Capitolo 5
Le origini sociali dei militari di età moderna
5.1 Le origini sociali dei militari: quali i problemi?
Studiare la composizione sociale delle strutture militari in età moderna aprirebbe nuovi spazi di ricerca, non tutti necessariamente legati all’aspetto bellico. Offrirebbe innanzitutto spunti fondamentali per gli studi sulle gerarchie sociali degli antichi stati italiani, contribuendo, forse, a mettere in luce nuovi particolari relativi ad ambiti storicamente considerati appannaggio esclusivo dei ceti nobiliari. Inoltre, uno studio dettagliato e comparato tra le gerarchie dell’esercito e quelle sociali apporterebbe ulteriori elementi, probabilmente chiarificatori, in merito ad uno dei passaggi cruciali dell’età moderna, e cioè il momento in cui criteri di tipo meritocratico vengono inseriti nella valutazione delle persone, relegando progressivamente in un angolo la distinzione di nascita.
Sarebbe però un’indagine tanto utile quanto complessa, e sicuramente non comparabile con il tipo di dati a nostra disposizione, i quali comportano, per diversi ordini di motivi, non pochi problemi. In primo luogo le informazioni in nostro possesso non ci consentono una base statistica tale da convalidare affermazioni decisive in merito. Come abbiamo ribadito più e più volte, infatti, le voci dei repertori dell’Enciclopedia Biografica Bibliografica Italiana sono tanto scarne da non citare in alcuni casi neppure lo Stato di nascita, tantomeno riportano notizie in merito allo stato sociale. Inoltre non è da sottovalutare la difficoltà creata dalla differenza nelle strutture degli Stati di Antico Regime le cui ripartizioni sociali, di conseguenza, non sempre sono comparabili e soprattutto presentano definizioni di ruoli e gradi anche fortemente discordanti.
Lo stesso concetto di nobiltà prevede varie sfumature, ognuna connotata da differenti specificazioni, seppur in alcuni casi minime. Non troviamo quindi solo le classiche categorie identificate dal titolo o dalla residenza (patriziato o nobiltà feudale), ma anche innumerevoli sottili differenze basate sul patrimonio, su eventuali occupazioni, sull’antichità del titolo e sull’autorità che lo avrebbe conferito.
Incertezze e complicazioni sentite come tali già dai contemporanei, che evidenziavano, in particolare, abitudini e caratteristiche peculiari delle nobiltà di ogni singolo Stato1. Giuristi e umanisti iniziarono ad occuparsi
dell’argomento già nel XIV secolo e il dibattito continuò vivo, e apparentemente senza alcuna speranza di una conclusione condivisa, anche per tutto il secolo successivo. L’unica certezza su cui tutti concordavano era la necessità di stabilire dei parametri che permettessero una certa omologazione dei titoli nobiliari europei, in modo da non dover ogni volta rimettere in discussione diritti di precedenza o regole cui sottomettersi. Verso la metà del Cinquecento sembrò maturare qualche certezza in più, ma ancora non si era raggiunta un’unica visione del ceto nobiliare italiano. L’aristocrazia, infatti, proprio nel momento in cui sembrava aver trovato un terreno stabile di confronto, fu investita da mutamenti sociali che la costrinsero a confrontarsi con nuovi parametri e soprattutto con un numero sempre maggiore di nobili che aveva acquistato il titolo e che si introduceva nel nuovo mondo portandovi anche valori fino a quel momento totalmente estranei.
Torneremo sulle caratteristiche del ceto nobiliare nel corso del capitolo; adesso è opportuno soffermarsi sugli “altri”; quelli che noi, in mancanza di una definizione altrettanto efficace, abbiamo definito “non nobili”. Siamo coscienti di avere individuato, in realtà, una non-definizione, ma era l’unica soluzione possibile, innanzitutto perché le nostre fonti non consentono una maggior precisione e in seconda istanza perché è praticamente impossibile identificare delle sottocategorie che abbiano una valenza generale. I “non nobili” erano la stragrande maggioranza della popolazione e quindi portatori di vicende,
situazioni economiche e lavorative, e di conseguenza posizioni all’interno della scala sociale, estremamente variegate, impossibili da definire più precisamente senza usare categorie che non solo sarebbero anacronistiche, ma addirittura geograficamente discordanti. 43% 23% 17% 11% 2% 2% 1% 1% non classificabile nobiltà feudale nobile patriziato
nobile + feudi acquisiti nobilitati
non nobile
nobiltà feudale + feudi acquisiti
Figura 1. Suddivisione dei militari italiani per stato sociale.
Dati estrapolati dal Dbi e dai repertori curati da Corrado Argegni e Aldo Valori.
La percentuale dei militari cui non siamo riusciti ad attribuire uno stato sociale è molto alta.
Ma questi risultati vanno comunque considerati con le dovute precauzioni, non solo per il loro alto grado di indefinibilità. Se volessimo infatti applicarli alla totalità degli uomini in arme, troveremmo la percentuale dei “non nobili” assolutamente inadeguata, considerando che generalmente gli aristocratici non erano mai soldati semplici. Possiamo quindi ritenere realistico, con una buona approssimazione, che da questo quadro manchino completamente tutte le masse combattenti.
Questo, però, non significa che i dati siano inutili: se riferiti al solo mondo degli ufficiali, possono permetterci importanti riflessioni sulle suddivisioni interne della categoria nobiliare e su come queste si conciliassero con le strutture militari.
5.2 I non nobili: gli introvabili. Davvero?
Che i nostri dati non ci consentano di individuare il numero dei “non nobili” e che sia ancora più complicato dar loro una precisa collocazione sociale, non ci impedisce di indagare il mondo di coloro che non combattevano solo perché nati da famiglie aristocratiche o perché ambivano a conquistare posizioni di più alto livello nelle strutture statali.
Per tutta l’età moderna i soldati utilizzati nelle grandi guerre erano, nella maggior parte dei casi, volontari2. Esisteva anche una percentuale di uomini
che venivano costretti ad affrontare questa vita, ma certamente non era prevista alcuna forma di coscrizione.
Le ragioni che inducevano gli uomini ad arruolarsi erano molto differenti; cerchiamo adesso di fornirne un quadro il più possibile aderente alla realtà. Iniziamo con coloro che erano direttamente o indirettamente costretti, comunque presenti in numero molto inferiore ai “volontari” 3. In primo luogo i
miliziani, i quali non erano praticamente mai chiamati nominalmente, ma, dato che spesso ogni comunità era tenuta a fornirne un certo numero, pur procedendo per elezione o per contrattazione, spesso chi si proponeva non lo faceva liberamente4. Anche le condanne dei tribunali fornivano braccia per la
guerra: i lavori forzati, pena assegnata abbastanza frequentemente, venivano facilmente utilizzati per mandare uomini al fronte; ma non risolvevano certo il problema dei soldati necessari ad un esercito. Un altro caso era quello di quei criminali che accettavano l’arruolamento (che in questi casi prevedeva anche l’espatrio) come alternativa all’esecuzione5; e molti erano anche i delinquenti
che partivano per sfuggire alla giustizia6.
2 Geoffrey PARKER, Il Soldato, in Rosario VILLARI (a c.), L’uomo barocco, Roma-Bari, Laterza,
1991, pp. 31-60.
3 G. PARKER, La rivoluzione cit., p. 84.
4 Il reclutamento per le milizie è un argomento affrontato frequentemente, citerò alcuni titoli
come esempio: E. DALLA ROSA, Le milizie cit., cap. 9; W. BARBERIS, Le armi cit., p. 29; V. ILARI, Storia del servizio cit., cap. 1; F. ANGIOLINI, Le Bande cit., p. 14.
5 G. PARKER, La rivoluzione cit., p. 89. 6 Ivi, p. 86.
Un’altra ragione frequente per arruolarsi era la mancanza di mezzi di sostentamento: combattere, a regola, garantiva almeno il cibo quotidiano. Condizioni precarie, rischio di malattie, assai probabile pericolo di morte e paga spesso scarsa e mai puntuale costituivano comunque un’alternativa migliore al soffrire fame certa a casa7. Si arruolò per motivi economici anche il letterato
Giambattista Basile; fuggito in giovane età da Napoli. Dopo diverse peregrinazioni per l’Italia, si arruolò come soldato nell’esercito della Serenissima, con il quale prese parte alla guerra di Candia. Rimase fino alla conclusione del suo compito, cioè fin quando non si sciolse la flotta, per tornare a Napoli nel 1608 e iniziare la sua carriera letteraria8. Simile vicenda, anche se
più complessa, quella del futuro santo Camillo De Lellis; figlio di uomo d’arme, tentò di intraprendere la stessa carriera del padre, ma inizialmente non vi riuscì. Alla morte di questo, trovandosi in cattive condizioni di salute e in povertà, pensò dapprima di farsi frate, ma rinunciò; fu per qualche tempo ospite di un convento, prima per farsi curare una piaga, poi come inserviente salariato, ma quando fu licenziato si trovò di nuovo senza un impiego. A questo punto decise di arruolarsi prima al soldo di Venezia nelle lotte contro il Turco fino alla loro conclusione, poi sotto le insegne spagnole fino al 1575. Fu durante una notte burrascosa in mare che, per paura di morire, fece voto di diventare frate. Lo divenne elemosinando davanti ad un convento di cappuccini, dove fu prima falegname e poi frate. De Lellis ci ha lasciato vivi racconti della sua esperienza militare fatta di epidemie, stragi, miseria e dilapidazione degli stipendi al gioco. Non accenna mai ad una qualunque giustificazione religiosa alla guerra contro l’Impero ottomano9.
La scelta di arruolarsi non era però sempre compiuta per bisogno: seguire un esercito in guerra costituiva spesso un’occasione per girare il mondo e
7 Parlando dell’esercito francese del primo Settecento, Parker ci dà alcuni esempi delle
variazioni dello stipendio di un soldato a seconda dell’andamento dei prezzi. In annate relativamente positive, con prezzi abbastanza bassi, come il 1706, il «premio di arruolamento invernale» fu di 50 livres, l’anno successivo, con cibo decisamente più scarso, fu di 30 livres e nonostante questo ci fu un arruolamento in massa. Ivi, p. 85.
8 Cfr. A. ASOR-ROSA, Basile Giambattista, in Dbi, ad voc., VII, pp. 76-81. 9 Cfr. A. PROSPERI, Camillo De Lellis, santo, in Dbi, ad voc., XVII, pp. 230-234.
conoscere nuove terre, nonché una scelta di libertà10. Si abbandonava la propria
casa per fuggire dal mestiere del padre, per cercare nuove possibilità di vita, per vedere cose nuove11. Rientra in questa casistica la vicenda del già citato Martin
Guerre, fuggito improvvisamente, a ventitre anni, dal paesino di Artigat per problemi con il padre, finito impiegato nel palazzo del cardinale di Burgos e presto passato al seguito del fratello di questo nell’esercito spagnolo. La sua esperienza militare però non durò a lungo: fu ferito ad una gamba, subito amputata, durante la battaglia di San Quintino12. Anche il “finto” Martin, cioè
Arnaud du Tilh, ebbe un’esperienza militare: dopo essersi creato una reputazione non ottima nel suo paese natale, decise di mettersi al servizio di Enrico II sui campi di battaglia della Piccardia13. Anche lui partito, come il vero
Martin, sia per fuggire da una situazione casalinga spiacevole, sia per l’indubbia curiosità verso l’esterno, verso un mondo meno circoscritto dei piccoli paesini della Francia meridionale. Le vicende dei due giovani sembra che non fossero considerate particolarmente strane o fuori dalle consuetudini, tant’è che, nel giustificare la scelta di non aver punito Martin Guerre – il vero –, né per l’abbandono della famiglia, né per aver combattuto con le armate spagnole, i giudici dissero che entrambe le cose erano da attribuirsi«al calore e alla leggerezza giovanile che allora ribollivano in lui»14.
Per la gente comune l’esercito era raramente un’occupazione che durava tutta la vita, spesso veniva praticata solo per brevi periodi: in anni di carestia dai contadini, oppure per guadagnarsi di che vivere in attesa di poter imparare un mestiere. Questo il caso di Antonio Bellucci, trevigiano, che a cavallo tra Seicento e Settecento, studiò pittura in Dalmazia dove era anche arruolato
10 L. ANTONIELLI e C. DONATI (a c.), Al di là cit., p. 239.
11 Si interroga a proposito delle motivazioni dei soldati il generale veneziano Giulio Savorgnan
nel 1572, specificando, però, che la percentuale di coloro che affrontavano questa scelta di libertà era comunque molto minore rispetto a quella di coloro che avevano bisogno di denaro. Citato in G. PARKER, La rivoluzione cit., p. 86.
12 N. ZEMON DAVIS, Il ritorno cit., pp. 26 e 27. 13 Ivi, pp. 38 e 39.
nell’esercito e solo dopo diversi anni si trasferì a Venezia dedicandosi interamente all’arte15.
Tutti gli esempi addotti sono ricordati per altro che per l’attività militare: se non in rari casi, i soldati semplici non sono mai passati alla storia individualmente per le loro azioni. Con l’intensificarsi degli studi nel campo della storia militare, crescono proporzionalmente anche le ricerche sugli eserciti in quanto tali, piuttosto che sui grandi condottieri o i “famosi” eventi bellici. Si indaga con maggior attenzione alla vita quotidiana negli accampamenti, alle condizioni in cui versavano i soldati durante i lunghi assedi16. Di conseguenza stanno anche
venendo alla luce fonti che potrebbero aiutare a scoprire la composizione delle truppe e addirittura anche i nomi degli arruolati17.
Possiamo quindi affermare che i “non nobili” non sono introvabili, ma semplicemente più nascosti; probabilmente gli spunti biografici sarebbero più scarsi e potrebbe essere forse impossibile ricostruire percorsi e vicissitudini, ad esempio, di un contadino al seguito del grande esercito spagnolo. Ma potremmo almeno studiare i grandi numeri e, all’interno di questi, scoprire particolari e storie di un mondo che, pur probabilmente privo di dimostrazioni di alta strategia e forse anche di atti di coraggio, sarà sicuramente più rispondente al vero, o almeno, più vicino alle vicende della maggior parte delle persone che vissero nell’età moderna.
Prima di concludere, è utile specificare che alla categoria dei “non nobili” possiamo aggiungere quella dei “nobilitati”, cioè coloro che acquisirono un titolo nobiliare grazie alla pratica delle armi. Raramente, però, questa categoria di persone rientra nelle possibilità di arruolamento esposte sopra; sono piuttosto già membri della società di un certo livello: ricchi mercanti, o magari figli di militari professionisti che hanno già raggiunto un’importante posizione nell’esercito.
15 Cfr. N. IVANOFF, Bellucci Antonio, in Dbi, ad voc., XVIII, pp. 1-2. 16 P. DEL NEGRO, «La storia militare» cit., p. 23.
17 C. DONATI, Introduzione, in L. ANTONIELLI e C. DONATI, Al di là cit.; ma anche L.
5.3 I nobili: perché combattere?
In sella ad un valoroso destriero, coperto da una pesante armatura, lancia in resta, pronto a difendere gli indifesi, salvar fanciulle e combattere in nome dell’onore, di Dio e del proprio signore: questa la classica rappresentazione del nobile medievale.
Tale immagine prende forma in epoca carolingia, parallelamente allo sviluppo del sistema feudale, basato, com’è noto, sull’accordo tra il sovrano ed i signori locali i quali, in cambio del titolo e del feudo (che implicava generalmente, autonomia giudiziaria sulle proprie terre, diritto di prelievo fiscale e altro), erano tenuti a fornire prestazioni militari autonomamente finanziate, secondo le necessità del re. Questa immagine del nobile – chissà poi quanto romanzata – rimane costante nel tempo, segno di un ceto particolarmente vicino al sovrano e allo stesso tempo fortemente diverso dal resto della popolazione. Mentre questa icona non cambia, la struttura e i valori di cui è portatrice si evolvono rapidamente. Il sistema feudale, nato già all’insegna di importanti differenze e privilegi diversi, col tempo muta in qualcosa non più rispondente alle origini, che varia profondamente a seconda delle zone, facendo sì che i suoi protagonisti – come già detto – non si riconoscano più nelle stesse regole e forse nemmeno nei medesimi valori. La penisola italiana presenta, a seconda dei luoghi, ceti aristocratici assolutamente non omologati l’uno all’altro; il dibattito quattrocentesco in merito alla nobiltà trovava una base comune nel fatto che questa fosse contrassegnata dalla virtù, ma metteva anche in luce come in realtà avesse diverse considerazioni a seconda del territorio. A Napoli la nobiltà era collocata nell’ozio, a Venezia nell’unione del governo e della mercatura, in Lombardia nel vivere isolati nei propri castelli e nell’agro romano gli aristocratici non disdegnavano di occuparsi di pastorizia ed agricoltura18.
Nonostante le forti discrepanze, rimane però una convinzione di fondo che accomuna tutto il ceto nobiliare, come sottolinea lo Zenobi: «Il feudalesimo, che si apre coi Carolingi, costituisce, sotto questo aspetto, il capostipite ideale di
tutta la nobiltà europea […] a causa della convinzione e dell’acquisizione di alcuni concetti che poi saranno tenuti sempre per fermi: che cioè la nobiltà ereditaria è inconcepibile indipendentemente dall’esercizio almeno virtuale di poteri sovrani, che il mondo nobiliare costituisce un corpo separato fra sovrano e sudditi formato da soggetti i quali, in quanto appartenenti allo stesso ceto, sono tutti come uguali fra loro, ed infine che il vero nobile riconosce se stesso in una tavola di valori che si compendiano nell’ideale cavalleresco-cortese il quale, senza il feudalesimo, sarebbe stato inconcepibile»19.
Durante gli ultimi secoli del Medioevo, il concetto militare feudale in Italia era andato però rimodellandosi secondo criteri più umanistici. L’idea di una nobiltà che trovava il suo essere in primo luogo nell’esercizio delle armi tornerà nella penisola con l’esercito francese di Carlo VIII, ravvivando con nuovi spunti il dibattito ancora vivo sul ceto aristocratico20. Prestare servizio militare al
proprio sovrano fu infatti considerato, da quel momento, il dovere che più si confaceva ad un nobile, oltre ad essere una sua peculiare prerogativa, e un’occasione per dimostrare al sovrano che il valore e la virtù sancivano ulteriormente quello che era un suo diritto di nascita21. Questa convinzione
rimase forte anche quando ormai la nobiltà aveva sviluppato il suo naturale dovere di servizio verso il principe, anche in altre direzioni: come cariche pubbliche, uffici di carattere più intellettuale, compiti di tipo diplomatico.
Le guerre d’Italia rappresentano anche un importante momento di cesura per quanto riguarda tecniche e valori militari. La mentalità nobiliare del cavaliere che punta tutto sull’onore si scontra inevitabilmente con battaglie campali
19 Bandino Giacomo ZENOBI, Ceti e potere nella Marca pontificia. Formazione e organizzazione della
piccola nobiltà tra ‘500 e ‘700, Bologna, Il Mulino, 1976, pp. 35-36.
20 Claudio DONATI, L’evoluzione della coscienza nobiliare, in Cesare MOZZARELLI e Pierangelo
SCHIERA, Patriziati e aristocrazie nobiliari. Ceti dominanti e organizzazione del potere nell’Italia centro-settentrionale dal XVI al XVIII secolo. Atti del seminario tenuto a Trento il 9-10 dicembre 1977 presso l’Istituto Storico italo-germanico, Trento, Libera Università degli Studi di Trento, 1978, pp. 15-35.
21 Questo concetto emerge chiaramente dal dibattito sulla nobiltà che ha luogo nel periodo delle
guerre d’Italia (C. DONATI, L’idea cit., cap. 2), ci è peraltro riportato anche da Raffaele PUDDU, Il soldato gentiluomo. Autoritratto di una società guerriera: la Spagna del Cinquecento, Bologna, il Mulino, 1982 e da Gustavo DI GROPPELLO, La nobiltà piacentina e la funzione militare, in A. BILOTTO, C. MOZZARELLI, P. DEL NEGRO (a c.), I Farnese cit., pp. 47-52.
dominate dalla fanteria, dove scarsi erano gli spazi per dimostrare il proprio valore, battendosi per dimostrare il volere divino22. Ma ancora questo ceto
combattente sembra rimanere ancorato alle vecchie abitudini, comprendendo le nuove tattiche ed esigenze belliche – spesso anche sfruttandole a proprio vantaggio -, ma non riuscendo a staccarsi dalle proprie convinzioni.
Durante l’assedio di Barletta sembravano combattersi «due guerre parallele»23:
su un terreno franco, ventidue guerrieri scelti tra francesi e spagnoli guerreggiarono per dimostrare le rispettive qualità cavalleresche, davanti ad un tribunale d’onore che, dopo sei ore, non riuscì a dare un giudizio, se non di parità.
Ancora per molti decenni continueranno a tenersi, in quasi tutte le città italiane, giostre e tornei con il chiaro intento di tener vivi gli antichi valori cavallereschi; per lo stesso scopo saranno istituite anche numerose Accademie, improntate su norme utili per mantenere chiari alla mente dei giovani rampolli delle famiglie nobiliari i codici di una guerra che ormai si era però trasformata da arte in mestiere24.
Ma non dobbiamo immaginare un’aristocrazia immobile, arroccata su miti ormai caduti, incurante della modernizzazione della società: i vecchi valori venivano conservati per coltivare la propria preminenza rispetto ai nuovi nobili o comunque al resto della popolazione, ma parallelamente si cominciava un cammino per riuscire a mantenere quanto più possibile una posizione di supremazia nel nuovo mondo in evoluzione. Mentre «la decadenza militare della cavalleria pesante aveva infatti provocato un irreversibile scollamento tra torneo ed usi militari»25, si inventavano anche nuovi giochi, nati dalle tecniche
adottate per la cavalleria leggera.
E, seppur con una certa lentezza, cambia gradualmente anche il sistema di valori rappresentato dalla figura del capitano generale: il valore e il coraggio
22 R. PUDDU, Il soldato cit., pp. 20-21. 23 Ivi, p. 43.
24 Raoul ANTONELLI, Giostre, tornei e accademie, formazione e rappresentazione del valore
cavalleresco, in A. BILOTTO, C. MOZZARELLI, P. DEL NEGRO (a c.), I Farnese cit., pp. 191-207.
mutano in prudenza, la volontà ardimentosa di dimostrare la propria abilità da parte del condottiero deve piegarsi ad una più coscienziosa salvaguardia della propria persona, fondamentale per la compattezza dell’esercito26. Parimenti la
vittoria acquista, se possibile, maggior importanza: va conseguita con ogni mezzo27, a discapito anche dell’onore, se necessario; il capitano deve piegarsi a
decisioni di carattere politico, per quanto queste compromettano i propri valori di riferimento28.
Dal quadro delineato finora emerge quindi la figura del nobile come abile condottiero, esperto nella pratica militare, ancora legato a saldi valori, seppur riadattati ai cambiamenti sociali, che combatte per molte ragioni, sicuramente non solo per raggiungere posizioni elevate nella gerarchia sociale del proprio Stato. Innanzitutto sembra insita nella mentalità nobiliare una naturale propensione al mestiere delle armi, probabilmente anche come dimostrazione di appartenenza ad un determinato ceto. In secondo luogo – forse ancora un retaggio della vecchia concezione feudale – sembra assolutamente assodato che nelle caratteristiche del nobile rientri quella di svolgere un servizio nei confronti di un qualche signore, generalmente, ma non sempre – come sappiamo – il proprio.
In conclusione, sembra quindi assodato che la ricerca di riconoscimenti materiali non sia l’unica molla che spinge il ceto aristocratico a mettersi al servizio del proprio sovrano. Questo aspetto manteneva una rilevanza non marginale, come possiamo vedere anche dal fatto che qualche nobile attraverso la pratica delle armi riesce anche ad acquisire nuovi feudi, ma nasconde un mondo ben più complesso composto da valori fondati sull’apparenza, l’appartenenza e l’orgoglio.
26 Marcello FANTONI, Immagine del «capitano» e cultura militare nell’Italia del Cinque-Seicento, in
A. BILOTTO, C. MOZZARELLI, P. DEL NEGRO (a c.), I Farnese cit., pp. 224.
27 R. PUDDU, Il soldato cit., p. 30. 28 M. FANTONI, Immagine cit., p. 220.
5.4 Il coinvolgimento della nobiltà nelle strutture militari statali: tentativi e risultati.
Appurato che il ceto nobiliare era naturalmente portato ad offrire i propri servigi, in particolare in campo militare, dobbiamo capire se per un sovrano fosse normale aspettarsi questi servizi. Pur essendo finito – se mai in Italia ci fosse stato – il periodo in cui era assoluto diritto del re pretendere il servizio delle armi da parte dell‘aristocrazia, nel sistema valoriale di questa era rimasta una certa propensione alla disponibilità, seppur traslata, forse, in un’aspettativa di coinvolgimento negli organismi statali. Quindi potremmo dire che per alcuni sovrani era un diritto-dovere offrire incarichi di un certo rilievo agli esponenti della nobiltà, così da farne il ceto dirigente dello Stato.
Questa considerazione vede però il suo punto debole nei secoli a cavallo tra il Medioevo e l’età moderna, quando, in alcuni Stati della penisola, sembra essersi verificato un forte scollamento nel rapporto tra i sovrani e alcune parti dell’aristocrazia. La perdita di adesione è probabilmente dovuta ad un reciproco distacco avvenuto nel corso della formazione degli Stati; in alcuni casi l’apparato governativo non riuscì più a trovare il mezzo per ritornare ad un pieno coinvolgimento dei vecchi signori feudali.
Tale situazione però non è valida per tutti gli Stati e spesso varia, all’interno di un territorio, a seconda della collocazione geografica dei vari gruppi nobiliari. Abbiamo visto diverse volte il caso della Repubblica di San Marco, inizialmente riuscita a coinvolgere tutta l’aristocrazia del suo vasto territorio. Durante il Cinquecento, però, mentre il solido rapporto con il patriziato di Venezia era andato consolidandosi, si erano progressivamente persi i contatti con la nobiltà di Terraferma. Questa aveva quindi diretto il suo “naturale spirito di servizio” – o forse la sua naturale ricerca di ruoli di prestigio – verso altri sovrani, consapevole che il proprio ruolo fosse comunque quello di servire.
In altri Stati della penisola sembra quasi che nel Cinquecento la nobiltà del luogo non possieda alcun tipo di interesse ad essere coinvolta nelle dinamiche di potere. Questa mancanza è però sentita dai sovrani, di conseguenza vengono studiate tecniche di coinvolgimento, che però impiegheranno molto tempo a
dare i loro frutti29; in alcuni casi porteranno alla nascita di un nuovo ceto
aristocratico formato da famiglie importanti, ma non nobili, che avevano intuito prima quest’occasione di coinvolgimento.
Il caso del Piemonte sabaudo pone ancora diversi interrogativi su questo aspetto. Abbiamo già visto come Emanuele Filiberto avesse predisposto una ricostruzione dello Stato basata sul coinvolgimento prevalentemente militare della nobiltà del territorio, che col proseguire degli anni acquisterà anche forti connotati di tipo burocratico. Barberis però ci delinea un quadro in cui è prevalentemente la piccola nobiltà ad integrarsi pienamente in questo nuovo sistema30, con i vecchi aristocratici che sembrano arrancare per cercare di stare
“al passo coi tempi”31. Lo stesso scenario ci viene dipinto da Ferrone, il quale
individua nell’esercito sabaudo un «moderno meccanismo di integrazione sociale»32, dove, pur rimanendo qualche privilegio per la nobiltà (come
l’accesso ai gradi più alti della gerarchia militare), si stava imponendo il criterio meritocratico: decisamente non abituale per la nobiltà di antico lignaggio. Sabina Loriga tende invece a sfatare questo mito della nobiltà ottusa e ancorata a vecchi valori, mostrando come, ad esempio, diversi rampolli delle famiglie più antiche dello Stato fossero educati al mestiere delle armi, con particolare attenzione alle nuove tecniche, anche riguardo all’artiglieria33; la quale, invece,
secondo Barberis, era disdegnata da un’aristocrazia storicamente dedita alla cavalleria.
Quale delle due tesi sia più vicina alla realtà – e non è escluso che in qualche modo non lo siano entrambe – non cambia l’importanza che dai duchi fu attribuita all’appoggio, essenziale, del ceto aristocratico, sia che fosse quello più antico, sia che invece fosse stato appositamente creato.
29 A. SPAGNOLETTI, Stato, aristocrazie cit., cap. 1. 30 W. BARBERIS, Le armi cit., p. 47.
31 Ivi, p. 105.
32 V. FERRONE, I meccanismi cit., p. 107. 33 S. LORIGA, Soldati cit., cap. 3.
L’esempio toscano è, se possibile, ancora più illuminante. Sin dalla conquista di Siena a Cosimo I (futuro Granduca) risultò chiaro – data la particolare storia della Stato – che era necessario tenere uniti i sudditi, in particolare trovare il modo per legarli al governo fiorentino. È la questione militare ad essere identificata dal duca come uno dei mezzi privilegiati per giungere a questo scopo34: allargare la base di consenso al potere e legare i sudditi al sovrano –
soprattutto quelli che detenevano un potere maggiore a livello locale – era evidentemente l’unica soluzione per raggiungere obiettivi di governo importanti.
Già al primo Granduca erano note le soluzioni per convogliare forze e mezzi della nobiltà toscana nel tentativo di rendere grande lo Stato. Era necessario attirarla nella sfera di potere con proposte all’altezza del suo rango e, una volta raggiunto questo primo obiettivo, farla sentire partecipe della grandezza del ducato e in parte anche delle sue scelte. Il primo passo fu quindi quello di coinvolgere le aristocrazie nella creazione dell’apparato militare statale. Esponendo i suoi progetti per la milizia a cavallo, in una memoria scritta probabilmente verso la fine del 1559, Cosimo I specifica bene che «s’intratteranno molti gentilomini e signiori in capitanarli e molte altre cose da farsi.»35 Questo alto livello di coinvolgimento porterà non solo a migliorare
l’organizzazione militare toscana, ma anche ad ampliare il potere del principe sulla società36.
Per raggiungere obiettivi di alto livello era quindi necessario, per un sovrano dell’età moderna, rendere partecipe il “gruppo di potere” del suo Stato, ma parallelamente era importante far sì che attività e incarichi di questo gruppo fossero considerati all’altezza, e quindi sentiti come una delle politiche prioritarie del principe. «La presenza della nobiltà nell’universo militare – al di
34 Franco ANGIOLINI, «Politica, società e organizzazione militare nel principato mediceo: a
proposito di una “memoria” di Cosimo I», in Società e Storia, IX (1986), pp. 1-51.
35 Memoria di 3 cose da eseguirsi per noi el duca di Fiorenza e non possendo da lasciarla per ricordo a chi
ci succederà sendo l’onor e la grandezza el comodo delli Stati pensato molto tempo farsi, in appendice a F. ANGIOLINI, «Politica, società» cit., p. 50.
là del richiamo ideale dell’ethos cavalleresco, all’onore, al servizio – rappresenta l’opportunità di partecipare al potere, di rifondare continuamente la preminenza»37.
5.5 Un tentativo riuscito di coinvolgimento: il Granducato di Toscana e l’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano
Abbiamo già visto quanto fosse utile la concessione di titoli e onorificenze nel coinvolgimento della nobiltà nelle attività militari; tale pratica non perde di importanza alla luce di quanto detto sopra. Nonostante che il prendere parte attiva alle imprese del sovrano fosse un modo per rimanere nel circuito dirigente dello Stato, era anche una pratica che evidenziava ulteriormente il proprio status di appartenente al ceto nobiliare: stato che veniva sottolineato ulteriormente dal possesso di un titolo quale, ad esempio, quello di cavaliere dell’Ordine del Toson d’oro.
Il sistema delle mercedi era praticato prevalentemente dalla monarchia spagnola, ma quasi tutti gli Stati avevano un meccanismo interno di conferimento di titoli, che in sostanza altro non erano che riconoscimenti prevalentemente simbolici. Può rientrare in questa tipologia anche l’Ordine dei cavalieri di Santo Stefano, istituito da Cosimo I, duca di Toscana, nel 1562.
L’Ordine mediceo non era però nato con lo scopo di assegnare titoli a condottieri particolarmente meritevoli; era un’istituzione molto complessa, creata dal duca con diversi scopi, primo tra i quali l’aumento del prestigio toscano sulla scena internazionale. Infatti il legame con la casa dei Medici era esplicitato dal fatto che il Granduca ne fosse il Gran Maestro, anche se ovviamente la sua regola era approvata dal Papa e rimaneva un ente formalmente separato dallo Stato38. Inoltre la sua flotta sarebbe andata ad
37 Intervento di Laura CASELLA in «”Il caso sabaudo o le armi del principe”. Nuove
prospettive di ricerca su sovrano, nobiltà e governo in Antico Regime», in Cheiron, VI (1989/90), fasc. 11, p. 182.
38 Franco ANGIOLINI, Il Granducato di Toscana, l’Ordine di Santo Stefano e il Mediterraneo (secc.
XVI-XVIII), in I. C. FERREIRA FERNANDES (a c.), Ordens Militares: guerra, religião, poder e cultura. Actas do III Incontro sobre Ordens Militares, Lisboa, Colibri, Câmara Municipal de Palamela, 1999, vol. I, p. 46.
integrare quella regolamentare dello Stato, sancendo ulteriormente lo status nazionale dell’Ordine39.
Le sue galere sarebbero state impiegate nella lotta contro il Turco, perché «crear un ordine di cavalieri quale combatta per la fede di Cristo è cosa santa, utile e honorevole»40; avrebbero fornito supporto in imprese corsare e in tutte le
guerre che la cristianità avesse combattuto contro l’Impero ottomano. Questa politica aveva anche lo scopo di mantenere saldi e sicuri i rapporti con Roma41.
Inoltre la creazione dell’Ordine rientrava nel progetto – illustrato sopra – di Cosimo I per migliorare la struttura interna dello stato: non solo «sarebbe stato uno strumento formidabile per legare al sovrano, secondo un rapporto di onorevole dipendenza, i membri più altolocati delle diverse oligarchie toscane»42, ma avrebbe anche consentito di creare una tradizione militare e
marinaresca fino a quel momento assente nella nobiltà toscana43.
I criteri sulla base dei quali si valutavano le richieste di ammissione, stilati sul modello della regola dell’Ordine di Malta, sono uno spunto interessante per capire come si stesse andando strutturando il concetto di nobiltà nel Cinquecento. Era necessario che sia i genitori che i nonni (da entrambi i rami) fossero appartenuti a famiglie nobili e fossero stati ammessi, nelle loro patrie, a ricoprire cariche adeguate al proprio status; bisognava discendere da cristiani autentici; essere nati da legittimo matrimonio in una località con la qualifica di città; non si poteva esercitare nessuna arte e infine era essenziale possedere risorse economiche tali da mantenere il proprio grado. Può quindi sembrare che uno scopo dell’Ordine fosse anche quello di contribuire all’omologazione del concetto di nobiltà, ma in realtà non fu così: era possibile accedervi anche tramite una commenda, cioè il pagamento di una data somma in cambio dei requisiti non raggiunti e soprattutto con l’impegno di risolvere il problema per
39 F. ANGIOLINI, «Politica, società» cit., p. 15. 40 Memoria di 3 cose cit., p. 47.
41 F. ANGIOLINI, «Politica, società» cit., pp. 20 e 21. 42 Ivi, p. 21.
la generazione successiva. Il fatto che spesso si ricorresse all’aumento delle commende perché le lacune non erano state colmate – o addirittura erano aumentate – è un altro indicatore dell’estrema varietà del sistema sociale toscano e forse anche del relativo poco interesse attribuito alla nascita, rispetto magari a quello dato al denaro44.
Indipendentemente dalla purezza della nobiltà coinvolta, il valore che l’Ordine assunse nella creazione di un ceto compatto e fedele è indubbio. Nonostante i successi militari altalenanti e la mancata acquisizione del ruolo dominante cui aspirava, Cosimo I raggiunse perfettamente il suo scopo: il mare diventò ben presto la principale occasione d’impiego della nobiltà toscana, cui fornì anche la possibilità di mantenere il proprio rango e decretò la formazione di un «unico gruppo a dimensione “nazionale”»45.
La forte integrazione tra l’Ordine e l’esercito toscano crea alcuni problemi nell’individuazione dei cavalieri nei nostri repertori: gli unici dati di cui possiamo ritenerci sicuri sono quelli ricavati dal Dbi. Su venticinque uomini che combattono per il Granduca, undici sono cavalieri di Santo Stefano, cioè il 44%. La cifra è troppo bassa per assurgere a statistica valida e sicura, comunque non abbiamo motivo di credere che questa percentuale non possa avvicinarsi alla realtà: pur essendo l’esercito toscano – come abbiamo già avuto modo di sottolineare – molto più importante e composito di quanto normalmente non si creda, non c’è dubbio che, almeno fino agli anni Quaranta del XVII secolo, l’Ordine sia stato il fiore all’occhiello della struttura militare del Granducato.
5.5 Una milizia sovranazionale: l’Ordine dei cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme
Un caso molto diverso da quelli analizzati finora è quello dell’Ordine dei cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, o – più semplicemente – Ordine di Malta, dal luogo dove era stata trasferita la sede.
44 L’istituzione delle commende è analizzata da Franco ANGIOLINI in «La nobiltà imperfetta:
cavalieri e commende di Santo Stefano nella Toscana moderna», in Quaderni storici, XXVI (1991), n° 3, pp. 875-899.
Il titolo di cavaliere dell’Ordine Gerosolimitano era sicuramente il più importante che un nobile di età moderna potesse acquisire: per una famiglia avere dei membri al suo interno era segno di indubbio e altissimo rango aristocratico. Questo perché la selezione imposta era ben più alta di quella, ad esempio, praticata dall’Ordine di Santo Stefano: una famiglia che intendesse presentarvi un membro per la prima volta doveva portare inoppugnabili prove di nobiltà.
Tutto ciò faceva sì che l’appartenenza ai cavalieri di Malta fosse utilizzata per sancire a livello internazionale, e in particolare per quanto riguardava la Lingua d’Italia, la differenza tra la “vera” nobiltà, quella di antico lignaggio proveniente da una tradizione secolare, e i parvenus, ovvero i nuovi ricchi che avevano acquistato il titolo46, il cui numero cominciò ad aumentare a partire
dalla seconda metà del Cinquecento. Tale esigenza di differenziazione era così forte per l’aristocrazia italiana, che anche molte Accademie imposero criteri di ingresso ben chiari da questo punto di vista: quella dei Delii di Padova accoglieva solo giovani nobili che potessero dimostrare la lontananza sia dei loro padri che dei nonni da qualsivoglia «arte e mercanzia»47.
Per lo stesso principio, l’appartenenza all’Ordine era usata anche come stabilizzatrice delle dinamiche interne agli Stati. Ovviamente con i cambiamenti avvenuti all’interno della società di Antico Regime, anche i criteri di ingresso subirono delle modifiche: le occasioni in cui viene riorganizzata la legislazione in merito alle ammissioni sono solo due, nel 1631 e nel 177548. La prima
modifica – che prevedeva per il pretendente all’abito il possesso di una nobiltà vecchia di almeno duecento anni – avvenne a seguito dell’ampio processo che vide molti dei nuovi nobili investire in terreni. Questo fenomeno ebbe però anche altri influssi sull’Ordine, in particolare quello di portare il Venerando Consiglio a privilegiare la nobiltà cittadina rispetto a quella di campagna; ed è in questo caso che si nota l’influenza che questo aveva anche sulle strutture
46 A. SPAGNOLETTI, Stato, aristocrazie cit., p. XIII. 47 R. ANTONELLI, Giostre, tornei cit., p. 193. 48 A. SPAGNOLETTI, Stato, aristocrazie cit., p. 135.
interne degli stati: infatti, i patriziati che avevano al loro interno cavalieri gerosolimitani utilizzarono questo fatto per impedire l’accesso a nuove famiglie, dato che la stretta regola imposta dall’Ordine per l’aristocrazia cittadina era che appartenesse a “città nobili”, che erano tali solo se prevedevano una precisa separazione dei ceti all’interno delle loro strutture istituzionali49.
L’importanza delle decisioni del Consiglio dei cavalieri di Malta in merito alla nobiltà di una famiglia per molti secoli fu riconosciuta da tutti e utilizzata come termine di paragone, ma il prestigio sancito dall’appartenenza non era però l’unico motivo di attrattiva per le aristocrazie della penisola. Entrare nell’Ordine era spesso un modo per entrare in circuiti di potere che nel proprio stato o non erano possibili da raggiungere da una determinata categoria – come, ad esempio, per i castellani negli stati a chiara impronta cittadina - oppure non garantivano spazi e privilegi considerabili all’altezza del proprio rango. In molti casi una famiglia, pur essendo integrata nelle strutture statali, era parallelamente impegnata anche con i cavalieri di Malta, così da garantirsi ampi margini di potere.
È un fenomeno abbastanza tipico della prima parte dell’età moderna – fino alla metà del Seicento circa – quando gli Stati della penisola, usciti dal nuovo assetto dato dalla pace di Cateau Cambrésis, hanno un’organizzazione interna fondamentalmente debole e sovrani ancora poco sicuri del proprio potere. Tentativi di coinvolgimento, paralleli ad un costante impegno nel miglioramento delle dinamiche interne e degli ordinamenti territoriali, sono attivati fin da subito, ma dovrà passare in alcuni casi anche più di un secolo perché le proposte del sovrano possano sembrare ai nobili altrettanto valide e adeguate di quelle dell’Ordine di San Giovanni.
Come dice Spagnoletti, pur semplificando molto – come lui stesso afferma – un problema ben più complesso: «se un nobile sceglie di farsi ricevere nell’Ordine lo fa e perché in patria si sente sottoutilizzato […]e perché la struttura del potere si presenta per la prima età moderna così frantumata e ancora
tenacemente pervasa dallo spirito di particolarismo da permettere alle famiglie aristocratiche di condurre una politica di impiego dei propri membri in più direzioni»50.
Il ritrovarsi sotto le insegne dell’Ordine permette alla nobiltà italiana di costituire, soprattutto per quanto riguarda i secoli XVI e il XVII, una sorta di nazione “altra”, parallela e quasi paritetica a quelle statali, dove la solidarietà dovuta al proprio ceto supera in importanza quella per il sovrano. Fino a quando le strutture statali non riusciranno ad accogliere e coinvolgere la nobiltà facendola sentire determinante e quasi essenziale per il sovrano, la fedeltà ipoteticamente dovuta al principe non potrà cancellare «quella più corporativa nei confronti dei membri del proprio ceto»51.
La tendenza comincia ad invertirsi intorno alla metà del Seicento per arrivare, in pieno XVIII secolo, a far sì che il titolo di cavaliere gerosolimitano non sia altro che un titolo – ovviamente importantissimo –, ma solo necessario ad aumentare il potere della famiglia in altri contesti, come quelli statali.
Anche i nostri dati, seppur non molto alti a proposito dell’Ordine, confermano questa perdita di importanza: dal 9 % di tutti i militari attivi nel XVII secolo, i cavalieri di Malta diventano il 2 % nel secolo successivo.
Le cifre proposte da Spagnoletti nella sua opera hanno indubbiamente una valenza statistica ben più alta, quindi proveremo ad utilizzarli per qualche riflessione.
Innanzitutto a proposito della presenza generale di militari italiani. Nel 1635 le provenienze geografiche dei 1715 cavalieri risultavano così suddivise nelle sette Lingue di cui era composto l’Ordine.
50 Ivi, p. 62-63.
0 100 200 300 400 500 600 700 Prov enz a Alve rnia Franc ia Italia Arag ona Ca stig lia Ale mag na
Figura 2. Cavalieri dell'Ordine di Malta suddivisi per provenienza. Dati ricavati da A. SPAGNOLETTI, Stato, aristocrazie.., cit., p. 66.
La Lingua d’Italia è quella che fornisce il maggior numero di cavalieri e questo dato non può far altro che confermare ciò che abbiamo affermato per tutta la nostra indagine, cioè che la penisola italiana in età moderna non era affatto una nazione priva di combattenti52.
Di estrema rilevanza sono anche tutte le riflessioni di Spagnoletti in merito alle provenienze geografiche interne alla penisola, interessanti anche perché suddivise ulteriormente a seconda delle città.
Ci preme qui sottolineare il caso toscano. Il Granducato fornisce il più alto numero di cavalieri nel periodo compreso tra il 1550 e il 1575, per poi essere superato solo dal Regno di Napoli fino al 167553. Questo dato stupisce,
soprattutto vista la presenza, in territorio toscano, di un Ordine, anche se non altrettanto importante, comunque rimarchevole. La suddivisione interna mostra che la zona più prolifica di cavalieri di Malta era quella fiorentina, seguita a non molta distanza – e nel periodo 1676-1700 addirittura superata – dal senese. Tutte le altre zone del Granducato presentano dati molto più bassi54. Per quanto
riguarda Firenze, possiamo attribuire al dato la funzione di spiegare la politica delle «molteplici lealtà» già analizzata. Per Siena le ragioni potrebbero invece trovarsi – e qui concordiamo con la tesi di Spagnoletti – anche nella particolare
52 Anche considerando che i dati potrebbero essere di entità inferiore se includessimo solo i
cavalieri che presero effettivamente parte ad attività militari, possiamo dare per certo che le proporzioni rimarrebbero inalterate.
53 Ivi, Tabella 4, p. 69. 54 Ivi, Tabella 10, p. 72.
situazione della città, nel suo forte senso di autonomia e nel suo voler dimostrare la propria indipendenza da Firenze; e quindi la scelta di militare per l’Ordine di San Giovanni Gerosolimitano, piuttosto che per quello di Santo Stefano, «assume quasi il valore di una sfida agli occhi del granduca»55.
55 Ivi, pag. 77.