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Spettacolo – Pag. 39 13 aprile 2006

A«POLARIS» LE RICERCHE DI UN GRUPPO INTERNAZIONALE

Cannabis, nuovo farmaco antidolore

A PULA IL PROGETTO DI MARIA ANTONIETTA CASU. DALLA MARIJUANA UN PRINCIPIO ATTIVO CHE RIDUCE AL MINIMO I RISCHI DI DIPENDENZA

I primi a non fare di tutta l’erba un fascio furono probabilmente i cinesi, che nel 2737 avanti Cristo stilarono un trattato di farmacologia esaltando le virtù analgesiche della cannabis.

Ma a usare la marijuana come toccasana furono anche gli indiani, che ci curavano l’insonnia, la febbre e la dissenteria. Discoride, il medico di Nerone, nel suo codice

«Anicia Juliana» (512 d.C.), ne elenca le proprietà farmacologiche e terapeutiche. E gli Zulù dell’Africa, che ancora oggi la fumano in caso di crampi, epilessia e gotta. Maria Antonietta Casu, ricercatrice in forza alla «Neuroscienze Pharmaness», una società a capitale misto pubblico-privato partecipata dall’Università di Cagliari e dal Cnr, sorride e non sembra affatto sorpresa. Lei è da anni che nel suo laboratorio - ora ospite del Parco tecnologico e scientifico «Polaris» - studia proprio la caratterizzazione di estratti di piante di cannabis. «Ovviamente - precisa - si tratta di parti selezionate geneticamente in modo da evitare il loro potenziale d’abuso e favorirne solo le applicazioni medico-terapeutiche».

Che poi, detto in parole povere, significa che, insieme con i suoi colleghi, la dottoressa Casu cerca di ottenere farmaci capaci di rilasciare soltanto gli effetti curativi della sostanza proibita, eliminandone quelli nocivi come ad esempio attacchi di panico, crisi respiratorie, perdita delle capacità di memoria, stato confusionale. Obiettivo:

«Predisporre un farmaco capace di lenire il dolore - spiega - ma anche di curare l’obesità e i disturbi alimentari, l’artrite reumatoide, il glaucoma, l’emicrania, la nausea da chemioterapia, il morbo di Parkinson la sclerosi multipla». Insomma, la panacea.

Possibile? Sembrerebbe proprio di sì, anche se sui tempi di realizzazione di prodotti di questo tipo gli scienziati preferiscono mantenere una certa cautela. «La nostra ricerca - continua l’esperta - fa parte di un progetto europeo che ci vede collaborare con gruppi inglesi, tedeschi e olandesi. Sono proprio questi ultimi che coltivano la marijuana, ne preparano gli estratti e ce li mandano per testarli qua a Pula». Naturalmente si tratta di procedure lunghe e fatte sotto stretto controllo ministeriale. «Beh, certo - spiega ancora la dottoressa Casu - anche perché la storia del rapporto tra l’uomo e la cannabis è sempre stata caratterizzata da un’alternanza di devote esaltazioni dei principi attivi e di categoriche messe al bando della pianta. La più antica testimonianza sull’uso psicotropo della cannabis in Europa viene da Erodoto d’Alicarnasso, nel V secolo avanti Cristo. Nel Medioevo, poi, il clima di terrore instaurato dai tribunali dell’inquisizione colpì in tutta Europa la cultura della cannabis, culminando nel 1484 in una bolla papale che ne proibì l’uso ai fedeli». Così, malgrado gli estratti naturali di marijuana siano utilizzati da secoli nelle varie medicine tradizionali, soltanto ora l’uso terapeutico dei derivati della cannabis sta vivendo un globale processo di rivalutazione. «Infatti - continua l’esperta - mai come negli ultimi anni si sono accumulate conoscenze tanto importanti, e in una successione così tumultuosa, nel campo delle farmacodipendenze legate come ai cannabinoidi: si va dalla scoperta e caratterizzazione dei recettori cerebrali e periferici, all’identificazione dei cannabinoidi endogeni (cioè la sostanza che noi abbiamo nel cervello, detta

“anandamide” - ndr.), sino alla messa a punto di una linea di farmaci agonisti e antagonisti recettoriali». Tradotto per i non addetti ai lavori, ciò che la scienza ha recentemente appurato è che il famigerato olio Thc, per esteso «tetraidrocannabinolo», ossia la sostanza proibita contenuta nella marijuana, è in grado per esempio di ridurre il dolore. E che alcuni di estratti di questa pianta - in particolare quelli studiati a Pula - inducono meno tolleranza. «Vuol dire che il beneficio del Thc continua anche se la sostanza viene assunta per lungo tempo - chiarisce l’esperta - e non succede, come capita per esempio con gli antinfiammatori, che l’effetto diminuisca con l’uso». Non solo:

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se la marijuana - come ormai è pacifico - stimola l’appetito, significa che può essere naturalmente utilizzata da chi è inappetente. Ma anche che, attraverso i cosiddetti farmaci antagonisti, può arrestare la fame di chi ha problemi di peso. Un business colossale. Le prospettive sarebbero eccezionali anche per quanto riguarda la terapia del senso di nausea. «Direi di sì - conclude la dottoressa Casu - visto che i cannabinoidi agiscono in quella zona del cervello che controlla il vomito, modificandone l’attività».

Andrea MAssidda

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