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La sentenza n. 269 del 2017

e il concorso di rimedi giurisdizionali costituzionali ed europei di Diletta Tega *

(24 gennaio 2018)

(in corso di pubblicazione in “Quaderni costituzionali”, 2018)

L’ampio e già molto discusso obiter contenuto nel punto 5 del Considerato in diritto della decisione n. 269/2017 segnala una fase nuova e più matura del lungo percorso che ha visto la Corte costituzionale cimentarsi prima con il diritto Ue e, poi, con il sistema CEDU. I giudici costituzionali hanno affinato in questo lasso di tempo la conoscenza della giurisprudenza e dei meccanismi in base ai quali le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo operano; hanno sviluppato una consapevolezza critica, ma non ostile, nei confronti del contenuto e dell’interpretazione della CEDU e della Carta di Nizza; last but not least hanno ridefinito il dialogo con i giudici comuni.

La sentenza che si commenta ha rassicurato, innanzitutto, il pubblico italiano, ribadendo l’obbedienza ai principi del primato e dell’effetto diretto del diritto Ue; ha riconosciuto che la Carta di Nizza è parte del diritto Ue e ha un contenuto di impronta tipicamente costituzionale; ha dimostrato di essere conscia che i giudici ordinari sono liberi di sottoporre alla Corte Ue qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria in qualunque fase del procedimento così come al termine del procedimento incidentale; ha ribadito l’affermazione contenuta nella giurisprudenza Ue in base alla quale i giudici possono «adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione»; che, infine, è ben consapevole anche del fatto che i giudici possono disapplicare, al termine del giudizio incidentale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto Ue. Tutti punti in linea con la giurisprudenza della Corte Ue, menzionata nella sentenza n. 269, nonché con le sentenze del 4 giugno 2015, Kernkraftwerke Lippe-Ems, C-5/14, e, da ultimo, con la decisione 20 dicembre 2017, causa C-322/16, Global Starnet Ltd c. Ministero dell’Economia e delle Finanze e Amministrazione Autonoma Monopoli di Stato (cfr. i punti 21-25; evidenzia invece un possibile conflitto latente con la posizione della Corte costituzionale A. Ruggeri, Ancora in tema di congiunte violazioni della Costituzione e del diritto dell’Unione, dal punto di vista della Corte di giustizia, in www.diritticomparati.it, con rinvio ai precedenti scritti con cui, ivi, si era già occupato criticamente della decisione n.

269), in risposta a quesiti provenienti da Francia, Austria, Germania.

Si può dire che l’obiter rassicuri parimenti anche il giudice di Lussemburgo? Non è cer- to. Non lo è perché la Corte Ue ha affermato che, a norma dell’art. 267 TFUE, il canale di comunicazione tra il giudice comune e la Corte Ue deve restare libero (il giudice comune non può in alcun modo essere impedito nell’esercizio del facoltà, o nell’adempimento del - l’obbligo, di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia) e che non sono am- messe interferenze nemmeno per effetto di norme interne che prevedano procedimenti in- cidentali di controllo della legittimità costituzionale delle leggi e ad essi attribuiscano carat- tere prioritario (il rinvio pregiudiziale deve essere possibile anche prima che sia sollevata la questione di legittimità costituzionale: decisione Melki e Abdeli, C-188 e 189/10, sp. §§

42, 52, 57).

Quanto si è appena precisato spinge a maggior ragione a chiedersi che cosa rappre- senta questa pronuncia, ma ancor prima occorre dire che cosa non è.

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La pronuncia n. 269 non vuole essere un attacco alla cd. pregiudizialità comunitaria:

l’applicazione di questa dottrina rimane pacifica – come dimostrano, da ultimo, l’ordinanza n. 48 e la decisione n. 111, entrambe del 2017 – tutte le volte in cui le norme interne contrastano con norme europee provviste di effetti diretti, come la libera circolazione dei servizi e la parità di retribuzione tra uomini e donne. La Corte costituzionale sviluppa quell’atteggiamento di cooperazione che aveva già adombrato in precedenti pronunce anche grazie all’attuale consapevolezza di un gruppo di giudici costituzionali che siedono contemporaneamente nell’organo.

Dunque che cosa è?

Senza dubbio è un chiaro richiamo all’ordine per i giudici comuni: quando sul tavolo ci sono diritti costituzionali, e non classiche libertà economiche del diritto UE, è opportuno rivolgersi, in primo luogo, al giudice costituzionale. Il richiamo all’ordine emerge, in primo luogo, nel passaggio in cui si afferma che, «laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria», il giudice deve rivolgersi a Palazzo della Consulta. A quanto pare, la Corte costituzionale non nega, in teoria, che ai diritti sanciti dalla Carta di Nizza possano essere riconosciuta anche efficacia diretta, ricorrendone i presupposti; richiede, però, di essere interpellata, prima, per essere parte del processo interpretativo. Gli esatti termini, anche pratici, del coordinamento tra queste due proposizioni si chiariranno meglio se e quando l’obiter riceverà concreta applicazione.

Perché fare un tale richiamo?

Sin dall’inizio della sua attività la Corte italiana ha perseguito con successo la tutela dei diritti inviolabili: il ricorso in via incidentale è stato lo strumento con cui – in un ordinamento in cui non è previsto il ricorso individuale – si è avuto modo di raggiungere tale risultato. Invero, negli anni ’90 del secolo scorso la richiesta ai giudici comuni di svolgere la cd. interpretazione conforme ha avuto come effetto collaterale quello di alimentare il rischio un allontanamento della Corte costituzionale dal tema dei diritti, attraverso altri circuiti di garanzia, sebbene le ragioni di tale vulnus siano, in realtà, composite: i) l’esplosione del successo della Corte EDU grazie all’introduzione del ricorso individuale con il Protocollo 11 del 1998; ii) la proclamazione, nel 2000, della Carta dei diritti di Nizza ed il riferimento ad essa da parte della giurisprudenza della Corte Ue (giurisprudenza che sembra volere assicurare un certo grado di effettività ai diritti della Carta – vedi da ultimo il bilancio che annuale ne ha fatto D. Sarmiento, Goodbye 2017, in https://despiteourdifferencesblog.wordpress.com/ – ma è ancora lontana da scenari problematici, in cui potrebbe richiedersi la disapplicazione di norme interne in nome di quei diritti, magari su punti in cui essi divergono dalle corrispondenti previsioni delle Costituzioni nazionali); iii) sul versante nazionale, nel 2001, la riformulazione dell’art. 117, primo comma, Cost.; iv) nel 2007, le cd. sentenze gemelle; v) in conclusione, lo sviluppo di una protezione integrata dei diritti, sebbene ancora in nuce, esemplarmente fotografata dalla sentenza n. 80/2011, in cui si è riconosciuto che la tutela dei diritti nell’ambito della UE

«deriva (o deriverà) da tre fonti distinte: in primo luogo, dalla Carta dei diritti fondamentali […], che l’Unione «riconosce» e che «ha lo stesso valore giuridico dei trattati»; in secondo luogo, dalla CEDU, come conseguenza dell’adesione ad essa dell’Unione; infine, dai

«principi generali», che – secondo lo schema del previgente art. 6, paragrafo 2, del Trattato – comprendono i diritti sanciti dalla stessa CEDU e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri».

É proprio nel momento in cui la protezione dei diritti oltre i confini nazionali giunge ad un primo sviluppo che la Corte italiana mette a fuoco la diversità tra il proprio ruolo e quello delle altre istanze di garanzia, sia pure nel perseguimento di un medesimo obiettivo, e paventa un rischio sempre più concreto che si restringano le proprie occasioni per

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mettere bocca: la tutela giurisdizionale dei diritti rischia cioè di esaurirsi, con sempre maggiore frequenza, in un dialogo esclusivo tra giudice comune e giudice europeo, con il giudice costituzionale alla finestra.

É per prevenire questo scenario che progressivamente, la giurisprudenza costituzionale – che culmina con la pronuncia n. 269 – mette in campo una triplice azione:

i) si allenta l’attenzione sul requisito dell’esercizio dell’interpretazione conforme; ii) si ricorda ai giudici comuni come maneggiare le pronunce europee; iii) ci si apre al confronto con le Corti europee. La posizione espressa nella decisione in commento sembra collocarsi in un indirizzo tutto sommato sviluppatosi secondo una logica riconoscibile: la Corte italiana rivendica il diritto di essere parte della tutela del diritto in discussione. Per fare ciò nel migliore dei modi, deve ritagliarsi un ruolo che le dia la prima parola (cfr. A Guazzarotti, in questa Rivista), consentendole cioè di spiegare il diritto italiano vigente; di evidenziare i principi e i valori costituzionali in gioco; di segnalare sia i deficit di protezione nazionale che i principi fondamentali emergenti dall’ordinamento costituzionale cui non si può abdicare.

In questa ottica si può leggere l’evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale.

Per quanto concerne i rapporti con la Corte Ue, già nella pronuncia n. 80/2011 si registra un primo passo. Da un lato, la Corte esclude «che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione europea, come, del resto, ha reiteratamente affermato la Corte di giustizia, sia prima […] che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona […]». Dall’altro, la Corte ricorda che «Presupposto di applicabilità della Carta di Nizza è, dunque, che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto». Negli stessi anni si situano i tre rinvii pregiudiziali, in giudizi in via principale (ord. n. 103/2008) e in via incidentale (ordd. nn. 207/2013 e 24/2017). Seppure tardivamente essi si sono rivelati strumentali ad aprire le comunicazioni con Lussemburgo:

dapprima in un caso di tassazione discriminatoria, poi in uno di diritti dei lavoratori, cd.

caso Mascolo, ed infine sul cd. caso Taricco. Proprio con quest’ultimo si è mostrato come il canale di comunicazione possa funzionare non solo per ricevere, ma anche per trasmettere alla Corte di giustizia i problemi costituzionali che pongono talune decisioni.

Anzi, sembra proprio questo il caso cui la Corte costituzionale, nella decisione n. 269, accenna quando spiega al giudice comune come districarsi nei casi di doppia pregiudizialità. E alla reazione della Corte Ue ci si riferisce sia quando si afferma: «I principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri). Sicché può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione, come è accaduto da ultimo in riferimento al principio di legalità dei reati e delle pene (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 5 dicembre 2017, nella causa C-42/17, M.A.S, M.B.)»; così come quando si ribadisce che, il giudice costituzionale affronta la questione alla luce dei parametri interni ed europei, secondo l’ordine di volta in volta appropriato, «anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali».

Evidentemente i giudici di Palazzo della Consulta tengono al loro ruolo di viva vox constitutionis anche quando si tratta di illustrare all’Europa ciò che non solo dà struttura all’identità nazionale italiana, ma contribuisce a conformare gli stessi diritti fondamentali come principi generali del diritto Ue (artt. 4, § 2, e 6, § 3, TUE).

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Per quanto riguarda i rapporti con la Corte di Strasburgo, si va, con le dovute differenze, nella stessa direzione. La giurisprudenza costituzionale che ha precisato, limato, in parte anche ridotto, la storica apertura fatta dalle cd. sentenze gemelle è stata, al netto di qualche affermazione forse sopra le righe, utile alla medesima causa: ha evidenziato le difficoltà sottese alle decisioni della Corte EDU che spesso mal si prestano a essere generalizzate mediante dichiarazioni d’incostituzionalità (basti pensare alla giurisprudenza sulle cd. pensioni svizzere, dalla sentenza n. 264/2012 alla più recente n.

166/2017) e ha maturato la consapevolezza che la giurisprudenza CEDU è naturalmente casistica e qualche volta stenta a esprimersi in indirizzi chiari sul piano dei principi (decisione n. 49/2015). In numerose sentenze (cfr. M. Cartabia, P. Faraguna, M. Massa, D.

Tega, Developments in Italian constitutional law: The year 2016 in review, in International Journal of Constitutional Law, 2017, 763 ss.), traspare un duplice sforzo della Corte costituzionale: evidenziare all’interlocutore europeo, che si prevede possa interessarsi di un dato caso, i principi costituzionali e le ragioni che stanno dietro a un determinato assetto dell’ordinamento italiano (ad esempio, sentenza n. 276/2016, sulla cd. legge Severino alla luce dell’art. 7 CEDU); capire esattamente cosa la Corte EDU ha inteso affermare, in modo da scoraggiare le tendenze talora emergenti ad assolutizzare o semplificare le decisioni di Strasburgo. Quest’ultimo impegno si dirige chiaramente anche nei confronti dei giudici comuni: sono alleati indispensabili per portare a compimento la strategia in cui si inserisce la decisione n. 269; anche la pronuncia n. 49 ha fatto parte del messaggio che la Corte costituzionale ha voluto inviare loro; di sicuro sono chiamati a riflessioni, scelte e responsabilità particolarmente gravose.

Tenuto conto di tutto ciò, si può concludere che la Corte costituzionale è sincera quando afferma che agisce in «un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia (da ultimo, ordinanza n. 24 del 2017), affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico (art. 53 della CDFUE)». È attraverso questo tipo di atteggiamento che si può avere un dialogo genuino, certo non sempre irenico, con i colleghi europei – che tra loro tanto irenici poi non sono, come dimostra la vicenda della mancata adesione della Ue alla CEDU.

* Professoressa di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Bologna.

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