo successo nel XIII secolo è probabile che l’opera sia stata composta in questo periodo, e successivamente ri-copiata nel codice Marciano XIII; se ne deduce quindi una copia tardiva da composizione già franco-italiana. Guessard, caso unico, sostenne la teoria di copia pura da esemplare antico francese e tentò addirittura una ricostruzione per i primi versi, di cui si riporta un rapidissimo esempio:
Sor tot les autres fu de maior renon. Bovo no le queri ni merce ni perdon, vers lui s’en voit cosi irez cun lion21
Così recita l’incipit del Marciano XIII, un’alterazione, secondo lo studioso francese, di testi originali francesi che l’ignoto trascrittore del codice avrebbe avuto sotto gli occhi e che, secondo le regole grammaticali dell’antico francese, sarebbe stato scritto in questo modo:
Sor toz les autres fu de maior renon. Beuves nel quiert ni merci ni pardon, Vers lui s’en vait, irez comme lion22.
Al contrario Mussafia, la cui edizione della GF è quasi contemporanea a quella di
Guessard23, parla invece già di rimaneggiamento di materiale francese. Gli altri
studiosi non esemplificano invece chiaramente le motivazioni di un’ipotesi di copia da altro testo, e soprattutto da quale tipo di testo, compreso Rosellini che nell’Introduzione alla sua edizione lascia un margine di un secolo e mezzo fra la
20
CREMONESI 1966 e 1969.
21
ROSELLINI 1986, vv. 1-3: «Su tutti gli altri fu di maggior fama./ Bovo non gli chiese né grazia né perdono,/ contro di lui va furioso come un leone».
22
GUESSARD 1857, p. 395. È comunque un’operazione filologica molto insolita perché del tutto arbitraria e senza altro fondamento che delle supposizioni non comprovate.
23
7 datazione dell’originale supposto e la copia pervenuta. Zarker Morgan data il
codice tra fine XIII secolo e inizio XIV24, ma non si esprime in modo preciso
riguardo la possibilità di copia da un altro testo, preferendo sottolineare la mancanza di dati precisi sui quali basarsi. Sebastiano Bisson, lo studioso che si è occupato del codice più recentemente, in una descrizione complessiva dei manoscritti del Fondo Francese della Marciana, conferma la composizione del codice nel XIV secolo, collocandola nella prima metà, e lo reputa copia di un originale della seconda metà del Duecento, che a sua volta potrebbe essere stato
copia di un testo antico francese25.
Si è visto come il problema della copia del codice si biforchi nelle due possibilità di copia di un originale francese o copia di un testo già franco-italiano. Quanto si può affermare con relativa sicurezza è che il poema si sia ispirato a storie antico
francesi di cui abbiamo testimonianza, come nel caso delle chansons di Adenet26
o della Reina Sibilla, alle quali sarebbero state aggiunte creazioni personali che
devono dirsi originali dal momento che non se ne conoscono antecedenti27. La
questione si inserisce in un dibattito più ampio, poiché si riallaccia alla problematica riguardante la creazione, la funzione e la destinazione di questa compilazione, come di molti altri testi appartenenti alla letteratura franco-italiana. In polemica con Guessard, che vedeva indubitabile una totale
derivazione francese, si pone, non sola, Cremonesi28, sicura che l’autore del
Marciano XIII non si sia limitato alla semplice copia, effettuando solamente una trascrizione in lingua franco-italiana, ma abbia realizzato un’opera in parte originale. Con ciò si affianca a Viscardi parlando di «un’opera, in certa misura,
24
La sua collocazione è motivata da caratteristiche linguistiche quando afferma che il redattore utilizza un francese non arcaico, bensì «his variations in the case system are current with his time, the early fourteenth century»; cfr. ZARKER MORGAN 2009, pp. 6 e 51.
25
Nel catalogo redatto nel 1741 si annota che lo studioso contemporaneo Bernard de la Monnoye ipotizza che il codice Marciano XIII potrebbe essere opera di Adenet; evidentemente non il codice stesso, bensì il ciclo di storie contenutovi. Per ciò che riguarda la storia del manoscritto e i cataloghi che lo contengono si è utilizzato BISSON 2008.
26
Ad esempio Berta da li pè grandi.
27
Ad esempio Rolandin, cfr. CAPUSSO 2001.
28
8 originale, in cui la materia tradizionale francese è liberamente rimaneggiata, ricomposta in ordine, in certo senso, nuovo, arricchita di spunti nuovi e di nuove
invenzioni»29. Si possono sicuramente individuare dei testi francesi di ispirazione
e modello ad alcuni poemi della Geste Francor, ed è la datazione di questi uno dei primi punti di partenza nel tentativo di individuazione di una data di composizione. Proprio Cremonesi ha individuato il modello di Berta da li pè grandi nell’analoga storia di Adenet le Roi, sicuramente posteriore al 1273-74; tenendo conto del tempo di composizione e di arrivo di tali opere in area veneta, si scivola rapidamente nel secolo XIV. L’originale di cui il codice in nostro possesso sarebbe copia viene collocato, da chi lo ipotizza, in un momento molto ravvicinato al codice stesso, immaginando dunque un originale della fine del Duecento-inizio del Trecento e una copia della metà del medesimo secolo. Già
Paris aveva affermato che il manoscritto V13 è del XIV secolo, e quasi
contemporanea la composizione dell’opera30. Un indizio che non permette di
allontanarsi da questo periodo è la rivisitazione di elementi storici contemporanei dell’Italia settentrionale, trasfigurati quel tanto da poterli inserire in un ciclo carolingio: è il caso dell’episodio di Maximo Cudé descritto nella Chevalerie Ogier, verosimilmente un riflesso delle vicende del tiranno Ezzelino da Romano (1194-1259). Protagonista della scena politica italiana intorno alla metà del XIII secolo, viene conosciuto dall’autore del Marciano XIII probabilmente attraverso la descrizione fattane dal cronachista Rolandino da Padova, datata
126231. Alla base della Chevalerie Ogier può essere anche l’opera di Raimbert da
Paris, ma dal momento che la sua opera risale al XII secolo e gli altri parametri finora adottati ci spostano a periodi successivi, essa non si rivela così determinante. Risulterebbe utile come convalida di questa ipotesi la dimostrazione che il nostro autore conoscesse una Chevalerie Ogier esemplata in
29 VISCARDI 1941. 30 PARIS 1865, p. 172. 31
Rolandino da Padova, Chronica in factis et circa facta Marchiae Trivixane, Bonardi, Città di Castello 1905-1906, pp.5-174. Cfr. KRAUSS 1980 pp. 166 e 172-3, CREMONESI 1984 e CAPUSSO 1990 pp. 229-30.
9
Italia per la prima volta nella prima metà del secolo XIV32, ma rimane una
supposizione troppo incerta.
2.3 LE NARRAZIONI
Il testo si presenta come una narrazione continua e gli inizi e termini dei poemi che lo compongono sono stati stabiliti, con discrete variazioni, dai suoi editori. La loro suddivisione interna oscilla fra i sette e i nove componimenti, a seconda che si dividano le Chevaleries dalle rispettive Enfances oppure no. La storia ha inizio con le Enfances Bovo, prosegue con Berta da li pe grant, Chevalerie Bovo, Karleto, Berta e Milone, Enfances Ogier le Danois, Rolandin, Chevalerie Ogier le Danois, e si conclude con gli avvenimenti del Macaire. Un ciclo di grande respiro in cui si dipanano le vite dei Reali di Francia da Pipino e Carlo Magno a Rolando e Loys, secondo una cronologia dinastica che fa da fil rouge lungo tutta la narrazione, e dalla quale esulano appena le storie riguardanti Bovo. Già Paris sottolineava la parziale estraneità di questo personaggio, il quale si lega alla famiglia reale solo attraverso Pipino, che gli si allea oltretutto contro, considerazione alla quale lo studioso aggiungeva quella per la quale i poemi Berta, Karleto e Macaire, che si rifanno rispettivamente a versioni francesi più antiche denominate Berte, Mainet e Reine Sibille, sarebbero stati in origine estranei al mito di Carlo Magno e vi sarebbero stati ricondotti artificialmente solo
in un secondo momento33.
Nel dipanarsi della storia alcuni episodi e nomi ricorrono, a creare un richiamo interno e un ricorso storico degli eventi. Una ciclicità letterale che vede l’eroe di turno compiere il proprio percorso, per ognuno diverso, ma ritrovandosi a volte a ripercorrere tappe già vissute dai propri antenati. Nella sintesi che segue si è cercato di accentuare gli episodi ricorrenti in tutta la narrazione, ed in particolare
32
Si tratta del ms. B, n. 938, conservato alla biblioteca di Tours.
33
10 proprio quelli che possiamo ritrovare nel Macaire, riassumendo brevemente gli\ altri.
Enfances Bovo. Inseriti direttamente nella narrazione, troviamo Bovo in guerra con il patrigno, Dodo di Maganza. Novello Amleto (o meglio, inconsapevole antenato), Bovo odia l’uomo che gli ha ucciso il padre, sposato la madre ed usurpato il regno. Trova degli alleati per vendicarsi in Sinibaldo e suo figlio Teris. Travestiti da medici, Bovo e Teris entrano ad Antona e si introducono a palazzo senza essere riconosciuti; duemila persone aspettano il loro segnale per iniziare la battaglia, in una scena simile a quella che vedrà l’oste e il suo “esercito” aspettare il via libera di Ogier. Nel frattempo Bovo rivela la sua identità alla madre Blondoia, e la fa murare viva. Quando Bovo sta per sposare la pagana Bradamante, doverosamente convertitasi, ecco tornare la prima moglie Drusiana, rimasta fino ad allora nascosta coi figli per proteggerli. Drusiana torna a riprendere il proprio posto, rivelandosi da subito donna forte e determinata, e lo confermerà nel susseguirsi degli eventi, prima fra i consiglieri a prendere la parola. Nel frattempo fa il suo ingresso in scena la casata carolingia, nella figura di Pipino che si allea con Dodo nonostante il dissenso della corte di Francia, che avrebbe preferito schierarsi con Bovo; il codice feudale qui ancora prevale e i vassalli sono costretti a seguire fedelmente il proprio re nelle sue decisioni.
Berta da li pè grant. Viene inserita a questo la storia del matrimonio di Pipino e si inizia a spostare il baricentro della narrazione sui reali di Francia, fino ad ora comprimari abbastanza negativi. Pipino non ha eredi, bisogna che prenda moglie. La scelta ricade su Berta, figlia del re d’Ungheria: ragazza perfetta se non fosse per un piede fuori misura. La proposta viene fatta in termini molto commerciali, lo scambio deve essere equo e accettato da entrambe le parti, inaspettatamente alla ragazza viene riservato il diritto di decisione, anzi la madre la prega di riflettere bene sulla sua scelta. Ma il matrimonio è concordato, e Berta parte alla volta di Parigi. Durante il viaggio inserisce nel suo seguito le figlie dei nobili da cui viene accolta, per farle maritare bene una volta giunti a corte; fra queste c’è la
11 figlia del conte di Magonza/Maganza, che le assomiglia incredibilmente. Proprio a lei Berta si affeziona, tanto da chiederle di sostituirla la prima notte di nozze, essendo lei troppo stanca per il viaggio. Si presenta così alla dinastia germanica l’occasione di mostrare il proprio arrivismo, disposto a tutto: la giovane la sostituisce, il re si accorge della malformazione mancante ma non se ne preoccupa, e Berta non riesce più a riottenere il proprio posto. È lei, non riconosciuta, ad essere accusata e condannata a morte. Si salva solo supplicando i suoi carnefici e rimane abbandonata nel bosco: la cacciata di Blançiflor ne sarà una replica. Non solo, entrambe vengono salvate fortunosamente, ma nel caso di Berta si tratta di un cavaliere, Sinibaldo – primo nome a tornare. Al suo castello la ritroverà per caso Pipino, che inizialmente non la riconosce, ma attrattone la mette incinta del futuro Carlo Magno; ha avuto tre figli anche dalla traditrice maganzese nel frattempo, Lanfroi, Landrix e Berta – secondo nome che torna. Ma la storia potrebbe concludersi in questa beata inconsapevolezza di Pipino, se non intervenisse la madre di Berta prima, la regina d’Ungheria, a riportare ognuno al proprio posto: è lei a scoprire l’inganno, a cui segue il rogo per la colpevole e il rientro a corte della figlia, che alleva con uguale amore i figli della rivale.
Chevalerie Bovo. Si ritorna alla guerra indetta da Bovo: fallito ogni tentativo d’accordo con Pipino, che si dimostra sovrano ottuso e villano, riprende e segna la vittoria dell’esercito di Bovo, il quale uccide il patrigno e fa prigionieri Pipino e i suoi cavalieri; vorrebbe uccidere anche loro, ma di nuovo interviene decisa Drusiana che impedisce sia fatto loro ogni male poiché questo è il suo volere. In cambio vengono chiesti però i figli come garanzia di pace, e così Carlo e Namo, figlio di Aquilone che ha qui il ruolo di saggio consigliere che lascerà in eredità al ragazzo, trascorrono un mese alla corte di Bovo. Le avventure di questi sembrerebbero finite, se una chiamata da uno zio d’Inghilterra non lo costringesse a ripartire e intraprendere nuove faticosissime avventure, fra cui l’uccisione di un mostro, la conquista di Gerusalemme e la conversione di un
12 intero esercito pagano. Le conclude tutte felicemente e può tornare dalla moglie. Qui si chiude la sua vicenda.
Karleto. Si riprendono, in un gioco di intrecci di storie momentaneamente sospese, le fila delle vicende della corte di Francia: Berta e Pipino allevano con ugual amore i quattro figli dell’imperatore – Lanfroi, Landris e Berta avuti dalla traditrice, e il piccolo Carlo, unico figlio della vera regina. Nonostante ciò la maligna indole maganzese non si fa attendere e il maggiore decide di uccidere i due sovrani, facendosi aiutare dal fratello. Anche se l’avvelenamento viene scoperto, il partito di Maganza è tanto forte da imporsi alla corte e relegare il minore dei fratelli (Karleto) in cucina. Ma uno scatto d’ira espone Carlo alla vendetta dei fratelli, e si salva solo grazie al tempestivo intervento di Morando de River e Rainero d’Aviçon, che lo portano a Saragozza, sotto la protezione del re pagano Galafrio. Questi, nonostante la fede diversa, si affeziona molto al giovane, tanto da dargli in moglie la bellissima figlia Belisant. Carlo accetta a patto che abbracci la fede cristiana, e compie in terra di Spagna un’ascesa, da umile sguattero di cucina come aveva iniziato, che lo porta a rivelarsi degno figlio di re e il guerriero più valoroso in campo. Sbaraglia i nemici pagani che non vedevano favorevolmente quest’alleanza fra uno dei loro e un sovrano cattolico, ma deve al rientro affrontare ancora l’invidia dei figli di Galafrio: tramano di ucciderlo, ma avvertito riesce a scappare, accompagnato dai due fedeli paladini franchi e da sua moglie. Arrivano a Roma dove il papa è un Maganzese che vorrebbe far eleggere imperatore uno della sua casata. Carlo Magno sfugge a nuovi attentati orditi dal malvagio pontefice che viene ucciso, stavolta grazie all’aiuto di un cardinale che Carlo fa eleggere papa col nome di Milone e che lo elegge a sua volta Imperatore d’Occidente. Ma le sue imprese non sono ancora terminate: deve riconquistare la Francia che gli apparterebbe di diritto. Negli scontri muore Aquilon di Baviera, saggio consigliere e padre di Namo, che ne prenderà il posto. L’esercito carolingio sconfigge infine i due fratellastri che vengono condannati e giustiziati come traditori.
13
Berta e Milone. Estranea al tradimento compiuto dai due fratellastri, la sorellastra Berta è molto amata da Carlo, che vorrebbe per lei un matrimonio prestigioso. Ma la ragazza si innamora di Milone, figlio di Bernardo di Clermont, del quale rimane incinta. Consapevoli dell’ira che susciteranno in Carlo Magno, i due fuggono allora in Italia, con un viaggio lungo e travagliato fino a Imola, dove Berta dà alla luce il piccolo Rolando. Da lì ripartono per nascondersi infine a Sutri, luogo deserto perché non possa raggiungerli l’imperatore e dove Milone si adatta a fare il misero lavoro di boscaiolo per provvedere alla famiglia. Rolando intanto a soli quattro anni presenta già doti fisiche e intellettuali fuori dal comune. Qui il racconto viene interrotto per presentare un nuovo personaggio della saga.
Enfances Ogier. Il soldano di Persia Ysorer ha occupato Roma e ne ha allontanato papa Milone, imponendo a tutta la città il culto pagano. La notizia viene a portata a Carlo, insieme all’esortazione ad intervenire, nientemeno che dall’arcangelo Gabriele: è l’unico esempio della Geste di meraviglioso cristiano. Carlo si consulta con i suoi, ed è Namo a dichiarare impossibile il sottrarsi al volere divino; partono alla volta di Roma e la narrazione è qui più tradizionalmente epica, nel suo susseguirsi di scontri violenti e sanguinosi. Vediamo accorrere in aiuto dell’esercito franco anche Teris, personaggio incontrato nelle Enfances Bovo. Durante la battaglia si fa notare il coraggioso scudiero Oggeri, che in un momento di difficoltà recupera l’orifiamma e guida alla riscossa i Francesi. Quest’atto gli vale la nomina a portatore ufficiale dello stemma e la nomina a cavaliere; un’ascesa sociale che ricorda a tratti quella di Varocher nel Macaire. Quando il sovrano di Persia propone di limitare lo scontro a un duello fra i soli campioni dei due eserciti, la scelta ricade proprio su Oggeri. Affiancato dal figlio di Carlo Magno, Carlotto, affronta in un duplice scontro i due cavalieri avversari Karoer e Sandonio, i quali rivelano di possedere un codice d’onore impeccabile. Alla fine sarà il valoroso Danese a determinare la vittoria, liberando Roma dagli invasori, ma attirandosi anche l’invidia dell’erede reale Carlotto; Carlo riconsegna
14 la città nelle mani di papa Milone che ne riconsacra il suolo e dopo due settimane riparte alla volta della Francia.
Rolandin. Sulla via del ritorno Carlo si ferma a Sutri, e imbandisce un banchetto per tutta la popolazione, a cui partecipa anche il giovane Rolando. Affamato si avventa direttamente sul piatto del re, gettando a terra chi cerca di fermarlo e suscitando l’ilarità del sovrano che lo lascia agire. Al termine del pasto Rolando raccoglie gli avanzi per portarli ai genitori, incuriosendo così l’imperatore che dà ordine di seguirlo. Quando il figlio le racconta quanto successo, Berta capisce che si tratta di suo fratello e ordina al ragazzo di non tornare più presso Carlo, che potrebbe altrimenti scoprirli; ma Rolando disobbedisce e l’indomani torna a sfamarsi al banchetto reale , dove Namo lo riconosce come non villano, e di nuovo si tenta di farlo seguire, ma come la prima volta, il ragazzo fa perdere le sue tracce. Infine, al terzo tentativo, Namo e Teris scoprono Berta e Milone, e li convincono a presentarsi a corte. Alla loro vista Carlo è preso dalla rabbia e li colpirebbe, se non fosse fermato con forza inaudita da Rolando, che minaccia di colpirlo nuovamente se non concederà il perdono ai suoi genitori. Namo scoppia a ridere e l’atmosfera si rasserena, Carlo promette a Rolando di crescerlo come un figlio e si celebra il matrimonio di Berta e Milone. La corte può ripartire soddisfatta in direzione di Parigi.
Chevalerie Ogier. Proprio alla corte di Parigi ha inizio il penultimo episodio della Geste, dove si festeggia il matrimonio di Oggeri con la figlia di Namo. Ma a corte il Danese ha già un nemico nell’invidioso Carlotto. Nel frattempo a Verona, qui denominata Marmora, si è installato un crudele sovrano pagano, Masimo Çudé (Massimo Giudeo), che si rifiuta di pagare il tributo dovuto a Carlo. Ogier viene scelto come ambasciatore, il quale inizialmente esita, sapendo uccisi tutti i messaggeri precedenti, ma infine accetta, raccomandando solo agli altri della corte di prendersi cura del figlio Baldovino se non dovesse far ritorno: una scena che ricorda la partenza di Gano come ambasciatore presso il re Marsilio, riecheggiata anche dallo stesso nome dei due figli.
15 Ogier si reca al cospetto del sovrano per chiedergli direttamente come abbia potuto venir meno ai suoi doveri nei confronti di Carlo Magno, suscitandone l’ira ma anche l’ammirazione per la sua prestanza fisica e coraggio. Il pagano decide allora di concedergli la vita se rinnegherà la sua fede e abbraccerà quella di Maometto, altrimenti verrà ucciso come tutti gli altri ambasciatori. Ma Ogier è un saraceno di Spagna convertito che non intende venir meno alla sua lealtà nei confronti dell’imperatore. Aiutato dall’oste che lo alberga e che raccoglie per lui un esercito in città, il paladino franco decapita il re pagano e riconquista la città. Al momento di ripartire per render conto a Carlo Magno affida il governo di Marmora proprio al valoroso oste Baldoino. Il figlio dell’oste viene successivamente fatto cavaliere da Carlo Magno, che suscita lo stupore e l’ammirazione generale per quest’atto di magnificenza. Un’ascesa sociale che nuovo si dimostra anticipatrice di quella di Varocher nell’ultimo poema dell’opera. Intanto in Francia Carlotto ha ucciso il figlio di Ogier durante una battuta di caccia ed è fuggito a Lione; ma in quanto figlio del re è perdonato da tutti, persino dallo stesso Oggeri, a cui la notizia è data da Namo. Ma durante una partita a scacchi Carlotto rammenta l’episodio con tanta crudeltà che Oggeri non può trattenersi e lo uccide. Carlo lo vorrebbe uccidere, ma interviene in difesa Rolando che intercede affinché venga imprigionato sottoterra. Quando arriva a minacciare la Francia il ferocissimo re pagano Braier, che non può essere vinto se non da “un uomo che viene da sottoterra”, è il momento di riscatto del Danese: solo lui infatti ha la possibilità di batterlo, ma poiché Carlo si rifiuta ancora di nominarlo, Rolando e Namo agiscono d’astuzia e riescono infine a organizzare il duello fra Ogier e Braier. Il cavaliere di Carlo Magno si dimostra all’altezza del ruolo e uccide il pagano, aiutato da Rolando. Tutti i Saraceni vengono inseguiti perché nessuno si salvi, e un rientro trionfale a Parigi conclude la vittoria totale. Il poema della Chevalerie si conclude con un breve epilogo riguardante il tradimento di Gano e la disfatta di Roncisvalle, richiamo apparentemente fuori luogo ma che serve di introduzione alla presentazione del traditore Machario, che dà il via all’ultimo episodio del ciclo pervenutoci.
16
Macaire34. La scena si apre sulla corte di Carlo Magno a Parigi. Machario è il nome del Maganzese di turno che, come i suoi predecessori, dietro un’apparenza di fedeltà all’Imperatore cela un’invidia pronta a scatenarsi alla prima occasione. Egli ha ottenuto l’inserimento nell’entourage imperiale grazie alle sue ricchezze, e al momento è uno dei cortigiani più vicini al sovrano. Come mezzo per umiliare quest’ultimo viene scelta la sua bellissima moglie Blançiflor: tenta di blandirla e indurla al tradimento, ma la regina rifiuta sdegnata. Machario si rivolge allora al nano, personaggio di corte caro ai sovrani, ma facilmente corruttibile: in cambio di una buona parola messa per lui con la regina gli promette enormi ricchezze, che quello immediatamente accetta. In occasione di un banchetto il cortigiano tenta di mostrare a Blançiflor le doti del paladino maganzese, ma la regina si infuria, e, stanca di sopportare tali insinuazioni e tanta spavalderia, scaglia con rabbia il nano giù dagli scalini causandogli gravi ferite. Machario, lì in attesa, lo fa prontamente curare e insieme pensano a un piano, ora entrambi determinati a vendicarsi dell’umiliazione subita. Viene deciso che il nano si nasconderà nella camera reale e all’alba, quando Carlo si alza per assistere alla messa, si infilerà al fianco della regina addormentata; lì lo troverà l’imperatore rientrando.
Il piano funziona perfettamente, Carlo vede il nano giacere a lato di sua moglie, salta alle conclusioni più ovvie e dopo un primo momento di silenzioso sbalordimento, scoppia d’ira e chiama a testimoni i propri baroni, fra i quali il Maganzese già in attesa. La regina si sveglia solo in quel momento per il trambusto e, presa alla sprovvista, rimane in silenzio incapace di difendersi. Lei e il nano vengono trascinati via in attesa di giudizio, il re non si capacita di quanto visto mentre Machario sollecita immediatamente la condanna a morte per la consorte che l’ha così svergognato. Interviene il saggio consigliere Namo che
34
Il titolo Macaire all’opera viene dato da Guessard in occasione della pubblicazione del testo nel 1866, ed è utilizzato solo per il poema contenuto all’interno del Marciano XIII. Il nome è fuorviante dal punto di vista del’eredità letteraria: lo stesso Guessard, cosciente dell’appartenenza di questo testo alla Chanson de la
Reine Sibille, si vedeva messo in difficoltà da un’eroina che nel Marciano XIII ha nome Blançiflor; d’altra
parte intitolarlo Chanson de la Reine Blançiflor avrebbe creato ulteriore confusione poiché a questo nome sono collegati storie differenti. Cfr. GUESSARD 1866, Introduzione.
17 chiede di evitare verdetti affrettati, considerando anche il fatto che si tratta della figlia dell’imperatore di Costantinopoli, il quale potrebbe intervenire in difesa della figlia. Machario sfida allora a duello chiunque voglia opporsi alla sua proposta: incute tanto timore che nessuno osa controbattere e il rogo viene allestito. La regina prega inutilmente Carlo di ricredersi, mentre Namo già prevede le sciagure che verranno dalla stirpe dei Maganzesi.
Il nano, al quale sono state date precise indicazioni, portato in braccio sul palco dallo stesso Machario, conferma il tradimento, non occasionale, ma ripetutosi anzi sessanta e più volte e sempre per espresso desiderio e insistenza della regina in persona. Ormai inutile, anzi scomodo complice, viene quindi lanciato fra le fiamme dal barone, ed è ora il turno della regina. Blançiflor chiede di potersi prima confessare e all’abate di Saint Denis racconta quanto accaduto e rivela di essere incinta; questi intercede presso l’imperatore e Namo consiglia di commutare la pena in esilio, dal momento che l’uccidere la regina significherebbe uccidere anche l’erede al trono. Si decide pertanto di bandirla oltre i confini del regno, fino a dove sarà accompagnata dal valoroso Alberis. Blançiflor vede che non può nulla per convincere il marito della propria innocenza e fra le lacrime (piange anche Carlo nel vederla allontanarsi) parte, accompagnata dal cavaliere e dal suo fedelissimo segugio. La compagnia viene però raggiunta presso una fonte da Machario, il quale sfida Alberis per avere la regina, oramai per una questione di principio. Blançiflor, vedendolo prendere il soppravvento fugge nel bosco, invocando la grazia divina che l’aiuti, e quando il traditore la cerca, dopo aver ucciso Alberis, non riesce a trovarla; rientra a palazzo, tranquillo del fatto che nessuno l’abbia visto uscirne. A guardia del cadavere rimane per tre giorni e tre notti senza muoversi il fedelissimo levriero, che si dirige infine a corte al terzo giorno, per la fame. Al banchetto partecipa anche Machario, contro il quale il cane si slancia, lo ferisce e torna alla radura dove giace morto il suo padrone. L’episodio si ripete puntualmente dopo tre giorni: la corte è sempre più stupita, tanto più che il cane sembra proprio quello di Alberis, mentre il clan di Maganza si è preparato con bastoni a respingere gli
18 eventuali nuovi assalti dell’animale. Namo propone di seguirlo se dovesse ripresentarsi, e così viene fatto; ritrovano allora il corpo di Alberis che viene riportato a Parigi per essere seppellito, mentre il dolore nella corte è grande e la gente già mormora accuse contro Machario visti gli attacchi del cane. È per l’ennesima volta Namo a chiedere un intervento del re e a proporre un duello che chiarisca la responsabilità dell’accaduto: il barone e il cane combatteranno, se vincerà l’uomo non penderanno più sospetti su di lui, ma se vincerà il cane sarà giustiziato come colpevole. Machario tenta un nuovo intervento di forza sfidando i baroni, ma stavolta l’imperatore concorda con la proposta e con lui la corte intera, compreso il clan dei Maganzesi che reputa impossibile una sconfitta del parente.
Viene preparato il campo ed emanato il bando secondo il quale nessuno dovrà intervenire durante il duello, pena l’impiccagione. Ma quando il combattimento inizia a volgere a sfavore di Machario un suo parente non si trattiene e cerca di assisterlo; costretto a fuggire viene infine riconsegnato a Carlo che lo fa prontamente condannare. La lotta prosegue per tutto il giorno, infine, il traditore viene sopraffatto. Tenta in extremis un accordo economico, ma vedendo ogni compromesso ormai impossibile, chiede allora di potersi confessare. È nuovamente l’abate di Saint Denis ad occuparsene, il quale pretende stavolta una sua pubblica confessione di quanto commesso davanti alla corte intera, perché tutti sappiano dell’innocenza della regina. Machario è condannato ad essere trascinato da un cavallo per tutta Parigi che gli urla contro, quindi arso e le sue ceneri sparse. La corte si duole, e il narratore annuncia che è il momento di tornare a Blançiflor lasciata mentre vagava nel bosco.
Blançiflor vaga smarrita e appesantita dalla gravidanza, quando incontra il boscaiolo Varocher che sta tornando a casa e che la riconosce immediatamente come la propria regina e acconsente ad accompagnarla a Costantinopoli alla corte del padre. Preso congedo dalla famiglia, moglie e due figli, senza fornire spiegazioni, partono attraverso Francia, Provenza e Lombardia, arrivando infine a
19 Venezia, dove si imbarcano alla volta dell’Ungheria. Qui, presentandosi come marito e moglie, si fermano presso un oste di nome Primeran. Dopo tre giorni la regina dà alla luce un bambino. Primeran lo prende in custodia per battezzarlo e insieme a Varocher si dirige verso il monastero, dove incontrano il re d’Ungheria che riconosce immediatamente la croce bianca sulla spalla del piccolo come simbolo di regalità e ne diventa padrino dandogli il proprio nome, Loys. Quindi interroga Blançiflor e scoperto chi siano veramente li pone tutti sotto la sua protezione e manda messaggeri per avvertire il sovrano di Costantinopoli.
Nella stessa lassa si ha un cambio scena radicale: si torna alla corte di Parigi e indietro nel tempo, al momento prima del bando di Blançiflor dal reame. Namo invia Bernard da Mondiser a Costantinopoli perché informi la corte del peccato della figlia. I genitori faticano a crederci e chiedono che Blançiflor sia condotta da loro affinché venga interrogata e se trovata colpevole si provvederà a punirla come merita. Ma quando Bernard riferisce il messaggio alla corte di Francia è ormai troppo tardi: Namo rimprovera Carlo Magno per le sue decisioni affrettate e per la fiducia accordata ai Maganzesi; come risposta non si può che confessare la verità, dire che si è fatta giustizia di Machario e inviare doni di compensazione. Nel mentre a Costantinopoli è arrivata Blançiflor che racconta la verità dei fatti e di come sia stata bandita, sebbene incinta, in un impeto di rabbia dall’imperatore suo marito, quindi miracolosamente salvata da Varocher, senza il quale sarebbe morta. Suo padre è furioso, all’ambasciata di replica di Bernard risponde con una proposta impossibile da rispettarsi, in effetti un pretesto per muovere guerra alla Francia. Anche Namo capisce che lo scontro è a questo punto inevitabile, e ancora una volta rimprovera a Carlo la leggerezza delle sue decisioni, per le quali ora si sta per abbattere sul regno un’ondata di dolore e non si può far altro che prepararsi ad affrontarla il meglio possibile. La macchina si è innescata e ritornare sui propri passi è inaccettabile per entrambi gli imperatori, si allestiscono gli eserciti.
20 Siamo alle porte di Parigi, l’esercito vi è giunto e stabilito. Varocher è fra i soldati, armato solo del proprio bastone, ma riesce a compiere un’impresa determinante quale quella di rubare di notte i cavalli dall’accampamento francese. All’alba inizia quindi lo scontro vero e proprio che vedrà molti valorosi morire sul campo, una lotta che non vede scontrarsi fedi religiose diverse ma Cristiani contro Cristiani. Blançiflor è dilaniata nel vedere morire da entrambi le parti gente a cui è affezionata e che sente come sua, tanto dal lato greco quanto da quello francese: prega perché si metta fine ai combattimenti e si avverta Carlo della sua presenza (finora sempre celata), ma il padre non cede. Nel frattempo Varocher ha portato in dono i cavalli rubati e chiede, e ottiene, di esser nominato cavaliere ora che ha dimostrato il proprio coraggio.
Il novello cavaliere fa prigioniero in battaglia Bernard, che viene condotto dalla regina; felicissimo di trovarla viva dopo che era stata data per morta, crede che la guerra sia giunta al termine: basterà infatti avvisare Carlo della sua presenza. Blançiflor vorrebbe delle scuse, non ha dimenticato il bando avventato, e come lei suo padre, che nell’incontro richiesto da Carlo ribadisce l’ingiustizia di un processo frettoloso, dell’esilio e dell’affidamento a un solo cavaliere. Ma accetta che si sfidino due soli cavalieri, i migliori dei loro eserciti, con in palio la sua ritirata o meno. Vengono scelti Uggieri il Danese e Varocher; Blançiflor teme che quest’ultimo non sia all’altezza del campione francese, ma rassicurata gli procura le armi migliori. Lo scontro è durissimo, ma durante i combattimenti Varocher rivela al cavaliere che la regina è viva: Uggieri finge allora di esser stato battuto, e si reca con Namo a trattare la resa; qui incontrano la loro regina, a cui chiedono di tornare a regnare affinché la pace sia ricomposta. Blançiflor accetta, e manda alla corte del marito con i due cavalieri il figlio Loys perché questi lo veda. A Carlo appare un fanciullo bellissimo che lo chiama padre, al suo stupore viene spiegato tutto quanto successo, e Carlo si offende che la regina abbia permesso un tale spargimento di sangue. Ma il bambino ha fatto breccia nel suo cuore, e quando Carlo si reca all’accampamento greco l’unione matrimoniale è ricucita; rientrano
21 tutti a Parigi e per quindici giorni si festeggia, fin quando re di Costantinopoli e re d’Ungheria ripartono per i rispettivi regni.
Lasciata la famiglia reale felice e contenta, l’epilogo vede il ritorno a casa di Varocher: la regina gli ha dato un carro carico d’oro e la promessa di altro quando tornerà a corte. Sulla via incontra i suoi figli: questi non lo riconoscono, trasformato in cavaliere, ma reagiscono alle botte che lui dà loro e stanno per restituirgliele quando rivela la sua identità e si dice orgoglioso di loro. Trova la moglie provata dalle difficoltà attraversate, fa quindi immediatamente rivestire l’intera famiglia e trasforma la casa in palazzo grazie alle ricchezze ottenute. La canzone si chiude sulla sua fama ancora alta alla corte di Carlo Magno.
2.4 LINGUA E STILE
La lingua del manoscritto inizialmente non venne riconosciuta ibrida e tantomeno come franco-italiano, ma difficilmente classificabile per i suddetti influssi che vi convergono, venne infine definita dai bibliotecari che per primi catalogarono l’opera come provenzale. Si trova scritto infatti in una nota apposta nel 1734 al foglio 95r: «Questo è provenzale, e vi si vedono per entro molte parole italiane meschiate», e ribadito nel catalogo della Biblioteca Marciana di
quell’anno che recita «Codex membranaceus in fol. Idiomate Provenzali»35. In
effetti quello oggi chiamato franco-italiano non rispetta rigorosamente le regole né dell’antico francese, né dell’italiano, né dei dialetti della zona, una condizione che spesso vanifica ogni rimando a una di queste grammatiche e non permette di riconoscere il genere, numero o tempo verbale della parola isolata, per la quale
diventa indispensabile il riferimento al suo contesto36. L’autore del Marciano XIII
aveva a propria disposizione diverse varianti della stessa forma, da utilizzare secondo la preferenza o la necessità del momento. Basti l’esempio della parola camera, scritta dall’autore in quattro modi diversi: çambre, cambre, zambre e
35
Cfr. BISSON 2008, p. 58.
36
22
chambre. Holtus parla, a proposito del franco-italiano, di indicazioni piuttosto che di norme, con la conseguenza che i risultati raggiunti sono molto più variegati
di quanto succeda in una lingua naturale37. Alcune regole possono essere sì
estrapolate a posteriori dai testi, ma non è possibile prevedere la scelta che verrà attuata dall’autore. Verosimilmente alle quattro grafie corrispondeva un’unica pronuncia che rendesse la parola riconoscibile agli ascoltatori, difficile dire al
giorno d’oggi quale essa fosse38; ma è possibile anche che già al tempo le
pronunce variassero, «in relazione alle conoscenze del leggente riguardanti i due
sistemi linguistici in contatto e le norme della rispettiva lingua madre»39; una
lettura silenziosa o pubblica, impossibile da ricostruire e che veniva influenzata dalle conoscenze possedute dal lettore. Un semplice esempio riguardante la sola pronuncia si trova spesso al giorno d’oggi ad esempio nelle notizie riguardanti paesi o fenomeni stranieri, e trasmesse dai telegiornali con pronunce che variano secondo la cultura dei giornalisti.
Data l’ampia scelta che gli si offre l’autore ha dunque la possibilità di operare una selezione, alla quale potrebbe essere spinto ragioni stilistiche. Una delle caratteristiche più marcate del testo è infatti la rarità dei dittonghi tipici invece dell’antico francese: nel Macaire si trovano infatti nose, froser, cortos, tros, al
posto degli attesi noise, froiser, cortois e trois40. A volte le due versioni
coesistono, come nel caso di vor e voir, e sono usate indifferentemente, così che la ragione dell’alternanza nell’utilizzo della forma dittongata o semplice non è chiara. Si è però notato un prevalere delle forme dittongate nel parlare di Carlo Magno, quasi ad accentuarne l’essere francese e straniero, e un prevalere invece della monottongazione - tipica dell’italiano - nei passaggi narrativi commoventi; una scelta che potrebbe sottolineare l’intenzionalità d’autore nella creazione di questa lingua, che farebbe tesoro del francese per sottolineare gli aspetti esotici 37 HOLTUS 1989, p. 215. 38 ROSELLINI 1986, Introduzione, p. 38. 39 HOLTUS 1989, pp. 212-3. 40
23 dei suoi personaggi, ma ricorrerebbe all’italiano, o dialetto del luogo, laddove voglia una piena comprensione da parte del suo pubblico. Se questa supposizione corrispondesse alla realtà ci si troverebbe davanti ad un autore in possesso non solo di un’ottima conoscenza dei due idiomi e una loro nettamente distinti nella sua coscienza, ma anche di una sensibilità artistica fuori dal comune. Un’ipotesi forse un po’eccessiva benché non inconcepibile. Stupisce però che allora in questo caso l’autore non abbia riservato una connotazione linguistica particolare anche al incolto boscaiolo. in realtà questi aspetti raramente sono affrontati realisticamente dagli autori medievali, per i quali non solo tutte le classi sociali si intendono perfettamente fra loro, ma addirittura persone provenienti da Paesi diversi non incontrano alcuna difficoltà di comunicazione. Non solo nel caso di regnanti e ambasciatori, per il quali si potrebbe eventualmente supporre una lingua culturale comune quale il francese o il latino, ma anche qualora si tratti di due popolani quali il boscaiolo Varocher, francese, e l’oste Primeran, ungherese. A volte si vede l’intervento di traduttori e interpreti nel caso delle ambascerie, ma nella GF, che pur lascia grande spazio alle azioni diplomatiche, non vi è nessuno accenno a queste figure: Bernard de Mondisier trasmette i suoi messaggi dalla Francia alla Grecia e viceversa senza incontrare difficoltà. Tuttavia, sebbene possa sembrare che il villico e la regina si muovano entro lo stesso identico codice linguistico, si presti attenzione alle espressioni simili, ma non identiche, pronunciate in occasione del loro primo incontro:
«Ami», dist la raina, «tu parli de nient.» Dist Varocher: «Vu parla de nient;»41
È notevole l’attenzione al dettaglio dell’uso del voi da parte di Varocher in risposta al tu di Blançiflor, una distanza sociale interposta dall‘imperatrice che si mantiene per tutto il loro scambio di battute, fino all’ultima: la regina passa a sua volta alla forma di cortesia nel momento in cui decide di mettersi nelle mani di quell’uomo che sembra aver già conquistato la sua stima.
41
24 Formalmente, il testo del Marciano XIII sembrerebbe mantenere i canoni dell’epica medievale francese più tradizionale: è infatti scritto in decasillabi, suddivisibili in due emistichi di rispettivamente 6 e 4 o 4 e 6 sillabe l’uno, raggruppati in lasse rimate o assonanzate. Anche il largo uso di epiteti fissi per connotare i personaggi, è una caratteristica dell’epica fin dalle sue origini più antiche; Blançiflor in particolare viene accompagnata in più occasioni dagli aggettivi che riguardano il suo bel viso, formule stereotipate che cambiano non in base all’occasione specifica, ma secondo le esigenze di rima:
Contra la raine c’oit clera façon. Blançiflor la raine c’oit le viso tant cler, De vestra file Blançiflor al vis cler. De soa file c’oit fresco li color, E la raine, la bela al vis cler42
L’importanza della rima a scapito del contenuto è un tratto spesso imputato alla GF e, osservandola più da vicino, ci si accorge che non è l’unica variazione intercorsa fra il modello francese e il testo franco-italiano: anche le lasse infatti non conservano più l’identità strutturale-contenutistica che caratterizzava la Chanson de Roland43. Le lasse della GF non esauriscono gli episodi, ma possono contenere la fine del primo e l’inizio del successivo, e addirittura un cambio di tempo e di luogo che sposta la visuale da un personaggio all’altro. La loro estensione può variare moltissimo, e se due episodi diversi possono convivere all’interno della stessa lassa, così uno solo può essere ripetuto in due diverse. Il procedimento delle lasse similari era presente già nella Chanson de Roland e permette una diversa prospettiva di visuale, ma nel ciclo franco-italiano il
42
ROSELLINI 1986, rispettivamente vv. 13866, 13895, 15069, 15107 e 15178. L’epiteto è molto comune per le dame, la chiarezza del viso è per esempio ciò che connota anche Drusiana nelle Enfances Bovo, vv. 911-12.
43
A riguardo dell’uso delle formule si rimanda allo studio di RYCHNER 1986. Sull’evoluzione della lassa, Monteverdi ne vede la causa nella necessità della narrazione di svilupparsi in forme sempre più ampie. Per analogia sarebbe avvenuto anche il passaggio dal verso ottosillabico al decasillabo quindi al dodecasillabo, e dalla lassa rimata alla successione ininterrotta di versi a rima baciata; cfr. MONTEVERDI 1986, pp. 177 e ss. Si ricorda a questo proposito che se la suddivisione delle canzoni che compongono il Marciano XIII è dovuta a una scelta editoriale, la suddivisione in lasse è invece opera del trascrittore, RAJNA 1925 e capitolo 1.
25 procedimento è estremizzato, col risultato spesso di appesantire un po’lo scorrere della vicenda. Quasi tutti i dialoghi infatti vedono una ripresa di quanto già detto per ripeterlo con parole simili. Entrambi i fenomeni della perdita di equivalenza fra lassa ed episodi, e più in generale quello di una prevalenza della forma sul significato, sono tipici delle chansons tardive e chi le ha viste come la decadenza dei capolavori delle origini, le ha accusate di verbosità monotona e di
un’espressività banale: Paris44 sostenne che si sarebbero potuti togliere tutti i
secondi emistichi, senza che questo andasse a incidere sulla trama, tanto essi sono ridondanti e inutili ai fini narrativi. È un’affermazione eccesiva, ma sicuramente alcuni emistichi sono stati utilizzati unicamente per questioni di rima, scollegati dal contesto e privi di reale significato.
In circa la metà dei casi, come rileva Zarker Morgan, è la ricerca di una rima od assonanza soddisfacente alla conclusione di verso a dar vita alle creazioni più
originali45. In nome della lassa anche i protagonisti possono cambiare il proprio
nome, Blançiflor diventa così Blançiflon46, e il nome proprio dell’imperatore di
Costantinopoli viene citato una volta sola probabilmente proprio per colmare un vuoto sillabico. Soprattutto l’autore però sembra riciclare nelle rime di una lassa più volte gli stessi termini: appare a prima vista una ripetizione dettata dalla mancanza di fantasia o dalla fretta dell’improvvisazione; ma andando a farne la traduzione si vede in realtà come essi corrispondano a significati differenti, dando vita a un’allitterazione giocata sull’omonimia. Si veda ad esempio la lassa
385 in rima –é dove il termine alé47 termina entrambi gli ultimi due versi, ma se
riferito a Machario significa allegro, del nano dice invece che è andato; oppure,
nella lassa 468 in rima –on, ricorre a distanza di pochi versi la parola son48, ma
una volta con significato di somma/ in cima, l’altra come forma coniugata del
44
PARIS 1905.
45
CREMONESI 1983, ROSELLINI 1986, ZARKER MORGAN 2009 p. 46.
46
ROSELLINI 1986, v. 15749.
47
Ivi, vv. 13588-9; li si veda inseriti nel loro contesto nel brano in Antologia n. 2.
48
26 verbo essere. Altre volte invece i termini si presentano in coppie sinonimiche, proprio per permettere di comprendere il termine affiancando al più letterario e di origine francese, il più comune e di origine dialettale; un tentativo di traduzione a metà, secondo Spiess, che dimostrerebbe una completa padronanza di entrambe le lingue e una scelta consapevole dell’uso della lingua mista. Riportando qualche esempio tratto dal Macaire
E mant se fasoit baler e caroler Qe Machario è fi laso e stan Ora me demande merçé e pieté49
Dove il termine caroler è sconosciuto al veneto, mentre è perfettamente riconoscibile per un orecchio italiano il suo sinonimo baler; diversa è la situazione dei termini laso, riscontrabile anche nell’antico veneto, e stan, conosciuto dall’antico francese nella forma estanc; due parole che in effetti appartengono ad entrambi i domini, ma con una frequenza d’uso molto diversa: se laso si rivela veramente vitale solo nel francese, rimanendo termine aulico nell’Italia settentrionale, esattamente il contrario avviene per l’aggettivo stan che lo
accompagna50. L’ultimo stilema su cui si vuole attirare l’attenzione è
l’allitterazione realizzata nel dialogo fra Carlo e Namo quando questi esprime sconsolatamente la propria incapacità a dare un buon consiglio: per due volte
ripete l’identica frase «e no so qe m’en die», variandola una terza con «Ne sai qe dire».
Un artificio retorico che mette ben in evidenza il fallimento di questo personaggio che da sempre si connota per la sua capacità di trovare una soluzione51.
49
ROSELLINI 1986, vv. 13600, 14567 e 15458; numerosi altri esempi in ROSELLINI 1984. L’iterazione sinonimica è un tratto comune a tutta la letteratura romanza medievale, qui utilizzata in un modo particolare e che si rivela ulteriore elemento unificante del ciclo della Geste; secondo l’autore rivelerebbe una dimestichezza con la poesia provenzale in cui tale figura stilistica è molto frequente.
50
SPIESS 1981. Non emerge dai casi qui citati un’ulteriore caratteristica sottolineata da Rosellini: di solito il primo termine di queste coppie sinonimiche è quello cosiddetto italiano così che il significato possa essere immediatamente percepito dall’auditorio, mentre il corrispettivo francese servirebbe a rafforzare l’espressione, conferendo un’aurea francese al termine del verso, in una rima in cui «la funzione fonica prevale su quella semantica», ROSELLINI 1984, p. 436.
51