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LA FILIAZIONE DOPO LA RIFORMA

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SCUOLASUPERIOREDELLAMAGISTRATURA Ufficio dei Magistrati Referenti per la Formazione Decentrata

presso la CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

LA FILIAZIONE DOPO LA RIFORMA

Roma, 14 novembre 2013

Il presente intervento è finalizzato a meramente esporre alcune soluzioni che il Tribunale di Milano ha inteso adottare nell’ambito dei primi procedimenti portati al suo esame dopo l’entrata in vigore della Legge 10 dicembre 2012, n. 219: lungi dal perseguire l’obiettivo di una ricostruzione sistematica, approfondita e giuridicamente completa delle tante problematiche che il nuovo testo normativo ha originato, rappresenta dunque solo un tentativo di iniziale riordino degli aspetti più controversi che il giudice di merito si è trovato già nell’immediatezza ad affrontare, così da consentire l’apertura di una comune riflessione e di un dibattito tra tutti gli operatori, nella convinzione che solo attraverso un confronto aperto e costruttivo sia possibile giungere a delineare soluzioni condivise.

Attraverso le decisioni in questa sede riportate sarà anche agevole comprendere come lo spirito che, nel rispetto di un dettato normativo non sempre chiaro e talvolta francamente disorientante, ha contraddistinto le scelte interpretative e applicative sia stato quello di perseguire un’effettiva equiparazione tra i figli nati o meno da coppia coniugata anche, tendenzialmente, sotto il profilo del trattamento processuale, quanto a dire per quell’aspetto che il Legislatore del 2012 sembra avere ancora una volta trascurato; pari rilievo è stato accordato all’esigenza di garantire un procedimento il più possibile celere e semplificato, dove al pieno e ineludibile rispetto del principio del contraddittorio si accompagnano una valorizzazione dell’attività conciliativa del giudice e un fermo richiamo alla responsabilità dei genitori di adoperarsi per il superamento della conflittualità, utilizzando la sede processuale per favorire la ricostituzione fra loro un canale di comunicazione e auspicabilmente raggiungere un assetto relazionale realmente conforme al bisogno di stabilità che rappresenta una delle garanzie per il positivo percorso evolutivo del minore.

1.PREMESSA

La legge 10 dicembre 2012 n. 219 ha introdotto modifiche di diritto sostanziale e processuale nella delicata materia della protezione del minore, in particolare intervenendo sullo status dei figli cd. naturali, rimuovendone il diversificato trattamento normativo in ragione della nascita in una unione non suggellata dal matrimonio: quanto rappresentava, da ormai troppo tempo, una compromissione della euritmia del sistema. Le nuove norme – anche per il travagliato iter parlamentare – hanno sin da subito posto importanti problemi interpretativi involgenti, in particolare, le nuove disposizioni procedimentali. Come noto, il dubbio circa l’esatta portata applicativa ed il corretto perimetro ermeneutico di una norma di diritto processuale si traduce in un più difficile accesso alla tutela giurisdizionale, finanche con il rischio di pronunce di arresto del processo in rito, effetto fortemente inopportuno in un settore delicato come quello del diritto di famiglia. In attesa dell’intervento del legislatore – di completamento del nuovo assetto normativo (art. 2, l.

219/2012) – e delle prime pronunce chiarificatrici della giurisprudenza di legittimità, la Sezione ha svolto alcune riflessioni interpretative con riguardo a molte delle questioni processuali di maggiore rilievo, al fine di condividere, con gli operatori del diritto di famiglia, un primo approccio ermeneutico al nuovo assetto procedimentale onde consentire

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agli stessi di evitare i rischi delle incertezze interpretative, in questa prima delicata fase di formazione di un diritto vivente stabile. Le proposizioni interpretative contenute nei primi provvedimenti dei giudici della Sezione non hanno la funzione di rappresentare – utilizzando la felice espressione del Pres. Giovanni Canzio – delle «gabbie della ragione»

nel senso che non creano un vincolo né per i giudici e nemmeno per gli Avvocati: questi ultimi, in particolare, restano liberi di coltivare, nel singolo processo, le proprie idee circa l’esatta portata di una specifica disposizione, potendo contare sul dialogo con il magistrato.

Dove, tuttavia, ritenessero di accogliere le proposte qui segnalate, allora certamente potrebbero beneficiare di un clima interpretativo “condiviso” in cui, in attesa dell’evoluzione giurisprudenziale e normativa, i diritti vengono assistiti da certezza nell’applicazione della norma processuale, così tutelando l’interesse primario della parte sostanziale a una decisione nel merito.

2.DIVERSITÀ DEI MODELLI PROCESSUALI

Per i figli nati da matrimonio, il rito previsto dal Legislatore è quello ordinario con passaggio imposto attraverso la fase presidenziale; per i figli nati fuori dal matrimonio, invece, il rito è quello camerale puro ex art. 737 c.p.c. Si tratta, invero, dello stesso rito che si applica anche ai figli matrimoniali in caso di modifica delle condizioni di separazione o divorzio; ne consegue che il modello processuale diversificato nelle procedure separative o divorzili si giustifica per il fatto che, in quest’ultime, le questioni relative ai minori si cumulano con quelle relative allo status dei coniugi così prevalendo il rito ordinario. Non si intravede, dunque, allo stato, una differenza irragionevole sospettabile di incostituzionalità.

La Sezione ha comunque inteso seguire un percorso di tendenziale omologazione del trattamento processuale delle due tipologie di procedimenti, nel senso che 1) nei procedimenti contenziosi vi è l’orientamento all’adozione di misure provvisorie dopo la realizzazione del contraddittorio, sulla base della sentita esigenza che anche le coppie non coniugate possano fruire di una regolamentazione interinale in pendenza del giudizio di merito, 2) nei procedimenti promossi con ricorso congiunto non viene di norma fissata l’udienza per la comparizione dei genitori, sulla base dell’osservazione che non deve essere espletato alcun tentativo di conciliazione (perché la convivenza cessa ad nutum) e l’adeguatezza delle condizioni inerenti ai minori può essere valutata – almeno nella maggioranza dei casi – senza interpellare le parti a chiarimenti.

In quest’ultimo caso il collegio decide in camera di consiglio e provvede in conformità al ricorso, del quale si chiede la trasmissione al giudice relatore via mail, secondo un modello adottato da ormai circa due anni per le modifiche congiunte delle condizioni di separazione (art. 710 c.p.c.) o divorzio (art. 9 legge n. 898/1970 e successive modificazioni).

La Sezione ha giudicato ammissibili i provvedimenti interinali provvisori poiché il procedimento non li nega espressamente e poiché è prevalente l’interesse del minore ad una immediata regolamentazione dei suoi rapporti con i genitori, al fine di evitare che la situazione di «incertezza di diritti e doveri dei genitori non coniugati» determini una gestione confusa e irrazionale degli interessi della prole. Nemmeno può ritenersi che le parti restino sfornite di strumenti di tutela giuridica, essendo sempre ammesso sollecito per la modifica o la revoca (742 c.p.c.) o comunque istanza per la revisione (155-ter c.c.). La sezione ha ritenuto, peraltro, che gli strumenti di tutela avverso i provvedimenti provvisori si esauriscano nell’ambito del procedimento di merito in corso, mediante la richiesta al giudice che li ha emessi di esercitare il suo jus poenitendi (in analogia a quanto avviene con l’art.

177 c.p.c.; facoltà ammessa dall’art. 742 c.p.c.). Ha, invece, escluso l’ipotesi del reclamo dinanzi al Giudice superiore, trattandosi di statuizioni prive di decisorietà e, soprattutto,

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dovendosi ritenere prevalente l’interesse del nucleo familiare alla stabilità delle misure interlocutorie provvisoriamente assunte. Sul punto, può ricordarsi come la Consulta (da ultimo v. Corte Costituzionale – sentenza 20 luglio 2007 n. 306; ma v. anche sentenza n. 65 del 1996) ha escluso che possa ritenersi manifestamente irragionevole una disciplina che

“stabilizza”, fino all'esito del giudizio di merito, il provvedimento interlocutorio medio tempore assunto (pronuncia resa in materia di art. 648 c.p.c., ma di interesse per il principio enunciato).

Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 10 luglio 2013

FAMIGLIA DI FATTO NON FONDATA SUL MATRIMONIO CONTROVERSIE GENITORIALI ART.317-BIS C.C.–PROVVEDIMENTI PROVVISORI –AMMISSIBILITÀ - SUSSISTE (Artt. 317-bis c.c., 737 c.p.c.)

In materia di controversie genitoriali ex art. 317-bis c.c., nel rito camerale ex artt. 737 c.p.c., 38 disp. att. c.c., è certamente ammissibile una statuizione interinale, poiché il procedimento non la nega espressamente e poiché è prevalente l’interesse del minore ad una immediata regolamentazione dei suoi rapporti con i genitori, al fine di evitare che la situazione di «incertezza di diritti e doveri dei genitori non coniugati» determini una gestione confusa e irrazionale degli interessi della prole. Nemmeno può ritenersi che le parti restino sfornite di strumenti di tutela giuridica, essendo sempre ammesso sollecito per la modifica o la revoca (742 c.p.c.) o comunque istanza per la revisione (155-ter c.c.).

3.COGNOME PATRONIMICO (ART.262 C.C.)

Secondo taluni Autori, l’entrata in vigore della l. 219/2012 precluderebbe al genitore, che riconosce solo successivamente il figlio nato fuori dal matrimonio, di sostituire il proprio cognome patronimico a quello attribuito originariamente dalla madre. Guardando, tuttavia, alla sentenza Corte cost. n. 297/1996, la Sezione ha ritenuto che i genitori – salva la valutazione di competenza del giudice – possano proporre che il cognome patronimico sia aggiunto a quello della madre (prima o dopo lo stesso) o interamente sostituito a quest’ultimo. De jure condendo, così si orienta il Legislatore nel progetto di attuazione della delega di cui all’art. 2 l. 219/12 in cui il nuovo art. 262 c.c. espressamente prevede che “il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre” (v. Commissione per lo studio e l’approfondimento di questioni giuridiche afferenti la famiglia e l’elaborazione di proposte di modifica alla relativa disciplina – cd. Commissione Bianca. Relazione conclusiva del 4 marzo 2013). In tempi recenti, peraltro, questa lettura ermeneutica ha ottenuto il favore della Corte di Cassazione che, con la decisione Cass. Civ., sez. I, 27 giugno 2013 n. 16271 (Pres. Di Palma, rel.

Campanile) ha affermato che «in tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, la scelta del giudice non può essere condizionata né dal "favor" per il patronimico, né dall'esigenza di equiparare il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dall'art. 262 cod. civ., che presiedono all'attribuzione del cognome al figlio legittimo» (v.

anche: Cass., 29 maggio 2009, n. 12670; Cass. 3 febbraio 2011, n. 2644).

Attualmente i ricorsi ex art. 262 c.c. vengono presentati dai genitori presso la cancelleria della Volontaria Giurisdizione, assegnati al Settore Famiglia della Sezione IX Civile e definiti con decreto che di norma accoglie l’istanza, secondo le scelte effettuate dai genitori in merito al cognome del minore dai medesimi riconosciuto in tempi diversi, fatta

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naturalmente salva la possibilità di una difforme valutazione dell’interesse del figlio e la conseguente opportunità di disporre la comparizione personale dei genitori per fornire chiarimenti e illustrare le ragioni sottese alla loro richiesta.

4.DICHIARAZIONE GIUDIZIALE DI PATERNITÀ (ART.269 C.C.)

La pronuncia ex art. 269 c.c. è ora di competenza del Tribunale Ordinario anche in caso di minori di età. La modifica, secondo i primi precedenti di merito, avrebbe comportato l’applicabilità, alle procedure de quibus, del rito ordinario (v. Trib. Varese, sez. I, ordinanza 22 marzo 2013; Trib. Velletri, sez. civ., ordinanza 8 aprile 2013), secondo una lettura interpretativa condivisa dalla dottrina. Originariamente, la competenza per la dichiarazione giudiziale di paternità era concentrata interamente dinanzi al Tribunale ordinario che applicava il rito ordinario. L’art. 68 della legge n. 184/1983 ha, successivamente, modificato il primo comma dell'art. 38 disp. att. c.c., attribuendo la competenza per materia al Tribunale per i Minorenni sulle controversie di paternità e maternità naturale previste dall'art. 269, comma 1 c.c., relative a minori. La legge 10 dicembre 2012 n. 219 ha eliminato la innovazione a suo tempo introdotta dall’art. 68 legge citata e, conseguentemente, rimosso la

«deroga» che quella norma aveva previsto: ne consegue che è stato ripristinato il regime giuridico anteriore all’entrata in vigore della legge n. 184/1983. La conseguenza fisiologica è, allora, che – per effetto della Legge 219/2012 – adesso l’azione ex art. 269 c.c., anche in caso di minori, deve seguire il modello processuale ordinario e non quello camerale. In caso di introduzione del rito nelle forme erronee, il giudice potrà disporre il mutamento del rito ai sensi dell’art. 4, comma I, del d.lgs. 1 settembre 2011 n. 150.

Trib. Milano, sez. IX civ., ordinanza 29 aprile 2013

DICHIARAZIONE GIUDIZIALE DI PATERNITÀ PROCEDIMENTO RELATIVO A FIGLIO MINORE DI ETÀ MODIFICA DELLART. 38 DISP. ATT. C.C. AD OPERA DELLA LEGGE 219/2012 COMPETENZA DEL TRIBUNALE ORDINARIO RITO APPLICABILE RITO CAMERALE –ESCLUSIONE RITO ORDINARIO SUSSISTE ERRONEA INTRODUZIONE DEL RITO MUTAMENTO DEL RITO -SUSSISTE

In virtù della nuova formulazione dell’art. 38 disp. att. c.c., per effetto della legge 10 dicembre 2012 n. 219, la competenza sull’art. 269 c.c., anche in caso di minori, è del Tribunale ordinario e conseguentemente il rito applicabile è quello di cognizione ordinaria ex artt. 163 e ss. c.p.c. La legge 219/2012, infatti, ha rimosso la deroga al rito ordinario che era stata introdotta dall’art. 68 della legge 184- 1983 così ripristinando la norma generale di cui all'art. 9, comma II c.p.c. Dove il rito sia stato introdotto erroneamente con ricorso invece che con citazione, il giudice può mutare ex officio il rito ex art. 4 d.lgs. 150/2011 con contestuale ordine di integrazione degli atti.

Anche dopo la modifica introdotta dalla l. 219/12, resta ferma la competenza territoriale del foro di residenza del convenuto. Secondo la sezione (v. Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 26 giugno 2013) in materia di azione ex art. 269 c.c., la competenza si radica nel luogo di residenza del convenuto (Cass. Civ. 1373/1992, Sez. Un.; Cass. Civ., 11021/1997: precedenti che si richiamano ex art. 118 disp. att. c.p.c.), non rintracciandosi, peraltro, nel codice di rito, un foro del “concepimento” e nemmeno potendosi ritenere prevalente la tutela del minore, in quanto la causa ha ad oggetto la paternità biologica che, se accertata, legittima le domande nell’interesse della prole, per le quali, sì, opera il foro di residenza del minore (es. 317-bis c.c., 38 disp. att. c.p.c.).

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5 5.AUDIZIONE DEI MINORI (ART.315-BIS C.C.)

Ai sensi dell’art. 315-bis comma III c.c., il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. Secondo taluni commentatori, la norma avrebbe imposto l’obbligo dell’audizione dei minori finanche nelle procedure consensuali.

La Sezione non intende discostarsi dalla lettura offerta dalla CJUE (v. Corte di Giustizia UE, sez. I, sentenza 22 dicembre 2010 n° C-491/10, Zarraga): «pur rimanendo un diritto del minore, l’audizione non può costituire un obbligo assoluto, ma deve essere oggetto di una valutazione in funzione delle esigenze legate all’interesse superiore del minore»;

l’audizione, cioè, passa per una valutazione del giudice e può essere esclusa in ragione del possibile pregiudizio che potrebbe arrecare al fanciullo (Cass. Civ., sez. I, sentenza 15 marzo 2013 n. 6645). Si tratta, dunque, di un diritto del minore e non di un obbligo incondizionato per il giudice. De jure condendo, così si orienta il Legislatore nel progetto di attuazione della delega di cui all’art. 2 l. 219/12 in cui il nuovo art. 336-bis c.c., rubricato “ascolto del minore”, espressamente prevede che “se l’ascolto è in contrasto con l’interesse del minore, o manifestamente superfluo, il giudice non procede all’adempimento dandone atto con provvedimento motivato” (v. Commissione per lo studio e l’approfondimento di questioni giuridiche afferenti la famiglia e l’elaborazione di proposte di modifica alla relativa disciplina – cd. Commissione Bianca. Relazione conclusiva del 4 marzo 2013).

Trib. Milano, sez. IX civ., ordinanza 30 aprile 2013

AUDIZIONE DEL MINORE ART. 315-BIS C.C.- LEGGE 219/2012 RAPPORTI CON LART.155-SEXIES C.C.– AUDIZIONE OBBLIGATORIETÀ –ESCLUSIONE

(art. 315-bis c.c.)

La Legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha inserito, nel codice civile, il nuovo art.

315-bis in cui si prevede, al comma II, che “il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano”. L’art.

155-sexies c.c. tratteggia il «dovere» del giudice di ascoltare il minore; l’art.

315-bis c.c. delinea il «diritto» del minore ad essere ascoltato dal giudice, così guardando al fanciullo non come semplice oggetto di protezione ma come vero e proprio soggetto di diritto, a cui va data voce nel momento conflittuale della crisi familiare. Diritto del minore all’audizione e Dovere del giudice di dargli voce non sono, tuttavia, enunciati assoluti su cui non possa innestarsi una valutazione del giudicante: e, infatti, in linea di principio, certamente l’audizione va esclusa dove essa non sia utile risultando superflua (es. separazioni consensuali) oppure dove l’incombente rischi di pregiudicare l’equilibrio psico-fisico del fanciullo.

6.ESERCIZIO DELLA POTESTÀ DEI GENITORI NON UNITI DA MATRIMONIO (ART.317-BIS C.C.): RICORSO CD. CONGIUNTO

In materia di famiglia di fatto, non fondata sul matrimonio, non essendo le parti legate da vincolo di coniugio è incontroverso come la cessazione del rapporto possa avvenire ad nutum, ovvero senza necessità per l’autorità giudiziaria di accertare il carattere irreversibile della crisi del rapporto attraverso l’espletamento di tentativo di conciliazione. Tale considerazione rende, quantomeno in linea di principio e fatte salve eventuali difformi valutazioni di opportunità, superflua la personale comparizione delle parti in caso di

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presentazione di un ricorso congiunto ex art. 317-bis c.c., atteso che l’esame del Tribunale risulta elettivamente diretto alla verifica dell’adeguatezza degli accordi raggiunti all’interesse della prole minore, alla luce del disposto normativo di cui all’art. 155, comma secondo, c.c. (“Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole”) nel testo introdotto dalla Novella n. 54/2006, applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati (art. 4, comma secondo, legge citata).

Così, Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 20 febbraio 2013.

In materia di ricorsi congiunti ex art. 317-bis c.c., la sezione ha puntualizzato che la domanda giudiziale non può essere presentata al solo fine di introdurre un intervento giudiziale in seno ad un dissidio familiare insorto tra i partners. L’intervento giudiziale si giustifica per l’interesse di una o di entrambe le parti a comporre un conflitto genitoriale, insorto nell’ambito della famiglia non disgregata (es. art. 145 c.c.) oppure in concomitanza con l’erosione del vincolo affettivo (es. 317-bis c.c.). L’elemento che legittima il ricorso al giudice – e che dunque disvela l’interesse ad agire (100 c.p.c.) – è, allora, la fine del legame affettivo e la disgregazione dell’unità familiare, al cospetto della quale è ammissibile un ricorso congiunto dei genitori, affinché il Tribunale convalidi le scelte da essi operate nell’interesse della prole, se del caso anche de plano (v. Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 20 febbraio 2013). In altri termini, l’allegazione che rende ammissibile il ricorso congiunto dei genitori - ex art. 317-bis c.c. - non è quella concernente il fatto che non siano sposati o non convivano (avendo residenza separata) bensì l’elemento indefettibile della fine della relazione affettiva. E, infatti, l’assenza di effettiva «coabitazione» è, ormai, da considerarsi come elemento non determinante ai fini dell’esistenza o meno di una compagine familiare posto che, secondo gli ultimi dati statistici ufficiali (fonte ISTAT), il “pendolarismo della famiglia”, cioè «le persone che vivono per motivi vari e con una certa regolarità in luoghi diversi dall’abitazione abituale» così spesso «mantenendo residenze in luoghi diversi» è ormai dato sociale di fatto accertato e largamente diffuso. Ne consegue che, per l’ammissibilità del cd. ricorso congiunto, non è sufficiente allegare la residenza in luoghi diversi o l’assenza di coabitazione, ma occorre specificare che la relazione affettiva è terminata (così Trib. Milano, 1 luglio 2013).

7.CONTROVERSIE DE POTESTATE (ARTT.330,333 C.C.)

Il novellato art. 38 disp. att. c.c., prevede che per i procedimenti di cui all'articolo 333 c.c.

resta esclusa la competenza del Tribunale per i Minorenni nell'ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell'articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi, e per tutta la durata del processo, la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario. La norma recepisce l’indirizzo interpretativo già espresso dalla Suprema Corte (v.

ad es. Cass. Civ., sez. I, 5 ottobre 2011 n. 20354) secondo il quale è applicabile, anche in regime di separazione o divorzio (e, in particolare, in materia di modifica delle condizioni stabilite) l'art. 333 c.c. Sussiste contrasto circa l’applicabilità dell’enunciato anche ai procedimenti ex art. 317-bis c.c. e l’eventuale possibilità, per il giudice ordinario, di ritenersi dotato di competenza anche ai sensi dell’art. 330 c.c., in virtù del richiamo fatto alla norma dal nuovo art. 38 cit. L’applicabilità anche alle controversie aventi ad oggetto figli nati fuori da matrimonio è fisiologica, una volta affermata la abrogazione tacita in parte qua dell’art.

317-bis c.c. e la conseguente applicazione indiscriminata delle norme di tutela a tutti i figli (quindi anche l’art. 316 c.c.). Quanto all’art. 330 c.c., reputa a tutt’oggi la Sezione che il dettato normativo sia suscettibile di interpretazioni fra loro antitetiche ma, al tempo stesso, rispettivamente dotate di un consistente fondamento giuridico, di guisa che si apre di

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necessità spazio alla formulazione di un protocollo di intesa tra Tribunale ordinario e Tribunale per i Minorenni: poiché, infatti, non sembra agevole pervenire a una ricostruzione univoca o almeno attendibile della volontà del Legislatore, alle insuperate incertezze potrà porsi rimedio solo attraverso l’adozione di una linea condivisa, che consenta di evitare il rischio di un diniego di tutela giurisdizionale.

Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 7 maggio 2013

PROVVEDIMENTI LIMITATIVI DELLA POTESTÀ GENITORIALE ART. 333 C.C. DECADENZA DALLA POTESTÀ GENITORIALE –ART.330 C.C.–COMPETENZA DEL

TRIBUNALE ORDINARIO ART. 38 DISP. ATT. C.C. LEGGE 219/2012 - PRESUPPOSTI (art. 333 c.c.; legge 184/1983)

La legge 10 dicembre 2012 n. 219, riscrivendo l’art. 38 disp. att. c.c., ha attribuito al Tribunale ordinario la competenza a pronunciare i provvedimenti limitativi della potestà genitoriale (art. 333 cod. civ.) esclusivamente nel caso in cui sia pendente, «tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell'articolo 316 del codice civile»: in altri termini, l’azione ex art. 333 c.c.

proposta in via autonoma non rientra nella competenza del Tribunale ordinario che nemmeno è competente per la declaratoria di cui all’art. 330 c.c., ipotizzabile sempre soltanto nel caso in cui penda un procedimento di separazione, divorzio o ex art. 316 c.c.c (v. art. 38, comma I, disp. att. c.c.). Il presupposto per la potestas decidendi del Tribunale Ordinario è, dunque, la concentrazione processuale delle domande. Non solo: la legge richiede espressamente, quale condicio sine qua non per la competenza del tribunale ordinario ex art. 333 c.c., che il processo penda

«tra le stesse parti», quanto dunque non ricorrerebbe nel caso di domanda introduttiva proposta dai nonni, in quanto, come noto, gli ascendenti non sono parti del procedimento di separazione, divorzio, o ex art. 316 c.c.

Si noti che il nuovo testo dell’art. 317 – bis coniato nella Proposta di schema di decreto legislativo è titolato “Rapporti con gli ascendenti”: la competenza è attribuita al Tribunale per i Minorenni.

8.ORDINE AL DEBITOR DEBITORIS EX ART.3 COMMA II LEGGE 219/2012 E PROCEDURA DIVORZILE

L’ultimo periodo dell’articolo 3 comma II l. 219/2012 prevede che “il giudice può ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro all'obbligato, di versare le somme dovute direttamente agli aventi diritto, secondo quanto previsto dall'articolo 8, secondo comma e seguenti, della legge 1º dicembre 1970, n. 898”.

Nel rito divorzile – espressamente richiamato dall’articolo in commento – non è necessario l’intervento del giudice per ottenere la corresponsione diretta dell’assegno stabilito dal magistrato. La Sezione reputa, conseguentemente, che l’inciso “il giudice può ordinare”

costituisca il frutto di una svista legislativa. Ritiene, in particolare, che con la disposizione in commento il Legislatore non abbia voluto far altro che estendere alle nuove controversie, in materia di figli nati fuori dal matrimonio, la disciplina già presente nella legge sul divorzio.

Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 24 aprile 2013

ORDINE DI DISTRAZIONE –ART.3LEGGE 219/2012–RICHIAMO DELLA LEGGE

898/1970-

L’art. 3 comma II legge 219/2012 deve essere nella sua strutturazione visto come estensione alla tutela dei figli nati da coppia non coniugata dell’omologa

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fattispecie coniata dal legislatore del 1987 nella disciplina divorzile, così accordandosi prevalenza al preciso richiamo della norma di cui all’art. 8, secondo comma e seguenti, legge div. piuttosto che al meno efficace riferimento all’ordine che il giudice può essere chiamato a impartire. Ne discende l’inammissibilità della domanda proposta dall’avente diritto per ottenere il provvedimento di distrazione a mezzo dell’intervento giudiziale, non occorrendo ai fini in parola procedere all’instaurazione di procedimento giudiziale alcuno.

9.RITO CD. PARTECIPATIVO

Il Tribunale di Milano reputa che la gestione del contenzioso inerente le controversie tra genitori non uniti da matrimonio debba offrire al nucleo familiare in crisi l’opportunità di una fase preliminare di tipo conciliativo – in analogia a quanto avviene nel rito della separazione e del divorzio - in cui ai genitori viene anche «suggerito», dal giudice delegato, un possibile assetto regolativo delle nuove dinamiche relazionali: la fase in questione deve, dunque, consentire ai genitori di avere un lasso di tempo ragionevole per valutare la proposta del giudice e successivamente deve consentire agli stessi di essere ascoltati. La conclusione della fase pre-contenziosa può, così, concludersi con un accordo dei genitori, recepito dal Collegio: accordo che corrisponde alla proposta del Collegio; accordo che consiste in una soluzione totalmente o parzialmente diversa, elaborata dai genitori grazie alla assistenza dei difensori nominati, che certamente possono utilizzare il suggerimento del Collegio al fine di convincere le rispettive parti a confrontarsi sui problemi emersi ed a dialogare come padre e madre. La fase conciliativa può anche concludersi con un tentativo di composizione bonaria infruttuosamente espletato: in questo caso, gli atti vengono rimessi al Collegio che provvede alla definizione giudiziale del procedimento, previa nuova convocazione dei genitori. Il procedimento così proposto prevede – come avviene per il rito della separazione e del divorzio – una sorta di switch procedimentale: dalla fase conciliativa, in caso di fallimento, si passa alla fase contenziosa. La procedura così concepita certamente può beneficiare dell’apporto collaborativo dei giudici onorari – in quanto già magistrati addetti alla trattazione dei procedimenti ex art. 317-bis c.c. dinanzi al tribunale per i Minorenni: collaborazione che si disvela nella trattazione della fase conciliativa, in cui una prima «traccia» verso la soluzione bonaria è, almeno in linea di massima e ove ciò si riveli in concreto opportuno, offerta dal Collegio. Quanto alla possibilità per il giudice di formulare proposte conciliative non vi è ormai ragione di dubitare, atteso che la legge 4 novembre 2010, n. 183, modificando l’art. 420 c.p.c. ha espressamente previsto e tipizzato l’istituto, con norma che – come osservato dalla giurisprudenza - non è eccezionale ma emersione in un determinato settore di una regola generale. Ovviamente, nel caso in esame, l’intervento collegiale più che una proposta è un «suggerimento» autorevole, in analogia con quanto previsto dall’art. 316 c.c.; suggerimento che non è vincolante e che viene formulato con spirito conciliativo, in attuazione di quella funzione di “mediazione giudiziale” che in altra sede il Codice espressamente assegna al magistrato della famiglia (v. art. 145 c.c.). La scansione procedimentale, nei suoi tratti essenziali prevede che, una volta depositato il ricorso da parte del genitore-ricorrente, il Presidente disponga lo scambio delle difese con la controparte, riservando, all’esito, la valutazione in ordine alla sussistenza, o meno, dei presupposti per la fase conciliativa. Lette le difese, il Collegio può: a) fissare direttamente udienza dinanzi a sé, non ritenendo sussistenti i presupposti per formulare un suggerimento conciliativo; b) rimettere le parti dinanzi al giudice delegato con il compito di suggerire ai genitori una possibile soluzione conciliativa, riservandosi di intervenire successivamente, se fallito il tentativo di conciliazione. La procedura in esame, creando una sinergica collaborazione, e valorizzando anche il ruolo degli Avvocati – cui viene garantito uno spazio

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processuale di dialogo – consente anche di accelerare i tempi di accesso alla prima udienza giudiziale, cosicché i genitori non debbano attendere 6/8 mesi per la prima convocazione (essendo la prima udienza conciliativa tenuta dinanzi al giudice relatore delegato, accendendo dunque al ruolo delle udienze monocratiche, con tempi di fissazione più brevi).

Quanto alla delega al giudice relatore, come noto essa è pacificamente ammessa: costituisce l’espressione di un principio generale immanente (Cass. civ., Sez. I, 16 luglio 2005, n.

15100) quello secondo cui un giudice può essere delegato dal collegio alla raccolta di elementi probatori da sottoporre, successivamente, alla piena valutazione dell'organo collegiale, principio vitale in difetto di esplicite norme contrarie che trova applicazione anche nelle ipotesi di procedimento camerale applicato a diritti soggettivi per quelle ragioni di celerità e sommarietà delle indagini, cui tale particolare tipo di procedimento è ispirato (Cass. civ., Sez. Unite, 19 giugno 1996, n. 5629 In Giust. Civ., 1996, I; Famiglia e Diritto, 1996, 4, 305). Il rito sin qui descritto viene definito come «partecipativo» in quanto consente ai genitori di “partecipare” sostanzialmente alla costruzione di una decisione comune, in cui il ruolo del giudice non è avvertito in termini di soggetto terzo che “impone” la soluzione.

La possibilità di apposita delega al GOT è compatibile con la normativa secondaria di origine consiliare e – è bene chiarire – non rappresenta una conferma del modello organizzativo adottato in passato da molti Tribunali per i Minorenni e nel tempo oggetto di accesa contestazione: la scelta operata dalla Sezione ha preso le mosse dalla considerazione che i GOT in servizio sono non solo forniti di una preparazione specifica a seguito del tirocinio effettuato in affiancamento a un giudice togato specializzato ma sono, come originaria provenienza, Avvocati esperti del Diritto di Famiglia che hanno optato per un’estensione delle loro competenze professionali, pertanto ben in grado di cooperare tanto con l’Ufficio giudiziario al quale sono stati assegnati quanto con i legali delle parti grazie al patrimonio di conoscenze giuridiche già in loro possesso, diversamente da quanto poteva accadere presso l’Ufficio minorile dove la componente onoraria vedeva la prevalenza di soggetti dotati “di un diverso sapere” perché psicologi, assistenti sociali, cultori della materia ecc.

Per quanto attiene alla “possibilità” (e non obbligatorietà) per il Collegio, una volta avutosi il deposito della comparsa di costituzione della parte convenuta e presa dunque contezza delle rispettive posizioni processuali su tutti i profili della controversia, di formulare una proposta conciliativa la cui discussione viene rimessa all’udienza innanzi al GOT, è appena il caso di sottolineare come il nuovo testo dell’art. 185 bis c.p.c., introdotto dall’art. 77 D.L.

21 giugno 2013, n. 69 e convertito, con modificazioni, in legge 20 agosto 2013, n. 194, preveda la possibilità per il giudice, in ogni fase del procedimento purché quella istruttoria non sia giunta a termine, di formulare alle parti una proposta transattiva o conciliativa.

Nessun dubbio, quindi, né sull’utilizzo di tale riconosciuta facoltà né sulla scelta di delegare al GOT la discussione in udienza sui concreti termini della proposta, nel pieno contraddittorio delle parti e con possibilità di favorire il perfezionamento di un accordo in termini se del caso anche diversi da quelli suggeriti dal Collegio alla sola stregua del contenuto degli scritti difensivi.

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S

CHEMA DEL RITO PARTECIPATIVO

RICORSO EX ART.317-BIS

TRIBUNALE DI MILANO

PRESIDENTE

1) ORDINA LA NOTIFICA DEL RICORSO AL RESISTENTE

(entro 30/45 giorni)

2) ASSEGNA TERMINE AL RESISTENTE PER DEPOSITARE UNA SUA DIFESA (entro 30/45 giorni)

3) RISERVA LA DECISIONE ALLESITO

TRIBUNALE DI MILANO

IL COLLEGIO

Lette le difese delle parti,

Ritenendo opportuno un tentativo di conciliazione,

FISSA

UDIENZA DINANZI AL GIUDICE DELEGATO CHE

SUGGERISCE UNA SOLUZIONE CONCILIATIVA

Non ritenendo opportuno un tentativo di conciliazione,

FISSA

UDIENZA DINANZI AL COLLEGIO

UDIENZA DINANZI AL GIUDICE DELEGATO

Le parti si conciliano Le parti non si conciliano

IL GIUDICE

RIMETTE GLI ATTI AL COLLEGIO PER RECEPIRE LACCORDO

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11 10.CENNI ALLE ULTERIORI QUESTIONI PROCESSUALI

10.1 LA COMPETENZA TERRITORIALE.

Premesso che la riscrittura dell’art. 38 disp. att. c.c. comporta l’attribuzione al tribunale ordinario dei procedimenti per l’affidamento e il mantenimento dei figli “non matrimoniali”, deve rilevarsi che la legge n. 219 nulla ha previsto in ordine ai criteri di competenza territoriale. Si pongono, così, due opzioni interpretative: 1) l’applicazione del foro generale di residenza del convenuto, di cui all’art. 18 c.p.c., 2) l’applicazione del foro di residenza effettiva e abituale del minore.

La dottrina (Tommaseo e Graziosi) sembra orientata a favore della seconda soluzione, anche alla stregua delle indicazioni provenienti dalla normativa comunitaria (art. 8 Reg. CE n.

2201/2003), e la Sezione è del pari adesiva, tenuto anche conto della rilevanza che possono assumere indagini sulla situazione del minore e del loro miglior svolgimento da parte del giudice c.d. di prossimità.

Deve, però, aversi riguardo alla residenza “abituale” del minore, attestata da risultanze anagrafiche coerenti con la situazione di fatto, così da evitare disfunzioni riconducibili al c.d.

fenomeno del forum shopping, come avverrebbe se si desse rilievo a un domicilio scaturente da uno spostamento (o da una vera e propria sottrazione) del minore ad opera di uno solo dei genitori e senza il consenso dell’altro (in questi termini, l’incompetenza territoriale rilevata con decreto del 16 settembre 2013 in un caso in cui il minore era stato condotto dalla madre dalla Puglia a Milano il mese precedente l’instaurazione del procedimento).

Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 16 settembre 2013

CONTROVERSIE GENITORIALI COMPETENZA TERRITORIALE RESIDENZA ABITUALE DEL MINORE SUSSISTE TRASFERIMENTO ILLECITO RILEVANZA ESCLUSIONE (artt. 155, 317-bis c.c.)

La competenza a conoscere delle questioni relative all’affidamento dei minori e alla potestà genitoriale degli stessi (quali le azioni previste agli artt. 155, 317 bis e 333 c.c.) si radica di fronte all’autorità giudiziaria del luogo in cui si trova la residenza abituale dei minori. Non può invece radicarsi nel luogo in cui uno dei genitori, unilateralmente e senza consenso dell’altro genitore, abbia condotto i minori per sua scelta esclusiva, al fine di tutelare l’interesse superiore del minore, evitando che lo spostamento del medesimo da parte di un genitore si riveli arbitrario, assunto unilateralmente e comunque in modo strumentale al raggiungimento di una decisione favorevole nei suoi confronti.

10.2LA COMPETENZA PROROGATA O PER C.D. ATTRAZIONE.

Quanto alla discussa e affatto univoca soluzione del problema della c.d. competenza prorogata per connessione riguardante i procedimenti ex artt. 333 e 330 c.c., si pongono non pochi interrogativi.

- La legge fa riferimento ai soli procedimenti di separazione e di divorzio, senza nulla prevedere relativamente a quelli di modifica delle rispettive condizioni (artt. 710 c.p.c. e 9 legge div.) e neppure a quelli di cui all’art. 317 bis c.c.: una lettura minimamente coordinata impone un’interpretazione estensiva, comprendente anche tali ultime tipologie di procedimenti. Anche la dottrina ha rilevato la “svista” e la necessità di porvi rimedio, pur non

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mancando di sottolineare come le norme sulla competenza siano soggette a riserva di legge e insuscettibili di modifica o integrazione in via interpretativa.

- In secondo luogo, la legge fa riferimento a “tutta la durata del processo di separazione o divorzio”, senza migliore specificazione e senza, ad esempio, considerare i casi di c.d.

litispendenza attenuata.

Così, è stato osservato (Danovi) che quando la causa sia stata cancellata dal ruolo dovrebbe tornare a configurarsi la competenza del T.M. (linea condivisibile, perché nella quiescenza conseguente alla cancellazione non v’è un giudice competente ad attivarsi nell’interesse del minore per essere necessaria la previa riassunzione, sempre su iniziativa di parte).

Se il processo sia concluso in primo grado ma siano ancora pendenti i termini per impugnare sarebbe, invece, quasi paradossale riportare la competenza ex art. 333 c.c. al giudice minorile;

è stato osservato (ancora, Danovi) che la domanda andrebbe proposta al giudice d’appello attraverso l’impugnazione del capo del provvedimento inerente all’affidamento, ma tale soluzione, pur tecnicamente all’apparenza corretta, porta con sé l’inevitabile conseguenza dell’eliminazione di un grado del giudizio (atteso che sarebbe il giudice di appello a pronunciarsi come primo sulla sussistenza o meno dei presupposti di cui agli artt. 330 e 333 c.c.).

- In altro caso, il processo di separazione o divorzio può essere pendente ma non riguardare il tema dell’affidamento: il gravame è stato proposto solo con riguardo all’addebito, all’assegno di mantenimento ecc.

E’ quasi inevitabile sostenere che il processo non sia “pendente” nel senso inteso dal legislatore del 2012, così che dovrebbe rivivere la competenza funzionale del T.M. (contra, Danovi, il quale si esprime a favore della competenza del giudice ordinario d’appello).

- Qualora dopo la conclusione del processo davanti al tribunale ordinario che abbia visto pronunciarsi anche ex art. 333 c.c., si prospetti un’eventuale domanda di modifica di (solo) tale ultimo capo, la competenza andrebbe ravvisata nel T.M. in quanto non vi è la forza attrattiva di alcun procedimento ancora pendente, essendo invero quello c.d. ordinario ormai concluso.

- Poiché la legge parla di processo pendente “tra le stesse parti”, si ritiene che una domanda ex art. 333 c.c. che veda coinvolti soggetti estranei ai coniugi (ascendenti, parenti ecc.) non possa essere suscettibile di attrazione al giudice ordinario, in quanto questo comporterebbe un inammissibile ampliamento delle parti del procedimento separativo o divorzile, sempre negato anche dalla Corte di legittimità.

10.3 IL RITO E LA TUTELA INTERINALE

La nuova legge non codifica, come noto, il rito che deve regolare i procedimenti di nuova attribuzione al giudice ordinario, limitandosi a richiamare il rito camerale di cui all’art. 737 c.p.c. e già dal codice di rito ben scarsamente dettagliato nelle sue scansioni interne.

Il ricorso è, dunque, la forma dell’atto introduttivo e deve ritenersi che per lo stesso sia sufficiente che contenga le indicazioni di cui all’art. 125 c.p.c.: la Sezione sta ipotizzando di predisporre un “modello” di ricorso al quale invitare i legali ad attenersi come base indispensabile, dal momento che un atto troppo lacunoso o generico finirebbe con l’essere ostativo alla buona attuazione del rito c.d. partecipativo che si è andato a delineare.

L’intervento del P.M. deve intendersi obbligatorio ai sensi dell’art. 70 c.p.c., benché la norma utilizzi la più sfumata formula “sentito il pubblico ministero”: la stretta analogia con i procedimenti di separazione e di divorzio impone una lettura della norma che conduca alla piena omologazione in entrambi gli ambiti della figura, e dei poteri / doveri del P.M.

Le forme libere che caratterizzano il rito camerale comportano che non sia operativo il regime delle preclusioni proprio del processo a cognizione ordinaria, ma compete comunque

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al tribunale di non consentire un’eccessiva dilatazione dei tempi processuali e di sempre garantire l’effettivo contraddittorio su tutte le domande.

Il provvedimento conclusivo ha forma di decreto motivato e il legislatore ne ha sancito l’immediata esecutività “salvo che il giudice disponga altrimenti”: la disposizione è certamente criticabile (v. anche Tommaseo), dal momento che nel sistema tutti i provvedimenti definitivi di primo grado sono esecutivi ex lege, con la sola eccezione di quelli inerenti allo stato personale, e non si vede pertanto alcuna utile ragione per dare vita a un regime parzialmente differenziato.

Meglio sarebbe stato, infatti, seguire la strada già in via generale tracciata e lasciare al giudice dell’impugnazione la possibilità di eventualmente sospendere l’esecutività del decreto reclamato in presenza dei connessi presupposti.

Si è già detto che l’orientamento del Tribunale contempla la possibilità dell’adozione di un regime provvisorio e urgente, volto a fornire i genitori di una regolamentazione almeno di massima destinata ad essere operativa nel corso del processo e sino alla sua definizione.

Se quasi tutti i commentatori sono concordi nel ravvisare l’opportunità di una simile tutela anticipatoria, il problema più serio viene individuato nella non prevista reclamabilità di dette statuizioni interinali, laddove nei procedimenti di separazione e di divorzio l’art. 708 quarto comma c.p.c. introdotto dalla Novella n. 54/2006 sancisce la possibilità di reclamo in corte d’appello dell’ordinanza provvisoria del presidente.

La correlazione è tuttavia priva di effettiva pertinenza, sol che si considerino le ragioni che hanno mosso il legislatore del 2006 e il fatto che, da un lato, si tratta di ordinanza di un giudice monocratico che opera in limine litis e nell’altro, quello qui in esame, di provvedimenti collegiali suscettibili di revoca o modifica da parte dello stesso tribunale, senza necessità alcuna della sopravvenienza di circostanze nuove; la Sezione non ritiene di aderire, al momento, neppure alla linea di quella parte della dottrina (Graziosi) che vorrebbe il regime provvisorio scaturire dall’applicazione del generale art. 700 c.p.c., con conseguente configurabilità del rimedio del reclamo al tribunale in diversa composizione ex art. 669 terdecies c.p.c.

E, del resto, nell’ambito dei procedimenti camerali di modifica delle condizioni di separazione e divorzio è sempre possibile per il Collegio intervenire attraverso provvedimenti meramente provvisori, sì che negare tale possibilità nell’alveo delle cause ex art. 317 bis c.c. e ipotizzare il solo ricorso all’art. 700 c.p.c. realizzerebbe una significativa disparità sul piano del trattamento processuale e, segnatamente, su quello del regime impugnatorio.

11.IL NUOVO ART.250 C.C.

L’art. 250 ha registrato un’importante modificazione del rito: la domanda, volta a superare il mancato consenso dell’altro genitore al secondo riconoscimento, viene ancora proposta con ricorso (e il procedimento si definisce con sentenza) ma al giudice compete prima di tutto di disporre la notificazione alla controparte, ritengo con espresso avviso che se entro 30 gg. non viene proposta opposizione il tribunale deciderà con sentenza.

Se viene invece proposta opposizione, il tribunale dispone l’audizione del figlio che abbia compiuto i dodici anni (o anche di età inferiore se dotato di discernimento…), adotta provvedimenti provvisori “al fine di instaurare la relazione” e con la sentenza che tiene luogo del consenso assume (e non “può assumere”) i provvedimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento, nonché al cognome del minore ai sensi dell’art. 262.

Quindi : la sentenza, relativamente all’affidamento e, soprattutto, al mantenimento dovrebbe essere provvisoriamente esecutiva ex lege al pari di tutte le sentenze di primo grado (con eccezione di quelle incidenti sullo status personale) e, soprattutto, di quelle che contengono una condanna pecuniaria, ma qui non si tratta di sentenza costitutiva dello status di figlio, come nel caso previsto dall’art. 269 c.c., bensì di pronuncia che ha la finalità di consentire al

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genitore di procedere al riconoscimento, in sostanza rimuovendo l’ostacolo rappresentato dalla mancanza del consenso da parte del genitore che per primo lo ha riconosciuto.

Si dovrebbe, quindi, configurare una sentenza il cui contenuto condannatorio (e, al pari, quello inerente all’affidamento) è implicitamente condizionato al perfezionamento del riconoscimento, ovvero a una attività non coercibile in quanto propria del genitore.

E non è inverosimile ipotizzare che, di fronte a una non gradita quantificazione degli obblighi di mantenimento, il ricorrente finisca con il determinarsi a non avvalersi dell’autorizzazione concessa e, quindi, a non procedere al riconoscimento, così vanificando non solo la pronuncia ma anche tutta l’attività processuale svolta e, quel che appare maggiormente grave, quella disposta al fine di “instaurare la relazione” con diretto coinvolgimento del minore.

Alla luce di simili prime considerazioni critiche, la Sezione ha in corso una riflessione sull’opportunità di far luogo alla pronuncia di una sentenza parziale laddove le emergenze processuali già consentano di apprezzare positivamente la richiesta di autorizzazione al riconoscimento e, quindi, alla rimessione della causa in istruttoria per lo svolgimento di tutte le attività necessarie al fine delle ulteriori concorrenti statuizioni che la norma prevede, una volta peraltro verificato che il genitore autorizzato abbia proceduto al riconoscimento.

Ciò, peraltro, nella consapevolezza che difforme sembra essere il dettato normativo ma che, del resto, non può essere al Giudice inibito di modulare le cadenze processuali in funzione dell’obiettivo di adeguatamente tutelare gli essenziali diritti oggetto del procedimento, specie allorquando gli stessi tocchino quell’interesse del minore che la normativa interna e sovranazionale ha sempre più sottolineato avere carattere “prioritario”.

dott. Gloria Servetti

Tribunale di Milano

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