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CAPITOLO I IL RAPPORTO TRA IMPUTABILITA’ E INFERMITA’ 1. Cenni storici.

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CAPITOLO I

IL RAPPORTO TRA IMPUTABILITA’ E

INFERMITA’

1. Cenni storici.

Ogni civiltà ha interpretato la follia in modo differente. La storia del pensiero giuridico occidentale è caratterizzata dal principio della irresponsabilità penale del soggetto cosiddetto infermo di mente, ma vediamo più approfonditamente il rapporto tra imputabilità e infermità nei diversi momenti storici. Il principio secondo cui chi sia “folle”, “alienato”, “malato di mente”, “affetto da disturbo” o “sofferente psichico” in modo da vedere compromesse le sue capacità debba essere considerato meno o per niente responsabile dei propri atti è un principio di antica data e di quasi universale accettazione5. Nel Diritto romano, in aderenza alla dottrina ippocratica, i “furiosi” e i “fatui” che si fossero resi responsabili di reati andavano esenti da punizioni. La “fatuitas” era pressoché assimilabile al difetto di intelligenza; nel “furor” si ricomprendevano tutte le forme di follia. Già allora si conosceva la possibilità di un “lucido intervallo” talché, se il delitto era commesso in tale periodo, non vi era scriminante. Nella legislazione giustinianea vediamo arricchirsi il vocabolario nosografico con le categorie di “dementia”, “insania”, “fatuitas”, “mania”, “amentia”: tutte situazioni che comportano l’impunità per l’eventuale delitto, fatto salvo il caso di quel lucido intervallo. Anche gli intensi gradi delle passioni erano considerati atti ad escludere la responsabilità. Il successivo periodo, in cui era in vigore il diritto penale germanico, è l’unico che fa eccezione alla regola generale: tale diritto, infatti, si curava esclusivamente dell’elemento oggettivo del danno, tralasciando l’elemento soggettivo e considerava responsabili anche i malati di mente. Il diritto penale canonico, che non deporrà mai l’attenzione per l’elemento soggettivo del

5 BETSOS. I. M., (Professore Associato di Criminologia, Istituto di Medicina Legale e

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reato, escludeva l’imputabilità per coloro a cui facessero difetto il discernimento e la volontà libera, ossia i dementi e i furiosi, comprendendo anche le situazioni di furore improvviso e transitorio. In tale periodo si assimilavano alle malattie mentali anche la febbre violenta, il sonno, il sonnambulismo, l’ira subitanea, il dolore intenso, in quanto suscettibili di incidere sulla consapevolezza e sulla libertà dell’azione. Per gli stessi motivi si escludeva l’imputabilità anche nell’ipotesi di ubriachezza. Tali disposizioni, tuttavia, non riguardarono il periodo dell’Inquisizione, in cui prevalsero considerazioni di politica criminale: non importava che i folli fossero o meno responsabili, in quanto la malattia mentale era considerata effetto di stregoneria o di influenza diabolica ed era punita con la messa la rogo (per la cronaca, l’ultimo rogo per stregoneria è stato effettuato in Polonia, nel 1793). Il principio dell’irresponsabilità del folle tornerà in auge nel diritto laico successivamente all’anno Mille, ancora rifacendosi al vizio dell’intelletto o della volontà. Il medico francese Philippe Pinel (1745-1826), direttore di uno dei tanti ospizi in cui venivano inviati i malati di mente, cominciò a distinguere tali soggetti dai poveri, i vagabondi e gli emarginati, che prima venivano assimilati. Pinel riconobbe la follia come una malattia del corpo e definì cinque malattie mentali: la malinconia, la manìa senza delirio, la manìa con delirio, la demenza e l’idiotismo. Il folle era un individuo incapace di padroneggiare i propri istinti: egli sosteneva che la cura del malato mentale era possibile solo in un luogo strutturato, al di fuori di influenze esterne e con la presenza costante di un medico che seguisse l’evoluzione della malattia. La cura divenne di fatto l’internamento. Gli strumenti terapeutici utilizzati per ricondurre questi malati alla “normalità” furono particolarmente traumatici, volti a provocare uno shock: in queste strutture erano comuni docce ghiacciate, diete sbilanciate, isolamento e contenzione fisica, purghe, salassi, oppio6. Si era iniziato, intanto, a consultare i medici: Johann Weyer, è considerato il primo psichiatra medico-legale; Paolo Zacchia, medico pontificio, è reputato il fondatore della psicopatologia forense italiana con le sue

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Questiones medico-legales. Egli descrive i malati con delirio parziale e

distingue tra forme di malattia di origine organica, di origine psichica e di natura reattiva. In un documento russo del 1760 si legge che un truffatore venne visitato da tre medici che ne riconobbero l’infermità mentale (“è malinconico per natura, ed il suo caso rientra nella malattia della ipocondria”): al posto della pena fu inviato in un monastero. In realtà bisognerà aspettare a lungo prima che i medici vengano accolti senza o con poco sospetto nei tribunali, come testimonierà la storia dei rapporti tra psichiatria e giustizia, illustrata da Focault per la Francia e da Fornari e Rosso per il nostro Paese.

All’inizio del Novecento comparvero sulla scena la psicologia e la psicoanalisi, tuttavia continuava ad essere dominante la considerazione del solo aspetto organico della malattia mentale. Dato che il paziente veniva considerato irrecuperabile, in quanto condannato da un danno cerebrale, gli si precludeva qualsiasi possibilità di riabilitazione. Vennero introdotti nuovi trattamenti, come la lobotomia frontale e l’elettroshock7. Contemporaneamente, iniziavano a diffondersi le teorie psicoanalitiche ed i relativi approcci psicoterapeutici. Si deve a Sigmund Freud (1856-1939) il tentativo di affrontare in altro modo il disturbo mentale, prestando attenzione al funzionamento della psiche del paziente. Freud si rese conto che le differenze fra normalità e follia riguardavano più l’intensità e la quantità dei sintomi, che la qualità. Nel 1952 furono sintetizzati i primi psicofarmaci, i neurolettici, che pur agendo solo sui sintomi della schizofrenia, aprirono nuovi orizzonti per un nuovo approccio alla cura.Intanto si faceva strada la convinzione che la malattia mentale potesse dipendere anche da fattori sociali. Già Cesare Lombroso (padre fondatore dell’antropologia criminale) osservava che non bisognava punire soltanto, ma valutare il contesto sociale, biologico, personale e neuropsichiatrico in riferimento all’atto delittuoso. Il giudizio circa il delitto doveva nascere da un esame globale dello stato intellettivo,

7La terapia elettroconvulsivante (TEC), comunemente nota come elettroshock, è una

tecnica terapeutica usata in psichiatria e basata sull'induzione di convulsioni nel paziente mediante passaggio di una corrente elettrica attraverso il cervello. La terapia fu sviluppata e introdotta negli anni trenta dai neurologi italiani Ugo Cerletti e Lucio Bini.

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psicopatologico, sociale e neurologico in gioco nel soggetto. I “criminali nati” non potevano essere rieducati: per loro c’era solo la pena nei “manicomi criminali” e nei casi più gravi la pena di morte. I delinquenti occasionali invece potevano essere rieducati in istituti carcerari ben organizzati. È doveroso ora fare riferimento al sistema codicistico. Primo fra tutti prendiamo in considerazione il Codice napoleonico del 1810, il quale costituisce un riferimento obbligato per l’intera storia del diritto, posto che informerà tutta la codificazione europea del XIX secolo, anche per le norme relative all’imputabilità. Il suo articolo 64 recitava: “Non esiste né crimine né delitto allorché l’imputato si trovava in stato di demenza al momento dell’azione, ovvero vi fu costretto da una forza alla quale non poté resistere”. Nei lavori preparatori si chiarisce che “è demente colui che soffre una privazione di ragione; che non conosce la verità; che ignora se ciò che fa sia bene o male; e che non può affatto adempiere i doveri più ordinari della vita civile”. La Dottrina francese dell’epoca chiarisce altresì che la demenza comprende la follia furiosa, l’idiozia o l’imbecillità, la monomania o l’allucinazione. Tutti i codici penali preunitari italiani, pur facendo proprio il principio di imputabilità espresso dal codice napoleonico, non lo individuavano come concetto, limitandosi invece ad enucleare le cause di esclusione. Quei codici oscillavano tra la definizione di follia o di abnormità mentale tratte in parte dal linguaggio comune (e pertanto di ardua definizione) e in parte dalle incerte definizioni della nosografia psichiatrica nascente e il concetto espresso nel codice napoleonico di forza irresistibile.

Al codice penale del regno d’Italia del 1889 (codice Zanardelli) si deve la prima effettiva svolta rispetto alle impostazioni dei codici ottocenteschi. Con le norme degli artt. 46 e 47 fu infatti codificato, nella più ampia nozione di imputabilità, il concetto di infermità di mente anticipando in tal modo l’indirizzo assunto dal codice penale del 1930.

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1.1 L’imputabilità nel Codice Penale

“Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e volere”.

Questa la definizione di imputabilità fornita dal Codice Rocco all’art. 85, collocato nel titolo IV dedicato al reo e alla persona offesa dal reato, a cui seguono le norme che ne delimitano l’ambito di applicazione. “Imputare” significa letteralmente “attribuire” e l’aggettivo corrispondente “imputabile” attiene ai risultati esteriori dell’azione allorché si tratti di stabilire se essi possono essere ascritti all’autore della condotta8. L’imputabilità costituisce il criterio minimo dell’attitudine ad autodeterminarsi e, al contempo, la prima condizione affinché l’ordinamento possa muovere un rimprovero al soggetto agente per il fatto tipico, antigiuridico e colpevole da questi commesso. L’imputabilità non si risolve nell’essere un mero concetto giuridico poiché è, invece, un concetto intriso di fattori morali e sociali espressione anche di una concezione filosofica che riconosce alle azioni umane il requisito fondamentale della libertà di autodeterminazione della volontà9. Come è noto, il precedente codice Zanardelli non definiva esplicitamente l’imputabilità. Il legislatore del 1889 stabiliva all’art. 45 che “nessuno poteva essere punito per un delitto se non aveva voluto il fatto… come conseguenza della sua azione o omissione”, nel successivo e definitivo art. 46 si limitava a richiedere, ai fini dell’imputabilità, che il soggetto al momento del fatto “non versasse in tale stato di infermità di mente10 da

8DAWAN D., I nuovi confini dell’imputabilità nel processo penale, cit p. 22

9Era questo il significato antico del termine così come si rinviene nella Summa Theologica

di San Tommaso secondo il quale “actus imputatur agenti quando est in potestate ipsius ita quod habeat dominium sui actus”. Ibidem.

10Si ritenne opportuno fare ricorso a nozioni sintetiche, ma specifiche, quali quelle di

“stato di deficienza o di morbosa alterazione di mente” poi sostituite nel testo definitivo da quella ancora più sintetica di “infermità di mente”. La commissione alla Camera dei Deputati aveva raccomandato una formula più perfetta poiché il concetto di deficienza si prestava a ricomprendere erroneamente altri status, come quello di sonno. Il Ministro Zanardelli

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togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti11”. Quanto poi la semi-imputabilità, trovò accoglimento nell’art. 47 “Quando lo stato di mente indicato nell’articolo precedente sia tale da scemare grandemente la imputabilità, senza escluderla, la pena stabilita per il reato commesso risulta diminuita…”. Sotto il profilo della struttura del giudizio di imputabilità il Ministro Zanardelli intende difendere la scelta a favore di un sistema c.d. analitico, cioè di un metodo che offrisse una seppur minima definizione dei disturbi psichici ai quali riconoscere la capacità di escludere l’imputabilità penale. Il Codice Zanardelli rappresentava la realizzazione dei principi liberal-garantistici elaborati dalla Scuola classica12 che, muovendosi dal postulato del libero arbitrio13 (uomo assolutamente libero nella scelta delle proprie azioni), pone a fondamento del diritto penale la responsabilità morale del soggetto e la concezione etico-retributiva della pena. Qualora l’individuo fosse privo di ogni libertà di scelta e non avesse la possibilità di agire altrimenti, nessun rimprovero potrebbe essergli mosso allorché violi la legge. I principi che ispirarono il Codice Zanardelli furono messi in discussione dall’ondata di totalitarismo che caratterizzò il periodo compreso tra le due guerre e che

manifestò, in occasione del suo discorso al Senato del 15 Novembre 1888, delle perplessità sull’espressione “infermità di mente”, che secondo lui avrebbe riportato al pericolo di un ritorno alla forza irresistibile. BERTOLINO M. l’imputabilità e il vizio di

mente nel sistema penale, 1990, p. 367.

11Questa espressione trovò non poche opposizioni e in particolare quella del Ministro

Zanardelli il quale osservava infatti, che la mancanza di libertà dei propri atti equivale press’a poco alla mancanza di libertà di elezione, di libero arbitrio, formule che contengono un principio scientificamente controverso. Ibidem.

12La Scuola classica rappresenta l’interpretazione della criminalità e della giustizia penale

sviluppatesi nel diciottesimo secolo; tra gli autori più noti si ricordano Cesare Beccaria e Jeremy Bentham. La Scuola classica contribuì ad una concezione umanistica del sistema legale e della giustizia penale. Questa impostazione presupponeva che gli esseri umani fossero razionali e liberi nell’agire. È possibile riassumere i concetti fondamentali della Scuola classica: ogni individuo è libero di prendere decisioni e di compiere le proprie scelte in modo razionale; un crimine è un atto contro il contratto sociale, ossia un’offesa morale contro la società; ogni persona è giustificata nella misura in cui serva a preservare il contratto sociale e, di conseguenza, lo scopo della pena consiste nel prevenire violazioni future, scoraggiando comportamenti socialmente pericolosi; sono giustificate solo quelle pene la cui quantità controbilanci i vantaggi ottenuti commettendo un reato.

13Il libero arbitrio significa che l’uomo, pur influenzabile in vario modo, resta libero nelle

sue scelte e può adattarvi il proprio comportamento. È esso un concetto etico, filosofico, psicologico, a differenza dell’imputabilità che è concetto giuridico. Il dogma del libero arbitrio è fatto proprio dalla Scuola Classica. Per la scuola Positiva il libero arbitrio è un’illusione. GALUPPI G. “Libero arbitrio, imputabilità, pericolosità sociale e

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portò alla codificazione del 1930. Il codice attuale, ha ritenuto di migliore avviso non giurare in modo esclusivo nel verbo di una o di altra scuola scientifica e date queste premesse e in un’esigenza di certezza del diritto, introduce una definizione generale del soggetto imputabile, distinguendo l’imputabilità dalle altre componenti soggettive del reato. In questo modo si confermava l’orientamento a favore di una “responsabilità penale delle azioni umane, che noi chiamiamo reati…saldamente affidata al principio dell’imputabilità psichica e morale dell’uomo, fondato a sua volta sulla normale capacità di intendere e di volere”14.In dottrina si ritiene che, presente una condizione di normalità psicofisica (capacità di intendere e volere), il soggetto è imputabile ed in quanto tale sottoponibile a pena. Merita rilievo affermare il diverso essere della “capacità di intendere e volere” rispetto all’imputabilità. Quando si parla di capacità di intendere e volere si utilizza una semplice convenzione, un concetto carente di obiettività e di scientificità, convenzione che dovrebbe fondare il difficile connubio tra nozioni giuridiche e categorie psichiatrico-cliniche15. È una formula con cui il legislatore ha voluto indicare riassuntivamente determinate qualità fisiopsichiche del substrato empirico dell’agente rilevanti ai fini dell’applicabilità della pena, è l’idoneità del soggetto a rappresentarsi l’evento come conseguenza diretta ed immediata della propria attività, a riconoscere e valutare gli effetti della propria condotta. Con tale concetto si deve far riferimento alla mente come complesso di tutte le facoltà psichiche dell’uomo innate ed acquisite, nel senso di una indivisibilità della psiche umana (alla stregua delle moderne conoscenze psicologiche la psiche dell’uomo è un’entità unitaria). Al di là di questa osservazione critica, il legislatore separa le due capacità e unanimemente definisce la capacità di intendere come l’idoneità del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie azioni ed apprenderne il disvalore sociale. L’intendere, in senso medico legale, viene definito come la capacità di apprezzamento e di previsione della portata delle proprie azioni o

14Nella Relazione al Re, in Gazzetta Ufficiale 26 ottobre 1930. E su tale immagine

dell’uomo si svilupperà la concezione normativa della colpevolezza, come vedremo.

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omissioni, sia sul piano giuridico e sociale che su quello morale. La capacità di volere è l’attitudine del soggetto ad autodeterminarsi in modo autonomo, scegliendo la condotta adatta e resistere agli stimoli degli avvenimenti esterni16, “autodeterminazione in relazione, cioè, ai normali impulsi che motivano l’azione”17. Si tratta di affermazioni riconducibili al paradigma di indeterminismo relativo (secondo questo orientamento ciò che rileva sono i processi psicologici di motivazione della condotta, il cardine dell’imputabilità è nella volontarietà del fatto indipendentemente dal libero arbitrio, su cui invece era fondata la concezione dei deterministi) che ha preso sopravvento in Italia e che è stato assunto anche dalla recente giurisprudenza. A partire “dall’interpretazione dei sogni” di Freud e dunque, dalla data di ingresso dell’inconscio nel mondo culturale e scientifico, gli accertamenti sulla volontà non possono prescindere dalla consapevolezza che il comportamento umano non può dipendere solo da questioni di intellegere e di volere poiché esso è influenzato da una molteplice quantità di forze che non hanno nulla a che fare con l’intelligenza e la volontà18. Affinché sussista imputabilità occorre il

16Secondo ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, 1989, p. 535 ss, il contenuto

sostanziale dell’imputabilità va ravvisato nella maturità psichica e nella sanità mentale. E ancora ROMANO commentario sistematico del codice penale, art 85, secondo il quale la capacità di intendere e volere è concepita innanzi tutto come sintesi delle condizioni fisio-psichiche che consentono l’ascrizione di responsabilità all’autore di un fatto corrispondente ad una previsione legale e che rendono tale fatto meritevole di pena. La piena capacità di intendere e volere segnala la costituzione fisica e spirituale di una persona che, al momento in cui ha commesso il fatto era maggiore di età, sana di fisico e di mente e si trovava in una situazione di normalità. Si deve anche considerare rientrante in tale concetto l’attitudine dell’agente a rendersi conto che il suo comportamento si pone in contrasto con le norme giuridiche che regolano la convivenza della comunità sociale. Scrive poi Introna: «Pertanto la capacità di intendere e quella di volere vanno intese come capacità di usare i propri strumenti intellettivi e volitivi in modo adeguato. Ne deriva che la capacità di intendere è qualcosa di più e di diverso dalla intelligenza misurata in termini psicometrici in sede di diagnosi clinica. Si deve dunque porre mente alla intelligenza delle situazioni di condotta, nella quale confluiscono fattori emotivi, affettivi, istintivi, e di esperienza. Inoltre, i postulati della condotta intelligente sono tali che la capacità di intendere non si può desumere solo dal quoziente di intelligenza, pur essendo questo un punto di partenza. Si devono infatti considerare: 1) la situazione emotivo-affettiva; 2) i rapporti esistenti fra il soggetto e la realtà in cui è inserito; 3) la realtà nei cui confronti il soggetto ha operato, opera, intende operare o presume che opererà; 4) le capacità ed energie operative di cui egli dispone al momento o ritiene di poter disporre in futuro, relativamente al piano ideativo della condotta che si prefigge; 5) le modificazioni che il suo operato ha indotto (o che egli crede che può o potrà indurre nella realtà o in lui stesso; 6) i fini che il soggetto si propone di perseguire; 7) le correlazioni fra tutti i numeri precedenti » INTRONA, 1996.

17Cass, 12 febbraio 1982, in Riv. Pen 1983, p.429

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concorso dell’una e dell’altra capacità, se una sola manca il soggetto non è imputabile. Non si può comprendere appieno il significato di questa norma, se non la si mette in relazione con quella di cui all’art. 90, che nega l’influenza degli stati emotivi e passionali sull’imputabilità.Con ciò vogliamo intendere che, per il legislatore del ’30, assumono rilievo, ai fini di un giudizio sulla possibilità di imputare un fatto ad un soggetto, soltanto due delle facoltà mentali dell’individuo, con esclusione di tutta la sfera affettivo-emotiva. La ragione di questa impostazione codicistica si può rintracciare in una visione ancora tradizionale della psiche umana, in cui, cioè, prevale un modello di uomo “razionale” ed in cui non viene in considerazione la sfera dell’Es, evidentemente perché non è imputabile solo colui che è un malato di mente conclamato, nel senso della c.d. dis-ragione, seguendo, così, un paradigma di tipo chiaramente organicista, in tema di infermità di mente. Per raggiungere questo risultato, il legislatore del ’30 è però costretto ad introdurre una prima “finzione giuridica”, consistente nell’escludere, ai fini dell’imputabilità, gli stati emotivi e passionali, che invece, notoriamente, sono tali da escludere naturalisticamente la capacità di intendere e di volere solo se dipendono da una vera e propria infermità di mente. Di qui la considerazione di inutilità della norma, espressa da larga parte della dottrina. Gli stati emotivi e passionali devono quindi degenerare in un vero e proprio squilibrio mentale al fine di escludere o diminuire l’imputabilità ai sensi degli artt. 88 e 89. Esemplificativamente, la gelosia19, classico esempio

19 La gelosia quale stato passionale, in soggetti normali, si manifesta come idea generica

portatrice di inquietudine, non diminuisce e tanto meno esclude la capacità di intendere e di volere del soggetto, salvo che essa derivi da un vero e proprio squilibrio psichico il quale deve presupporre uno stato delirante tale da incidere sui processi di determinazione e di auto-inibizione. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 37020 del 9 novembre 2006. Ancora: Gli stati emotivi o passionali, per loro stessa natura, sono tali da incidere, in modo più o meno massiccio, sulla lucidità mentale del soggetto agente senza che ciò, tuttavia, per espressa disposizione di legge, possa escludere o diminuire l'imputabilità, occorrendo a tal fine un quid pluris che, associato allo stato emotivo o passionale, si traduca in un fattore determinante un vero e proprio stato patologico, sia pure in natura transeunte e non inquadrabile nell'ambito di una precisa classificazione nosografica. L'esistenza o meno di detto fattore va accertata sulla base degli apporti della scienza psichiatrica la quale, tuttavia, nella vigenza dell'attuale quadro normativo e nella sua funzione di supporto alla decisione giudiziaria, non potrà mai spingersi al punto di attribuire carattere di “infermità” (come tale rilevante, ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p., ai fini della esclusione e della riduzione della capacità d'intendere e di volere), ad alterazioni transeunti della sfera psico-intellettiva e volitiva che costituiscano il naturale portato degli stati emotivi o passionali

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di stato passionale, non può di per sé incidere sulla imputabilità, ma se provoca disordine nelle funzioni della mente e perturbazioni in quelle della volontà diventando un fuoco divoratore, una forza cieca dello spirito, può costituire una forma morbosa diagnosticabile che esclude o diminuisce la capacità di intendere e di volere.

Fatta questa premessa possiamo iniziare a delineare contenuti e contorni dell’imputabilità, che sul piano formale costituisce solo la condizione necessaria perché il soggetto sia sottoposto a pena prevista per il fatto da lui commesso. Essa è il presupposto minimo di maturità del soggetto cui può essere mosso un rimprovero per il fatto commesso, solamente in quanto sia in possesso di quel tanto di maturità mentale da poter discernere il lecito dall’illecito. Per usare le parole di Carrara “per avere in un delitto la pienezza della sua forza morale bisogna che nei momenti della percezione e del giudizio sia stato l’agente illuminato dall’intelletto, e che nei due successivi momenti del desiderio e della determinazione abbia goduto della pienezza della sua libertà”20. L’ imputabilità presuppone nel soggetto agente la capacità di rendersi conto del significato dei propri atti e di scegliere conseguentemente il comportamento da tenere, è cioè quell’attitudine a cogliere il senso elementare che certi atti posseggono nella realtà umana e sociale21, è la condizione di chi “risponde dei propri atti”22. Ciò che quindi ci interessa è quella capacità di scelta tra diverse soluzioni che nel non imputabile viene a mancare a causa di deficit percettivi.

Posso concludere questa disamina con le dichiarazioni rese da Arturo Rocco in sede di lavori preparatori e riportate dal Frosali, ai fini dell’accertamento dell’imputabilità “è sufficiente che l’azione sia volontaria, che colui che l’ha posta in essere abbia l’attitudine psicologica di volere, ciò perché non si può concepire una volontà senza causa, una

di cui si sia riconosciuta l’esistenza. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 967 del 27

gennaio 1998.

20MANNA A, L’imputabilità nel pensiero di Francesco Carrara, 2005, p.487. 21DE FRANCESCO G. Diritto penale, i fondamenti, Giappichelli, p. 356.

22CANEPA G.-MURGO M.I. Imputabilità e trattamento del malato di mente autore di

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volontà senza motivi, una volontà come una “fiat” che nasce dal nulla, una volontà come mero arbitrium indifferentiae. La volontà umana non si sottrae alle leggi della causalità che governa tutti i fenomeni… c’è un determinismo fisico e meccanico che governa i movimenti fisiologici del corpo agendo come stimolo e poi c’è un determinismo psicologico che è determinazione secondo cause psicologiche, cioè motivi coscienti, che determinano la volontà umana”23. L’imputabilità ha un ruolo sempre più centrale e fondamentale secondo la triplice prospettiva di principio costituzionale, di categoria dommatica del reato, di presupposto e criterio guida della sanzione penale.

1.2 Collocazione dell’istituto dell’imputabilità come

componente della colpevolezza.

Va con decisione evidenziato che l’imputabilità è la capacità di colpevolezza, vale a dire è presupposto per la rimproverabilità al soggetto di un determinato comportamento da lui posto in essere. In altri termini, non è possibile (o meglio, pensabile) muovere qualsivoglia rimprovero ad un soggetto che non sia in grado di autodeterminarsi (e che quindi non sia libero nell’agire) secondo i valori espressi dalle norme giuridiche, che cioè non sia in grado di esprimere un giudizio sul significato del proprio comportamento illecito, né di conformarsi a tale comprensione. Si colloca nel concetto di colpevolezza accanto al dolo e alla colpa (in presenza della coscienza e volontà di cui all’art 42 c.p., e del dolo e della colpa, la condotta del soggetto capace di intendere e volere al momento del fatto-reato è infatti qualificabile come colpevole24). L’imputabilità è anche requisito intrinseco al principio costituzionale della responsabilità penale,

23BASILIO L., L'imputabilità nel diritto italiano, ADIR, 2002. 24Corte Cass. Sent. n. 114/1998.

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presupposto e guida della sanzione, che può essere inflitta solo ad un soggetto capace25. Com’è noto, il principio di colpevolezza è uno dei capisaldi irrinunciabili del diritto penale moderno26che viene indicato come l’elemento soggettivo del reato. Le affermazioni che precedono sono condivise anche dalla prassi giurisprudenziale che ritiene

moralmente e penalmente imputabile ogni uomo la cui

autodeterminazione risultante dall’intelletto e dalla volontà non sia impedita o turbata dall’organismo corporeo e psichico dell’agente27. Affinché il fatto possa essere considerato reato, non basta che il soggetto lo abbia materialmente posto in essere, ma occorre anche che gli appartenga psicologicamente. Del resto, quanto si sta qui sostenendo, è in piena sintonia anche con le funzioni della pena: dal punto di vista della prevenzione generale, invero, la minaccia della sanzione può avere effetti deterrenti sui consociati in quanto i destinatari siano in grado di essere motivati da tale minaccia; dal punto di vista della prevenzione speciale, analogamente, la finalità rieducativa della pena ha senso solo se rapportata alla possibilità della sua percezione. Sotto quest’ultimo profilo, si vuol dire che l’espletamento del finalismo rieducativo della pena presuppone che l’autore del reato abbia manifestato ribellione o almeno indifferenza verso il bene giuridico tutelato e, dunque, la consapevolezza di commettere un fatto penalmente illecito.

Il concetto di colpevolezza si è sviluppato attraverso due concezioni. Prima dell’avvento della teoria normativa della colpevolezza oggi ampiamente accettata, nella seconda metà del XIX secolo dominava la concezione psicologica, secondo la quale la colpevolezza consisteva in un nesso psichico tra l’agente e il fatto (tale nesso serviva a stabilire l’an della responsabilità, ma non essendo graduabile, non consentiva la

25MANNA A., L’imputabilità tra prevenzione generale e principio di colpevolezza, p.

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26FIADANCA-MUSCO Diritto penale parte generale, Bologna, 1989, p. 246 e continua

“il nesso tra imputabilità e colpevolezza cresce quanto più si accentui la dimensione normativa della colpevolezza e cioè se ne sottolinei la componente di rimprovero e disapprovazione del soggetto per aver commesso un fatto che egli si sarebbe dovuto astenere dal commettere

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valutazione del quantum della stessa). Ne derivava che la colpevolezza aveva la funzione di collegare psicologicamente il fatto commesso al relativo autore nelle due forme essenziali del dolo e della colpa. La volontà del fatto (in caso di dolo) e la prevedibilità (in caso di colpa) costituivano la base soggettiva per l’imputazione dell’illecito senza incidere sulla gravità di quest’ultimo che dipendeva dalla consistenza dell’offesa arrecata. Col tempo e la progressiva normativizzazione di tale concezione, i fondamenti del rimprovero non potevano più essere le sole categorie del dolo e della colpa, ma sono stati arricchiti da quelle circostanze destinate ad influire sul processo di motivazioni all’origine della condotta delittuosa. Tale orientamento ha visto il suo inizio in Germania dal teorico e giurista Reinhard Frank, che concepisce la colpevolezza come un concetto normativo che esprime il giudizio di rimproverabilità per l’atteggiamento antidoveroso della volontà rispetto alla norma d’obbligo. In altre parole, la colpevolezza è la contraddittorietà tra la volontà dell’individuo nel caso concreto e la volontà della norma. L’innovazione rivoluzionaria è rappresentata dall’introduzione del parametro della riprovevolezza intesa come situazione soggettiva che condiziona l’applicabilità di sanzioni destinate a quanti il sistema ritiene meritevoli di punizione. Un’ulteriore importante novità che viene introdotta è la graduabilità della colpevolezza, che diventa possibile grazie a questa riprovevolezza del comportamento rispetto a quanto prescrive il dato normativo.È proprio con l’affermarsi della concezione normativa ora esposta, che l’imputabilità viene ad essere vista come presupposto della colpevolezza, per cui, prima ancora di essere capacità alla pena, sarebbe capacità alla colpevolezza, non essendoci colpevolezza senza imputabilità e pena senza colpevolezza. Come rileva Antolisei nel suo Manuale, “ne consegue che il non imputabile non commetterebbe un reato non punibile, ma un fatto tipico non colpevole”. La colpevolezza implica necessariamente la maturità e normalità psichica, dal momento che per agire con dolo è necessario conoscere la realtà, rendersi conto dell’azione che si compie e delle conseguenze che essa comporta (quindi la “possibilità di conoscere l’illiceità del fatto” come sostiene De Francesco) e per agire con colpa occorre essere capaci di agire

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diligentemente e prudentemente, anche se poi ci si comporta diversamente. In questo modo, di fronte ad una presunta incapacità del soggetto, prima ancora di chiedersi se egli possa agire con dolo o con colpa, occorrerà chiedersi se egli sia idoneo a percepire il disvalore dell’azione.

Date queste premesse, vediamo il dettato codicistico. Il Codice Rocco aveva assunto, (diversamente dal Codice Zanardelli che collocava sotto lo stesso titolo tanto le disposizioni che si rifacevano all’imputabilità quanto quelle che si rifacevano alla colpevolezza), l’imputabilità come istituto giuridico autonomo provvedendo ad offrire alle norme che la riguardano una sistemazione distinta da quelle norme sulla colpevolezza28. Essa rientra nella teoria del reo, conformemente alla collocazione sistematica di tale elemento nel titolo IV del libro I (riguarda il reo e non il reato), mentre la colpevolezza attiene al reato, ossia all’azione in concreto.

Diffusa opinione era che la definizione contenuta nell’art. 42 c.p.29pareva rappresentare il duplicato di quella di cui all’art 85 c.p. La coscienza e volontà richieste dalla norma dell’art 42 per la punibilità della condotta, non significano forse capacità di intendere e volere? Si era giunti a sostenere che non fossero necessari due accertamenti distinti, di qui l’uno sull’imputabilità e l’altro sulla coscienza e volontà, ma un giudizio unico e indivisibile dato che chi ha agito con coscienza e volontà era capace di intendere e volere. Lo stesso legislatore, consapevole del problema di coordinamento tra le due norme, aveva utilizzato come parametro di riferimento le disposizioni che nel diritto privato contemplano la capacità di contrarre e quelle che disciplinano il consenso: l’art 85 regolerebbe la generica capacità di agire prescindendo dall’ancoraggio ad un fatto concreto, mentre l’art. 42 contemplerebbe l’effettiva volontà nel caso concreto. Si tratterebbe di due posizioni diverse della volontà,

28LEONE G. L’imputabilità, cit. p. 361-362

29L’art. 42 c.p. sito nel libro I, al titolo III, rubricato “Del reato”, stabilisce, come è noto,

che “nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato se non l’ha commessa con coscienza e volontà”.

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nell’imputabilità la volontà è considerata al momento della possibilità, nella effettiva responsabilità penale la volontà è considerata nel momento della sua attuazione. In questo senso l’imputabilità è stata talora considerata come capacità del reato (e dunque capacità di assumere l’obbligo di osservanza del precetto penale e conseguente capacità di porre in essere zioni produttive di effetti giuridici) intesa come capacità a divenire soggetto attivo di reato. In dottrina è stata assai dibattuta l’identità della nozione di capacità giuridica con quella di imputabilità30, così come è stata oggetto di disputa anche la categoria della capacità penale31(capacità di essere destinatari della norma penale) che si risolve nell’attitudine alla titolarità di situazioni soggettive di dovere e nel corrispondente assoggettamento a sanzioni.

Il dibattito sul punto si è risolto nel senso pacifico per il quale imputabilità e colpevolezza non si identificano, la prevalente dottrina e la costante giurisprudenza della Corte Suprema avallano la piena autonomia del giudizio sulla colpevolezza rispetto a quello sulla capacità di intendere e volere. L’imputabilità precede la colpevolezza perché è una condizione del soggetto32, uno status, un dato preesistente alla volizione e pertanto, esistente anche indipendentemente da essa. La imputabilità si colloca su un piano preliminare, preesiste alla colpevolezza. È un dato generico e come tale sussistente o non sussistente indipendentemente dalle specifiche fattispecie di reato. Per questo l’imputabilità sta fuori dal reato (come ulteriormente attesta l’art. 133 c.p. il quale tra i parametri atti a determinare la gravità del reato, non la contempla affatto). A riprova di questa autonomia, nelle ipotesi di responsabilità oggettiva, nelle quali non

30GERIN C.-PANNAIN C., Anomalie psichiche e imputabilità, in Arch. Pen., 1963, p

405, negano che imputabilità e capacità penale siano la stessa cosa sul rilievo che, mentre la capacità individua i destinatari della norma penale ed è nozione utilizzata dall’art 3 c.p. per la obbligatorietà della legge penale, l’imputabilità si riferisce a coloro che hanno commesso un reato.

31La nozione di capacità penale non ha trovato pacifica accettazione da parte della

dottrina, attribuendosi alla capacità giuridica la sola attitudine alla titolarità di situazioni giuridiche favorevoli e non anche sfavorevoli. Per ANTOLISEI F. Manuale di diritto

penale, parte generale, cit., p. 547, la teorizzazione di una capacità penale costituisce una

inutile contaminazione privatistica.

32LEONE G. L’imputabilità, cit., p. 372, detta preliminarità corrisponde all’esigenza

logica la quale impone di considerare il soggetto prima dell’oggetto, l’individuo prima del suo atto.

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può parlarsi di colpevolezza, deve pur esservi imputabilità. Non deve poi escludersi a priori, in capo ai soggetti incapaci di intendere e volere, la configurabilità del dolo e della colpa. È ormai da tempo considerevole che la Suprema Corte ha ribadito che l’imputabilità, pur collegata alla colpevolezza, non ne costituisce un presupposto, potendo al più rappresentarne un “attributo di particolare qualificazione”33. Non è sufficiente, insegna la Corte che, l’autore abbia agito con dolo, colpa o preterintenzione, ma occorre che questo meccanismo interiore nei riguardi dell’evento si sia acceso in una persona imputabile, ossia soggettivamente capace di determinarsi per motivi coscienti, conformi alle esigenze dell’ordinamento giuridico. Di diverso avviso, forte al punto che intendo menzionarla, fu l’impostazione dottrinaria di Mantovani, secondo il quale l’imputabilità è presupposto necessario della colpevolezza e senza la prima non può esservi la seconda. La colpevolezza si basa sempre su atteggiamenti psichici che implicano una conoscenza e previsione, categorie presupponenti la normalità e la maturità psichica. Intanto si agisce dolosamente in quanto ci si rende conto dell’azione che si compie e dei risultati cui essa conduce. Si agisce con colpa in quanto ci si comporti con negligenza e imprudenza, pur essendo capaci di agire prudentemente e diligentemente…ove l’imputabilità manchi potrà aversi solo pericolosità, non colpevolezza34. Concludendo ritorniamo all’impostazione prevalente: l’imputabilità quale capacità di intendere e volere e la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito, esprimono concetti diversi e operano su piani diversi35, sebbene la prima, quale componente naturalistica della responsabilità, debba essere accertata con priorità rispetto alla seconda.

33Così si esprimeva Cass. Pen., 9 novembre 1967, 1085. 34MANTOVANI, 1992.

35La Corte di Cassazione ha sempre ribadito che l’imputabilità non è presupposto della

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2. Il vizio di mente come ipotesi di esclusione

dell’imputabilità e il concetto di infermità di mente.

In una prospettiva generale, va innanzitutto affermata la necessità di mantenere la distinzione tra soggetti imputabili e non imputabili che, in ragione di una determinata situazione di incapacità personale, necessitano di adeguata tutela. Per prima cosa l’imputabilità può essere esclusa o diminuita per vizio di mente (totale art. 88 e parziale art. 89 c.p.). Vanno aggiunti: l’ubriachezza o l’assunzione di sostanze stupefacenti (artt. 91, 92, 93, 94 c.p.), la cronica intossicazione (art. 95 c.p.), il sordomutismo (art.96 c.p.) e la minore età (art.97 e 98 c.p.), ma queste fattispecie le vedremo nel paragrafo che segue. Questi sono gli articoli con cui il legislatore ha voluto fissare l’ambito di operatività dell’imputabilità non come ipotesi tassative (oltre a quelle tassativamente previste possono esserne individuate altre, purché abbiano come effetto quello di privare concretamente il soggetto della capacità d’intendere e volere), bensì come

una enumerazione suscettibile di interpretazione analogica.

L’imputabilità è, insomma, esclusa o diminuita in relazione ad un deficit totale o parziale della capacità di intendere e volere36. Aggiungo sin da ora che la condizione di anormalità o immaturità di volta in volta

riscontrata viene ritenuta effettivamente idonea ad incidere

sull’imputabilità soltanto laddove il fattore in cui essa consiste (ad es., una alterazione di certe facoltà mentali) presenti una specifica connessione con il comportamento tenuto in quella particolare circostanza (ad es., un individuo affetto da cleptomania potrà essere considerato non imputabile in relazione ad un furto, ma non invece rispetto ad un omicidio)37. La questione rilevante è la determinazione dello stato di mente dell’autore di reato al momento in cui ha commesso

36GRASSI L., NUNZIATA C., L’infermità di mente e disagio psichico nel sistema

penale, Cedam, 2003 in Enciclopedia CONDON P.

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il fatto e il riflesso di tale patologia sulla capacità, quindi individuare la relazione cronologica e di responsabilità tra stato di mente e fatto38.

Lo scopo giuridico della non imputabilità è quello di consentire l’esenzione da pena di certe categorie di soggetti, nei cui confronti non può essere mosso un rimprovero perché non hanno la possibilità di agire altrimenti da come di fatto si sono comportati, nel non imputabile viene infatti a mancare la capacità di scelta tra diverse soluzioni e condizionamenti. Per Manacorda, perché si giunga ad una valutazione di incapacità “si può intanto osservare che, allo stato delle attuali conoscenze neurofisiologiche e psicopatologiche, la capacità d’intendere o di volere può operativamente considerarsi abolita in un individuo umano in caso di coma, di sonno profondo, durante la crisi convulsiva di grande male. Con tutta verosimiglianza, questa capacità è parimenti abolita in alcune forme di oligofrenia di grado particolarmente elevato, in specie quando sia sostenuta da importanti alterazioni morfo-funzionali del sistema nervoso centrale; alla stessa stregua, nelle sindromi demenziali ormai psichicamente marasmatiche. Con molta probabilità, essa potrà considerarsi abolita in alcuni quadri confusionali, in specie acuti, di entità molto grave. Caratteristica comune a tutte le situazioni elencate è quella che si denomina in maniera abituale e convenzionale come “profonda destrutturazione dello stato di coscienza”39. Il fatto del non imputabile rimane un fatto tipico in quanto si tratta di comportamento conforme alla norma incriminatrice, è inoltre un fatto antigiuridico in quanto contrario alle regole dell’ordinamento vincolanti per tutti, ma non è comunque un fatto colpevole perché lo stato di inimputabilità impedisce all’ordinamento di muovere qualsiasi tipo di rimprovero all’agente per il suo fatto. Si può poi sostenere che il fatto commesso dal soggetto semi-imputabile rimane un fatto tipico e antigiuridico40. Di fronte al soggetto non responsabile, l’ordinamento, in presenza di pericolosità sociale, reagisce con l’applicazione di una misura di sicurezza. L’idea sottesa a

38BIZZARRI C. Criminali o folli, nel labirinto della perizia psichiatrica, Torino, 2010,

p. 51.

39MANACORDA, 1995.

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tale soluzione si basa sul riconoscimento della necessità di intervenire nei confronti dei non imputabili attraverso un regime terapeutico-riabilitativo (riguardo agli infermi di mente) o correzionale-risocializzativo (rispetto ai minori di età), l’argomento sarà approfondito più avanti.

Iniziamo dalla nozione di vizio di mente, recita l’art.88 c.p. “non è

imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e volere” e soggiunge l’art. 89 che “chi nel momento in cui ha commesso il fatto era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere, risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita”. Si chiarisce in questi articoli che

l’unica condizione idonea a interferire sulla capacità è l’infermità. Occorre, cioè, che il vizio di mente sia direttamente o indirettamente “patologico”. Ne consegue una presunzione di imputabilità, cioè ogni persona è considerata capace, salvo la prova dell’intervento abolitivo o limitativo di fattori di natura morbosa. Solo le cause patologiche giustificano la non imputabilità e solo quando possa prevedersi che esse abbiano compromesso la capacità nel momento stesso in cui è stato compito un reato. La differenza tra i due articoli di cui sopra è meramente quantitativa prendendo la legge in considerazione il grado e non l’estensione della malattia. Il vizio, totale o parziale, di mente può dipendere da infermità fisica o psichica, purché questa abbia effetto sulla capacità di intendere e di volere. Ciò emerge chiaramente dalla formulazione adottata dal codice, ove nell’articolo de quo, esso parla di semplice infermità, diversamente dall’articolo 222 c.p. dove invece si riferisce espressamente “all’infermità psichica”. Appare dunque evidente che l’infermità da cui deve trarre origine il vizio di mente può essere localizzata anche in sedi diverse dalla mente. “Ai fini della sussistenza del vizio totale o parziale di mente, l’infermità mentale, anche se esprime un concetto più ampio di quello di malattia, deve sempre dipendere da una causa patologica, non necessariamente inquadrabile nelle categorie della nosografia clinica, ma sempre tale da alterare i processi di intelligenza e volontà, con esclusione nel vizio totale o con notevole

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diminuzione nel vizio parziale, della capacità di intendere e volere”41. È assodato che l’infermità non deve necessariamente essere cronica, potendo risolversi anche in una patologia transuente, di tale caso possono essere le c.d. reazioni a corto circuito rispetto alle quali, però, la giurisprudenza assume un atteggiamento oscillante. “In tema di imputabilità le reazioni a corto circuito non escludono ne diminuiscono la capacità di intendere e volere in quanto sono legate a condizioni di turbamento transitorio non dipendente da cause patologiche, bensì emotive o passionali”42.

Nel vizio parziale di mente la capacità di intendere e di volere, ancorché “grandemente” scemata, è presente nel soggetto: si ha così una capacità di intendere o di volere incompleta, diminuita di intensità o grado. Come l’incapacità di intendere e di volere nel c.d. vizio totale di mente di cui all’articolo 88, anche la riduzione della capacità nel c.d. vizio parziale deve derivare da una infermità. È vizio parziale non l’anomalia interessante un solo settore della mente, ma quella che la investe globalmente anche se in misura meno grave. Va infatti distinto dall’incapacità settoriale o temporalmente circoscritta (casi per es. di soggetto cleptomane o commessi da un epilettico).Da un punto di vista psicopatologico, il campo d’elezione del vizio parziale di mente si estende a tutti quei reati sintomatici con quadri patologici minori rispetto alle alterazioni destrutturati. A titolo esemplificativo vi rientrano: le deficienze psichiche endogene e/o organiche che non arrivano ad escludere del tutto l’imputabilità; le gravi pscicopatie, nevrosi, reazioni depressive o sensitive, e i disturbi degli impulsi che, pur senza eliminarla, possono compromettere notevolmente la capacità di intendere e volere. Dato il legame dei due articoli con l’infermità, si tratta ora di comprendere cosa il legislatore abbia voluto intendere con l’accezione “infermità di mente” in relazione ad altri termini in uso e idonei ad indicare stati di “sofferenza psichica”, quali “malattia”, “anomalìa”, “vizio”, “deficienza

41Cass. Pen., Sez. I, 13 maggio 1981, n. 4551 42Cass. Pen. Sez. I, 27 giugno 1995, n. 7315

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psichica”, “pazzia”, termine quest’ultimo già in uso in codificazioni più remote43. La stessa sovrabbondanza di espressioni allude all’estrema complessità del problema, un problema di individuazione del concetto di infermità rilevante per il diritto penale che riesca ad allietare il difficile rapporto tra giustizia penale e scienza psichiatrica. È infatti opportuno chiarire sin d’ora, che la nozione di infermità mentale solleva, oggi più che mai, complessi problemi interpretativi e di accertamento giudiziale. Complessità che segue di conseguenza la scienza psichiatrica, attraversata da una crisi d’identità tale per cui non è per nulla univoco e semplice individuare il concetto di malattia mentale, data soprattutto la diversità di paradigmi che si sono succeduti negli anni. Nell’ottocento si era di fronte ad un concetto ristretto di malattie mentali, tipizzate e catalogate così che, qualsiasi stato di sofferenza psichiatrica estraneo a tali catalogazioni, non era considerato in senso proprio una malattia. Era accolto l’approccio organicistico al disturbo mentale che trovava le sue origini proprio in quell’epoca e si situava nella concezione medico-positivistica secondo la quale le malattie mentali dovevano configurarsi come malattie del cervello o del sistema nervoso, ed erano conseguenza di alterazioni anatomiche. Il paradigma medico abbraccia l’orientamento nosografico che trova nel Kraepelin il proprio fautore, in base al quale per l’identificazione di una malattia mentale non è importante tanto il substrato biologico, quanto assicurare la sua appartenenza ad una classificazione medica precedentemente costruita. La malattia mentale è intesa come unità morbosa. Questo paradigma fu accolto nei lavori preparatori del codice penale del 1930 in cui veniva affermato che il vizio di mente va inteso come conseguenza dell’infermità fisica o psichica

clinicamente e patologicamente accertabile. Secondo questo primo

orientamento le anomalie che possono essere in grado di influire negativamente sulla capacità di intendere o volere sono solo quelle che sono definite come malattie mentali in senso stretto, ovvero aventi una

43L’art. 64 del Codice dei delitti e delle pene di Napoleone del 1810: “non vi è né crimine,

né delitto, allorché l’imputato trovavasi in istato di pazzia quando commise l’azione, ovvero se vi fu tratto da una forza alla quale non poté resistere”.

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base organica o biologica, che sia accertabile o documentabile mediante il ricorso alla nosografia ufficiale classificatoria. Poste queste premesse, non ogni quadro clinico riconducibile ad un’etichetta nosografica viene considerato come malattia rilevante giuridicamente: di conseguenza sono da escludere le c.d. abnormità psichiche che lasciano perfettamente integra la capacità mentale ai fini dell’imputabilità, oppure le nevrosi che non hanno il potere di intaccare la sfera del giudizio e della volitività, le anomalie della personalità o del carattere come gli psicopatici. Un indirizzo inquadrabile nel paradigma medico vuole che sia sufficiente per riconoscere il vizio totale o parziale, la esistenza di uno stato o processo morboso indipendentemente di una sua classificazione nosografica. Esponente è Jaspers, scrittore che a differenza del Kraeplin, pone l’accento sul vissuto di un paziente, dall’analisi delle sue esperienze interne sarebbe possibile carpire i disturbi rilevanti. La giurisprudenza che si richiama a questa prospettiva riconosce che il vizio di mente c’è quando il disturbo psichico derivi da uno stato morboso dipendente da una alterazione patologica44.

Agli albori del Novecento il paradigma medico entra in crisi. Freud, attraverso l’esame dei tre livelli della personalità l’Es, l’Io e il Super-Io, scoprì l’inconscio, ovvero un mondo nascosto dentro di noi, privo di confini fisiologicamente individuabili. La psicoanalisi freudiana non nega che alla base dei disturbi psicopatologici vi siano dei veri e propri processi biologici, ma considera questi ultimi inaccessibili rispetto ai mezzi di indagine. Ciò consente ad esempio di spiegare le nevrosi, che il precedente paradigma non era ben riuscito ad inquadrare. I disturbi mentali vengono dichiarati disarmonie dell’apparato psichico espressione di un conflitto tra pulsioni inconsce dell’individuo e realtà esteriore, la realtà psicologica diventa per il soggetto più significante della realtà esterna e quando questa realtà inconscia prevale sul mondo reale, si manifesta la malattia mentale. Ecco proporsi il paradigma c.d. psicologico, per il quale il concetto di malattia mentale deve essere

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valutato in concreto45 e non con riferimento a classificazioni scientifiche enucleate in astratto, perché le malattie hanno portata diversa sui singoli organismi ed agiscono in modo più o meno penetrante sulle facoltà intellettive e volitive. Oggetto dell’indagine, quindi, non è più la persona– corpo, ma la persona-psiche. Il concetto di infermità si allarga fino a comprendere non solo le psicosi organiche, ma anche altri disturbi morbosi dell’attività psichica, come le psicopatie, le nemesi, i disturbi dell’affettività, i disturbi mentali.

Ben presto anche il paradigma psicologico si rivela incapace di spiegare certe anomalie psichiche, così, intorno agli anni Settanta del secolo scorso, si è sviluppato l’indirizzo sociologico, aperto, come facilmente è intuibile, alla dimensione sociale. La malattia mentale diviene disturbo psicologico avente origine sociale, non più attribuibile ad una causa individuale di natura organica o psicologica, ma a relazioni inadeguate nell’ambiente in cui il soggetto vive. Tale impostazione, negando la natura fisiologica dell’infermità, pone in discussione anche la sua natura psicologica ed i principi della psichiatria classica, proponendo, in sostanza, un concetto di infermità di mente come malattia sociale. Il comportamento psicopatologico incarna un comportamento deviante rispetto alle norme della struttura sociale in cui il soggetto è inserito. Nella scienza psichiatrica attuale, sono presenti orientamenti che propongono un modello integrato della malattia mentale, in grado di spiegare il disturbo psichico sulla base di diverse ipotesi esplicative della sua natura e della sua origine. Ciò si traduce in una visione “integrata” che tiene conto di tutte le variabili biologiche, psicologiche, sociali e relazionali che entrano in gioco nel determinismo della malattia: si supera così la visione eziologica mono causale della malattia mentale, pervenendo ad una concezione “multifattoriale integrata”46.

45Cass. Sez., VI, 15 settembre 1976, in Riv. Pen., 1977, 289.

46PONTI G., Il dibattito sull’imputabilità, in Questioni sulla imputabilità, a cura di

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Nel tentativo di concludere, riassumo dicendo che la duttilità della nozione di infermità, che ha avuto il pregio di adeguarsi alle nuove acquisizioni culturali e scientifiche, ha comportato, da un lato una genericità da cui sono conseguiti una estrema difficoltà di costruire un concetto unitario e generalmente valido della nozione, e dall’altro il rischio della presenza al suo interno di un elemento extragiuridico per definire il quale occorre far ricorso a parametri valutativi esterni di matrice psichiatrica non ben individuabili per la molteplicità dei modelli esplicativi della malattia mentale, come precedentemente osservato e come sarà proposto in seguito nell’elaborato. Emblematica a riguardo una questione di legittimità costituzionale degli artt. 85, 88, 89, 90 c.p. sollevata dal Tribunale di Ancona (13 febbraio 2003) appunto sul problema di come il concetto di malattia mentale viene utilizzato nel diritto. A parere del Tribunale la nozione di infermità è viziata da un tale livello di indeterminatezza da ostacolare una interpretazione e applicazione razionale delle norme da parte del giudice47.

47BIZZARRI C. Criminali o folli, nel labirinto della perizia psichiatrica., Torino, 2010,

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2.1. Segue: le altre cause di incapacità di intendere e

volere.

A questo punto e per completezza espositiva, vediamo le altre cause di esclusione dell’imputabilità stabilite dal codice e prima solo accennate. In primis mi rivolgo al principio che il limite della massima espansione del termine infermità è segnato dalla nozione di “stati emotivi o passionali” (intendendosi per tali anche fenomeni transitori quali la paura, l’ira, l’eccitazione erotica…). Pur affermando l’art.90 c.p. che “gli stati emotivi o passionali non escludono ne diminuiscono l’imputabilità”, si è sostenuto che “gli stati emotivi o passionali…possono in via di eccezione influire su questa quando, esorbitando dalla sfera puramente psicologica, degenerino in un vero e proprio squilibrio mentale con disordine e perturbazioni nelle funzioni della mente e della volontà, sì da eliminare o attenuare le capacità intellettive e volitive48. Ne costituisce conferma lo sviluppo di alcune tendenze favorevoli ad attribuire rilevanza a determinate forme di reazioni emotive naturate in un contesto di grave compromissione dei poteri di controllo della propria condotta (come nel caso, ad es., di un genitore che, profondamente turbato dalla nascita del figlio focomelico, lo soppresse in un raptus di disperazione). Non sono in pochi oggi ad auspicare l’eliminazione della previsione relativa agli stati emotivi o passionali, in modo da farne confluire il trattamento penale all’interno della disciplina, opportunamente aggiornata, stabilita in generale per il vizio di mente49.

Veniamo adesso a quegli stati di incapacità di natura tossica, in cui il codice prevede un trattamento differenziato a seconda della causa che ha determinato l’ubriachezza, cioè distingue le ipotesi in cui l’uso delle sostanze stupefacenti è accidentale (art.91, ubriachezza derivata da caso fortuito o forza maggiore) per cui il soggetto non è imputabile quando l’ubriachezza è piena, ma se l’ubriachezza scema grandemente la capacità poiché non è piena, la pena è diminuita. Si aggiungono quelle ipotesi in

48Cass. Pen. Sez. I, 1 febbraio 1991, n. 1347.

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cui l’ubriachezza è volontaria o colposa (quell’ubriachezza che l’agente ha deliberatamente voluto prodursi o che si è imprudentemente o negligentemente prodotto), ovvero preordinata alla commissione di un reato (art. 92) per cui non esclude né diminuisce l’imputabilità nel primo caso poiché è possibile muovere un rimprovero al soggetto in quanto è pienamente consapevole della sua scelta e delle sue conseguenze, mentre nell’ipotesi di preordinazione la pena è aumentata. Aggravamento di pena, seguendo il dettato codicistico, si applica anche quando il reato è commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti in considerazione dell’alterazione psichica in cui viene a trovarsi il soggetto che abbia assunto tali sostanze (art. 93). La totale equiparazione legale degli stupefacenti all’alcool per ciò che riguarda l’imputabilità, tuttavia, è criticata da più parti. In particolare, in dottrina si osserva che, per quanto l’alcool possa ritenersi una psico-droga, esso gode di una diversa considerazione sociale: il consumo di alcool è infatti diffuso ovunque e assolutamente comune entro certi limiti, cominciando ad essere riprovevole solo quando diviene “eccessivo”, mentre così non è per gli stupefacenti, il cui uso è pressoché generalmente ritenuto un “abuso”; inoltre per gli stupefacenti è difficile individuare un quadro clinico e psichiatrico di intossicazione cronica in termini di permanente alterazione fisio-psichica, corrispondente a quello dell’intossicazione cronica da alcool e la dipendenza fisica provocata da alcune sostanze stupefacenti può raggiungere livelli tali che in caso di astinenza la sindrome carenziale appare clinicamente come un’autentica infermità. Continuando la disamina abbiamo poi l’ubriachezza abituale (art.94) per il quale la pena è aumentata, l’altro la cronica intossicazione50 (art. 95), quale unico caso

50La linea di demarcazione tra l'uso abituale di stupefacenti e l'intossicazione cronica,

considerata quale causa patologica incidente sull'imputabilità deve essere individuata sulla badei dati della scienza medica. Pertanto, qualora si proceda nei confronti di un tossicodipendente abituale, il giudice, soprattutto se sussistono ulteriori elementi, quali la gravità del reato commesso e la sproporzione rispetto al fatto scatenante l'impulso omicida, la giovane età dell'imputato e la condizione di tossicodipendenza da lungo tempo, deve disporre, se in grado di appello, la rinnovazione parziale del dibattimento per sottoporre l'imputato stesso a perizia psichiatrica al fine di accertare se egli al momento del fatto che ha dato luogo al processo, fosse o meno capace di intendere e volere. Cassazione penale sez. I, 29 ottobre 1987. Nel senso della non coincidenza della tossicodipendenza con la cronica intossicazione si è prevalentemente espressa la Cassazione, ancorché con qualche eccezione che è interessante citare: “L’eroina esercita

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in cui il legislatore ha ritenuto opportuno applicare una diminuzione o esclusione di responsabilità. Numerose le critiche che sono state mosse al concetto di ubriachezza abituale dalla dottrina, la quale ha ritenuto discutibile la motivazione politico criminale alla base di un trattamento sanzionatorio così rigoroso. Appare infatti opinabile la concezione contraddittoria dell’ubriaco abituale, in parte come un soggetto vizioso e pericoloso per lo stile di vita che esso conduce e in parte come un soggetto bisognoso di trattamento riabilitativo. È pertanto auspicabile una modifica della norma in questione. La cronicità, è importante dirlo, presuppone un’alterazione patologica permanente51, in poche parole il soggetto è perennemente segnato dagli effetti di alcool o droga oltre che dalla sindrome di astinenza quando non ne assume, ciò comporta una patologia psicofisica. Quando, infatti, l’ubriachezza degenera in alcolismo, si prendono in considerazione le manifestazioni cliniche di quest’ultimo, le quali sono date da segni somatici, neurologici e soprattutto mentali o psicopatologici. Si spiega così perché la norma in esame richiami sul punto l’applicazione degli articoli 88 e 89, concernenti il c.d. vizio totale o parziale di mente. La diagnosi differenziale da quella di ubriachezza o uso di stupefacenti soltanto abituale, può talvolta risultare problematica, ma concettualmente la distinzione è chiara: nell’ubriachezza abituale o nell’uso abituale di stupefacenti vi è ancora, dopo ogni episodio di intossicazione acuta, la completa restitutio in

integrum del soggetto, che manca invece nell’intossicazione cronica,

una devastante azione distruttrice sui sentimenti e sulla volontà di chi ne abusa, sì da distogliere, deviare ed alterare i primi, subordinati all’esclusivo interesse di comunque assicurarsi la droga, e da esaltare il dinamismo della volontà nella prevalente direzione di quell’interesse da incondizionatamente soddisfare, determinando, sotto il profilo giuridico, una condizione di inferiorità psichica. Il precario, apparente ed innaturale equilibrio scandito dalle periodiche assunzioni di droga, il ritmo delle quali è proporzionale al grado di assuefazione della stessa, si labilizza col fatale esaurirsi degli effetti della dose di sostegno, sino a risolversi nella cosiddetta crisi di astinenza, che è condizione propriamente patologica, configurante un autentico vizio di mente”. Cass., 22 novembre 1983. GIUSTI-SICA, 1979.

51La giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito che l’intossicazione da alcool o

da sostanze stupefacenti può influire sulla capacità di intendere e di volere quando, per il suo carattere ineliminabile e per l’impossibilità di guarigione, provochi alterazioni psicologiche permanenti configurabili quale vera e propria malattia, mentre deve escludersi dal vizio di mente di cui agli artt. 88 e 89 c.p., la presenza di anomalie non conseguenti ad uno stato patologico. Cass. pen., sez. VI, 26/11/2013, n. 47078.

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caratterizzata da alterazioni, mi ripeto, psichiche permanenti. Il legislatore dichiara poi non imputabile il sordomuto che nel momento in cui ha commesso il fatto non era, a causa della sua infermità, capace di intendere e di volere (art. 96 c.p.). La l. 95/2006 ha stabilito che in tutte le disposizioni legislative vigenti, il termine “sordomuto” è sostituito con l’espressione “sordo” in quanto considerato improprio, sia dal punto di vista medico-fisiologico sia da quello culturale, dal momento che non esiste alcuna connessione fisico-patologica fra sordità e mutismo. Il legislatore delega al giudice il compito di valutare caso per caso se il sordomuto era capace di intendere e volere al momento del reato soprattutto in considerazione del fatto che, nei particolari casi di sordomutismo congenito o contratto nella prima infanzia, tale capacità dovrà ritenersi esclusa, parzialmente esclusa, o sussistente integralmente, a seconda che il sordomuto non abbia goduto di una educazione adeguata a fargli acquisire un sufficiente grado di istruzione e maturità intellettiva. Nei casi, viceversa, di sordomutismo sviluppatosi per ragioni dovute a traumi, infiammazioni, malattie, quindi derivante da condizioni patologiche, viene a collegarsi strettamente col vizio di mente. Tuttavia credo sia opportuno sottolineare che la norma appare obsoleta, dato che non tiene conto delle moderne conoscenze mediche in materia e delle tecniche di recupero funzionale dei sordomuti i quali, sostanzialmente, non presentano più delle lacune relative alla percezione del mondo esterno.

Veniamo, in ultima analisi, ad esaminare i rapporti tra imputabilità e quelle ipotesi legate alle condizioni di insufficiente maturità del soggetto, ex art. 97 c.p. Pur potendo, il singolo agente presentare un livello di capacità intellettiva sviluppata sufficientemente, ad esso quasi sempre mancherà un completo patrimonio etico così come presente nell’adulto e dai cui dipende la piena comprensione del mondo societario. Si deve comunque ricordare che il fatto del minore, pur non colpevole, rimane tuttavia tipico e antigiuridico. Quindi il nostro codice ha scelto di escludere l’imputabilità di coloro che non abbiano ancora compiuto gli anni quattordici, sull’assunto che non è possibile ammettere l’esistenza di una personalità formata in fanciulli alle soglie dell’età adolescenziale.

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