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Capitolo 3. La separazione di Pompeo e Cornelia (5.722-815)

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Vedi quel grande il quale ogni uomo onora; egli è Pompeo, et ha Cornelia seco. Petrarca, Triumphus Cupidinis 3.13-14. Introduzione

Più di una volta all’interno del quinto libro, l’autore dà spazio alle preoccupa-zioni che affliggono i suoi personaggi, siano essi i personaggi principali o minori. Dalle ansie di Appio Claudio a quelle di Cesare, passando per i timori della Pizia in-difesa e svogliata, fino a quelli di un barcaiolo spaventato dalla violenza del mare, le curae, la sollicitudo, appaiono come una costante, un sottile fil rouge che percorre l’intero libro. Non rimane estraneo a questo stato di apprensione collettiva Pompeo, di cui il poeta ritorna a occuparsi alla fine del libro, descrivendolo angosciato per il destino che attende lui e la moglie Cornelia.

Anche in questo episodio, come in quello appena concluso, la scena si svolge di notte; cambia stavolta la causa scatenante delle preoccupazioni del dux, netta-mente opposte a quelle del suo avversario: mentre Cesare trascorre la notte insonne, fremendo all’idea di dover rimandare lo scontro, Pompeo invece veglia tormentato dal desiderio di proteggere la giovane moglie, quanto di più caro gli sia rimasto nel momento più triste della sua vita.

A questo punto è necessario fare un breve riepilogo e ricordare i fatti avvenuti tra l’episodio della tempesta e quello che stiamo per analizzare. Nel seguito della narrazione lucanea, al ‘fortunato’ naufragio di Cesare segue l’atteso sbarco di Anto-nio sulle coste epirote, non senza qualche difficoltà incontrata durante la traversata da parte della flotta nel mantenere la rotta e l’ordine durante la notte (703-721)1. Giunto sulla terra ferma, Antonio marcia in direzione dell’accampamento di Pompeo, mentre quest’ultimo, a sua volta, si muove con le truppe contro Antonio. Venuto a sa-pere che i due eserciti si trovano a distanza ravvicinata, Pompeo decide di fermarsi, e restare dentro l’accampamento per una notte intera al buio senza accendere i fuochi,

1 Di questa difficoltà non fa cenno Cesare in civ. 3.26.1-5, ricordando piuttosto che la flotta, arrivata nei pressi di Durazzo, fu ostacolata dalla flotta rodia dei pompeiani guidata da Coponio, sebbene invano. Questo tentativo fallito da parte della flotta pompeiana viene omesso dal poeta. In realtà Cesare dovette attendere due mesi prima che Antonio lo raggiungesse, cf. Carcopino 2001, 445.

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per nascondere il suo arrivo ad Antonio. Ma i Greci informano Antonio, che a sua volta invia la notizia a Cesare, e il giorno dopo si congiunge a lui. Avendo saputo del-l’arrivo di Cesare, Pompeo, per non trovarsi accerchiato dai due eserciti, abbandona l’accampamento, e si reca con le sue truppe nei pressi della località di Asparagium. Questa parte è diffusamente narrata da Cesare nei suoi Commentarii (civ. 3.30); al contrario Lucano la omette, spostando l’attenzione dallo sbarco di Antonio in Illiria alla preoccupazione di Pompeo di mettere al sicuro la moglie. È probabile tuttavia che alluda a questi avvenimenti ai vv. 723-725a, posti in apertura dell’episodio:

Undique conlatis in robur Caesaris armis summa videns duri Magnus discrimina Martis iam castris instare suis…

Nel verso iniziale forse il poeta sta facendo riferimento ai fatti che leggiamo in Caes. civ. 3.30.6-7: [Antonius] missis ad Caesarem nuntiis unum diem sese castris tenuit, altero die ad eum pervenit Caesar. Cuius adventu cognito Pompeius, ne duobus circumcluderetur exercitibus, ex eo loco discedit omnibusque copiis ad Asparagium Dyrrachinorum pervenit atque ibi idoneo loco castra ponit.

Tuttavia al poeta non interessa tanto narrare, almeno in questo punto, le ma-novre strategiche di Pompeo, quanto invece le sue scelte private; stando infatti alla narrazione del poeta, e mettendola a confronto col passo di Cesare, si nota che la pri-ma preoccupazione di Pompeo non è quella di pri-marciare contro Antonio e bloccarlo, ma di mettere al sicuro la moglie, che si trova con lui presso l’accampamento2.

Que-2 Sull’effettiva storicità della presenza di Cornelia nel campo di Pompeo in questa fase della guerra è difficile dire, poiché non abbiamo alcun riscontro da parte di altre fonti storiche: Plutarco, in Pomp. 66.3, informa che Cornelia si trovava a Lesbo quando Pompeo vinse a Durazzo a seguito del primo scontro avvenuto nel luglio del 48 a.C., ma non aggiunge nulla riguardo al momento della sua precedente partenza. Diverse quindi sono le posizioni degli studiosi: Hadas 1930, 35, ritiene che Cornelia fosse rimasta con Sesto Pompeo a Tessalonica, il quartier generale dei Pompeiani da quando erano sbarcati in Grecia (vd. supra p. 6), quando Pompeo lo aveva lasciato con lo scopo di bloccare il passaggio di Cesare nel caso in cui avesse raggiunto le coste epirote; di conseguenza l’addio fra i due coniugi non ebbe luogo storicamente così come lo racconta Lucano. Secondo Bruère 1951, 222-223, all’arrivo di Cesare in Epiro la situazione era ancora tranquilla, priva di un effettivo pericolo, per cui sarebbe possibile pensare che Cornelia avesse seguito Pompeo presso il campo sulle rive dell’Apso vicino a Durazzo, e solo dopo l’arrivo di Antonio sarebbe stata mandata a Lesbo per precauzione in compagnia di Sesto Pompeo. Tuttavia va notato che il poeta – lungi dal voler scrivere un trattato storiografico – si prende spesso delle licenze rispetto alla realtà storica dei fatti: si pensi alla presenza di Sesto Pompeo in Tessaglia, al seguito del padre, che si reca presso la maga Erictho; ma sappiamo da Plut. Pomp. 74.1, che Pompeo, dopo la disfatta di Farsalo, si dirige a Mitilene per prendere a bordo Cornelia e il figlio Sesto; Lucano stesso racconta che Sesto si riunì col padre dal lido di Lesbo (8.205). Di conseguenza mi pare che l’episodio dell’addio tra i due coniugi si possa plausibilmente considerare una creazione letteraria, sebbene rievochi un momento della storia del Grande realmente avvenuto. Sulla fortuna del poema di Lucano è gravato per molto tempo dall’età tardo-antica in poi il giudizio secondo cui si trattasse di un’opera scritta da uno storico piuttosto che da un poeta. Così infatti scriveva Servio ad Aen. 1.382: quod autem diximus eum poetica arte prohiberi, ne aperte ponat historiam, certum est. Lucanus namque ideo in numero poetarum esse non meruit, quia videtur historiam composuisse, non poema. Sul peso del giudizio di Servio nella critica successiva, vd. Esposito

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sta decisione ‒ che da subito si rivela molto sofferta ‒ rende Pompeo fragile e vulne-rabile, un uomo avvinto dal potere dell’amore, che nell’atteggiamento e nelle parole è in tutto simile a un amante elegiaco piuttosto che a un capo militare. Da un punto di vista letterario e compositivo è proprio questo aspetto da considerare fra i più pecu-liari dell’episodio, nonché fra i più innovativi dell’intera opera.

Sarà forse interessante notare preliminarmente che l’ultima scena di cui Pom-peo è protagonista ‒ prima di riapparire alla fine del quinto libro ‒ è quella posta in apertura del terzo, dove il poeta racconta della notte trascorsa sulla nave che lo sta portando in Grecia: in questa scena Pompeo è in preda al terrore a causa del fantasma di Giulia, che, offesa per il nuovo matrimonio celebrato poco dopo la sua morte, lan-cia contro di lui una violenta maledizione, dichiarando che lo avrebbe seguito ovun-que, di notte e di giorno, impedendogli di godere del nuovo amore con Cornelia. Pompeo, destatosi dallo spaventoso sogno, cerca di minimizzarlo, pensando che i morti non hanno coscienza, e dunque si è trattato solo di una vana visione: nel frat-tempo la sua nave era approdata presso le coste epirote (3.1-45). La vicenda del Grande viene tralasciata a questo punto del terzo libro3 e ripresa solo a conclusione del quinto, quasi nello stesso modo ‒ come in un cerchio che si chiude ‒ in due scene simili, dove egli trascorre la notte insonne, preso dalle preoccupazioni suscitate, la prima volta dal fantasma della moglie morta che lo minaccia di seguirlo ovunque, la seconda dalla nuova moglie che si trova con lui in Grecia.

La presenza di Cornelia è un aspetto strettamente connesso all’indebolimento di Pompeo, che si rivela una componente altrettanto determinante e niente affatto se-condaria non solo rispetto alle scelte compositive e letterarie dell’autore, ma anche rispetto all’andamento della narrazione e degli eventi.

1. Finalità narrativa (e conseguenze) della presenza di Cornelia

Nel poema di Lucano l’esperienza privata e pubblica di Pompeo appare in-dissolubilmente legata alla moglie, ed è proprio attraverso questo legame che di volta in volta viene rivelata la psiche del comandante, il quale, a partire dalla fine del quin-to libro fino al momenquin-to della sua morte nell’ottavo, è condizionaquin-to dalla presenza di Cornelia nel prendere decisioni e nell’agire, dimostrando una progressiva vulnerabi-lità che lo pone in netto svantaggio rispetto a Cesare.

Già al momento della fuga dall’Italia, nel secondo libro, il poeta aveva os-servato ‒ con una voluta allusione antifrastica al modello virgiliano ‒ che Pompeo

2015, 172-176.

3 Questa è l’ultima scena in cui il condottiero aveva preso la parola, agendo attivamente nella narrazione. In realtà il poeta fa cenno alla sua presenza, come abbiamo visto supra p. 7, nel-l’assemblea del Senato in Epiro che apre il quinto libro. Tuttavia in quell’occasione il comandate era rimasto in silenzio, sebbene il discorso di Lentulo lo avesse riguardato direttamente.

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stava partendo come un esule portando con sé i figli e i Penati, ripercorrendo a ri-troso il viaggio di Enea (cf. Aen. 3.11-12: «Feror exsul in altum / cum sociis natoque, penatibus et magnis dis.»); ma al contrario di Enea che aveva perso la moglie durante l’incendio di Troia, Pompeo ha la possibilità di partire accompagnato dalla giovane sposa4 (2.728-730): Cum coniuge pulsus / et natis totosque trahens in bella penatis / vadis adhuc ingens populis comitantibus exul.

Da questo momento fino alla separazione, Pompeo trascorre molto tempo in compagnia di Cornelia, indugiando nei piaceri di quella che Lucano definisce Iusta Venus (vd. infra p. 201 s.), e dimenticando i suoi doveri di dux. Se ne ravvede quando lo scontro si fa prossimo, decidendo di allontanarla da sé non solo per proteggerla, ma anche perché riconosce con vergogna di aver anteposto l’amore agli officia mili-tari e politici.

Ma se in un primo momento la moglie si rivela causa di ritardo e distrazione per il condottiero, successivamente diventa anche la causa involontaria della tragica uccisione. Dopo la sconfitta subita a Farsalo infatti, Pompeo si allontana dal campo di battaglia, non per codardia, ma perché convinto che solo in questo modo potrà evi-tare un’ulteriore strage di pompeiani, senza coinvolgere gli altri nella sua sconfitta5. Egli infatti teme che la sua morte in quella circostanza avrebbe potuto provocare quella dei suoi, che sarebbero stati pronti a vendicarlo; inoltre non accetta l’ipotesi di dover morire davanti agli occhi del suo avversario (7.669-673):

Nec derat robur in enses ire duci iuguloque pati vel pectore letum: sed timuit, strato miles ne corpore Magni non fugeret supraque ducem procumberet orbis, Caesaris aut oculis voluit subducere mortem.

A queste motivazioni che spingono Pompeo alla fuga, se ne aggiunge un’altra non secondaria, cui il poeta allude qualche verso dopo in un’apostrofe rivolta a Cor-nelia, con la quale Pompeo desidera ricongiungersi; in questo momento disperato la sposa è infatti per lui l’unico rifugio dai travagli e conforto per gli insuccessi6

(7.675-4 Creusa, ormai fantasma, dice addio a Enea, rimpiangendo il fatto di non poter essere sua com-pagna nel lungo viaggio che l’attende (Aen. 2.776-789). Per un confronto tra la partenza di Pompeo e quella di Enea, vd. Thompson 1984, 209; Fantham 1992a, ad loc.; Rossi 2000; Barrière 2016, 277.

5 Lucano lo ritrae alla stregua di un eroe tragico, che, avendo compreso l’ineluttabilità del suo de-stino, chiede agli dèi di risparmiare i popoli e i soldati, facendo cadere su di lui e sulla sua famiglia la rovina; egli si offre come vittima sacrificale volontaria e, proprio grazie a questo atto di devotio, Lucano lo scagiona per aver abbandonato il campo di battaglia e lo giustifica, perché così facendo salverà delle vite umane (654-666); su questo brano vd. le interpretazioni di Brisset 1964, 75-76; Gagliardi 1975, xvi. Leigh 1997, 135-157, si sofferma a considerare l’aspetto distorto e paradossale insito in questa forma di devotio.

6 Cf. Quartana 1918, 192. L’atteggiamento tenuto in questa occasione da Pompeo non è estraneo a quello della figura del guerriero reinterpretata nella poesia elegiaca, secondo cui dopo la guerra il

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677): Sed tu quoque, coniunx, / causa fugae voltusque tui fatisque negatum / te prae-sente mori. Quindi si reca a Larissa, accolto dai cittadini con dimostrazioni di affetto e assoluta fedeltà anche nel disastro, ma lui piuttosto li ammonisce di restare dalla parte del vincitore (7.712-725). Lo ritroviamo poi all’inizio dell’ottavo libro mentre tra sentieri solitari si dirige verso il mare, annunciando la sconfitta a chi gli si fa in-contro riconoscendolo (8.1-39). Imbarcatosi su una delle sue navi rimaste a largo, or-dina di fare rotta verso Lesbo per raggiungere Cornelia che lo attende angosciata, come se si trovasse anche lei tra i campi di Emazia (8.40-43):

Conscia curarum secretae in litora Lesbi flectere vela iubet, qua tunc tellure latebas maestior, in mediis qua si, Cornelia, campis Emathiae stares.

Dopo il ricongiungimento sulla spiaggia di Mitilene davanti agli sguardi com-mossi degli abitanti dell’isola (8.109-158), Pompeo e i suoi fanno rotta verso la Cili-cia, e giunti presso il porto di Siedra tengono un consiglio per decidere a quale sovra-no chiedere aiuto e asilo (8.243-262); Pompeo vorrebbe recarsi in Persia, presso il re Orode (263-327), ma Lentulo osserva che sarebbe un errore portarvi Cornelia, espo-nendola alle brame perverse del re che avrebbe potuto farla sua concubina (410-411: «Proles tam clara Metelli / stabit barbarico coniunx millesima lecto»); perciò viene stabilito unanimemente di fare rotta verso l’Egitto, dove Pompeo troverà la morte per mano dei sicari di Tolomeo7. Si realizza così quanto era stato predetto dal fantasma di Giulia, maledicendo il nuovo matrimonio del marito: la Fortuna di Pompeo era cam-biata, poiché Cornelia era destinata a trascinare i suoi mariti verso la rovina (3.20-21)8, sorte di cui la stessa sventurata si lamenta (vd. infra pp. 245-246).

Lucano propone dunque al suo lettore un ritratto di Pompeo che è quello di un uomo intenerito e sopraffatto dalla passione amorosa, e ciò destabilizza ulteriormente la sua posizione di per sé precaria: nota è infatti l’icastica similitudine della grande quercia dal tronco nudo, ormai invecchiata, seppur veneranda, irrimediabilmente pri-va di un avvenire, a cui il poeta avepri-va assimilato l’immagine di Pompeoall’inizio del

soldato tornava volentieri tra le braccia della moglie, per cui vd. infra p. 220.

7 La stessa notizia la troviamo anche in Plutarco Pomp. 76.9, che riporta anche la stessa motivazione che spinge Pompeo a non andare in Persia: καὶ γυναῖκα νέαν οἴκου τοῦ Σκηπίωνος εἰς βαρβάρους κομίζειν, ὕβρει καὶ ἀκολασίᾳ τὴν ἐξουσίαν μετροῦντας, ᾗ, κἂν μὴ πάθῃ, δόξῃ δὲ παθεῖν δεινόν ἐστιν, ἐπὶ τοῖς ποιῆσαι δυναμένοις γενομένῃ. τοῦτο μόνον ὥς φασιν ἀπέτρεψε τῆς ἐπὶ τὸν Εὐφράτην ὁδοῦ Πομπήιον· εἰ δή τις ἔτι Πομπηίου λογισμός, ἀλλ’ οὐχὶ δαίμων ἐκείνην ὑφηγεῖτο τὴν ὁδόν. Su questo consiglio dei pompeiani e la scelta di Pompeo, vd. Casamento 2015, in particolare pp. 37-40.

8 Per un confronto tra il discorso benevolo del fantasma di Creusa a Enea, al quale predice un futuro migliore in Italia e un nuovo, prolifero matrimonio con Lavinia, e la maledizione di Giulia sul nuovo e sfortunato matrimonio di Pompeo, vd. Ahl 1974, 579; Salemme 2000, 519; Narducci 2002, 287-288.

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poema9. Nella sezione conclusiva del quinto libro infatti questo aspetto viene ulte-riormente accentuato: Pompeo non è soltanto un uomo vulnerabile, giunto alla fine della sua parabola politica, spogliato della sua grandezza, infiacchito dagli anni e adagiato sugli allori delle glorie passate; egli è anche un condottiero – per così dire – distratto, sorpreso dall’incalzare degli eventi a crogiolarsi in uno stato di amoroso torpore, che gli ha fatto trascurare per diverso tempo i doveri verso la Patria e le re-sponsabilità verso i suoi. In questo brano è possibile quindi riscontrare alcuni aspetti del carattere di Pompeo meno eroici e grandiosi, se considerati da un punto di vista prettamente militare e politico, ma certamente più umani e realistici, soprattutto se messi a confronto con l’atteggiamento tenuto da Cesare e Catone nei confronti delle loro donne10. Gli altri due duces infatti, a differenza di Pompeo, sono ritratti nella loro immutabile e granitica grandezza: mostruosa e negativa quella di Cesare, nobili-tata da una scintilla divina e da una saggezza oracolare, quella di Catone11.

Catone, virtus personificata, imperturbabile e risoluto nel suo rigor stoico12, si serve del dolore per il destino della sua amata Patria come una sorta di scudo che brandisce nel momento in cui decide di affrontare la guerra civile, lasciando gli otia di una vita appartata. Catone è il primo dei tre a essere presentato in compagnia di una donna: l’ex moglie Marcia, che, ancora a lutto per la morte di Ortensio (il secon-do marito cui lo stesso Catone l’aveva concessa in sposa13), si reca di notte presso la

9 1.135-143: Stat magni nominis umbra, / qualis frugifero quercus sublimis in agro / exuvias veteris populi sacrataque gestans / dona ducum nec iam validis radicibus haerens / pondere fixa suo est nudosque per aera ramos / effundens, trunco, non frondibus, efficit umbram / et, quamvis primo nutet casura sub euro, / tot circum silvae firmo se robore tollant, / sola tamen colitur. Per questa descrizione vd. Narducci 2002, 279-281.

10 Riflessioni su questo tema si trovano in Ahl 1976, 173-189; Narducci 2002, 296; Armisen-Marchetti 2003; Dangel 2010; Utard 2010, 180.

11 Ahl 1974, 572, sostiene inoltre che l’assenza del tradizionale apparato divino viene bilanciata dalla grandezza di Cesare e Catone: «They are not gods with the weaknesses of men, but men with the might of gods». Goar 1987, 41, parla di ‘apoteosi’ di Catone nell’opera di Lucano.

12 Cf. Marti 1945a, 359: «The demonstration that in the Pharsalia Cato incarnates the Stoic ideal of perfect goodness and wisdom need not detain us long. He has attained the state of ἀταραξία, the sublime impassivity of a man truly free because he is under no compulsion and suffers nothing». 13 Marcia, figlia del console Lucio Marcio Filippo, era la seconda moglie di Catone: fu co stretta al

divorzio dal marito stesso per essere ceduta in matrimonio al retore Quinto Ortensio Ortalo, al fine di garantirgli la prole. Rimasta vedova nel 50 a.C., fu accolta nuovamente in casa da Catone, prima che quest’ultimo partisse per l’Epiro al seguito di Pompeo. La scelta di Catone risponde in parte a un preciso dettame stoico sul γάμος: la donna è considerata come l’essere che la natura ha messo a disposizione dell’uomo per la perpetuazione della specie. Zenone e Crisippo infatti auspicavano la creazione di una polis abitata soltanto dai saggi, disposti a mettere in comune le mogli e i figli, senza essere tormentati dalla gelosia e dal sentimento di possesso (cf. D. L. 7.131). Tuttavia va ricordato che l’esperienza di Catone e Marcia era tollerata e anzi autorizzata dalla giurisdizione romana e condivisa dagli esponenti della classe dirigente; vi era infatti una pratica molto diffusa, chiamata locatio ventris, considerata il più alto servizio che una donna potesse rendere allo Stato: con la cessione del ventre della propria moglie, e i conseguenti legami di sangue che venivano a instaurarsi, un uomo poteva così rafforzare le proprie relazioni politiche. Proprio in virtù di questa pratica, considerata normalissima, Catone accettò la richiesta del suo amico di cedergli non tanto la moglie, quanto il ventre fecondo della moglie. Su questa pratica, vd. Cantarella 1998, 100-107.

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sua casa a supplicarlo di riprenderla con sé e rinnovare i patti coniugali interrotti da tempo (2.338-371). Persuaso che nessuna passione debba intervenire a perturbare la sua esclusiva dedizione alla res publica, austero nei costumi, Catone non permette che questo legame lo distolga dal desiderio e dall’impegno civile di difendere Roma; egli infatti, pur accettando di riprenderla con sé, resiste alle lusinghe di uno iustus amor con la moglie ritrovata14 (2.378-380): … nec foedera prisci / sunt temptata tori: iusto quoque robur amori / restitit.

Neanche Marcia, dal canto suo, sembra interessata a questo aspetto del matri-monio: iniziando a parlare, essa si dice stanca delle tante gravidanze (340: «visceri-bus lassis partuque exhausta revertor») e dichiara di volere indietro solo i casti vin-coli del primo letto (341-343): «Da foedera prisci / inlibata tori, da tantum nomen inane / conubii…». Questo desiderio di castità viene ulteriormente evidenziato a con-clusione della ‘celebrazione’ delle rinnovate nozze: Marcia abbraccia il marito con una tenerezza che esula completamente dal desiderio sessuale, quasi come si trattasse di uno dei suoi figli (2.366): quoque modo natos, hoc est amplexa maritum.

L’astensione di Catone dall’amore fisico è dovuta al fatto che Venerisque hic maximus usus, / progenies (2.387-388): questa scelta è in linea con l’adesione alla morale stoica, e corrisponde all’atteggiamento del sapiens che limita il rapporto ses-suale alla sola necessità di procreare, privandolo della dimensione edonistica a esso connessa15. La vita matrimoniale del sapiens è dunque scandita in due tempi diversi: quello del periodo fecondo della sposa, durante il quale l’unione sessuale è ammessa e giustificata, perché fondamentale a livello sociale; e il periodo della maturità, in cui la sessualità non rientra più nelle abitudini dei coniugi, per cui l’affetto rimane una questione esclusivamente privata che non interessa più la società16. A questo si ag-giunge il fatto che Catone, cultor della giustizia, servator della rigorosa onestà,

bo-14 Questa è la prima occorrenza del termine amor all’interno del poema, come nota Tucker 1990, 43. 15 Cf. Marti 1945, 370. Questa era la teoria presente nella Repubblica di Zenone, per cui vd. SVF

1.270 = D. L. 7.121: καὶ γαμήσει, ὡς ὁ Ζήνων φησὶν ἐν τῇ Πολιτείᾳ, (τὸν σοφὸν) καὶ παιδοποιήσεσθαι; Zenone auspicava inoltre che in questo Stato ideale le donne dovessero essere messe in comune. La medesima concezione del γάμος inteso come ‘dovere sociale’ è espressa chiaramente in Cic. fin. 3.68: consentaneum est huic naturae ut sapiens velit gerere et administrare rem publicam atque, ut e natura vivat, uxorem adiungere et velle ex ea liberos. Ne amores quidem sanctos a sapiente alienos esse arbitrantur. La vita coniugale doveva essere vissuta in modo sobrio ed equilibrato: ogni tipo di eccesso era considerato riprovevole, perché sviava il sapiens dalla ratio. Questa idea affiora dai pochi frammenti rimasti del trattato senecano De matrimonio, dove il filosofo dispiega un rigorismo senza compromessi nell’affrontare la questione della vita coniugale; i frammenti sono stati tramandati nell’Adversus Iovinianum di Girolamo (1.41-49), opera marcatamente misogina, dove le teorie di Seneca sono riprese alla luce del rigore etico preteso dalla religione cristiana. Della ricostruzione dei frammenti citati da Girolamo si è occupato Vottero 1998; un’approfondita analisi è fornita in Torre 2000; vd. anche Treggiari 1991, 215-220.

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nus per la comunità, non avrebbe mai agito per soddisfare la sua personale voluptas (389-391).

Alla stoica riluttanza di Catone, tutto rivolto alla morte di Roma quasi come fosse un padre privato di uno dei suoi figli17, si oppone la perversa brama di Cesare nella reggia di Alessandria18. Ammaliato dalla bellezza seducente e lussuriosa di Cleopatra, trascorre la notte con lei, abbandonandosi a un amore bollato da Lucano come turpe e illecito, da cui nacque un figlio illegittimo, Cesarione (10.70-81):

Quis tibi vaesani veniam non donet amoris, Antoni, durum cum Caesaris hauserit ignis pectus? Et in media rabie medioque furore et Pompeianis habitata manibus aula

sanguine Thessalicae cladis perfusus adulter admisit Venerem curis et miscuit armis inlicitosque toros et non ex coniuge partus. Pro pudor! Oblitus Magni tibi, Iulia, fratres obscaena de matre dedit partesque fugatas passus in extremis Libyae coalescere regnis tempora Niliaco turpis dependit amori,

dum donare Pharon, dum non sibi vincere mavolt.

Lucano non risparmia un’invettiva al condottiero, e anzi presenta questo vae-sanus amor come più deprecabile di quello che qualche anno dopo avrebbe preso il cuore di Marco Antonio, che, dimentico della sua dignità di vir Romanus, asservito al volere della regina, si sarebbe apprestato a spostare in Egitto il centro del potere ro-mano. Ma questo per il poeta è meno grave rispetto alla scelleratezza commessa in una sola notte da Cesare: mentre fuori la guerra impazza, mentre la terra egiziana è macchiata del sangue di Pompeo, Cesare, incurante del suo ruolo, dei suoi doveri co-niugali verso Calpurnia, della pietas nei confronti del genero ucciso, si lascia sedurre da Cleopatra.

Tra la casta distanza da ogni tipo di voluptas mantenuta da Catone e la sfrena-ta condotsfrena-ta di Cesare, il poesfrena-ta pone il tenero amore che lega sinceramente Pompeo alla sua sposa. Dal punto di vista dell’etica stoica non è forse perfetto come quello di

17 Per l’immagine di Catone come padre di Roma, si veda Moretti 2007, 10-13. Forzata mi pare invece l’interpretazione di Reggiani 2005, 113, secondo cui questa scena non sarebbe altro che «un simbolo, una grande metafora», e Marcia non sarebbe altro che l’ipostasi della Patria a lutto e umiliata, che «bussa alla porta di Catone e si affida alla sua protezione». Ma Lucano non ha bisogno di impiegare metafore simboliche per rappresentare la Patria, dato che nel libro precedente la fa apparire personificata, terrificante e mesta dinanzi a Cesare presso il Rubicone (1.183-192). Se accettassimo la proposta di Reggiani, tutta la scena, dalla richiesta di Marcia a Catone di riprenderla con sé alla preghiera di poterlo seguire in guerra come Cornelia fa con Pompeo, fino al rinnovamento dei patti nuziali, perderebbe completamente di senso e di funzionalità nella definizione del personaggio di Catone.

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Catone e Marcia19, non è caratterizzato dalla medesima razionalità capace di elevarlo a una sfera più spirituale, ma proprio in virtù di questa ‘imperfezione’, risulta più in-tenso e umano, e in quanto tale esposto all’errore e al dolore. L’errore risiede nella remissività dimostrata da Pompeo portando con sé la moglie in Grecia nel teatro del-lo scontro, non valutando, almeno in un primo momento, la possibilità che Cornelia avrebbe potuto correre un pericolo maggiore lì piuttosto che a Roma; la conseguenza di questa scelta è che la presenza di lei, sebbene sia fonte di gioie quotidiane, lo indu-ce a molte distrazioni deplorevoli agli occhi dei suoi colleghi e dei suoi soldati; da qui dunque la sofferta decisione di doversi separare da lei. Si tratta di una scelta ne-cessaria, dal momento che Pompeo comprende che l’eccessiva indulgenza verso gli affetti privati gli era costata la perdita dell’onore di fronte ai suoi in una delle fasi più critiche della storia di Roma20.

2. Finalità letterarie della presenza di Cornelia: l’epica si apre all’elegia

Pompeo è diviso tra la consapevolezza di doversi dedicare completamente alla guerra, e la difficoltà di metterlo in pratica. Dilaniato da un conflitto interiore, egli diventa figura emblematica della tensione tra sfera privata e sfera pubblica, che fino a quel momento, nell’epica tradizionale, veniva risolta con il sacrificio della pri-ma a favore della seconda, perché l’ottenimento della gloria ‒ si pensi al caso di Et-tore e Andromaca ‒ e il buon esito della missione assegnata dai fati ‒ si veda la vi-cenda di Enea e Didone ‒ valeva bene la rinuncia all’amore. Da un punto di vista let-terario e ideologico il fatto che un eroe epico soffra per amore non risulta una circo-stanza pacifica. Pompeo è infatti simile all’amante elegiaco devoto alla propria domi-na, nell’aver sacrificato il servitium militare a favore del servitium amoris21. In un poema dedicato interamente al mondo degli uomini e alla realtà della guerra, lo spa-zio concesso a Cornelia ha un effetto destabilizzante non solo sulla vita del condot-tiero, ma anche sul genere epico, all’interno del quale vengono innestati motivi nuovi tradizionalmente estranei a esso. Il giovane poeta attinge all’elegia di età augustea, contaminando la langue epica con quella della poesia d’amore, più adatta nella resa del pathos espressivo e descrittivo che caratterizza la scena del commiato fra i due coniugi. In particolare sembra che Lucano abbia recepito l’esperimento innovativo di Properzio nel reinterpretare la materia epica in chiave elegiaca22, a partire dall’elegia

19 Armisen-Marchetti 2003, 254-256.

20 Thompson 1984, 212-213, sostiene che l’amore che lo lega alla moglie, è per Pompeo più forte di quello che lo lega alla Patria. Al contrario Conger McCune 2013, 196, sostiene che l’amore di Pompeo per Roma soppianta quello per Cornelia. Su questo aspetto vd. infra pp. 240-242.

21 Si vedano gli emblematici versi di Ovidio am. 1.9.1-2: Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido; / Attice, crede mihi, militat omnis amans. Su questo motivo emblematico della poesia elegiaca, vd. Murgatroyd 1975 e 1981.

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2.8, in cui il poeta mette a confronto la sua attuale situazione, cioè il fatto che Cinzia gli sia stata sottratta da un altro uomo, con quella di Achille, quando Agamennone gli sottrasse Briseide (29-38):

Ille etiam abrepta desertus coniuge Achilles cessare in tectis pertulit arma sua. Viderat ille fuga stratos in litore Achivos, fervere et Hectorea Dorica castra face; viderat informem multa Patroclon harena porrectum et sparsas caede iacere comas, omnia formosam propter Briseida passus: tantus in erepto saevit amore dolor. At postquam sera captiva est reddita poena, fortem illum Haemoniis Hectora traxit equis.

In questi versi la μῆνις del Pelide Achille non è più attribuita al fatto che gli è stato sottratto il bottino di guerra, ma al fatto che il guerriero sia stato privato inopi-natamente della sua amata: Achille è così assimilato all’amante elegiaco, «la cui con-dizione di vita consiste nell’omnia pati per una donna»23, venendo sì, sminuito nella sua statura eroica, ma per converso più umanizzato. Properzio riduce dunque la di-stanza tradizionalmente incolmabile tra l’amante e il guerriero, e reinterpreta e rias-sume l’intera Iliade alla luce della passione di Achille per Briseide24: il guerriero in-fatti tornò a combattere non tanto per vendicare la morte di Patroclo, quanto piuttosto a seguito della restituzione della sua amata25.

Ora, se si tiene conto del fatto che il genere elegiaco era tramontato con la morte di Ovidio (vd. infra § 10), e che la morale stoica dilagante nella prima età im-periale non era stata indulgente nei confronti degli elegiaci augustei che avevano ce-lebrato uno stile di vita libero dai vincoli imposti dalla società26, risulterà chiaro che

23 Fedeli 2005, ad Prop. 2.8.35.

24 Cf. Lechi 1979, 88-91; Barchiesi 1992, 186.

25 Cf. Fedeli 2005, 267-268. L’interesse di Properzio nel secondo libro (cf. anche le elegie 2.9.9-15; 2.20.1; 2.22.29-30) per la figura di Briseide e l’aspetto più passionale della sua storia con Achille testimoniano una probabile diffusione di questa rilettura omerica, recepita anche da Ovidio che dedica la terza epistola delle Heroides alla voce di questa donna. La tendenza all’elegizzazione della materia epica ritorna anche nei Tristia, in particolare nell’elegia 2.533-536, dove Ovidio rende elegiaco l’incipit dell’Eneide, aggiungendo in modo parodistico ad arma virumque anche il torus cartaginese, volendo sottolineare che l’argomento del poema virgiliano non è solo bellico, ma anche amoroso: et tamen ille tuae felix Aeneidos auctor / contulit in Tyrios arma virumque toros, / nec legitur pars ulla magis de corpore toto, / quam non legitimo foedere iunctus amor, per cui vd. Wheeler 2009, 148-149. Sulla reinterpretazione dell’epica attraverso il punto di vista elegiaco, vd. Barchiesi 1987. A dimostrazione che questa operazione fosse nota e apprezzata dai poeti di età imperiale, si consideri il fatto che il motivo di Achille che piange per Briseide verrà sviluppato anche dall’anonimo tragediografo dell’Octavia ai vv. 813-816, sul cui recupero properziano vd. Danesi Marioni 1996, 152-153.

26 Nelle opere filosofiche di Seneca si avvertono tracce di polemica contro lo stile di vita edonistico degli elegiaci, come osserva Degl’Innocenti Pierini 1999, 152-158.

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la ripresa di topoi elegiaci nel Bellum civile non è affatto ovvia, ma è certo derivata dalle letture che il giovane poeta non disdegnava, e inoltre dettata dalla volontà di sperimentare nuove strade e innovare il genere epico, proseguendo in un certo senso l’esperienza di Ovidio con la composizione delle Metamorfosi, senza dimenticare ov-viamente il precedente virgiliano del libro di Didone27.

L’impiego di motivi elegiaci non riguarda solo la scissione di Pompeo tra la militia di Venere e quella di Marte, ma interessa anche propriamente la scelta del poeta di soffermarsi sulla passione amorosa rivolta non tanto a una amante, quanto a una legittima moglie. Anche questo aspetto apparteneva all’esperienza dei poeti au-gustei, i quali, sebbene refrattari all’istituzione del matrimonio28, ne apprezzavano tuttavia il patto di fides su cui esso si imperniava, nonché l’ideale di una relazione duratura ed esclusiva29, capace anche di superare ogni avversità30. Così nei sogni d’a-more di Properzio e Tibullo si assottiglia la linea di confine tra l’ad’a-more extraconiuga-le e quello della Iusta Venus, come quando, per esempio, Tibullo immagina di condi-videre con Delia le attività della villa e i lavori agresti31.

27 Sui motivi elegiaci nel quarto dell’Eneide, vd. Rosati 1999b, 153. Sulla ripresa dell’elegia dopo Ovidio, vd. le conclusioni infra § 10.

28 Properzio non attacca frontalmente i valori della famiglia romana, ma difende il suo personale rifiuto delle nozze e proclama che preferirebbe farsi decapitare piuttosto che sottomettersi al giogo del matrimonio (2.7.7-10): Nam citius paterer caput hoc discedere collo, / quam possem nuptae perdere † more † faces, / aut ego transirem tua limina clausa maritus, / respiciens udis prodita luminibus.

29 Cf. Labate 1975, 116: «L’ideale amoroso ivi vagheggiato prevedeva nell’uomo un impegno totale nel rapporto di reciprocità amorosa, concepito come un santo patto, di cui gli dei sono testimoni e vindici. All’uomo era richiesta una fedeltà non minore che alla donna e anzi era proprio quest’ultima, e non l’uomo, a rendersi colpevole del sacrilegio della violazione». Cf. Prop. 1.12.19-20: Mi neque amare aliam neque ab hac desciscere fas est: / Cynthia prima fuit, Cynthia finis erit.

30 Properzio per esempio immagina un lungo viaggio per mare dei due amanti, uniti in tutti i disagi e in tutte le gioie fino all’eventuale naufragio e all’unione nella morte (2.26.29-35): Heu, mare per longum mea cogitat ire puella! / Hanc sequar et fidos una aget aura duos. / Unum litus erit sopitis unaque tecto, / arbor, et ex una saepe bibemus aqua; / et tabula una duos poterit componere amantis, / prora cubile mihi seu mihi puppis erit. / Omnia perpetiar… Questo atteggiamento più blando da parte degli elegiaci nei confronti dell’istituzione del matrimonio era certamente dovuto alle nuove restrizioni giuridiche e legislative apportate da Augusto in ambito coniugale e religioso, stabilendo pene severe per le relazioni extraconiugali con l’intento di ripristinare gli antichi mores, dopo anni di disordini civili. Al 18 a.C. risalgono due leggi importanti sul matrimonio: la Lex Julia de maritandis ordinibus, che imponeva un limite ai matrimoni tra diverse classi sociali, e puniva il celibato; e la Lex Julia de adulteriis coercendis, tesa a reprimere il crimen adulterii e le varie fattispecie che vi rientravano: incestum, stuprum, lenocinium. La pena prevista da tale legge era la relegatio. Non a caso proprio l’opera più spregiudicata di Ovidio, l’Ars amandi, sembra essergli costata le relegatio a Tomi nell’8 d.C., per ordine di Augusto, al quale un’opera di questo tipo, dove Ovidio invita alla spregiudicatezza e al tradimento, non poteva risultare gradita. Nel secondo libro dei Tristia Ovidio parla di un error et carmen (2.207); il carmen sarebbe appunto la spregiudicata Ars, l’error probabilmente il suo coinvolgimento di Ovidio nello scandalo derivato dalla relazione adulterina tra Giulia Minore, nipote di Ottaviano, e Decio Giunio Silano. Per una interpretazione del crimen, vd. McGowan 2009, 55-62.

31 Tib. 1.5.25-30: Consuescet numerare pecus, consuescet amantis / garrulus in dominae ludere verna sinu. / Illa deo sciet agricolae pro vitibus uvam, / pro segete spicas, pro grege ferre dapem; /

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La commistione tra questi due tipi di relazione si verifica anche in senso in-verso, quando Properzio e dopo di lui Ovidio, raccontano le storie d’amore di celebri coniugi del mito, servendosi di modi espressivi e descrittivi fortemente impregnati di toni elegiaci, di tenerezza, di ardore e bellezza: si pensi ad Aretusa, che nell’elegia properziana 4.3, lamenta la partenza del marito per la guerra, facendo propria quella sofferenza d’amore che fino ad allora era stata appannaggio esclusivo del poeta-a-mante. Quello di Aretusa è un lamento d’amore che anticipa le celebri querellae delle mogli innamorate e sofferenti protagoniste delle Heroides, e di alcuni miti delle Me-tamorfosi, come Penelope, Laodamia, Alcione, che vivono l’amore per il marito con una passionalità estranea alla tradizionale vita domestica romana32. La novità elegia-ca consiste proprio nell’aver introdotto un nuovo sentimento di tenerezza e elegia-calore fino ad allora impensabili nella vita familiare a Roma. E si noterà che è proprio que-sto aspetto a essere stato sviluppato nell’episodio lucaneo, dove sensualità e tenerez-za accompagnano i gesti di Pompeo e Cornelia presso il talamo.

Più di un motivo elegiaco viene condensato e reinterpretato nei novantatré versi presi qui in esame, poiché la langue elegiaca si rivela adatta non soltanto per il ritratto di Pompeo innamorato, ma anche per dar voce ai sentimenti di Cornelia, es-sendo l’elegia la poesia per eccellenza del lamento e del pianto33; Lucano ne sfrutta infatti le modalità e le diverse possibilità espressive per la resa del lamento della don-na, che tenta invano di ribellarsi alla decisione del marito: ritratta in questo atteggia-mento, la donna è presentata come la degna erede del nutrito gruppo di eroine relic-tae cui Ovidio, ispirato dal carme 64 di Catullo e dall’elegia 4.3 di Properzio, aveva dato voce nelle celebri lettere elegiache.

A tutto ciò Lucano aggiunge una vistosa novità, non solo per quanto riguarda il genere epico, ma anche la poesia d’amore stessa: se è vero infatti che Cornelia vie-ne ritratta vie-nel momento in cui il marito decide di allontanarla in un esilio forzato, che lei interpreta come un vero e proprio ripudio e abbandono alla stregua di quelli vissu-ti dalle eroine ovidiane, tuttavia va osservato che l’eroina di Lucano aveva potuto go-dere fino a quella notte del privilegio più agognato e mai ottenuto dalle donne del

illa regat cunctos, illi sint omnia curae; / at iuvet in tota me nihil esse domo.

32 La rivalutazione dell’eros coniugale è un processo che si colloca nella fase più matura dell’opera di Properzio, per cui vd. La Penna 1977a, 173-174, (ma si veda l’intero paragrafo, pp. 167-175). Vd. Rosati 1992, 87, sulla figura di Cinzia nell’elegia 1.3.35-46 che è ritratta in casa ad aspettare il suo amato. Si tratta di una eredità della poesia neoterica, si pensi agli epitalami di Catullo e alle elegie perdute di Calvo alla moglie Quintilia, che dovevano essere importanti per questo aspetto. Tra i miti delle Metamorfosi dove si pone l’accento sull’amore coniugale della coppia, spicca quel-lo di Cefaquel-lo e Procri, su cui vd. Labate 1975.

33 Sull’origine dell’elegia come poesia del lamento, vd. Hinds 1987, 103-104; Bessone 2003. Querella è da considerarsi quasi un termine tecnico della poesia elegiaca, cf. Keith 2008, 237. Per un’elegia al femminile vd. Rosati 1992, in particolare p. 90; sulle figure femminili della poesia elegiaca, vd. Wyke 2002.

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mito e della poesia amorosa in genere, ovvero quello di aver potuto seguire il marito nelle sue prime operazioni belliche, recandosi con lui in Grecia. Per questo motivo il personaggio di Cornelia può essere considerato a buon diritto un unicum, se conside-rato alla luce della poesia precedente, e un modello fondamentale rispetto alla poesia successiva (vd. infra pp. 258-259). Il poeta infatti rovescia la situazione di partenza dell’elegia tradizionale: Cornelia non viene ritratta da sola nella casa di Roma, afflit-ta per la lonafflit-tananza del marito, ma al contrario la troviamo presso l’accampamento di Pompeo, e solo dopo essere stata allontanata da lì34, essa assume allo stesso tempo il ruolo di relicta e di exul. Il rovesciamento risulta ancora più interessante se si consi-dera che Cornelia, seguendo il marito in guerra, assume un comportamento moderno per i suoi tempi e anticonformista rispetto al mos maiorum. Vengono così stravolti due aspetti peculiari della condizione femminile a Roma ben radicati nella tradizione letteraria, che non erano mai stati disgiunti: la moglie perfetta doveva essere domise-da e lanifica, come testimoniano diverse iscrizioni funerarie dedicate a mogli defun-te35, e come si apprende da uno dei più noti esempi dell’antica storia di Roma, quello di Lucrezia, moglie di Collatino, il cui ricordo veniva onorato non solo per aver per-messo la cacciata dei Tarquini da Roma e l’instaurazione della Repubblica, ma anche per essersi distinta come l’emblema archetipico della moglie perfetta sottomessa e fe-dele al marito, matrona lontana dai vizi e animata da un senso del pudore tale che, dopo aver subito violenza da Tarquinio, aveva scelto il suicidio come unico rimedio per preservarlo36. Ovidio racconta la sua drammatica vicenda nella parte conclusiva del secondo libro dei Fasti (721-852), ispirandosi al racconto liviano (1.57-60) nel descriverla come una donna univira, casta e pudica, che trascorre la notte lanificio operam dantem et tristem propter mariti absentiam (come la descrive Servio ad Aen. 8.646), mentre il marito si trova nell’accampamento ad Ardea, in un atteggiamento tanto composto e decoroso da suscitare un forte desiderio nell’animo di Tarquinio. Diverso il comportamento tenuto dalle nuore di quest’ultimo, sorprese a partecipare a un convito notturno, «luogo deputato… alle trasgressioni dell’eros»37, ubriache e con le corone simposiali scivolate sul collo (2.739-742): Ecce nurus regis fusis per colla

34 Cf. Sannicandro 2010, 46.

35 Vd. per esempio l’iscrizione dedicata a Murdia CIL 6.10230: maiorem laudem omnium carissima mihi mater meruit, quod modestia probitate pudicitia opsequio lanificio diligentia fide par simili-sque ceteris probeis feminis fuit; cf. anche CIL 6.11602, 34045 = ILS 8402 dove si dice che Amy-mone, vissuta ai tempi di Adriano, fu optima et pulcherrima, / lanifica, pia, pudica, frugi, casta, domiseda. Sull’immagine di donna romana tramandata dalle epigrafi, vd. Lattimore 1942, 290-299; Treggiari 1991, 243. Da ultimo si veda lo studio di C. Pepe, Morire da donna: ritratti esem-plari di bonae feminae nella laudatio funebris romana, Pisa 2015.

36 Si pensi anche al ritratto della Cornelia properziana nell’ultima elegia del quarto libro, della quale vengono sottolineate le virtù di moglie fedele e univira; per cui vd. Rosati 1992, 71.

37 Degl’Innocenti Pierini 2008c, 395. Sulla scelta della lezione nurus, che indica un gruppo di donne, rispetto a nurum, lectio facilior, intesa in genere come la sola moglie di Tarquinio, vd. ibid., 390-391.

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coronis / inveniunt posito pervigilare mero. / Inde cito passu petitur Lucretia, cuius / ante torum calathi lanaque mollis erat.

Lucrezia, donna ligia alle severe regole imposte dal mos, attende il marito lontano, trascorrendo le sue notti insonne; mentre cuce la lacerna, un rozzo abito mi-litare, essa si lascia andare a un triste lamento rivolto alle ancelle, chiedendo quanto tempo durerà questa lontananza, dando voce ai suoi timori per i possibili rischi in-contrati da Collatino in battaglia, e maledicendo la città di Ardea, teatro della guerra (743-756).

Come osserva Rosati, il personaggio ovidiano di Lucrezia è debitore della properziana Aretusa38, anch’essa moglie fedele e laboriosa che, nell’elegia 4.3, com-ponimento di tipo epistolare39, racconta al marito lontano le notti invernali trascorse al telaio, chiusa nell’angusto ambiente domestico in compagnia della vecchia nutrice e della sorella (33-34: Noctibus hibernis castrensia pensa laboro / et Tyria in gladios vellera secta suos), tormentandosi per la mancanza di notizie sul marito, e ricevendo il conforto della nutrice, che attribuisce alla stagione invernale il ritardo di lui (41-42: Assidet una soror, curis et pallida nutrix / peierat hiberni temporis esse moras)40. Aretusa, ancor prima delle eroine ovidiane, dà voce al dolore per la lontananza e alle paure per la sorte del marito in guerra; tuttavia non si limita solo a sperare che possa tornare presto, ma frustrata per la sua condizione di donna costretta a casa, si lascia andare a un sfogo, lamentando l’esclusione delle donne dai campi di battaglia ed esprimendo il desiderio di voler seguire il marito sulle montagne della Scizia (43-48):

38 Questa coincidenza tra i due personaggi è stata segnalata in Rosati 1996, 141-144 (cf. anche quanto scritto in precedenza in Rosati 1992, 88). Vd. anche Robinson 2011, 462, che osserva che il racconto di Ovidio, sebbene debitore di quello liviano, è caratterizzato da una forte componente elegiaca. A una simile conclusione arriva Landolfi 2004, 85-87 nell’accostare il personaggio di Lucrezia ad alcune Heroides dello stesso Ovidio, in particolare a Penelope, Ero, Ipermestra, con cui condivide la solitudine della lunga attesa, ingannata col lavoro al telaio.

39 Per questa sua forma, l’elegia sembra svolgere la funzione di modello esemplare non solo per il personaggio di Lucrezia, ma per l’intera composizione delle Heroides ovidiane. Tuttavia una parte della critica ha ritenuto impossibile stabilire quale dei due poeti abbia influenzato l’altro, se Ovidio abbia influenzato Properzio con le Heroides o viceversa. Si veda a tal proposito Fedeli 1965, 119-120 e Hutchinson 2006, 101 sull’impossibilità di stabilire la priorità del testo properziano su quello ovidiano; di contro Rosati 1991, 103 che considera l’elegia di Aretusa «quasi come la matrice generativa (sia dal punto di vista formale che da quello ideologico) su cui le Heroides si sono improntate e sviluppate».

40 Una scena molto simile la incontriamo in Tibullo nell’elegia 1.3, dove il poeta prega la sua Delia di restare casta mentre lui è lontano, e di aspettarlo in casa, intenta a filare al lume di can dela in compagnia della madre che le racconta favole (83-94): At tu casta precor maneas; sanctique pudoris / adsideat custos sedula semper anus. / Haec tibi fabellas referat positaque lucerna / deducat plena stamina longa colu; / at circa gravibus pensis adfixa puella / paulatim somno fessa remittat opus. / Tunc veniam subito, nec quisquam nuntiet ante; / sed videar caelo missus adesse tibi. / Tunc mihi, qualis eris, longos turbata capillos, / obvia nudato, Delia, curre pede. / Hoc precor; hunc illum nobis Aurora nitentem / Luciferum roseis candida portet equis. Su questa scena, vd. La Penna 1979, 185 e Della Corte 1980, ad loc.

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«Felix Hippolyte! Nuda tulit arma papilla et texit galea barbara molle caput. Romanis utinam patuissent castra puellis! Essem militiae sarcina fida tuae,

nec me tardarent Scythiae iuga, cum Pater altas acriter in glaciem frigore nectit aquas».

Nel makarismós della regina delle Amazzoni, in cui viene riformulato il cele-bre ‘motivo di Fedra’ canonizzato da Euripide41, Aretusa esprime il desiderio di se-guire l’amato laddove lo portano le sue occupazioni prettamente maschili, precluse in genere alle donne42; nel caso di Fedra il desiderio è quello di seguire Ippolito nelle battute di caccia, Aretusa vorrebbe invece trovarsi a fianco di Licota durante la cam-pagna militare in Scizia, vivendo nello struggimento notturno una rêverie d’amore a occhi aperti, che rimane impossibile da attuare: potessero gli accampamenti aprirsi alle fanciulle romane (45: «Romanis utinam patuissent castra puellis!»); un deside-rio, questo, irrealizzabile per tutte le donne celebrate nella poesia antica, avveratosi solo per la Cornelia di Lucano, che riesce a uscire dall’isolata intimità delle mura do-mestiche, suscitando una certa invidia tra le sue coetanee: si pensi a Marcia, che im-plorando Catone di riprenderla nella sua casa come sposa, tenta anche di convincerlo a portarla con sé in guerra, poiché non accetta il fatto di restare sicura a Roma, men-tre a Cornelia è concesso di trovarsi più vicina alla guerra (2.348-349): «Da mihi ca-stra sequi: cur tuta in pace relinquar / et sit civili propior Cornelia bello?»43. Si tratta della prima menzione della moglie del Grande nel poema44 e come si vede sin dal suo

41 Cf. E. Hypp. 208-211 e soprattutto 215-222: {Φα.} πέμπετέ μ’ εἰς ὄρος· εἶμι πρὸς ὕλαν / καὶ παρὰ πεύκας, ἵνα θηροφόνοι / στείβουσι κύνες / βαλιαῖς ἐλάφοις ἐγχριμπτόμεναι· / πρὸς θεῶν, ἔραμαι κυσὶ θωΰξαι / καὶ παρὰ χαίταν ξανθὰν ῥῖψαι / Θεσσαλὸν ὅρπακ’, ἐπίλογχον ἔχουσ’ ἐν χειρὶ βέλος. Cf. Sen. Phaedr. 233-235: {PH.} «Hunc in nivosi collis haerentem iugis, / et aspera agili saxa calcantem pede / sequi per alta nemora, per montes placet.», con Rosati 1985, 129 n. 31; Danesi Marioni 1995, 27-29.

42 Cf. Rosati 1991, 112. In Rosati 1996, 146-147, si suppone che un precedente importante si possa sospettare nell’elegia di Cornelio Gallo, come testimonierebbe Virgilio in ecl. 10.22-23: «tua cura Lycoris / perque nives alium perque horrida castra secuta est.», e anche 46-47: tu procul a patria (nec sit mihi credere tantum) / Alpinas, a! Dura nives et frigora Rheni / me sine sola vi des, da leggere col commento di Servio ad loc.: hi omnes versus Galli; vd. anche Conte 19842, 31-33.

43 Sannicandro 2010, 95-96, propone di vedere nelle parole di invidia di Marcia, la ripresa del makarismós delle donne troiane fatto da Laodamia in Her. 13.135-146. Fantham 1992a, ad loc., suggerisce un confronto tra Marzia e la moglie di Ovidio che in trist. 1.3.81-82, chiede di ac-compagnarlo in esilio: «non potes avelli. Simul hinc, simul ibimus:», inquit, / «te sequar et coniunx exulis exul ero».

44 Le parole di Marcia nei riguardi di Cornelia sono state usate dagli studiosi di Dante per dimos trare che la Corniglia di cui si legge nel quarto canto dell’Inferno, non è, come si è spesso affermato, la madre dei Gracchi, ma appunto la moglie del Grande. Inf. 4.127-128: Vidi quel Bruto che cacciò Tarquinio, / Lucrezia, Iulia, Marzia, Corniglia. Già Boccaccio, nel commento alla Divina Commedia, Lez. XV (= Guerri 1918, p. 160) riconosceva in Corniglia il personaggio di Lucano. Ussani 1917, 8, identificando la Corniglia di Dante con la Cornelia di Lucano, spiega: «Il v. 128 del canto IV dell’Inferno (… Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia) ci appare come il serbatoio dei più significativi spunti lucanei, all’inizio del lungo ciclo che va dal Limbo al cielo del Sole, come

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primo apparire, essa viene additata come il caso eccezionale di una moglie cui è stato permesso di seguire il marito in guerra. In tal senso Cornelia può essere considerata una mulier virilis, una moglie cioè all’altezza del suo uomo, molto moderna rispetto alle altre, capace di affrontare con coraggio situazioni estranee al mondo femminile senza rinunciare per questo alla virtus e alla grazia richieste a una matrona di alto rango.

2.1 Donne nei castra: testimonianze di una pratica diffusa

La tipologia femminile della matrona virilis che segue il marito nei suoi im-pegni di lavoro non è un’invenzione letteraria: Lucano si attiene ai fatti reali, come testimonia dopo di lui Plutarco, che nella Vita di Pompeo fa cenno alla presenza di Cornelia in Grecia durante la campagna militare contro Cesare (Pomp. 66.3; 74-75), un particolare che doveva essere presente nel racconto liviano. Dal punto di vista sto-rico inoltre Cornelia non fu l’unica matrona romana ad accompagnare il marito nelle sue imprese politiche e militari: prima di lei Cecilia Metella, moglie di Silla, nell’an-no 86 a.C. si era recata ad Atene, dove il marito stava combattendo la prima guerra mitridatica45; dopo di lei, Fulvia, moglie di Marco Antonio, giocò un ruolo non se-condario nella guerra di Perugia contro Ottaviano46. Il caso di queste celebri mogli te-stimonia un fenomeno frequente a Roma negli ultimi anni della Repubblica, divenuto a lungo andare la causa di una certa rilassatezza e distrazione da parte di soldati e le-gati, tanto che Augusto stabilì per legge che i soldati non dovessero contrarre matri-monio47, e che i legati non dovessero incontrarsi con le mogli se non nei mesi

inver-il ripostiglio in cui son contenute le ragioni più profonde del grande amore che ha legato Dante al poeta cordovese: nelle eroine di Lucano, nelle figure femminili della Farsaglia egli ha scorto valori capaci di assumere portata universale, sotto il velo dell’allegoria […], così come egli stesso aveva fatto per la sua Beatrice». Così anche Paratore 1962, 41, scrive che il ricordo di Giulia, Marzia e Cornelia sarebbe un omaggio a Lucano, incontrato nel medesimo libro presso il Limbo. Anche Mazzoni 1965, 184-185, è d’accordo sul fatto che Dante si riferisse al personaggio lucaneo, dato che il suo maestro Brunetto, in Trésor 3.60.10-12 (De pitié), ne citava i lamenti fra gli esempi retorici per muovere a compassione gli uditori. La Corniglia ricordata in Par. 15.129 è invece certamente la madre dei Gracchi.

45 Ne parla Plutarco in Sulla 6.12, per cui vd. Marshall 1975, 11 e n.1; Treggiari 1991, 426-427. 46 Sulla figura di Fulvia e il suo ruolo durante la guerra di Perugia in favore del marito Antonio, vd.

Virlouvet 1994, 88-89; La Penna 2000, 51; Moore 2010, 61-66.

47 Questa legge nata dal progetto augusteo di risanamento morale della società corrotta, fu proba-bilmente introdotta nel 13 a.C. Dio. Cass. 60.24.3: τοῖς μὲν οὖν ταμίαις τὴν διοίκησιν ἀντὶ τῶν ἀρχῶν τῶν ἐν τῇ Ἰταλίᾳ ἔξω τῆς πόλεως ἀντέδωκε (πάσας γὰρ αὐτὰς ἔπαυσε), τοῖς δὲ δὴ στρατηγοῖς δίκας τινάς, ἃς πρότερον οἱ ὕπατοι διεδίκαζον, ἀντενεχείρισε. τοῖς τε στρατευομένοις, ἐπειδὴ γυναῖκας οὐκ ἐδύναντο ἔκ γε τῶν νόμων ἔχειν, τὰ τῶν γεγαμηκότων δικαιώματα ἔδωκε. Fu rigorosamente osservata fino all’età di Claudio, poi le unioni furono tollerate, ma sempre condannate fino al 197, quando venne abolita da Settimio Severo soprattutto quando i castra divennero permanenti, per cui vd. Moore 2010, 51. La presenza delle mogli negli accampamenti divenne nel tempo un fatto normale, come dimostrerebbero alcuni dati riportati nelle tavolette di Vindolanda: una tavoletta (Tab. Vindol. II 291) riporta la notizia che Claudia Severa, moglie di Elio Brocco, aveva invitato alla sua festa di compleanno Sulpicia Lepidina, moglie del comandante

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nali, e permettendo solo ai membri della famiglia imperiale di essere accompagnati dalle consorti (cf. Tac. ann. 3.34.6: quoties divum Augustum in Occidentem atque Orientem meavisse comite Livia!).

Il fenomeno della presenza della donne nei campi militari e nelle provincie venne liberalizzato solo a partire da Tiberio (e si stabilizzò definitivamente nel se-condo secolo)48, e il caso di Agrippina Maggiore è l’esempio più noto di questa ten-denza: la nipote di Augusto e moglie di Germanico aveva seguito il marito nella cam-pagna militare contro i Germani tra il 14 e il 16. Nei due anni trascorsi presso l’ac-campamento, Agrippina aveva dato alla luce il figlio primogenito ed era rimasta in-cinta del secondo, come informa Tacito, quando racconta dell’ammutinamento di una parte dell’esercito e ricorda i rimproveri da parte dei collaboratori a Germanico, per-ché lasciava il figlio piccolo e la moglie incinta in mezzo alla furia dei ribelli (ann. 1.40.2: vel si vilis ipsi salus, cur filium parvulum, cur gravidam coniugem inter fu-rentes et omnis humani iuris violatores haberet?). Germanico aveva tentato di ri-mandarli a Roma, ma Agrippina aveva opposto resistenza, dichiarando di non avere paura: diu cunctatus aspernantem uxorem, cum se divo Augusto ortam neque degene-rem ad pericula testaretur, postdegene-remo uterum eius et communem filium multo cum fle-tu complexus, ut abiret perpulit. In quell’occasione dinnanzi allo spettacolo delle donne piangenti, della profuga uxor in partenza, la reazione dei soldati era stata di pietà e di rispetto per la moglie del loro comandante e per il bambino nato e cresciuto in mezzo a loro (ibid. 1.41.2): … ipsa insigni fecunditate, praeclara pudicitia; iam infans in castris genitus, in contubernio legionum eductus, quem militari vocabulo Caligulam appellabant, quia plerumque ad concilianda vulgi studia eo tegmine pe-dum induebatur.

Agrippina era una donna apprezzata presso l’accampamento del marito49, ma stando alle testimonianze storiografiche, il suo caso sembra essere un’eccezione, poi-ché la presenza in contesti propriamente maschili di altre moglie a lei coeve era in genere sentita come un problema, un motivo di disturbo; la mollitia, la luxuria, l’in-firmitas che secondo la mentalità del tempo erano innate nelle donne (vd. infra p. Flavio Cereale (cf. anche Tab. Vindol. II 292-294). Su questi aspetti della vita militare, vd. fra gli altri Raepsaet-Charlier 1982; Le Bohec 1989.

48 Cf. Svet. Aug. 24.1: Ne legatorum quidem cuiquam, nisi gravate hibernisque demum mensibus, permisit uxorem intervisere, con Marshall 1975, 12 e Moore 2010, 51.

49 Tacito racconta anche di quando, durante l’assenza di Germanico dall’accampamento, si era sparsa la falsa notizia che i Germani avessero accerchiato l’esercito e muovessero verso le Gal lie: in quell’occasione Agrippina aveva assunto il comando della situazione, impedendo ai soldati di distruggere il ponte sul Reno, e accogliendo con lodi e donativi le legioni che tornavano, dando prova di contare più dei legati e dei comandanti (ann. 1.69.1-5). A conclusione di questo aneddoto, Tacito osserva (6): Nihil relictum imperatoribus, ubi femina manipulos intervisat, signa adeat, largitionem temptet, tamquam parum ambitiose filium ducis gregali habitu circumferat Caesaremque Caligulam appellari velit.

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222), erano infatti considerate fattori destabilizzanti per la mascolinità romana50. Una testimonianza significativa a riguardo è quella del resoconto tacitiano di un dibattito sollevato da Cecina Severo in Senato nel 21 d.C. sull’opportunità che i governatori delle province fossero accompagnati dalle loro mogli; il senatore si dichiarò contrario a questa abitudine, a causa della quale donne intriganti, avide di potere, e deboli per loro natura, avevano imperversato per anni tra i campi dei soldati e nelle province ro-mane (ann. 3.33.1-5):

Inter quae Severus Caecina censuit ne quem magistratum cui provincia obvenisset uxor comitaretur […]. Haud enim frustra placitum olim ne feminae in socios aut gentis externas traherentur: inesse mulierum comitatui quae pacem luxu, bellum for-midine morentur et Romanum agmen ad similitudinem barbari incessus convertant. Non imbecillum tantum et imparem laboribus sexum, sed, si licentia adsit, saevum, ambitiosum, potestatis avidum; incedere inter milites, habere ad manum centuriones; praesedisse nuper feminam exercitio cohortium, decursu legionum.

Nella parte finale del giudizio di Cecina sembra essere adombrata una critica alla stessa Agrippina e soprattutto a Plancina, moglie del governatore Pisone, che ac-compagnò il marito in Siria nel 18-19 d.C., rendendosi protagonista di diverse inge-renze, intervenendo durante le esercitazioni dei cavalieri e nelle manovre delle coorti (ibid. 2.55.6): nec Plancina se intra decora feminis tenebat, sed exercitio equitum, decursibus cohortium interesse51.

Alla proposta di Cecina si oppose Valerio Messalino (ibid. 3.34.7), trovando il favore della maggioranza per avere difeso l’importanza dell’amor iustus e della vita matrimoniale, che a causa di lunghi anni di distanza poteva trasformarsi in un divor-zio forzato, e una costridivor-zione per il marito, a cui poteva invece giovare la presenza della compagna sia nei momenti di gioia che in quelli di sconforto:

«… pauca feminarum necessitatibus concedi quae ne coniugum quidem penatis, adeo socios non onerent; cetera promisca cum marito nec ullum in eo pacis impedi-mentum. Bella plane accinctis obeunda; sed revertentibus post laborem quod ho-nestius quam uxorium levamentum? […] Vix praesenti custodia manere inlaesa co-niugia: quid fore si per pluris annos in modum discidii oblitterentur?».

Il dibattito riportato da Tacito è il riflesso di un’annosa questione, e il fatto che Augusto avesse tentato di arginare il problema con una legislazione più rigida di-mostra che il fenomeno fosse già diffuso da tempo: i casi di Silla e Metella, Marco

50 Moore 2010, 52. Sull’immagine del soldato ‘virile’, vd. Alston 1998.

51 Sulla figura di Plancina, si veda Moore 2010, 70-72; Santoro L’Hoir 1994, 13, inserisce Plancina tra le diverse feminae duces che compaiono nelle opere di Tacito; sull’ipotesi che Cecina stesse alludendo al cattivo comportamento di questa donna, vd. Marshall 1975, 14; Degl’Innocenti Pierini 2008, 170.

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Antonio e Fulvia, Pompeo e Cornelia, sono solo gli esempi più macroscopici di un’a-bitudine evidentemente radicata nella società romana.

2.2 Ritratto di Cornelia in Plutarco e Lucano

All’epoca in cui Lucano metteva in versi il conflitto interiore di Pompeo, il dibattito era ancora vivace: lo testimoniano Seneca Retore, che vi accenna breve-mente nella nona controversia52, e Seneca filosofo, che vi allude nella Consolatio ad Helviam, nell’elogio alla zia materna53. La sorella di Elvia infatti è apprezzata dal fi-losofo per essere sempre stata una matrona riservata e dedita esclusivamente alla fa-miglia, la cui modestia, definita rustica54, spicca in mezzo a quella feminarum petu-lantia (19.2), che si era diffusa fra le donne del tempo a causa dell’eccessiva libertà loro concessa (cf. Sen. benef. 1.10.2: nunc in petulantiam et audaciam erumpet male dispensata libertas). Nei sedici anni trascorsi in Egitto durante la prefettura del mari-to, C. Galerio, la zia di Seneca si distinse per la sua riservatezza rispetto alle altre mogli sempre invadenti negli affari dei mariti (Helv. 19.6): … numquam in publico conspecta est, neminem provincialem domum suam admisit, nihil a viro petit, nihil a se peti passa est. Essa dimostrò una virtù così specchiata che costrinse la provincia egiziana, nota per la sua odiosa propensione alla calunnia, a restare senza parole di fronte al suo comportamento irreprensibile: Itaque loquax et in contumelias praefec-torum ingeniosa provincia, in qua etiam qui vitaverunt culpam non effugerunt infa-miam, velut unicum sanctitatis exemplum suspexit et, quod illi difficillimum est cui etiam periculosi sales placent, omnem verborum licentiam continuit.

Il ritratto della zia di Seneca è quello di una nobildonna distinta e umile, una matrona all’antica che non sfrutta il potere del marito per alimentare la propria ambi-zione personale e dare sfogo ai propri capricci; la sua immagine si staglia fra le altre donne come quella di una femina quam non ambitio, non avaritia, comites omnis po-tentiae et pestes, vicerunt (ibid. 19.7)55.

52 Contr. 9.2.2 dove i retori Musa e Vibio Rufo discutono dell’espulsione dal Senato, avvenuta nel 184 a.C., di L. Quinzio Flaminino per aver fatto uccidere un prigioniero per compiacere le cu-riosità di una meretrix che lo accompagnava al posto della moglie, rimasta a Roma ad attenderlo: meretrix uxoris loco accubuit, immo praetoris; su cui vd. Degl’Innocenti Pierini 2008, 170-171. 53 Per un’analisi dettagliata di questa sezione della Consolatio si rimanda a Degl’Innocenti Pierini

2008, 159-171 e Cotrozzi 2004, 116-142. Un ulteriore studio sulle donne degli Annei è quello di Pociňa 2003, il cui scopo è quello di capire perché Seneca non abbia concesso maggiore spazio alle donne della sua famiglia all’interno della sua opera filosofica, dato che oltre alla madre Elvia, alla zia, alla moglie Paolina (ricordata in una lettera) e alla nipote Novatilla, non sono nominate altre familiari.

54 Vd. Degl’Innocenti Pierini 2008, 164-165, sull’accezione positiva che assume qui l’aggettivo rusticus, inteso nel senso di “persona all’antica”, contrapposto al significato negativo che gli at-tribuisce Ovidio di “non alla moda”.

55 È stato osservato in Degl’Innocenti Pierini 2008, 169, che già Seneca Retore, in contr. 2.7.2, l’avaritia aveva stigmatizzato quale muliebrium vitiorum fundamentum.

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Anche di Cornelia viene preservato un ricordo positivo e degno di lode non solo da Lucano, ma anche da Plutarco, che ne offre uno splendido ritratto nella Vita di Pompeo, quando racconta del loro matrimonio, il quinto per il comandante56. Cor-nelia è descritta come una donna affascinante non solo per l’aspetto, ma soprattutto per la preparazione culturale (Pomp. 55.1-3):

Πομπήιος δὲ παρελθὼν εἰς τὴν πόλιν ἔγημε Κορνηλίαν θυγατέρα Μετέλλου Σκιπίωνος, οὐ παρθένον, ἀλλὰ χήραν ἀπολελειμμένην νεωστὶ Ποπλίου τοῦ Κράσσου παιδός, ᾧ συνῴκησεν ἐκ παρθενίας, ἐν Πάρθοις τεθνηκότος. Ἐνην δὲ τῇ κόρῃ πολλὰ φίλτρα δίχα τῶν ἀφ᾽ ὥρας· καὶ γὰρ περὶ γράμματα καλῶς ἤσκητο καὶ περὶ λύραν καὶ γεωμετρίαν, καὶ λόγων φιλοσόφων εἴθιστο χρησίμως ἀκούειν. Καὶ προσῆν τούτοις ἦθος ἀηδίας καὶ περιεργίας καθαρόν, ἃ δὴ νέαις προστρίβεται γυναιξὶ τὰ τοιαῦτα μαθήματα· πατὴρ δὲ καὶ γένους ἕνεκα καὶ δόξης ἄμεμπτος.

La giovane possedeva una cultura adeguata al suo status sociale: il padre, il console Metello Scipione Pio, irreprensibile per nascita e reputazione57, l’aveva indi-rizzata allo studio della letteratura e della filosofia, persino della geometria e della musica, due discipline tipiche dell’educazione greca, che a Roma erano in genere ap-pannaggio dei soli uomini. Plutarco tiene a puntualizzare che nonostante la ricca pre-parazione, il carattere della giovane era «scevro di quella sgradevole futilità che que-sti studi conferiscono alle giovani donne» (trad. di R. Giannattasio): questa precisa-zione è interessante, perché rispecchia perfettamente l’opinione comune romana, di cui Seneca si fa portavoce quando ricorda alla madre che la sua preparazione cultura-le, voluta dal marito, non era paragonabile a quella delle sue coetanee, che ne faceva-no sfoggio con petulantia e vanità, attingendo al sapere solo per il deprecabile accre-scimento della loro luxuria58. Il ritratto plutarcheo di Cornelia è quello di una

matro-56 Vd. Haley 1985, per un’indagine dettagliata sui cinque matrimoni di Pompeo.

57 Lucano la definisce femina tantorum titulis insignis avorum (8.73), e proles tam clara Metelli (8.410): Cornelia era figlia di Emilia Lepida e P. Cornelio Scipione Nasica, il quale, quando fu adottato da Q. Cecilio Metello Pio, assunse il nomen di quest’ultimo, aggiungendovi quello di Scipione, mutando il nome in Quinto Cecilio Metello Pio Scipione Nasica. Va osservato che quella di Cornelia era una famiglia dove le donne avevano sempre studiato, anche quando non era un’abitudine comune: erano donne istruite la nonna paterna Licinia, figlia di L. Licinio Crasso, e le bisnonne Mucia, figlia di Q. Muzio Scevola, e Lelia, figlia di C. Lelio, (queste ultime ricordate da Cicerone con ammirazione per il talento retorico e la purezza dell’eloquio, in Brut. 211 e in de orat. 3.45), per cui vd. Hemelrijk 1999, 76-78. Esistono sparute testimonianze relative all’educazione delle donne aristocratiche a Roma, e il passo di Plutarco sull’educazione impartita a Cornelia è una di queste, per cui vd. Fantham ‒ Boymel Kampen 1994, 27; Hemelrijk 1999, 24-25. Nelle grandi famiglie le ragazze venivano istruite da insegnanti chiamati a domicilio.

58 Vd. Helv. 17.4: Utinam quidem virorum optimus, pater meus, minus maiorum consuetudini deditus voluisset te praeceptis sapientiae erudiri potius quam inbui! Non parandum tibi nunc esset auxilium contra fortunam sed proferendum. Propter istas quae litteris non ad sapientiam utuntur sed ad luxuriam instruuntur minus te indulgere studiis passus est. Degl’Innocenti Pierini 2008, 155-156, accosta la descrizione delle istae a Sempronia, che partecipò alla congiura di Catilina, per la quale la cultura letteraria, la musica e la danza erano dei veri e propri instrumenta luxuriae (Sall. Cat. 25.1-2): Sempronia, quae multa saepe virilis audaciae facinora commiserat. Haec mulier genere atque forma, praeterea viro liberis satis fortunata fuit; litteris Graecis Latinis docta

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