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1. Preistoria della collana.

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Academic year: 2021

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1.

Preistoria della collana.

Difficile lavoro hanno i libri, in questo tempo di trapasso. Italo Calvino, 1956.

1.

La storia della collana dei Libri bianchi (d’ora in avanti Lb) che ci accingiamo a ricostruire in queste pagine ha una data d’inizio, il 1957, e una data di fine, il 1966: esse corrispondono, rispettivamente, all’anno in cui fu pubblicato il primo volume della serie e a quello in cui fu pubblicato il cinquantaseiesimo, l’ultimo. Tuttavia, come cercheremo di dimostrare, questi riferimenti cronologici hanno validità solo parziale: innanzitutto, c’è una fase che precede e prepara il varo della collana la cui ricostruzione si rivela necessaria per una piena comprensione del fatto storico che è al centro di questo studio. In questo senso il concetto di data di inizio sfuma e il 1957 diventa un punto di riferimento e non di partenza per la nostra indagine. Per quanto riguarda invece la data finale, la sua definizione è ancora più problematica: essa appare un limite troppo inclusivo perché nel 1966, come vedremo, la collana era già stata marginalizzata a vantaggio di altre collezioni, vivendo il suo ultimo periodo sulla scia di decisioni prese negli anni precedenti da personalità ormai escluse dall’attività della casa editrice; e allo stesso tempo, è un limite troppo esclusivo perché non considera il patrimonio di esperienza che il progetto dei Lb lasciò in eredità alla casa editrice, patrimonio da cui germogliarono, negli anni successivi, altre idee ed esperienze editoriali, altre collane.

C’è dunque una storia della collana precedente al 1957, e di essa ci occuperemo nel prossimo paragrafo, e una storia della collana successiva al 1966.

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Ancora un’osservazione sull’inizio e la fine dei Lb. Lo studioso della collana può avvalersi di una ricca documentazione che gli permette quasi sempre di seguirne le fasi di sviluppo da vicino: la casa editrice Einaudi conserva infatti nel suo archivio una poderosa mole di documenti che ci restituiscono quasi dal vivo le fasi di progettazione, preparazione e pubblicazione dei singoli libri. In questo stato di iperdocumentazione risaltano per contrasto due vuoti documentari relativi, appunto, alla fase iniziale e alla fase finale della storia dei Lb. Non possediamo né l’atto di istituzione né l’atto di soppressione della collana: se il secondo può anche non essere esistito (per far morire una collana è sufficiente non farvi comparire nuove pubblicazioni), il primo deve senza dubbio esserci stato: il progetto della collana è stato necessariamente pensato, discusso e infine approvato dal Consiglio editoriale della casa. Ma i verbali delle riunioni editoriali che si tennero tra il 1956 e il 1957 sono andati perduti: questo silenzio della documentazione sull’anno zero della nostra collana rende a maggior ragione necessaria, per la miglior comprensione dell’origine dei Lb, la ricostruzione del contesto storico cronologicamente precedente al ’57.

2.

«Spio e annoto con curiosità quel che incomincia»: questo passo di Sainte-Beuve è citato da Marc Bloch nella sua Apologia della storia quando si accinge a contrapporre a un falso «idolo delle origini» un metodo di indagine della storia nel quale i fenomeni si definiscono come intersezione tra un passato di tradizione e memoria e un presente vivo nel quale tali fenomeni prendono forma e si realizzano: «gli uomini assomigliano più al loro tempo che ai loro padri», conclude Bloch citando un proverbio arabo.1 E tuttavia i padri esistono e il passato, a maggior ragione se recente, incombe sul presente e, almeno in parte, lo determina: attraverso quali meccanismi? Perseguendo quali finalità? A queste domande lo storico è chiamato a rispondere.

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Come non tutti gli uomini sono dotati della stessa capacità (volontà) di ricordare, così non tutte le istituzioni conservano allo stesso modo e per gli stessi fini il proprio passato: le scritture della storia, come sappiamo, sono costellate di memorie quanto di oblii, di vuoti di memoria, omissioni, di invenzione di tradizioni. La memoria è un’eredità che può essere scomoda, e dunque da dimenticare, o contesa da eredi in lotta e allora ridotta a brandelli. Ma accade anche che l’eredità del passato dei padri sia conservata con lucida e pacata coscienza: una memoria condivisa e difesa con orgoglio, una memoria da tramandare e, quindi, tramandata. È questo il caso della casa editrice Einaudi dotata, secondo Luisa Mangoni, di una specifica attitudine consistente «nel trasmettere la propria memoria interna e nell’intesserla con la stessa memoria storica della società italiana. Pur nelle gravi perdite che ne colpirono il nucleo originario fu questa capacità a consentirle, durante un trentennio, attraverso percorsi frastagliati, non solo di assimilare quanti ne vennero a far parte, ma anche di collocare i mutamenti in una linea di complessa continuità».2 La continuità non implica staticità: è un filo sottile che lega eventi formalmente diversi e storicamente lontani in nome di qualcosa di più profondo del mondo delle forme e del mondo della storia. Continuità e discontinuità possono correre su livelli diversi che non convergono o incrociarsi in grovigli che in sede di analisi andranno sbrogliati e definiti.

3.

Nell’aprile del ’43, nelle stanze della nuova sede romana della casa editrice, Felice Balbo e Giaime Pintor progettavano insieme una nuova collana che, uscendo dall’ambito di una cultura strettamente universitaria, si rivolgesse ad un ampio numero di lettori proponendogli libri che fossero spunto di «chiarificazione dei problemi più vivi e urgenti di filosofia e di costume»;3

2 Luisa Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi tra gli anni trenta e gli anni

sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. IX.

3 Dattiloscritto intitolato Abbozzo di una nuova collana allegato alla lettera di Felice Balbo a Pintor del 1/04/1943 conservata presso ACS FFP e parzialmente riprodotto in Maria

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La nuova collezione, evitando di abbandonarsi all’aridità di un facile giornalismo, avrebbe ospitato, secondo le intenzioni di Balbo, «piccoli volumetti, con copertina tipografica seria e non “alla moda” – fogli rifilati – che possono uscire con una certa frequenza».4 Attualità dei contenuti e brevità della forma: queste le coordinate della collezione che voleva inaugurare un modo di fare editoria in grado di connettere la realtà italiana a quella europea attraverso saggi e studi nuovi in grado di proporre non solo domande ma anche risposte alle esigenze culturali, politiche e morali della società italiana. L’eterogeneità dei testi, comprendendo una serie di libri che andava dal saggio filosofico (il primo volume sarebbe stato L’uomo senza miti dello stesso Balbo) alla raccolta di scritti politici, sarebbe stata tenuta insieme dal filo dell’attualità: «l’intonazione al presente», secondo le parole di Balbo.5

Il progetto per la nuova collezione, nel quale doveva essere coinvolto anche Elio Vittorini, da marzo consulente a tempo pieno della casa editrice, era destinato a rimanere sulla carta: Balbo viene infatti richiamato alle armi e Pintor, rimasto solo, decide di rimandare a tempi migliori la realizzazione della collana. Intanto, però, partecipa all’ideazione di una nuova collezione, questa volta più specificatamente definita intorno al concetto di attualità politica: «il senato romano – scrive Muscetta a Einaudi il 7 agosto 1943 – (presenti Ginzburg, Muscetta, Pintor, Giolitti, Venturi) ha discusso e progettato all’unanimità, una collezione di attualità politica, a cui ridarebbe il nome di “Orientamenti”.» La collana si ripropone di ospitare « scritti delle più serie tendenze odierne per illuminare il pubblico sulle condizioni reali dell’Italia e dell’Europa, per disegnare delle prospettive di concreta ricostruzione politica, per offrire dei contributi al chiarimento dei più urgenti problemi, non esclusi quelli ideologici».6

Cecilia Calabri, Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor, Utet, Torino 2007, p. 376.

4

Ibidem.

5 Ibidem, p. 377.

6 Gabriele Turi, Casa Einaudi. Libri uomini, idee oltre il fascismo, il Mulino, Bologna 1990, p. 148.

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Un progetto ambizioso e innovativo che vuole sfruttare al massimo le potenzialità e gli entusiasmi che la caduta di Mussolini sembra promettere. Ma il confronto diretto con le questioni politiche accende il conflitto tra le varie anime politiche di coloro che in questa fase della storia einaudiana partecipano al lavoro editoriale: a Roma, Pintor e Giolitti si scontrano con la componente azionista della casa mentre a Torino Pavese si dice «nauseato dall’indaffaramento politico della casa editrice».7 Alla fine, il 18 agosto, Einaudi comunica ad Alicata che la collana non si farà data «la provvisorietà dell’iniziativa».8 La reazione di Pintor è di disappunto ma insieme di richiamo a non abbandonare l’idea di un nuovo modo di fare libri di attualità:

È indispensabile che la casa editrice segni il passaggio a una nuova fase uscendo dagli schemi delle vecchie collezioni e affrontando coraggiosamente l’attualità. A questo non bastano i progetti di giornali e riviste che cominciano a diventare invadenti ma occorre che si faccia qualcosa di nuovo anche in campo editoriale.9

Per affrontare l’attualità non basta il coraggio. È necessaria la coesione del gruppo intorno a una lettura del presente condivisa: questa condizione non si determinerà prima del 1956 facendo naufragare, come vedremo, molti tentativi di costruire collezioni di libri che parlino del presente.

Nel ’45, nell’Italia liberata dal fascismo, la casa editrice impostava la propria attività «su un indirizzo di ribadita e orgogliosa continuità»10 ma anche sulla consapevolezza che vent’anni di fascismo avevano soffocato ogni tentativo di fare cultura in modo attivo, oppositivo, polemico. Questo rapporto tra continuità in nome di un passato e di una tradizione rivendicati con orgoglio e necessità di provare altre vie per connettere il proprio lavoro editoriale alle nuove istanze ed esigenze del presente si delinea, per esempio, nel progetto per la nuova serie della collana Problemi

7 Così si esprime Pavese in una lettera a Pintor del 23 agosto 1943, poi in Cesare Pavese,

Lettere, a cura di Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino 1966, p. 728. 8 AE, incart. Alicata, 18 agosto 1943.

9 Vedi AE, incart. Pintor, lettere del 9 e 19 agosto.

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contemporanei: essa era nata in pieno fascismo e si era sviluppata intorno alla figura di Luigi Einaudi11 per fornire ai lettori italiani libri di «discussione e documentazione sui problemi più vivi del momento in Italia e fuori.»12 Ma quando nel ’46 ne viene varata la nuova serie Giulio Einaudi indirizza al padre parole che rivendicano la scelta non solo culturale ma politica di fare editoria in un modo diverso rispetto al passato:

Presentare al pubblico italiano non soltanto un materiale di studio e di lavoro, ma anche un’opinione ben definita, un orientamento costruttivo. Vogliamo quindi che l’aspetto strettamente economico di un problema non sia scisso dal suo aspetto politico: perciò, se chiediamo all’autore serietà e obiettività di documentazione, gli chiediamo anche di indicare la sua soluzione politica, che sarà proposta alla libera discussione del pubblico.13

Per sondare la dimensione politica dei fenomeni economici viene inaugurata nel ’45 una nuova collana, Problemi italiani, che ospita come primo titolo La rivoluzione meridionale di Guido Dorso pubblicata una prima volta da Gobetti nel 1925. Ma già nel ’49, con solo quattro titoli all’attivo14, la collana veniva abbandonata per non sovrapporsi alle altre già esistenti e in particolare ai Saggi: la nuova collana di attualità, dunque, aveva peccato di un’identità forte che ne legittimasse l’esistenza e la continuazione. In questa fase della storia della casa editrice le divergenze tra coloro che partecipano al lavoro editoriale si acutizzavano intorno «a quelle collane che più direttamente intendevano porre al centro della riflessione il mondo contemporaneo. Ancora una volta gli intellettuali italiani si accingevano al compito di conoscere e riconoscere l’Italia».15

Dalle collane del dopoguerra alla serie bianca, numerosi e sempre falliti sono i tentativi di impostare collezioni studiate per parlare dell’attualità: una parola, attualità, che ricorre spesso dei documenti e il cui significato, però, rimane tanto vasto quanto ambiguo: si va da un concetto di attualità in senso

11

Per l’analisi del ruolo di Luigi Einaudi nella direzione della collana vedi Turi, Casa

Einaudi cit., pp. 45 e seguenti.

12 Con queste parole la collana viene presentata nel Catalogo generale del ’56.

13 Lettera di Giulio Einaudi al padre Luigi del 31 ottobre 1945 (AE, incart. Luigi Einaudi). 14 Oltre alla riedizione di Dorso vennero pubblicati Pietro Grifone, Il capitale finanziario in

Italia; Emilio Sereni, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana; Ruggero

Grieco, Introduzione alla riforma agraria. 15 Mangoni, Pensare i libri cit., p. 201.

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filosofico-morale («i problemi più vivi e urgenti di filosofia e di costume») secondo le linee del programma di Balbo, a uno orientato in senso più specificatamente politico (le «condizioni reali dell’Italia e dell’Europa» di cui Muscetta scriveva ad Einaudi). Ma negli stessi anni prende forma anche un’idea di approccio all’attualità mediato dal filtro della riflessione intellettuale, dell’autobiografia, della letteratura. Promotore di questo orientamento, il più sperimentale e forse affascinante, è Elio Vittorini che nel marzo del ’48, all’indomani della chiusura di «Politecnico», progetta una collezione di Quaderni per ospitare «volumi a parecchie mani» in cui raccogliere riflessioni su argomenti come «L’ultima generazione di scrittori – quella venuta fuori dopo l’aprile del 45 – o come il volume da intitolarsi Lettere dall’Italia. Tutto di scritti, saggi e documenti sulle singole parti d’Italia».16

I Quaderni non saranno pubblicati ma l’idea di una collana di libri brevi «oscillanti tra 16 e 64 pagine» tenta ancora Vittorini nel marzo del ’49 per le sue possibilità di «avvicinare un pubblico senza troppe spese e troppi rischi per l’editore».17 Ancora una volta brevità e attualità si accompagnano come parole chiave per reimpostare l’attività della casa editrice in un’ottica di sperimentazione: così, mentre il progetto vittoriniano si definisce, la casa editrice si interroga sulla possibilità di adottare questi stessi criteri per un ambito di ricerca più ampio rispetto a quello puramente letterario. Pavese, nella seduta del consiglio editoriale del 12-13 maggio ’49, riassume così lo stato della discussione intorno ad una nuova collana di opuscoli brevi e «soprattutto di natura polemica»:

Rapida trattazione di argomenti che interessano l’opinione pubblica contemporanea: questo criterio però non sarà inderogabile e si potranno riesumare cose dell’Ottocento. Questa collezione non sarà pianificata per argomenti; ma raccoglierà pezzi di assoluta qualità. In

16 Lettera di Vittorini a Giulio Questi del 29 marzo 1948, poi in Elio Vittorini, Gli anni del

Politecnico. Lettere 1945-1954 a cura di Carlo Minoia, Einaudi, Torino 1977, p. 162. Nel progetto per questa “serie azzurra”, poi abbandonato, era coinvolto anche Felice Balbo a cui Vittorini con una lettera del 29 febbraio chiedeva «un primo abbozzo di elenco di collaboratori. […] Prega Pavese, la Natalia e Calvino di non pentirsi delle loro promesse di collaborazione».

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un primo tempo si era deciso di scartare le opere di creazione […] ma in seguito si è ritenuto opportuno includere anche queste.18

Per la serie saggistica veniva proposto, come primo volume, il saggio di Cesare Pavese, Poesia è libertà, apparso nel marzo del ’49 sulla rivista «Il sentiero dell’arte», Il figlio dell’uomo di Natalia Ginzburg, lo scritto di Vittorini, Politica e cultura, pubblicato su «Politecnico» nell’ambito della polemica con Togliatti del 1946 seguito dalla replica di Luporini uscita su «Società» con il titolo Torti e ragioni del moralismo, e infine il saggio di Balbo, Filosofia e religione dopo Marx con la replica di Augusto Del Noce, La «non-filosofia» di Marx: in questo modo gli opuscoli si configuravano come uno spazio nuovo nel quale le personalità che animavano la vita della casa editrice possono esprimersi senza veramente confrontarsi: «gli itinerari potevano ancora intrecciarsi in qualche momento i punti di arrivo potevano, come nel progressivo evolvere di posizioni che di lì a poco avrebbero portato Vittorini e Balbo a uscire dal Pci, apparentemente coincidere, ma essi restavano il frutto di cammini non identici e per certi aspetti non comunicanti».19 La letteratura, come filtro che media tra realtà e finzione, si rivelava l’unico strumento di conoscenza del mondo attuale in grado di evitare che conflitti ideologico-politici prendessero il sopravvento sull’attività della casa editrice paralizzandola in un immobilismo senza futuro. Vittorini, proseguendo da solo lungo la via segnata dall’esperienza di «Politecnico», ha il carattere e la volontà per farsi interprete della necessità di tessere una trama di libri come cronaca del presente: a partire dal ’51 la collana dei Gettoni diventa la cornice per presentare non solo scritti di giovani autori della letteratura italiana ma anche, secondo le stesse parole di Vittorini, «opere di carattere diaristico, autobiografico e documentario in modo da arrivare a poco a poco a creare una specie di cronaca dell’epoca a più voci, psicologica e di costume».20 Rispetto ai progetti non realizzati nel passato è stata dunque espunta dall’orizzonte dell’attualità la tematica politico-ideologica, foriera di contrasti e tensioni. Ma il progetto di Vittorini

18 AE, Verbale della riunione editoriale del 12/13 gennaio 1949. 19 Mangoni, Pensare i libri cit., p. 423.

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era stato realizzato anche attraverso un’altra rinuncia, quella del lavoro editoriale collettivo e plurale, a favore di una gestione della collana personalistica forte e compatta.

Solo nel ’54 Giulio Einaudi tenta di riprendere in mano il filo del discorso, o meglio, dei discorsi sull’editoria per il presente proponendo al consiglio editoriale il progetto di una collezione di opuscoli che possa contribuire a risolvere la questione, già tante volte discussa in passato, del rapporto tra lavoro editoriale e problemi del mondo attuale:

Scopo fondamentale degli opuscoli è di mettere in risalto il legame tra la nostra attività editoriale e i problemi vivi del nostro tempo. Sarebbero pubblicati articoli importanti tratti da riviste italiane e straniere, opuscoli inediti, documenti discorsi, vecchi scritti la cui pubblicazione può costituire, a un certo momento, una battuta importante in una discussione su un problema vivo. Ogni opuscolo dovrà avere il carattere dell’unicità, dovrà contenere un solo saggio o articolo o documento, al fine di evitare che la discussione appaia esaurirsi all’interno stesso dell’opuscolo.21

La varietà delle tematiche trattate si risolveva nella finalità unica di pubblicare scritti in grado di parlare al presente «del nostro tempo», sollecitando un dibattito che partendo dal libro non si esaurisse in esso. Ma ancora una volta, come scrive Luisa Mangoni, «la linea prevalente sembrava più quella di ristampare vecchi testi che non quella dell’intervento immediato».22 E la collana degli opuscoli rimaneva alla fase progettuale con il disappunto di Cantimori che ancora un anno dopo, nelle sue note al verbale del 25 maggio 1955, scriveva : «ma quando si faranno i quaderni o libelli o saggetti di cose brevi e rapidamente pubblicate? Il bisogno è nell’aria, non solo nell’atmosfera di viale Umberto 5bis, nona stanza, ma se ne sente il bisogno qua e là».23

I quaderni o libelli o saggetti o opuscoli o corpuscoli si faranno, infine, nel ’57 dopo decenni di discussioni, progetti non realizzati o collane che durano lo spazio di un libro, come la collana Inchieste. Questa collana, che era stata

21 AE, Verbale del 10 febbraio 1954. 22 Mangoni, Pensare i libri cit., p. 863.

23 AE, incart. Cantimori, note datate 18 giugno al verbale della riunione editoriale del 25 maggio 1955.

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progettata nel ’55 coinvolgendo personalità diverse come Ernesto de Martino, Renato Solmi e Antonio Giolitti, anticipa nelle tematiche di interesse e nel tipo di studi proposti, la serie bianca. Tra l’1 e il 3 giugno 1955 si tiene a Torino una riunione editoriale in cui Solmi riferisce dei colloqui avuti con de Martino e Giolitti per la nuova collana di problemi contemporanei:

La nuova collana dovrebbe comprendere: 1) studi e inchieste su problemi della vita nazionale; 2) opere di pubblicistica politica e culturale 3) studi di politica internazionale e di “storia contemporanea”. Dovrebbe poter comprendere anche libri stranieri (specialmente del tipo 3).24

La dimensione politica torna protagonista come anche l’idea di una gestione collettiva della collana alla quale partecipino personalità di diversa formazione e sensibilità. Nel novembre dello stesso anno, si tiene un’analoga riunione nella sede romana della casa editrice: sul punto inerente alla collana Inchieste e Documenti prendono la parola prima de Martino, che si concentra soprattutto su questioni finanziarie, poi Muscetta che «suggerisce di organizzare con riviste, settimanali e quotidiani (…) un’eventuale utilizzazione di questi materiali»» e infine Manacorda che «avendo De Martino ampliamente chiarito la varietà di argomenti della collana raccomanda che questa varietà si rifletta sin dal primo gruppo di opere e cioè che accanto alle inchieste a carattere nazionale vengano approntati volumi su problemi internazionali pur restando fissa la proporzione in favore dei primi».25 La collana, però, non riesce ad andare oltre il primo titolo.

L’insuccesso di questi progetti che costellano la storia della casa editrice dalle sue origini non invalida una linea di ricerca nella quale si vanno via via definendo alcuni concetti chiave come l’interazione tra pubblicistica nazionale ed internazionale, la commissione di inchieste, il dialogo serrato

24 AE, Verbale della riunione editoriale dell’1-3 giugno 1955. Presenti alla riunione: Bobbio, Bollati, Calvino, Einaudi, Federici, Foà, Fonzi, Fruttero, Ponchiroli, Serini, Solmi, Venturi.

25 AE, Verbale della riunione editoriale del 21 novembre 1955. Presenti alla riunione: Ernesto de Martino, Antonio Giolitti, Gastone Manacorda, Carlo Muscetta.

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con le riviste italiane, la pluralità dei temi trattati; concetti che diventeranno le linee guida della imminente collana bianca.

4.

Nel 1956 una convergenza tra spinte culturali-politiche provenienti dalla società italiana e necessità interne alla vita della casa editrice determinava le condizioni per la realizzazione di un nuovo progetto editoriale espressamente finalizzato a ospitare contributi sulle questioni del presente. Se nel paragrafo precedente abbiamo cercato di far emergere gli ostacoli che ne avevano ritardato la realizzazione, cercheremo ora di definire in quale quadro l’istituzione della nuova collana diventava non solo possibile ma necessaria.

Tra le carte dell’Archivio della Casa editrice è conservata una lettera che Giulio Einaudi aveva indirizzato a Pietro Nenni per domandargli l’autorizzazione a pubblicare in volume il reportage da Budapest di Luigi Fossati, giornalista dell’«Avanti!». Fossati, corrispondente da Berlino est del quotidiano socialista, si era recato nella capitale magiara il 22 ottobre 1956 per documentare di persona i moti insurrezionali contro il governo di Rákosi.

La lettera di Einaudi è datata 20 novembre 1956 e rappresenta il documento più antico relativo alla collana che noi possediamo. O meglio, non relativo alla collana ma a uno dei libri, il primo, che questa ospiterà: infatti, la documentazione in nostro possesso non ci permette di sapere se, nel momento in cui viene decisa la pubblicazione del reportage di Fossati, la collana è già stata discussa e progettata. Le ipotesi sono due: o l’idea della collana precede quella della pubblicazione del reportage oppure, e mi sembra l’ipotesi più plausibile, sull’onda degli eventi la casa editrice si accaparra in tutta fretta i diritti di pubblicazione della prima cronaca italiana della rivoluzione ungherese pensando successivamente a studiare una collocazione adeguata a questo tipo di documenti: le istanze del presente, i «problemi vivi» di cui tante volte si era parlato trovavano ora una casa

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editrice pronta ad affrontarli. Einaudi chiede dunque al segretario del Partito socialista di autorizzare la pubblicazione e di arricchirla con una sua introduzione:

Da parte mia – scrive Einaudi – vorrei soltanto dire che la pubblicazione di una Casa non di partito darebbe alla tua prefazione e al resoconto dei fatti d’Ungheria un significato politico, una “presa”, nel Paese, su un’opinione pubblica intontita e disorientata, di cui tu sei meglio di me in grado di valutare l’importanza in questo momento.26

Nenni acconsente alla pubblicazione non di partito e si impegna con Einaudi per fargli avere in breve tempo una prefazione27 che ha il tono della dichiarazione politica: «le corrispondenze di Luigi Fossati all’Avanti! sugli avvenimenti di Budapest sono qualcosa di più di un reportage; sono la testimonianza di un socialista», scrive Nenni. Le sue parole sono riprodotte in nero sull’austera copertina bianca che, studiata da Bruno Munari, diventerà la veste grafica ufficiale della nuova serie e alla quale la collana deve il suo nome: nome tardivo, dal momento che la dizione Libri bianchi è attestata per la prima volta in una lettera di Giulio Einaudi del settembre 1958:28 (fino a questa data sono impiegate diverse espressioni come «serie bianca», «opuscoli», «collana di pamphlet», «collana di attualità») che è il segno della fretta con cui la collana era stata improntata e realizzata.

A due settimane dall’invasione sovietica in Ungheria, avallata politicamente dal Pci, Einaudi ha dunque deciso quale interpretazione dei fatti divulgare attraverso la sua attività editoriale. Solo tre giorni prima di scrivere a Nenni, Einaudi esprimeva a Togliatti fiducia politica e stima personale, esortandolo a partecipare al processo di “normalizzazione” dell’Ungheria:

A mio avviso non perderei un minuto, e anche con sollecitudine mi recherei a Mosca, a Belgrado a Varsavia, a Budapest. Porteresti tutto il peso della tradizione di lotta del Partito […]. Scusami per questa lettera dettata dalla coscienza delle comuni responsabilità, di una grande fiducia nel socialismo, di una grande stima per la tua persona.29

26 AE, incart. Nenni, 20 novembre 1956. 27 Ibidem, 22 novembre 1956.

28 AE, incart. Gabrieli, 11 settembre 1958.

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Da una parte, quindi, la fiducia che Einaudi accorda a Togliatti come promotore, a livello internazionale, di un socialismo diverso da quello sovietico. Dall’altra, la decisione di pubblicare, come introduzione al primo volume di una nuova collana di attualità, un documento politico in cui si dà un’interpretazione dei fatti ungheresi in netto contrasto rispetto alla linea assunta dal Pci.

Per comprendere in profondità il senso dell’atteggiamento di Einaudi nel turbinoso novembre del 1956 bisogna ricostruire il contesto in cui esso ha preso forma: molti studi, anche recenti, hanno documentato e analizzato le dinamiche innescate dai fatti del novembre del 1956 sul rapporto tra il Pci e alcuni tra i più eminenti intellettuali italiani di area comunista: una distanza crescente, un’incomprensione ostinata e reciproca che si converte in un irreversibile «lungo addio» tra le due parti.30 In questo macrocontesto storico possiamo studiare più da vicino un microcontesto, quello relativo alla Casa editrice Einaudi che in quei mesi tumultuosi si ritaglia un ruolo da protagonista nell’espressione del dissenso verso la linea del partito di Togliatti.

Negli ultimi giorni di ottobre la cellula aziendale della casa editrice, intitolata a Giaime Pintor, approva all’unanimità due documenti con i quali si dissocia dalla linea del PCI sui movimenti insurrezionali polacchi e ungheresi. Il primo documento viene redatto il 26 ottobre, giorno in cui il partito aveva preso posizione pubblica sui fatti polacchi e ungheresi attraverso due editoriali di Ingrao e il comunicato della direzione Sugli avvenimenti polacchi e ungheresi e sulla relazione della delegazione recatasi in Jugoslavia, pubblicati sulle pagine dell’«Unità». La reazione della cellula è immediata e unanime: attraverso l’ordine del giorno redatto da Giulio Bollati e Italo Calvino viene respinta «l’interpretazione calunniosa che fu data ieri ai fatti di Poznan e quella ambigua e deformante che si

30 Per un quadro generale si vedano Nello Ajello, Intellettuali e PCI, Laterza, Bari 1979; Id., Il lungo addio, Intellettuali e PCI dal 1958 al 1998, Laterza, Bari 1997; Francesco Barbagallo, Il PCI dal Cominform al ’56: i “casi” Terracini, Magnani, Giolitti in «Studi storici» gennaio-marzo 1990; Aldo Agosti, Togliatti, Utet, Torino 2003, in particolare il capitolo 9, Il XX congresso e le cautele di Togliatti; Albertina Vittoria, Togliatti e gli

intellettuali. Storia dell’istituto Gramsci negli anni Cinquanta e Sessanta, Editori Riuniti,

Roma 1992; Albertina Vittoria, Organizzazione e istituti di cultura, in Storia dell’Italia

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continua a dare sull’“Unità” ai tragici fatti di Budapest». Il Pci viene accusato di «lentezza ed esitazione» e di non aver saputo cogliere e rafforzare «tutte le straordinarie possibilità positive insite nel processo iniziatosi con il XX Congresso del PCUS».31

Tre giorni dopo, la cellula approva, di nuovo all’unanimità, un Appello ai comunisti che si rivolge «a tutti i comunisti operai, contadini ed intellettuali, dirigenti e parlamentari, e in particolare al C.C. del Partito» affinché sia sconfessato l’operato della Direzione del partito e sia dichiarata «la nostra piena solidarietà coi movimenti popolari polacco e ungherese e con i comunisti che non hanno abbandonato le masse protese verso un radicale rinnovamento dei metodi e degli uomini». Si esorta infine il Pci ad adoperarsi senza indugio per «facilitare la soluzione delle questioni che incombono in tutte le Democrazie popolari, adoperandosi con ogni mezzo a evitare che tali questioni giungano a un grado di pericolosità esplosiva, sia nell’interno che nei riflessi internazionali».32

Intanto, a Roma la sede della casa editrice diventa uno dei punti di riferimento per gli intellettuali e gli studenti universitari comunisti che si schierano contro la linea del partito. Nelle stanze dell’Einaudi si raccolgono le firme di adesione alla lettera del 29 ottobre indirizzata al Comitato centrale del partito, il cosiddetto Manifesto dei 101, promossa da Carlo Muscetta, direttore di «Società» (pubblicata da Einaudi dal ’53 al ’56).33 Il

31 Il documento è riprodotto in Italo Calvino, Saggi, 1945-1985 a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 1995, pp. 3008-3011.

32

Ibidem. La mobilitazione della cellula Pintor contro la linea del Partito ha un’eco

nell’intervento di Togliatti che apre la riunione della Direzione di partito del 30 ottobre: «L’altra posizione sbagliata è che la sommossa è stata democratica e socialista e dovevamo sostenerla fin dall’inizio. Assieme a ciò attacco al partito per non essersi mosso sui problemi internazionali dopo il XX congresso. Posizioni di organizzazioni e gruppi di compagni a Pisa, Mantova, Modena, Cellula Pintor (di Torino) e di Roma (giornalisti e intellettuali)» (Verbale riprodotto in Quel terribile 1956, I verbali della Direzione

comunista tra il XX Congresso del PCUS e l’VIII Congresso del PCI, a cura di Luisa Righi, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 220).

33 Muscetta nella sua autobiografia L’Erranza, memorie in forma di lettera, Il Girasole edizioni, Catania 1992, pag. 118 e seguenti scrive: «Il XX Congresso del P.C.U.S. divenne agli inizia del ’56 l’oggetto predominante delle discussioni promosse nella sede di «Società» e all’Università e nelle sedi di partito, ove Mario Alicata si distinse per gli interventi repressivi che coronavano la sua perfidia inquisitrice. Il rapporto Krusciov, le incertezze e le oscillazioni del P.C.I., per effetto delle frenate imposte da Mosca, determinarono a Roma un clima assai teso di lotta politica, dove i comunisti universitari riuscirono ad avere forza di attrazione anche su settori popolari del partito. In quell’ estate del ’56 le infuocate discussioni approdarono a istanze interlocutorie, in attesa del dibattito precongressuale. (…) Ma i fatti di Polonia e Ungheria fecero precipitare la situazione e

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30 ottobre Togliatti invia una lettera a Mosca indirizzata alla segreteria del Cc del Pcus per informarla sugli effetti degli avvenimenti ungheresi sul partito: oltre a coloro che dichiarano che la responsabilità di ciò che è accaduto in Ungheria «risiede nell’abbandono dei metodi stalinisti» Togliatti informa che vi sono «gruppi che accusano la Direzione del nostro partito di non aver preso posizione in difesa dell’insurrezione di Budapest e che affermano che l’insurrezione era pienamente da appoggiare e che era giustamente motivata […] Noi conduciamo la lotta contro queste due posizioni opposte e il partito non rinuncerà a combatterla».34

Tra le firme mancanti pesa politicamente più di ogni altra quella dell’ispiratore del Manifesto, Antonio Giolitti, che, dal ’43, lavorava come consulente per la casa editrice. Nelle sue memorie Giolitti ha giustificato in questi termini la scelta di non firmare: «non ero tra i firmatari perché coltivavo ormai l’idea di manifestare in modo più efficace il mio dissenso nell’imminente congresso. Le voci sul mio ruolo in quella vicenda nacquero dal fatto che molte riunioni si tenevano nel mio ufficio da Einaudi».35 Intorno a Giolitti si muove la casa editrice: la centralità della sua figura in questo processo di identificazione dei redattori e collaboratori einaudiani nella stessa vicenda non solo politica ma esistenziale è confermata dallo stesso Einaudi che, a colloquio con Severino Cesari, ricorda:

Nel ’56 ci chiamarono “quei controrivoluzionari dell’Einaudi”, e Antonio Giolitti, forse il più esposto di noi verso il PCI, il marxista più convinto anche in senso politico, colui che aveva appunto determinato nei fatti, sul finire degli anni Quaranta, la fine di ogni residuo del liberalismo einaudiano originario in economia, a favore di quei libri di economia

decisero gli intellettuali a schierarsi su posizioni più avanzate, come del resto aveva fatto la Confederazione del Lavoro. Nella mia iniziativa di elaborare un documento di protesta confluì un’altra analoga di Luciano Cafagna e Francesco Sirugo. Dall’unificazione dei due testi venne fuori la Lettera dei 101». Per una ricostruzione della vicenda del Manifesto vedi Valentina Meliadò, Il fallimento dei “101”. Il Pci, l’Ungheria e gli intellettuali italiani, prefazione di Renzo Foa, Liberal edizioni, Roma 2006.

34 La lettera è riprodotta in Victor Zaslavsky, Lo stalinismo e la sinistra italiana. Dal mito

dell’Urss alla fine del comunismo 1945-1991, Mondadori, Milano 2004, p. 190.

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programmata, fu proprio Giolitti in primissima fila nella battaglia interna al PCI, seguito da Italo Calvino.36

L’invasione sovietica di novembre trova dunque il gruppo einaudiano già compatto e attivo sul fronte del dissenso con il partito di Togliatti. Da Roma la direzione del partito manda a Torino Giorgio Amendola («lui era venuto a Torino – ricorda Calvino – per incontrare me e gli altri amici dell’Einaudi; per “tenerci buoni” perché si capiva che le difficoltà stavano arrivando e noi davamo segni di grande impazienza».37 La sera del 4 novembre il dirigente comunista incontra a casa di Luciano Barca, allora direttore dell’«Unità» di Torino, Calvino, Boringhieri, Bollati. Ricorda Calvino:

Fu per me una serata decisiva. Mentre Amendola parlava, Gianni Rocca, che allora era redattore capo dell’«Unità» telefonò a Barca. Aveva la voce rotta di pianto. Ci disse: i carri armati stanno entrando a Budapest, si combatte per le strade. Guardai Amendola. Eravamo tutti e tre come colpiti da una mazzata. Poi Amendola mormorò: «Togliatti dice che ci sono momenti nella storia in cui bisogna essere schierati o da una parte o dall’altra. Del resto il comunismo è come la Chiesa, ci vogliono secoli per cambiar posizione. E poi in Ungheria si stava determinando una situazione pericolosissima…» Capii che il tempo dei cento fiori nel PCI era ancora lontano, molto lontano…38

Due giorni dopo, il 6 novembre, Einaudi scrive a Togliatti una lettera per esprimergli con asciutta franchezza la propria interpretazione dei fatti ungheresi:

Non era rivoluzione tutto un movimento di popolo contro una cricca dirigente piena di colpe e di errori? Come è mai possibile che alla testa di una rivoluzione popolare non ci fossero dei dirigenti comunisti? C’erano infatti e si sono divisi ulteriormente mentre invece

36

Cesari, Colloquio cit., p. 63. L’espressione “quei controrivoluzionari dell’Einaudi” era stata usata da Togliatti in una lettera del 5 novembre ’56 indirizzata ad Antonello Trombadori, direttore con Carlo Salinari del «Contemporaneo». Stralci della lettera sono riprodotti in Paolo Spriano, Le passioni di un decennio 1946-1956, Garzanti, Milano 1986, pp. 217 e seguenti.

37 Italo Calvino, L’estate del 56, intervista di Eugenio Scalfari (Calvino, “Quel giorno i

carri armati uccisero le nostre speranze), «la Repubblica», 13 dicembre 1980. Il

documento è riprodotto in Italo Calvino, Saggi cit., pp. 2849-2855.

38 Ibidem., pp. 2853-54. Su Calvino e il ’56 vedi la ricostruzione di Domenico Scarpa, Da

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uniti potevano evitare lo slittamento a destra, il prorompere del terrore bianco, ecc. ecc. Ma occorreva, perché stessero uniti che ricevessero allora [sottolineatura di Einaudi] la solidarietà internazionale di classe, un aiuto effettivo affinché il movimento rivoluzionario si sviluppasse democraticamente, senza che si realizzasse una politica di capitolazione e di codardia da parte dell’Unione Sovietica, ma anzi di estremo coraggio, quel coraggio di cui taluni dirigenti sovietici avevano dato prova in questi ultimi tempi.39

Al popolo ungherese è venuta meno, secondo l’editore, la solidarietà di classe sovietica, ma, evidentemente, anche italiana: «d’accordo – prosegue Einaudi – siamo lontani e non sempre abbiamo tutti gli elementi di giudizio, e che sputar sentenze inascoltate è forse un mestiere ridicolo» ma «pensiamo a noi e alla nostra coscienza, in relazione a quei principi a cui crediamo. […] Occorre incominciare e da subito a individuare gli errori commessi in modo che si ritrovi una via giusta e quella la si batta fino in fondo. Una via che sia per la distensione e la pace, per la democratizzazione, per la libertà».40 Per tredici giorni, dunque, dal 4 al 17 novembre l’editore si espone personalmente di fronte a Togliatti attraverso lettere in cui la stima nei confronti dell’interlocutore non sminuisce la portata polemica, in alcune righe sobriamente accusatoria, delle argomentazioni politiche addotte. Il dissenso della casa editrice ideologicamente e culturalmente più vicina al Pci, preoccupa Togliatti e gli altri dirigenti. Nelle sue Cronache dall’interno del vertice del PCI Luciano Barca ricorda un altro incontro che si tenne a casa sua il 12 novembre. Questa volta tocca ad Arturo Colombi cercare di contenere il dissenso degli einaudiani: «anche se ognuno rimane sulle sue posizioni, ciascuno esce dall’incontro con l’impressione che le sue ragioni sono state ascoltate».41 In una nota apposta successivamente, Barca scrive: «credo che gli incontri torinesi e la battaglia del gruppo Einaudi abbiano avuto un qualche peso sulla redazione delle tesi dell’VIII Congresso. Il giudizio dato da Ingrao sull’occupazione sovietica si è tramutato in dolorosa necessità ed è immediatamente seguito dalla riaffermazione della libertà e dell’indipendenza di ciascun partito e ciascun Paese grande o piccolo che

39 Lettera di Einaudi a Togliatti conservata presso l’archivio dell’Istituto Gramsci di Roma. 40 Ibidem.

41 Luciano Barca, Cronache dall’interno del vertice del PCI, Rubbettino editore, Catanzaro 2005, p. 164.

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sia».42 Non possiamo qui dire se gli argomenti di Barca siano fondati su qualcosa di più della semplice sensazione personale. Certo è che la casa editrice si muove compatta a fianco di Giolitti: il giorno stesso del suo intervento al Congresso, l’11 dicembre, Bernardini, Bollati, Boringhieri, Calvino, Foà, Fonzi e Ponchiroli firmano un telegramma per esprimere «nostra fraterna solidarietà e pieno consenso tuo intervento».43 Un telegramma lampo inviato da Giulio Einaudi il giorno successivo recita, invece, «vivissime congratulazioni».44

Luisa Mangoni interpreta questa compattezza del gruppo einaudiano anche come il segno di una crisi e il tentativo di superarla attraverso un ritorno a se stessi, nell’autonomia ma anche nell’isolamento:

Il suo muoversi come gruppo, mentre intorno si sfaldavano e si dissolvevano in una miriade di vicende individuali le aggregazioni che si erano create nel dissenso contro l’atteggiamento del PCI nei confronti della rivolta ungherese, aveva avuto anche il senso di un patriottismo di casa editrice, per certi versi di un ripiegamento su se stessi in qualcosa che non era autocritica ma, forse più precisamente, autocoscienza.45

“Ripiegamento su se stessi”, “autocoscienza”: sono termini che descrivono la condizione di coloro che partecipano alla vita della casa editrice ma anche di molti degli intellettuali italiani che fino al ’56 si erano identificati nella politica del Pci e che si sentivano ora, dopo i fatti ungheresi, lontani non solo dal Partito ma da un certo modo di concepire i rapporti tra politica e cultura.

La rinnovata unità del gruppo einaudiano garantisce la possibilità di rendere concreta un’idea di editoria per il presente che nel passato era stata a lungo discussa ma mai realizzata. Sono tempi nuovi che esigono libri nuovi, come scrive l’autore anonimo, ma sicuramente si tratta di Calvino, che così presenta, a due anni dalla sua inaugurazione, la collana dei Lb ai lettori del «Notiziario Einaudi» di cui è direttore responsabile:

42

Ibidem, p. 165. 43 AE, incart. Giolitti.

44 Entrambi i documenti sono in AE, incart. Giolitti.

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Mesi cruciali per la storia del mondo, quelli che stiamo vivendo. Le nostre giornate sono scandite dall’uscita delle edizioni speciali dei quotidiani, dalle notizie che ci porta la radio. Il ritmo dei libri è necessariamente più lento, eppure i volumetti della serie “bianca” che già nei caratteri della copertina richiamano l’immediatezza – tanto spesso drammatica – dei giornali, intendono non solo seguire ma precedere l’attualità, un precedere che vorremmo equivalesse a un prevenire, informandoci tempestivamente dei problemi che s’affacciano alla ribalta.46

Nell’estate del ’56, Calvino aveva scritto un editoriale sul «Notiziario Einaudi» intitolato Libri per la discussione per presentare le ultime novità pubblicate nella collana dei Saggi: Asia Maggiore di Franco Fortini, Il futuro ha un cuore antico di Carlo Levi e La Chiesa e le organizzazioni cattoliche in Italia di Carlo Falconi. Due anni dopo, nella seconda pagina del numero di marzo del «Notiziario Einaudi» sono elencati i 13 libri di attualità pubblicati fino a quel momento nella serie bianca: l’elenco dei titoli, ognuno corredato da due o tre righe di presentazione, reca il titolo, sicuramente di Calvino, Libri per la discussione. Continuità e discontinuità: la serie bianca prosegue un certo modo di fare editoria ma al tempo stesso intende superarlo per quanto riguarda i punti deboli: la lentezza con cui le decisioni venivano prese e realizzate, la mancanza di confronto serrato tra libri che si esprimessero in modo diverso sullo stesso argomento, l’incapacità di far convergere tutte le personalità che a vario titolo partecipavano alla vita della casa editrice intorno ad un progetto capace non di appiattire le voci diverse su uno stesso tono medio ma di accordarle in un dialogo tra pari che fosse anche un confronto aperto.

Sui fatti di Ungheria, sulle prospettive aperte dal disgelo, sul ruolo nuovo della cultura nei paesi socialisti, la casa editrice aveva pubblicato un libro nella collana dei Saggi che prometteva di avere tutte le caratteristiche per essere un «libro per la discussione»: si tratta di Socialismo e verità di Roberto Guiducci, una raccolta di scritti che nelle intenzioni dell’autore sarebbe dovuto uscire prima dell’VIII Congresso del PCI per garantirne la massima attualità e incisività. Il saggio usciva invece nel gennaio del ’57 con il commento amaro di Guiducci che a Einaudi scriveva: «Politicamente

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il libro è già in enorme ritardo. In questo modo state ammazzandolo (...) Un ritardo così sproporzionato al fatto che il volume era pronto ai primi di dicembre mi sembra fra l’altro suscitare sospetti negativi».47 Il ritardo della pubblicazione non impedirà a Giolitti di ricordare, nelle sue memorie, che Socialismo e verità aveva rappresentato, per molti intellettuali del Pci, «il valore di un messaggio, di una linea di ricerca, di tendenza, di dibattito».48 Era evidente che bisognava ridurre al minimo i tempi lunghi dell’editoria, se si volevano immettere sul mercato libri che, secondo l’espressione di Calvino, precedessero l’attualità anziché seguirla. Il libro di Fossati era stato preparato in due mesi e usciva nelle librerie italiane lo stesso giorno del libro di Guiducci. Fino al 28 novembre Einaudi si era augurato che l’uscita del reportage potesse avvenire entro dicembre. Ma la prefazione di Nenni si era fatta attendere e l’uscita era stata rimandata ai primi di gennaio: nonostante questo ritardo, Qui Budapest veniva salutato dalla stampa come «il primo libro sull’insurrezione magiara»49, «una delle testimonianze più esaurienti e obiettive che si possano avere in Italia sulle drammatiche giornate di ottobre e novembre in Ungheria»,50 «una raccolta di corrispondenze di grande interesse ed importanza non solo per il quadro obiettivo dei tragici avvenimenti che da esse risulta, ma soprattutto per cogliere, in queste osservazioni secche e apparentemente spassionate, il travaglio ideologico del socialismo italiano a contatto con fatti di valore traumatico».51

Il libro di Fossati diventa un successo editoriale per la tempestività della pubblicazione ma anche per la raffinatezza dell’analisi proposta nella quale le doti di scrittura di Fossati si accompagnano alla sottigliezza e alla profondità analitica che l’autore dimostra nell’elaborazione di

47 AE, incart. Guiducci, 23 gennaio 1957. 48 Giolitti, Lettere a Marta, p. 117.

49 Carlo Casalegno, Gli operai difesero la libertà, i sovietici l’hanno soffocata, «La Stampa», 26 gennaio 1957.

50 Recensione anonima a Qui Budapest, «Cinema nuovo», 15 febbraio 1957.

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considerazioni politiche sugli eventi ancora in corso.52 La strada per un nuovo modo di fare editoria per il presente poteva considerarsi intrapresa.

5.

La collana dei Lb nasce dunque dall’intersezione tra un passato di sperimentazioni per lo più fallimentari e un presente di domande culturali e politiche alle quali la casa editrice vuol fornire risposte efficaci e rapide. Ma sull’orizzonte del ’56 si addensano altri fattori che concorrono a determinare un rinnovamento della struttura editoriale einaudiana. Infatti, la nuova fase politica che gli eventi ungheresi avevano prodotto veniva a coincidere con un momento della storia della casa editrice che, per ragioni diverse, era percepito come svolta rispetto al passato. Negli ultimi mesi del ’56 diventa improcrastinabile la ricerca di una soluzione alla crisi economica della casa editrice che si protraeva da ormai da due anni: nel ’57 si giunge così alla decisione dolorosa di cedere a Paolo Boringhieri le Edizioni Scientifiche Einaudi, e a Mondadori il diritto di ripubblicare per dieci anni i titoli del catalogo Einaudi in edizione economica.53

52

Scrive ad esempio Fossati: «Il carattere popolare della sollevazione ungere è innegabile, e se vi è stato uno slittamento a destra, e se vi è stata una rottura improvvisa col blocco orientale (che ha segnato, per le conseguenze di tipo politico e militare che poteva provocare, al fine del governo di coalizione Nagy) è perché sin dal principio gli avvenimenti non sono stati compresi nella loro realtà, interpretati come avrebbero dovuto essere. Ciò pone delle responsabilità che dovranno essere esaminate in sede politica, a fondo, senza compromessi di giudizio.» Per Fossati la scrittura diventa il mezzo attraverso cui operare una scelta di campo, in senso politico-ideologico ma prima ancora, in senso morale: «Mentre vi trasmetto le ultime note stese durante la battaglia della capitale ungherese, desidero fare una sola precisazione: in questi venti giorni pieni di orrori e violenze, ho parlato con molti operai, con studenti di Budapest. Non ho confuso i loro volti con quelli dei provocatori di marca fascista. Questi lavoratori, questi studenti, mi hanno raccomandato di raccontare esattamente i fatti di cui ero stato testimone diretto. Ho cercato di mantenermi fedele all’impegno, nel limite delle mie forze: l’ho ritenuto, in un momento tanto doloroso, un obbligo morale» (Fossati, Qui Budapest, p. 11).

53 Enrico Decleva, Arnoldo Mondadori, Mondadori, Milano 2007, ricostruisce così la vicenda della cessione: «Per ridurre la passività, Einaudi dovette scorporare l’intera sezione scientifica, ceduta per 35 milioni a Paolo Boringhieri. Ma l’introito maggiore (100 milioni in forma di anticipo) glielo assicurò l’editore milanese, che in cambio acquisì appunto il diritto ad uno sfruttamento decennale nelle sue collane economiche di un certo numero di opere eianudiane a scelta. La debolezza più seria, in qualche modo strutturale, della casa editrice torinese era rappresentata dall’inadeguatezza del suo capitale in rapporto alla mole dei suoi impegni e delle sue ambizioni, con il conseguente inevitabile ricorso all’indebitamento estero.» (p. 448).

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La difficile situazione finanziaria, che le cessioni a Boringhieri e Mondadori non hanno risolto ma solo arginato, imponeva una revisione del progetto editoriale della casa anche per contrastare la concorrenza sul mercato delle altre case editrici e in particolare della giovane Feltrinelli che si rivolgeva ad un pubblico culturalmente e politicamente affine a quello a cui si rivolgeva Einaudi.

Il ’56 si definisce come anno spartiacque per la storia dell’Einaudi: l’anno era stato inaugurato dalla pubblicazione di un Catalogo generale delle edizioni Einaudi 1956, che era diventato l’occasione per ripensare il senso della propria storia come casa editrice ma anche, inevitabilmente, considerare i limiti del proprio lavoro e le potenzialità inespresse a cui si doveva e si voleva porre rimedio: il Catalogo, che rileggeva la storia della casa editrice dalla sua fondazione al primo gennaio 1956 attraverso brevi introduzioni alle singole collane di cui venivano riprodotti i titoli, era introdotto da uno scritto di Giulio Einaudi in cui venivano rivendicate con fierezza le linee di continuità di cui era intessuta la storia ventennale della casa editrice. Ma il Catalogo era anche lo specchio in cui si riflettevano le discontinuità nel lungo periodo della struttura del piano editoriale imperniato sulle collane: delle 40 di cui il Catalogo dava conto, solo una ventina erano era ancora attive nel ’56.54

Giulio Einaudi ha sintetizzato il rapporto tra struttura del progetto editoriale e mutamento dei contesti storici, politici e culturali in cui l’attività editoriale si è mossa:

All’Einaudi la collanologia è stata materia di studio continuato. Non è mai finito il corso di collanologia che si ripete ad ogni scadenza esterna e interna. Primo di tutto, ogni momento storico di crisi corregge la collanologia: fascismo, dopoguerra, Ungheria, sessantotto, centofiori, terrorismo, muro di Berlino eccetera: ognuno di questi momenti ha segnato il tempo in cui si scompigliavano e ristudiavano freneticamente le collezioni.55

54 Le collane avviate negli anni trenta e ancora attive nel ’56 sono solo 5, di cui le uniche 2 non letterarie sono la “Biblioteca di cultura storica” (dal 1935) e i “Saggi” (dal 1937); tra le collane nate negli anni quaranta, prima del ’45 resiste fino al ’56 solo la “Universale Einaudi”, mentre tra le collane del dopoguerra, escludendo quelle letterarie, resistono la “Biblioteca di cultura filosofica” (dal 1945 al ’56 diciannove titoli); “Scrittori di storia” (dal 1951 al 1960 sette titoli); “Collana storica di architettura” (dal 1949 al 1964 sette volumi); “Classici dell’economia” (dal 1954 al 1960 tre titoli); “Classici della filosofia” (dal 1955 al 1960 quattro titoli); “Studi e ricerche” (dal 1955 al 1963 venti titoli).

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Nel ’56, dunque, “l’Ungheria”, la crisi economica, la concorrenza di una giovane casa editrice come Feltrinelli che aveva inaugurato la sua attività con una collana intitolata Attualità molto attraente per un pubblico di lettori giovani, determinano le coordinate del contesto in cui la nuova collana di attualità veniva pensata e subito realizzata.

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