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dicembre 2020
Prendersi cura delle parole
Pier Aldo Rovatti Premessa. Absit iniuria
verbis 3
Michele Serra La parola è come il pane 9 Pierangelo Di Vittorio Parole che non
funzionano. I saperi critici alla prova 18 Stefano Bartezzaghi Il metodo del doktor Kraus
per la cura delle parole 30 Gian Mario Villalta Totus in illis. Lingua, poesia,
comunicazione 39
Massimo Recalcati Il discorso del maestro 50 Davide Zoletto Senza parole? I migranti, noi,
gli albi 61
Ilaria Papandrea Fallimento 71 Beatrice Bonato Sopravvivenza 76 Donatella Di Cesare Anarchia 87 Annarosa Buttarelli Empatia 98
Marco Pacini Fine 106
Nicola Gaiarin Prendere in parola, non
alla lettera 117
Giovanni Leghissa Inconscio. La macchia cieca della filosofia e il corpo del godimento 127 Deborah Borca Curare le parole degli altri 139 MATERIALI Piccolo sillabo. Laboratorio
coordinato da Annalisa Decarli 147 POST In virus veritas [P.A.R.] 158
INTERVENTI
Antonello Sciacchitano Dall’infinito con
simmetria 163
Sergio Benvenuto Macchine celibi 179
rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti
redazione: Sergia Adamo, Mauro Bertani, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, [email protected]), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Nicola Gaiarin,
Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto
direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com
ISSN: 0005-0601
collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, P. Barone, G. Berto, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, F. Jullien, J.-L. Nancy, F. Polidori, A. Prete, R. Prezzo, G. Scibilia, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: [email protected]
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Finito di stampare nel novembre 2020
Premessa.
Absit iniuria verbis
PIER ALDO ROVATTI
P
rendo come riferimento un motto latino, ancora in uso nel linguaggio comune, per fare alcune considerazioni sulla parola“cura” che sta al centro della proposta di questo fascicolo di “aut aut”. Absit iniuria verbis, come dire: “Che le mie parole non con- tengano nulla di ingiurioso”. Un avvertimento che sembra rivolto soprattutto a noi stessi, anche se esprime la preoccupazione che l’ascoltatore sia portato a fraintendere le nostre intenzioni. Tornerò alla fine sulla convenienza di ricorrere al latino: forse è un’abitu- dine più che un’esigenza e certo contiene qualcosa di retorico, tut- tavia ci permette di dare un contorno interessante alla proposta.
La questione si condensa attorno al termine iniuria che lette- ralmente possiamo rendere con “ingiuria”, ma che tocca molti aspetti della comunicazione tanto pubblica quanto privata: in- nanzi tutto, lo ius al negativo, cioè il diritto di offendere l’interlo- cutore, un diritto che nessuno può prendersi perché illegittimo in quanto trasgredisce le regole istituite. Quali regole? Ovviamen- te e innanzitutto quelle dei codici: se le mie parole contengono insulti verso qualcuno, chi si ritiene insultato può difendersi de- nunciandomi. Ma, alla base dell’ingiuria, sta una violenza di ca- rattere etico che rimanda a leggi non scritte, cioè alle buone pra- tiche di un comportamento storicamente e socialmente condivi- so. Ecco delinearsi con evidenza il tema della “cura delle parole”
che porta con sé il complessivo problema di come è opportuno
“abitare” criticamente il linguaggio oggi dominante senza farsi
sommergere dai suoi stereotipi o – per dir così – dalla sua allar- mante entropia.
“Prendersi cura delle parole” vuol dire sorvegliare la tenuta etica dei nostri discorsi, scritti e parlati, delle nostre “narrazioni”
quotidiane e professionali, prima ancora di chiamare in causa spe- cifiche implicazioni culturali di ordine filosofico, linguistico o psi- coanalitico. Se le parole sono rivolte a un ascoltatore o a un tipo di pubblico, l’ascolto è la condizione principale. Che tipo di ascolto?
La condizione etica fondamentale è che l’“altro” a cui ci si rivol- ge abbia la possibilità, e dunque la garanzia, di godere della pro- pria soggettività, nel senso che all’ascolto dovrà essere garantito il massimo spazio di autonomia e di libertà. Sembra una considera- zione banale. Che nei fatti non lo sia viene documentato in ogni momento da ciò che accade nella gran parte delle comunicazioni pubbliche e private. Per usare un termine, attualmente distorto e strumentalizzato, occorrerebbe una “distanza”, e cioè che l’ascol- to sappia introdurre anche un “intervallo” nella relazione discor- siva. Non è semplice, ci sono comunque diversi modi per favorire questo spazio di libertà: il lettore dei contributi qui ospitati, pro- venienti da vari ambiti culturali, potrà trovarne esempi che ci au- guriamo utili.
Come premessa, vorrei anche precisare qualcosa sull’uso stesso della parola “cura” e sulla scelta del senso da attribuirle. È una pa- rola che può pescare in un ampio e poliverso territorio culturale, che ha avuto anche trattamenti filosofici molto rilevanti (viene su- bito alla mente Heidegger, ma non solo), ed è comunque una paro- la che rimanda a un suo uso specifico nell’ambito dei discorsi sul- la salute, oggi particolarmente connessi alla situazione che stiamo vivendo: la “cura delle malattie”. Come “si cura” il virus che riem- pie di sé l’attuale comunicazione? Forse è inutile sottolinearlo: il
“prendersi cura” delle parole ha a che fare solo tangenzialmente con un “curare le parole” e con la terapia di un linguaggio malato.
Ma è difficile cancellare del tutto questa medicalizzazione del termine: se letteralmente riusciamo a scansarla, metaforicamente essa ritorna quasi sempre nell’uso della parola “cura”. Sto pensan- do, per esempio, a quella crisi delle scienze europee che dà il titolo
La parola è come il pane
MICHELE SERRA
L
a parola è come il pane. Non è una frase retorica, è una constatazione di carattere funzionale. Il suo uso quotidiano, il suo ruolo elementare nelle relazioni umane, la sua diffusione capillare in ogni strato della società ne fanno qualcosa di ordinario e al tem- po stesso prezioso. Insostituibile. La nascita del linguaggio, secon- do la paleoantropologia, è strettamente legata alla ricerca del cibo.Si cominciò a parlare per organizzare meglio la caccia, la raccolta, la conservazione, infine la coltivazione. La bocca articola i suoni e assume il cibo. “Parlare e mangiare sono due atti inseparabili che rimandano a concetti essenziali: il potere e la sessualità, la morte e la vita” (Jacques Attali, “Cibo”).
Se è vero che la parola è nutrimento di tutti, l’idea che “parlare bene” sia un orpello delle élite è una delle più tipiche e pericolose fandonie dell’evo populista. La fuoruscita dall’ignoranza è stata tra gli obiettivi primari di tutti i movimenti di redenzione sociale, ov- vero di tutti i movimenti politici veramente popolari nei presupposti e nell’azione; così che possiamo aggiungere, fuori di ogni dubbio, che l’assenza di questo obiettivo dalle varie piattaforme politiche populiste dei nostri giorni le cancella ab ovo dal novero dei mo- vimenti filo-popolari, o anche semplicemente filantropici. Non lo sono e non possono esserlo: chi non ha a cuore la diffusione della cultura e la cura della parola è indifferente alla dignità e alla libertà del popolo. Un popolo incolto è un popolo disarmato, alla mercé di eventi che non sa definire, non sa capire, infine non sa governare.
La scolarizzazione di massa, la lotta all’analfabetismo, la con- quista della parola come arma dialettica che renda il popolo meno succube, meno subalterno, sono stati tra i grandi argomen- ti del socialismo fin dalle sue origini. Dalle Scuole per l’infanzia di Robert Owen, uno dei padri del socialismo utopista, fino a don Lorenzo Milani e la sua scuola di Barbiana, c’è un lungo filo rosso – quasi due secoli – che si intreccia indissolubilmente alle lotte per i diritti sindacali e per il salario. La parola – appunto – è come il pane.
La cura della parola, dunque, non è una pratica accademica, un lusso da fini dicitori. Riguarda tutti, ma proprio tutti. È, nel suo farsi quotidiano, una delle tante forme di “lavoro ben fatto”
(Primo Levi, La chiave a stella) che ordinano il mondo e lo pro- teggono dall’entropia. Il letto sfatto, la casa sporca, il cibo gua- sto, la sedia zoppa, i muri scrostati, l’orto abbandonato, sono se- gnali di infelicità e di patologia ben prima che di povertà; e nella stessa precisa maniera il linguaggio sciatto, o malformato, o insi- gnificante, dice che ci stiamo ammalando, o che già lo siamo. Per questa ragione la corruzione della parola, il suo svuotamento, la sua perdita di senso ci sgomentano: non si tratta di un cruccio da intellettuali che, nel deprezzamento del linguaggio, vedono il proprio declassamento di ruolo e di prestigio. Si tratta di un peg- gioramento dei rapporti umani a tutti i livelli, di un processo ba- belico che apre le porte al caos sociale, all’incomprensione, alla paura dell’altro: parlo ma non mi capisci, parli ma non ti capi- sco. Aleggia, sopra le macerie del discorso, lo spirito della guerra.
Ora, dopo pochi capoversi, sento di dover correggere – subito – questo mio incipit apocalittico. (Ed è, questo bisogno di cor- rezione, di riequilibrio, di aggiustamento, un facile esempio di cura della parola: rileggersi sempre, anche quando si scrive un sms. Il 90 per cento degli errori, delle inconcludenze, delle gros- solanità verbali potrebbe essere evitato grazie a un sistema vec- chio come il fare umano. Ogni artigiano riesamina di continuo il suo lavoro, controlla le giustezze, ritocca l’imperfezione. L’amor proprio e la cura del proprio lavoro vanno a braccetto. Ci vuole
Parole che non funzionano.
I saperi critici alla prova
PIERANGELO DI VITTORIO
I
l problema che vorrei provare a condivide- re, può essere enunciato nei seguenti termini:come rendere possibile, oggi, la trasmissione del regime di verità proprio dei “saperi critici”, in un contesto sto- rico nel quale i ponti sono saltati, e non si può più dare nulla per scontato, nessuna “tradizione”, nemmeno, o in primo luogo, quel- la “critica”?
In questa domanda, vi sono diversi elementi sui quali sarà ne- cessario spiegarsi, prima di immaginare qualsiasi tipo di risposta.
Ancora prima, però, è necessaria una premessa rispetto alle parole e al linguaggio in generale.
Wittgenstein riconosce l’importanza dell’addestramento osten- sivo, senza però vedervi il luogo di fondazione del linguaggio, che invece tale addestramento, per quanto primordiale, sempre pre- suppone. Il procedimento ostensivo consiste in questo: l’insegnan- te indica un oggetto al bambino, pronunciando ad alta voce la pa- rola usata per designarlo. Immaginiamo adesso una situazione di questo tipo: lo stesso bambino che, grazie al cartellone affisso sul muro della sua classe, ha imparato ad associare il nome “ghiande”
agli oggetti corrispondenti, un giorno, dicendo la stessa parola, si vede recapitare un girasole o una ciambella, e magari anche quei buffi oggetti ovali con il cappellino sulla testa, gli unici che, distin- guendoli dagli altri, ha imparato a chiamare ghiande. “Qualcosa non va!”, penserà il bambino. Ed è quello che penseremmo anche noi, in molti casi analoghi, se non succedesse che spesso, conviven-
do in silenzio con il disagio, invece di soffermarci a riflettere su di esso, alla fine non ci facciamo più caso e tiriamo dritto. L’indeter- minatezza diventa abitudine.
Perché accade questo? Probabilmente per le stesse ragioni indi- cate da Wittgenstein. Il linguaggio non è fatto solo di parole, né si fonda originariamente su di esse. Al contrario, le parole si inscri- vono in specifici contesti linguistici, nei quali esse sono adoperate.
Tali contesti, che Wittgenstein chiama “giochi linguistici”, fanno sì che il significato delle parole stia nel modo in cui sono usate. Gli usi delle parole sono regolati dalla consuetudine dei giochi lingui- stici e il loro significato dipende da essi.
In tal modo, ci accorgiamo subito che la scena è ancora più larga, per la semplice ragione che le consuetudini linguistiche ap- partengono al piano generale delle pratiche sociali e culturali, e quindi, in definitiva, alle forme di vita. Nel momento in cui il si- gnificato delle parole è il loro uso all’interno delle diverse forme di vita, o del tessuto cangiante ed eterogeneo della stessa forma di vita, allora, da un certo punto di vista, non c’è da stupirsi se, di- cendo ghiande, ci portano ciambelle e girasoli. Perché, in fondo, è quello che accade tutti i giorni. Fa parte delle condizioni, gene- rali e immanenti, nelle quali il significato delle parole, ogni vol- ta, “si gioca”. Al limite, potremmo dire che, se il significato delle parole sta nel loro uso all’interno del linguaggio, il significato di un linguaggio sta nel suo uso all’interno delle pratiche sociali e culturali.
L’indeterminatezza, insomma, fa parte del gioco: il rapporto fra le parole e le cose che esse designano è molto più aperto e fluttuan- te di quanto il modello del cartellone appeso in classe ci induca a pensare. La stessa parola può denotare cose diverse, e questa, se vogliamo, non solo non è un’eccezione fastidiosa, ma è la regola delle regole. O meglio, è la sotto-regola che consente a un gioco (di linguaggio) di funzionare come il gioco che è; un po’ come il principio di “tolleranza meccanica”, che implica una certa impre- cisione nel rapporto fra gli elementi di un meccanismo, consen- te, per esempio, a una serratura di aprirsi e di chiudersi (ed even- tualmente di essere scassinata). Tuttavia, il problema rilevato dal
Il metodo del doktor Kraus per la cura delle parole
STEFANO BARTEZZAGHI
The piano has been drinking. Not me.
Tom Waits
Patologia
Tempo fa ho riconosciuto in un affabile e facondo signore di mez- za età l’adeguata personificazione di un detto di Karl Kraus fra i più noti, quello per cui la psicoanalisi è la malattia che preten- de di curare. Il disturbo psichico del mio occasionale conoscente consisteva infatti nel pretendere di essere uno psicoanalista; non- ché adeguata, la rappresentazione era resa perfetta dal consenso dei suoi terapeuti, che mostravano di trattarlo da collega. Era in- somma un trasferimento applicativo del principio dell’omeopatia all’ambito della cosiddetta “talking cure”.
Tra me e me avevo battezzato “doktor Kraus” quel singolare personaggio e a lui ripenso ora che la “talking cure” psicoanaliti- ca ha avversari infinitamente meno arguti dell’omonimo Karl. Gli esseri umani ormai pensano di non poter essere curati attraverso le parole e in compenso manifestano invece grande fiducia nella possibilità di poter essere loro stessi a diagnosticare e persino gua- rire le “malattie” delle parole stesse. Una hýbris che ha tutta l’aria di essere a sua volta un sintomo.
L’equivoco ha origini invero remote. Come il Buonarroti del folklore avrebbe martellato il ginocchio del suo Mosè per lamen- tare proprio la di lui marmorea afasia, così l’umanità ha periodi- camente percosso il linguaggio e le parole per rimproverar loro l’opa cità e la mancata o insufficiente “corrispondenza” con il mon- do e con le cose. Che “corrispondenza” e con quali “cose”? Qui si entra nell’ineffabile. La lingua perfetta, l’utopia pre-babelica, poi il mistero geroglifico, la semiotica ermetica ed esoterica, la poesia
del magico e la magia del poetico, la teoresi sulle radici etimologi- che come risalita alle origini… È su questo fondale di profondità solo illusoria che si agita la più ordinaria e diffusa delusione per le manchevolezze del linguaggio umano.1 “Verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno”: la battuta con cui Cesare Zavattini ha inteso sigillare la sua sceneggiatura di Miraco- lo a Milano ha avuto un indiscutibile successo però non pare al- trettanto univocamente interpretabile. Cosa vuole dire, esattamen- te? Nei reami dove in effetti operiamo non si può mai essere certi che neppure un semplice saluto o augurio come “buongiorno” sia esente da equivoci. Questo è verissimo; così vero che ci si aspet- terebbe di poterlo ormai dare per scontato, rassegnandosi all’evi- denza del fatto compiuto. Invece no: esseri umani adulti e a volte anche sapienti confessano con gravità degna di causa migliore di rimpiangere l’Eden, letteralmente il biblico Paradiso terrestre, il luogo perduto dove le parole e le cose non erano (leggi: non sareb- bero state) separate.
Miracolo a Milano è uscito nel 1951; la Rai ha dato inizio alle trasmissioni televisive nel 1954. In Italia cultura di massa e co- municazione mediale erano incipienti; di lì a poco avrebbero im- plicato l’allargamento dell’alfabetismo e soprattutto il progressi- vo prevalere della lingua nazionale sugli idiomi locali. Una lingua italiana scolastica, ufficiale, curiale, polisillabica, ipotattica si sa- rebbe presto imposta al di sopra di dialetti ad azione limitata ma di notevole sveltezza e praticità. “Immediati”, sì: ma dall’esclusivo punto di vista della disponibilità delle loro risorse ai parlanti che li avevano avuti come rispettivi idiomi natii – o, se si preferisce,
“materni”. Di “immediato” una lingua non può avere molto di più.
Diagnosi
A dieci anni dall’esordio delle trasmissioni televisive della Rai, si accese tra scrittori un dibattito sulla lingua italiana, oggi in- teressante da un punto di vista strettamente sintomatico. Italo Calvino vi si trovò a sorpassare in pessimismo diagnostico persino
1. U. Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Laterza, Roma-Bari 1993.
Totus in illis.
Lingua, poesia, comunicazione
GIAN MARIO VILLALTA
Nonna ci dice:
– Figli di cagna!
La gente ci dice:
– Figli di una strega! Figli di puttana!
Altri dicono.
– Imbecilli! Mascalzoni! Mocciosi! Asini! Maiali! Porci! Ca- naglie! Carogne! Piccoli stronzi! Pendagli da forca! Razza di assassini!
Quando sentiamo queste parole, il nostro volto diventa rosso, le orecchie ronzano, gli occhi bruciano, le ginocchia tremano.
Non vogliamo più arrossire né tremare, vogliamo abituarci alle ingiurie e alle parole che feriscono.
Ci sistemiamo a tavola in cucina, uno in faccia all’altro e, guardandoci negli occhi, diciamo delle parole sempre più atroci:
Uno:– Stronzo! Buco di culo!
L’altro:
– Vaffanculo! Sporcaccione!
Continuiamo così finché le parole non entrano più nel nostro cervello, non entrano più nelle nostre orecchie.
Ci esercitiamo così in questo modo una mezzora circa ogni giorno, poi andiamo a passeggiare per le strade.
Facciamo in modo che la gente ci insulti e constatiamo che fi- nalmente riusciamo a stare indifferenti.
1. Spero che queste righe abbiano rivolto a chi le ha appena lette più di una richiesta di attenzione.1
Dove cominciamo a percepire lo scarto?
Finché la narrazione enumera insultatori e insulti per poi de- scrivere l’effetto dell’offesa in termini fisiologici nulla v’è di stra- no. Certo, è interessante che non vi sia accenno a una ferita “in- teriore” ma sia il corpo a rispondere agli insulti; non è però così nuovo, dato che Saffo nel famoso Frammento 31 (riscritto in parte da Catullo, Carme 51) fa lo stesso di fronte all’apparizione del suo proprio desiderio incarnato in un corpo vivo e vicino. A così gran- de distanza di tempo, e dopo millenni di esplorazione dell’interio- rità e delle profondità ingannevoli della psiche, di nuovo leggiamo qualcosa che però conosciamo bene: la parola che ci ferisce (non a caso usiamo questo verbo) ottiene una reazione nei muscoli, sulla pelle, nel respiro, alla “bocca dello stomaco”.
Diciamo pure che questo lo sapevamo già. La sorpresa arriva quando i due ragazzini (gemelli, non a caso “l’uno” e “l’altro”, unità e insieme non-unità speculare) invece di volersi sottrarre, vogliono abituarsi alle ingiurie. Chissà cos’avrebbe escogitato Huckleberry Finn per fargliela pagare e poi inventarsi un altrove! Loro voglio- no abituarsi. E per abituarsi si mettono composti ai lati simmetrici del tavolo e iniziano la serie degli insulti. È una scuola. E come a scuola ha un orario: mezz’ora di esercizio al giorno. Senza scomo- dare Peter Sloterdijk e le sue riflessioni sulla funzione e sulla po- tenza dell’“esercizio”, veniamo a sapere che funziona.2 Non solo funziona in via privata, ma regge alla prova pubblica quando essi cercano di proposito gli insulti della gente per completare l’eser- citazione con una verifica.
Quindi si può acquisire una “resistenza” al potere della pa- rola, quando fa male, e pare che l’intenzione malvagia non con- ti più, se viene meno l’effetto della parola stessa. Non è la ma- turazione di un’“attenzione critica” – non cercano questo – che
1. Cito qui e più avanti dalle pp. 16 e 17 di Quello che resta (1986), di Ágota Kristóf, tradotta dal francese da Armando Marchi per l’edizione Guanda del 1988.
2. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita (2009), trad. di S. Franchini, ed. it. a cura di P. Perticari, Raffaello Cortina, Milano 2010.
Il discorso del maestro
MASSIMO RECALCATI
La fine del maestro
Il maestro è una parola e una figura in via di estinzione. Il suo tramonto coincide con l’imporsi di un linguaggio disossato, in- formatizzato, senza più rapporti con la vita, subordinato al fetici- smo delle cifre. La neolingua ipermoderna vorrebbe prescindere e autonomizzarsi dalla dimensione carismatica del maestro, ovve- ro dalla soggettività irriducibile della sua enunciazione. Convie- ne ricordare che la parola “maestro” viene da magis e indica ori- ginariamente, nella lingua latina, colui che ha un ruolo superiore contrapposto a quello del ministro (minister), che indica invece colui che ha un ruolo inferiore (minus). Conviene anche ricorda- re che si tratta di una terminologia che affonda la sua origine nel linguaggio religioso: il primo era “il celebrante principale” men- tre il secondo era invece l’assistente, “il servitore”.1 Il nostro tem- po ha cancellato brutalmente questa subordinazione ribaltandola indebitamente. La forza profetica non risiede più nella parola del maestro ma si è anchilosata e dispersa nell’esercizio politico-am- ministrativo del ministro. La parola “maestro” suscita oggi assai meno ammirazione che sospetto. Nel tempo dell’orizzontalizza- zione populistica dei saperi, questa parola provoca una sorta di allergia spontanea se non addirittura un dubbio di legittimità nel farne uso. In questo ripudio si trovano alleati paradossalmente la tradizione pedagogica libertaria e l’attuale imperante paradigma
1. I. Dionigi, Parole che allungano la vita. Pensieri per il nostro tempo, Raffello Corti- na, Milano 2020, p. 43.
(neuro)scientista. La prima rifiuta l’autorevolezza del maestro nel nome di un egualitarismo solo ideologico, la seconda la vorrebbe rimpiazzare con l’obiettività algida della spiegazione impersonale.
Il destino del maestro sembra segnato e fatalmente legato a quel- lo – anch’esso in declino irreversibile – del padre. Non sarebbero forse il maestro e il padre – nella loro ambigua e reciproca deriva- zione e problematica prossimità – delle mere scorie di un’ideolo- gia autoritaria di matrice patriarcale e di una cultura superstiziosa della quale sarebbe bene liberarsi risolutamente, senza nutrirne alcuna nostalgia? Al “basta con i padri!” non dovrebbe giusta- mente fare eco “basta con i maestri!”?
Il maestro e la luce
Ho da tempo interrogato cosa resta del padre nel tempo del tra- monto inevitabile (e benvenuto) della sua rappresentazione pa- triarcale. Non converrebbe interrogarsi anche su cosa resta del maestro al di là di ogni sua rappresentazione pedagogico-morale o disciplinare? In primo luogo non dovremmo mai dimenticare che il maestro è in un rapporto stretto, più che con il potere pa- triarcale, con l’esperienza della luce. Dovremmo avere il corag- gio di dichiararlo senza indugi: il maestro è, in sé, una figura del- la luce. È un fatto di esperienza condivisa: la parola del maestro illumina. Quando un maestro degno di questo nome parla, la luce accade. Non bisognerebbe trascurare altresì che la chiarez- za resta una qualità fondamentale di un magistero. Senza questa qualità non si dà, infatti, possibilità di trasmissione del sapere.
La parola che sa osare il rischio estremo della chiarezza rinuncia al potere che gli assegna l’esoterismo realizzando una parola che passa sé stessa piuttosto di avanzare la pretesa di essere l’ultima.
La chiarezza è, infatti, la marca della castrazione che il maestro sa ospitare nella sua parola. Non a caso è questo il motto fonda- mentale che ispirava la pedagogia di don Milani: il sapere non bi- sogna tanto possederlo, ma darlo.2 Sicché molto frequentemente
2. Scuola di Barbiana, Lettere a una professoressa, Libreria editrice fiorentina, Firen- ze 1967, p. 110.
Senza parole?
I migranti, noi, gli albi
DAVIDE ZOLETTO
La sproporzione, di cui si fa quotidianamente esperienza, tra il linguaggio sull’immigrazione e il linguaggio (o il non-linguaggio) sull’emigrazione, non sarà soltanto un effetto dell’asimmetria che caratterizza il fenomeno migratorio?
A. Sayad, La doppia assenza (1999)
“
Che faccio: gli tappo gli occhi? Spengo la te- levisione? Lo chiudo in cantina non gli per- metto più di uscire gli nascondo i giornali alzo la musica solo musica nient’altro che musica. Come si dice l’indicibile?”1 Inizia così un breve testo intitolato semplicemente“Le parole” con il quale lo scrittore Fabio Geda contribuisce al li- bro illustrato Fifa nera, fifa blu di Alessandra Ballerin e Lorenzo Terra. È un libro fatto di dieci piccoli racconti e altrettante illu- strazioni, che si può leggere da un lato o dall’altro. Si tratta, sug- geriscono gli autori, “di due facce di una stessa paura”. Da un lato, come si legge nella prima pagina, c’è “la fifa blu di noi che vivia- mo sulla sponda agiata del mondo e guardiamo i migranti sbarca- re”. Dall’altro lato, se si capovolge il volume, “la fifa diventa nera, quella che vediamo ogni giorno scolpita nei loro occhi di ogni età, la fifa di ciò che hanno già visto e di ciò che li attende”.2
Il testo di Geda dedicato alle “parole” si trova nel lato “fifa blu” del libro, quello – per così dire – che ci tocca più da vicino, in prima persona. A suggerirci, forse, che fra le nostre “fife” po- trebbe esserci anche questa: di non sapere più quali parole usare,
1. F. Geda, “Le parole”, in A. Ballerini, L. Terranera, Fifa nera. Fifa blu, Donzelli, Roma 2017.
2. Sul tema delle paure, ma anche delle potenzialità, emergenti oggi nei contesti ad alta complessità socioculturale, cfr. il recente V. Ongini, Grammatica dell’integrazione. Italiani e stranieri a scuola insieme, Laterza, Roma-Bari 2019, in particolare il capitolo “Fifa bian- ca: la paura dei genitori italiani per le scuole con ‘troppi’ stranieri” (pp. 10-17), che muove fra l’altro anche dalle pagine dello stesso Fifa nera, fifa blu di Ballerini e Terranera.
o – quanto meno – di non sapere più come usare le parole che ci pare di avere a disposizione, ma che avvertiamo come usurate, for- se abusate, e quindi difficili da usare o da ri-usare. E che ci verreb- be il desiderio di non usare. O che non vorremmo sentire, né far sentire. Tanto più quando ci troviamo – per scelta, per lavoro, per situazioni quotidiane – a interagire con i più giovani, o addirittu- ra con i bambini. E a restare, per così dire, anche con loro, quasi senza parole… Come scrive Geda, appunto: “Che faccio: gli tap- po le orecchie? Come gliela dico – come posso dire a mio figlio la fragilità delle parole?”.3
Potrebbe forse valere un po’ – anche per la fragilità, l’usura, gli abusi delle parole che comunemente diciamo e scriviamo intorno alle migrazioni (anche quelle che diciamo e scriviamo con/per i bambini) – quanto suggeriva anni fa Pier Aldo Rovatti per alcune parole della filosofia, ovvero che spesso “sono troppo automatiche, ammassate, legate l’una all’altra da valenze scontate”.4 Con l’aggra- vante, forse, che, come hanno mostrato, con modi e toni diversi, au- tori come Abdelmalek Sayad, Judith Butler, Étienne Balibar – ma come ci ricordano con triste (e sempre allarmante, oltre che per certi aspetti frustrante) frequenza anche tanti fatti di cronaca – le parole della/sulla migrazione sono parole che non di rado posso- no “fare male”.5
Potrebbe essere, forse, che – come suggeriva allora Rovatti per altri tipi più “filosofici” di parole6 – anche le usurate e fragili paro- le della migrazione abbiano oggi bisogno di “un po’ di silenzio”?
3. Ibidem.
4. P.A. Rovatti, L’esercizio del silenzio, Raffaello Cortina, Milano 1992, p. 129.
5. J. Butler, Parole che provocano. Per una politica del performativo (1997), trad. di S. Adamo, Raffaello Cortina, Milano 2010; É. Balibar, Nominare la razza (2004), “Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale”, 1, 2006,
<www.juragentium.unifi.it/it/forum/race/balibar.htm>; A. Sayad, La doppia assenza. Dal- le illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato (1999), trad. di D. Borca e R. Kirch- mayr, Raffaello Cortina, Milano 2002. Ma si veda anche, per una riflessione in prospettiva anche pedagogica, D. Zoletto, Nel pantano della violenza. Il linguaggio dello Stato-nazione e le “seconde generazioni”, “aut aut”, 344, 2009, pp. 148-159, e S. Lorenzini, M. Cardellini (a cura di), Discriminazioni tra genere e colore. Un’analisi critica per l’impegno intercultura- le e antirazzista, Franco Angeli, Milano 2018.
6. P.A. Rovatti, L’esercizio del silenzio, cit., p. 129.
Fallimento
ILARIA PAPANDREA
Non c’è altro trauma: l’uomo nasce malinteso.1
C
ura delle parole. Parole da salvare… Non si può che girare un poco in tondo, sen- za affrettarsi a credere di aver compreso.Che cos’è quel curare/salvare? E le parole? Come prenderle? Sem- pre che non ci abbiano già preso.
È forse il caso di cominciare con una sospensione. Sì, ecco, ci vorrebbe un “alt”, un “fermo immagine”, qualcosa che ci dia il tempo di rendere meno stretti certi nessi, per esempio quello fra due parole: cura e malattia. Le parole potranno anche non portar- si attaccata alla suola delle loro scarpe – ci piace immaginare che ne abbiano – le cose delle quali dovrebbero parlare, ma non man- cano di portarsi dietro catene di altre parole. Detta una, ce n’è già un nugolo pronto in agguato. Saremmo sorpresi di scoprire quan- te sono le vie di queste concatenazioni. Alcune corrono lungo il filo del cosiddetto “senso”, che non ci mette poi troppo a diventa- re “comune”. Il senso funziona come un condensatore, fa un po’
come il magnete con la polvere di ferro, attira la limatura e dopo aver esercitato la sua attrazione un certo numero di volte, senza quasi che ce ne accorgiamo, cominciamo a credere che ci siano delle congiunzioni naturali. Dall’inerzia del senso risulta alquan- to difficile svegliarsi. Ma ci sono poi anche altre concatenazioni.
Sono meno corpose, forse perché invece di percorrere la via del
1. J. Lacan, Le malentendu (1980), “Ornicar?”, 22-23, 1981, p. 11.
senso, si attaccano a brandelli di parole e partono da questi per costruire altri percorsi e scavare le proprie vie.
Se ne era accorto Freud, impegnato ad analizzare un proprio atto mancato.2 Mentre la sua memoria falliva a ricordare un nome, qualcosa riusciva proprio così come avrebbe dovuto, offrendogli una parola per un’altra, un nome per un altro. È sempre salutare rileggere queste pagine di Freud. Per inciso: l’aggettivo “saluta- re”, che salta fuori, è un bell’esempio di come le parole ci parlano (ci andrebbe letto come complemento oggetto e non come com- plemento di termine, quasi fossimo noi, che crediamo di padro- neggiarlo, gli oggetti parlati dal linguaggio). La “salute” rispun- ta infatti fuori, senza che la si sia troppo cercata, segue come un vagone il resto del convoglio e si aggancia a “cura” e “malattia”.
Guarda caso, è su queste stesse faccende che si arrovellava anche Freud, mentre su un treno diretto da Ragusa in Herzegovina si in- tratteneva a discorrere con il suo compagno di viaggio.3 Parlava- no, come capita di fare quando si viaggia, spostandosi da un argo- mento all’altro.
Dopo aver scambiato qualche parola sugli abitanti di Bosnia e Herzegovina e sulle caratteristiche dei turchi che abitano quelle regioni, il discorso si sposta sull’Italia e sulla sua pittura. Freud vuole invitare il suo compagno a visitare Orvieto e ammirarne gli affreschi della cattedrale, ma la sua memoria fa cilecca. Non ricor- da il nome del pittore che li ha dipinti. I nomi propri, ci dice, sem- brano spesso subire la sorte di venire dimenticati sul più bello.4 Potrebbe prenderla come una défaillance, di quelle che capitano e che lasciano un certo amaro in bocca (forse perché il nome è lì, sulla punta della lingua, ma non vuole saltar fuori). Freud, però, non si accontenta, non gli basta annotare questa fallacia della me- moria. Non è il buco ad attirare la sua attenzione, ma la pezza che lo rattoppa, quel Botticelli e quel Boltraffio che prendono il po-
2. S. Freud, Meccanismo psichico della dimenticanza (1898), in Opere, vol. II, Borin- ghieri, Torino 1982. (L’esempio è ripreso anche in Id., Psicopatologia della vita quotidiana [1901], in Opere, vol. IV, Boringhieri, Torino 1982.)
3. Cfr. ivi, p. 424.
4. Cfr. ivi, p. 423.
Sopravvivenza
BEATRICE BONATO
Vita minima
Di tutte le considerazioni fatte a ridosso dell’epidemia di Covid-19, alcune lasciano un segno più marcato e non smettono di esercita- re, oltre a un indubbio fascino intellettuale, un effetto conturban- te. Per me, come penso anche per moltissimi altri, hanno avuto senz’altro questa forza gli interventi di Giorgio Agamben pubbli- cati sul sito della casa editrice Quodlibet tra febbraio e maggio.1 Le risposte politiche e scientifiche all’emergenza sanitaria hanno contribuito a far precipitare, radicalizzandone alcuni tratti, le tesi di Agamben sull’esito attuale della biopolitica e sul suo intreccio con lo stato d’eccezione. Non è di questo, naturalmente, che vor- rei discutere nel mio breve contributo, dove cerco invece di pren- dermi cura di una parola diversa. Mi limito a un rapido richiamo, necessario come premessa per le osservazioni che proporrò.
Nel rilanciare in modo drammatico e un po’ perentorio con- cetti e argomenti già ampiamente sviluppati in diversi luoghi della sua opera, quelle brevi, acuminate sentenze, quelle domande for- temente provocatorie del filosofo continuano a sollecitare non solo una risposta, ma un supplemento di riflessione su questioni deci- sive, che ruotano tutte intorno al senso della nozione di “vita”. Se- condo Agamben, le restrizioni della libertà personale hanno con- figurato una violazione di tutti i fondamenti giuridici di una de- mocrazia; ammesso che siano state imposte in nome di un bene
1. Tutti gli interventi di Agamben sull’emergenza sono ora pubblicati in G. Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet, Macerata 2020.
al di sopra di tutti gli altri – la vita, appunto – nondimeno erano inaccettabili, perché un bene come la vita non può essere “salvato”
a prezzo della sottrazione di un bene altrettanto importante, for- se persino più importante, qual è la libertà.2 D’altra parte, la vita protetta quasi a tutti i costi non è che la “nuda vita”, ridotta alla sua espressione biologica; la zoé, in nome della quale il bios, ovve- ro la vita relazionale e politica, è invece stata sospesa.3 In questo scambio scandaloso, ciò che colpisce è la facilità, la condiscenden- za, con cui i cittadini hanno obbedito alle autorità statali. Come è stato possibile? “Questo è potuto avvenire […] perché abbiamo scisso l’unità della nostra esperienza vitale, che è sempre insepa- rabilmente insieme corporea e spirituale, in una entità puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale dall’altra.”4
Saremmo tutti coinvolti dunque nella responsabilità di aver ri- dotto, ben prima dell’emergenza sanitaria, la vita umana a nuda vita, a mera sopravvivenza biologica. “E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?”5
Ecco la parola sgradevole, che un po’ disturba, come se si por- tasse dietro un’ombra grigia, e lasciasse percepire un sentore di chiuso – lo spazio chiuso delle nostre case dove ci siamo rassegnati a rimanere. Come possiamo limitarci a desiderare la mera soprav- vivenza? E cosa ne ricaviamo? Ci saremmo lasciati condizionare dalla paura della morte, il massimo potere di asservimento; ma è una vita da servi quella che abbiamo ottenuto di salvare.
Potevamo fare altrimenti? Viene in mente il “vel alienante” di cui parlava Lacan: l’obbligo di scegliere tra la vita e la libertà ci pre- senta una falsa alternativa, il cui esito è in ogni caso una privazione.
Come è implicito nell’intimazione “O la borsa o la vita!”, dove, se
2. “Una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettan- to falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla li- bertà”, G. Agamben, Una domanda, <www.quodlibet.it/giorgio-agamben-una-domanda>.
3. “La nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. È eviden- te che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religio- se e politiche al pericolo di ammalarsi”, G. Agamben, Chiarimenti, <www.quodlibet.it/
giorgio-agamben-chiarimenti>.
4. Id., Una domanda, cit.
5. Id., Chiarimenti, cit.
Anarchia
DONATELLA DI CESARE
1.
Sebbene talvolta mitigata da toni nostalgi- ci, l’accezione corrente della parola “anar- chia” è spregiativa. Viene infatti assunta sia nel suo significato puntuale, come negazione del principio e del comando, sia ancor più spesso in quello derivato di assenza di governo e perciò disordine.Si legittima così la sovranità come la sola condizione dell’ordi- ne, l’unica alternativa all’assenza di governo.1 Anarchia diventa un altro modo per indicare la confusione selvaggia che imperverse- rebbe nello spazio illimitato, oltre la sovranità statuale. Ecco per- ché la storia della parola e dei suoi usi va ben oltre l’interesse se- mantico e rivela una concezione dell’architettura politica che nei secoli si è andata rafforzando.
All’opera è la fortunata narrazione di Hobbes. Istituito per su- perare il caos di natura da cui potrebbe continuamente scaturire un conflitto civile, il potere sovrano sarebbe frutto di un patto con- diviso, di una comune sottomissione. Hobbes giunge a fare dello Stato una “persona”, una figura quasi antropomorfica alla cui so- vranità interna, assoluta e indiscutibile, corrisponde una sovranità esterna arginata dagli altri Stati sovrani. Con una mossa destinata ad avere effetti duraturi, proietta oltre i confini il Leviatano, ani-
1. Cfr. R. Ashley, “The powers of anarchy: Theory, sovereignty, and the domestication of global life” (1988), in J. Der Derian (a cura di), International Theory. Critical Investiga- tions, Macmillan, London 1995, pp. 94-128.
male del caos primitivo, scelto a emblema del potere statuale. La selvaggia sregolatezza, che all’interno è trattenuta, si scatena inve- ce fuori nella guerra virtuale permanente tra i lupi statuali, i Le- viatani sovrani.2
La dicotomia tra interno ed esterno, sovranità e anarchia, attra- versa tutto il pensiero moderno e, giungendo fino a oggi, impone una gerarchia di problemi, prescrive soluzioni, giustifica principi – primo fra tutti quello dell’obbedienza al potere sovrano. Inutile dire che introduce giudizi di valore: da un canto lo spazio interno, in cui si può puntare al vivere bene, dove si afferma il progresso, la giustizia, la democrazia, i diritti umani, dall’altro lo spazio ester- no, in cui si dà tutt’al più sopravvivenza, dove sembrano possibili solo i vaghi progetti cosmopolitici di una confederazione di popo- li, se non la riproposizione di uno Stato mondiale. La globalizza- zione muta lo scenario, ma non mina effettivamente la dicotomia tra sovranità e anarchia. Dilata, però, l’ottica lasciando affiorare i limiti di una politica ancorata ai confini tradizionali, incapace di volgere lo sguardo oltre le frontiere. Il paesaggio appare compli- cato come mai perché, se gli Stati-nazione continuano a imporre il quadro normativo degli avvenimenti, gli spazi reali e virtuali che si dischiudono tra un confine e l’altro si vanno popolando di altri protagonisti. Il che spinge a prendere congedo da quella dicoto- mia fra dentro e fuori, civiltà, inciviltà, ordine e caos.
Per addentrarsi in un paesaggio ignoto occorrerebbero mappe adeguate che tuttavia non esistono. Eppure nuovi fenomeni, come le migrazioni globali, dischiudono uno squarcio, lasciano intrav- vedere ciò che accade fuori.3 In modo analogo le rivolte attuali si situano in gran parte oltre la sovranità, nell’aperto da sempre con- segnato all’anarchia. Quest’aperto va inteso non solo come spazio tra un confine e l’altro, ma anche come fessura, interstizio, spira- glio nello scenario interno. È anarchica la rivolta che mina al fon- do l’arché, il principio e l’ordine dell’architettura politica, dell’or-
2. Cfr. T. Hobbes, Leviatano (1651), 2 voll., trad. di M. Vinciguerra, Laterza, Roma- Bari 1974, XIII, p. 111, XXI, p. 189.
3. Cfr. D. Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Borin- ghieri, Torino 2017.
Empatia
ANNAROSA BUTTARELLI
N
el “manifesto” di Pier Aldo Rovatti, che orienta la ricerca di questo numero di“aut aut”, si avverte l’urgenza di chi sa ascoltare le perversioni dei tempi in cui si vive, e desidera interve- nire con buoni strumenti per condurre i comportamenti verso oriz- zonti più limpidi. Tuttavia sappiamo che le nostre intenzioni, anche se “buone”, non sono mai state sufficienti, tanto meno se adoperia- mo gli strumenti che hanno provocato il problema: nel nostro caso, la mancanza dell’autentica comunicazione intersoggettiva. Anche la parola “intersoggettività”, se usata astrattamente oppure come una chiave che apre la scatola chiusa della filosofia razionalista, può pervertirsi in un’astrazione che concorre ad accrescere il rumore di fondo del generale parlottio pubblico contemporaneo, insensato e senza etica. In altre parole, più dirette: penso che non potremo proporre un’etica della parola se la forma mentis (a proposito della necessità del latino che opera il cortocircuito necessario) prevalen- te non accetterà di attraversare una trasformazione, difficile ma in grado di traghettare la filosofia europea verso le sue radici sapien- ziali e, quindi, di salvarla dall’obsolescenza. Le radici pratiche e sa- pienziali della filosofia sono vicine alla fenomenologia ma anche questa in breve tempo è diventata “di sorvolo” o addirittura si è piegata alla rigidità della tecnica accademica, o alla ricerca sofistica che piega “la cosa stessa” al viluppo dell’argomentazione razionale.
Infatti, se la filosofia si astrae dalla vita quotidiana non sposta avanti i confini che si richiudono su sé stessi, cioè perde la sua ca-
pacità trasformatrice. Senz’altro la pensava così Edith Stein quan- do si è accorta che il suo maestro Husserl aveva mancato (nella V Meditazione cartesiana, in particolare) la “dimostrazione” del- l’esistenza dell’intersoggettività, sbrigandosela troppo in fretta con qualche breve ragionamento già disponibile sul tavolo del gio- co della filosofia universitaria. Mancare questo punto fondamen- tale del progetto fenomenologico voleva dire, e vuole ancora dire, mancare il senso e l’esperienza dell’alterità. Non sarà magari per questo, per il mancato senso dell’alterità, che oggi ci ritroviamo nel buio della mancata comunicazione, nel caos concettuale, nel- la violenza dei linguaggi, nel becero opinionismo di massa, nella tecnocrazia dei linguaggi specialistici, nelle bugie pubbliche, nel- la ricusazione continua delle differenze, nella mancanza di pen- siero radicato e radicale? Infatti, Edith Stein partì da un’intui- zione cruciale poiché mancava un cardine importante all’elabo- razione fenomenologica: l’esperienza dell’altro, di altro, perciò l’esperienza dell’intersoggettività come l’oltre della dicotomia di fatto tra soggetto e oggetto. Pensò che l’avrebbe aiutata una ricer- ca filosofica sull’empatia, l’Einfühlung che si era introdotta nel- l’estetica filosofica a partire da Novalis.
Un’intuizione decisiva che la portò, dopo aver fatto un perio- do come infermiera, a elaborare la sua tesi di dottorato, Il proble- ma dell’empatia (Zum Problem der Einfühlung, 1917), e a riscrivere l’ontologia togliendola dal territorio della dicotomia essere/non es- sere, e accompagnarla nello spazio in cui il senso dell’essere è inte- so come essere in relazione. In fondo non era così difficile per una pensatrice trovare l’uovo di Colombo: non si può arrivare all’in- tersoggettività per via teorica, ma vi si arriva per via d’esperienza, e da lì si può elaborare la teoria. La filosofa aveva buoni motivi di desiderare di farne un sapere pratico e, di conseguenza, politico, non di rinchiudere la sua ricerca all’ambito esclusivamente teore- tico e argomentativo perché era consapevole che l’empatia resiste a ogni pretesa di analisi esaustiva. Fino al momento in cui Edith Stein inizia a scrivere la sua tesi, Einfühlung veniva intesa o come esperienza estatica, dunque come un abbandono della coscienza, o dell’io se si vuole; oppure si interpretava come “immedesimazio-
Fine
MARCO PACINI
D
ovremmo prendere sul serio la parola Fine? Ma soprattutto: siamo in grado di averne cura, facendocene carico nella misura necessaria e sufficiente? Tra una risposta affermativa alla prima domanda e una negativa alla seconda – con le relative “pre- scrizioni” – si apre la possibilità della catastrofe, figlia del doppio legame che ci paralizza, ci inchioda a una modernità che ci mostra insieme la sua tossicità e la sua ineluttabilità. Una tarda-moderni- tà “fuori controllo” che rende più evidente quello che Günther Anders chiamava (in altro contesto, ma con un’espressione attua- lissima) “dislivello prometeico”, per descrivere “l’asincronizzazio- ne ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti”,1 o in altre parole l’incapacità di homo faber di prevedere gli esiti del suo illimitato “fare”.La Fine maiuscola di cui parliamo naturalmente non riguarda la numerosa famiglia di concetti di cui abbiamo già celebrato il fu- nerale apponendo il prefisso “post” sulla loro lapide (modernità, politica, democrazia, verità…), o almeno non riguarda il “modo”
in cui li abbiamo seppelliti. Riguarda, più semplicemente, la fine del mondo (umano). Una Fine con cui intratteniamo contempora- neamente un rapporto di confidenza e distanza, grazie a una so- vraproduzione letteraria e cinematografica, nella doppia versione
1. G. Anders, L’uomo è antiquato (1992), trad. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 1992, vol. I, p. 50.
della distopia ecologica e tecnologica (si vedano, per esempio, le saghe di Mad Max e Matrix): un’autentica industria della sublima- zione che squadernando scenari di un “uomo senza mondo” vela quello di un “mondo senza uomo”, vale a dire quello della nostra fine come specie.
Le ragioni per cui dovremmo prendere sul serio la parola Fine sono da qualche decennio fin troppo note e numerose per doverle qui ricordare. Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro osservano – tra gli altri – che il riscaldamento globale e la catastro- fe ambientale in corso sono “uno dei fenomeni meglio referenziati della storia della scienza”.2
Il monitoraggio dei processi biofisici del Sistema Terra segnala da tempo la prossimità o l’oltrepassamento di tipping points, di limi- ti oltre i quali le condizioni ambientali e la sopravvivenza di molte specie (tra cui la nostra) sarebbero incompatibili. Sono soprattutto le scienze che la modernità aveva relegato tra le “minori” a segna- larci la grande discontinuità, ad avvertirci che l’assenza di futuro potrebbe essere già iniziata, per dirla ancora con Anders. Sono le retroazioni del Sistema Terra al Progresso che sottraggono la paro- la Fine all’ambito escatologico per consegnarla alla cronaca.
Danowski e Viveiros de Castro traducono le evidenze scien- tifiche sintetizzando in modo efficace la discontinuità sul piano dell’antropologia filosofica:
C’è il sentimento crescente […] che i due attanti della nostra mito- antropologia, l’“umanità” e il “mondo” (la specie e il pia- neta, le società e i loro ambienti, il soggetto e l’oggetto, il pensie- ro e l’essere), siano entrati in una congiunzione cosmologica ne- fasta, associata ai nomi controversi di “Antropocene” e “Gaia”.3 Sono nomi con cui abbiamo ormai una certa dimestichezza, sen- za tuttavia prenderli davvero sul serio, considerando che il primo
2. D. Danowski, E. Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine (2014), trad. di A. Lucera e A. Palmieri, Nottetempo, Milano 2017, p. 194.
3. Ivi, p. 173.
Prendere in parola, non alla lettera
NICOLA GAIARIN
I
n un numero dedicato alle parole, provo a fare qualche considerazione su una formula- zione che è stata molto importante per que- sta rivista e, senza paura di esagerare, per la filosofia italiana degli ultimi decenni. Sto parlando di quella strana coppia formata dalle parole “pensiero” e “debole”. Metafora,1 scorciatoia, formula a ef- fetto, ossimoro, contraddizione in termini, boutade, gag concettua- le. Una formulazione talmente precisa e fortunata da apparire, fin da subito, stranamente sbagliata. Uno slogan uscito in un periodo in cui gli slogan cominciavano a essere fuori tempo massimo op- pure un brand nel momento in cui i marchi iniziavano a dominare la scena. Queste due parole “pensiero” e “debole” come possibile marca di un curioso made in Italy filosofico. Parole che ritorna- no, come se non potessimo farne a meno. Parole scomode, in un modo o nell’altro.Ci vorrebbe, per ricostruire le avventure del pensiero debole, una visione critica che avesse, per così dire, una vocazione war- burghiana. Sia per seguirne i fili, per quel che hanno di ingarbu- gliato, sia per disegnare il profilo di una costellazione sintoma- tica. Come se il pensiero debole fosse una storia di sintomi e di resistenze.
1.Metafora necessaria? Esiste una necessità della metafora o la metafora ha sempre qualcosa di buttato là, di casuale, di avventato? Si veda, sul tema, P.A. Rovatti, “Una meta- fora necessaria?” (1984), in Trasformazioni del soggetto, Il Poligrafo, Padova 1992.
Credo si tratti, soprattutto, di una resistenza che deriva dalla difficoltà di fare i conti con un certo sfondo temporale. Il pensie- ro debole è il pensiero degli anni ottanta? Sottinteso: è il pensiero del riflusso, del ritorno del privato, del craxismo, della Milano da bere? Oppure è il pensiero della transizione e del transito critico, un modo per salvare – travestendola – la spinta politica degli anni settanta, facilitandone il passaggio in un contesto che sembrava poco propenso ad accoglierla?
L’ambivalenza è evidente e curiosa. Il pensiero debole è la fine – o, quantomeno, l’inizio della fine – di una certa forma di pen- siero militante o è la trasformazione della militanza in un oggetto in grado di resistere al passaggio di decennio? Insomma, niente di più vile del pensiero debole, come avrebbe detto anni dopo Toni Negri?2 O, piuttosto, niente di più coraggioso, nel suo ten- tativo di far entrare il pensiero critico in una seconda fase, facen- do finta di averlo trasformato in qualcosa di diverso? Pensiero di contrabbando, avrebbe detto Jannacci con Paolo Conte?
Il pensiero debole rimane interessante proprio perché ambiva- lente. Non “nonostante”, ma “grazie” alle ambivalenze. La stessa ambivalenza che si annuncia fin da subito, nel momento stesso in cui si accostano due parole, pensiero e debole, che creano un cam- po di tensione, accendendosi immediatamente, come se fossero un’insegna al neon, nel paesaggio filosofico dell’epoca.
E c’è una resistenza alla base della formulazione stessa, creata dalla tensione tra due parole che, apparentemente, non avevano motivo di stare assieme. Anzi, parlerei di una resistenza doppia, che, giocando con le possibilità e i doppi sensi delle parole, è allo stesso tempo agita e subita. Cioè vissuta come resistenza e subita come effetto di resistenza. Come se si fosse sempre condannati, quando si resiste, a resistere a un possibile avversario e, allo stes- so tempo, a delle spinte interne. Potremmo dire forse, con Derri- da, che le resistenze, come i fantasmi, sono sempre plurali. Vale a dire che non si riducono a un calcolo tanto semplice.
2.Cfr. A. Negri, La differenza italiana, Nottetempo, Roma 2005, p. 7.
Inconscio. La macchia cieca della filosofia e il corpo del godimento
GIOVANNI LEGHISSA
E
dmund Husserl, nell’Appendice XXI posta nel sesto volume dell’Husserliana, scrive che non ha molto senso, per il fenome- nologo, occuparsi dell’inconscio.1 Prima si dovrebbe sapere bene che cos’è la coscienza, solo poi, eventualmente, si può ipotizza- re che vi sia posto per un sapere che metta a tema la rilevanza dell’inconscio. È vero che la coscienza di cui Husserl si è sempre occupato è quella di un soggetto trascendentale che deve dar con- to di come sia possibile descrivere il decorso di ogni esperienza possibile – un soggetto, cioè, che ha come unico compito quello di fissare il polo verso cui si dirige la datità degli oggetti possibili.Il soggetto trascendentale husserliano, insomma, ha le fattezze di un personaggio concettuale, nel senso che assume quest’espres- sione per Deleuze e Guattari,2 e assomiglia assai poco a un qua- lunque soggetto in carne e ossa – tanto più che abita in quel mon- do inesistente che è la Lebenswelt, la quale, a sua volta, non può coincidere con il mondo ambiente abitato dai viventi.3
Tuttavia, l’intera argomentazione svolta nella Krisis, a cui si connette il testo citato, porta alle estreme conseguenze un para-
1. Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936), a cura di W. Biemel, trad. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1983, pp. 498-500.
2. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), trad. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 1996, p. 51 sgg.
3. Su ciò, cfr. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo (1986), trad. di B. Argenton, il Mulino, Bologna 1996.