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Avvertenza Le opere alfieriane citate riproducono il testo stabilito nell’edizione astense (per cui cfr. bibliografia), ad esclusione della Vita

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Avvertenza

Le opere alfieriane citate riproducono il testo stabilito nell’edizione astense (per cui cfr. bibliografia), ad esclusione della Vita e dei Giornali, per cui si fa ricorso al volume delle Opere curato da M. Fubini e A. Di Benedetto (Ricciardi, Milano-Napoli, 1977) e della Virtù sconosciuta (Virtù sconosciuta, a c. di A. Di Benedetto, Torino, Fògola, 1991).

La numerazione dei versi delle tragedie segue quella adottata nella LIZ, il database utilizzato per effettuare i sondaggi linguistici. Si adottano le seguenti abbreviazioni per le tragedie:

Antonio e Cleopatra Cl.

Agamennone Agam.

Agide Ag.

Antigone Ant.

Bruto primo Br. pr.

Bruto secondo Br. sec.

Don Garzia Gar.

Filippo Fil.

La congiura de’ Pazzi Cong.

Maria Stuarda M. St. Merope Mer. Mirra Mirra Oreste Or. Ottavia Ott. Polinice Pol. Rosmunda Rosm. Saul Saul Sofonisba Sof. Timoleone Tim. Virginia Virg.

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Premessa

Nel 1932 Aldo Palazzeschi pubblica le Stampe dell’Ottocento, in cui racchiude i suoi ricordi d’infanzia, mescolando una leggera ironia alla commozione affettiva. Fra i ritratti più sapidi emerge quello del sor Giovanni, unico esponente del sesso forte nel gruppo dei nonni. Quasi a ribadire la preminenza conferitagli da questo statuto, Palazzeschi ne descrive la figura in termini di sproporzione, facendo ricorso a superlativi ed accrescitivi: il sor Giovanni si impone fisicamente, stagliandosi “altissimo e diritto”, quale “un’illustrazione dell’Antico Testamento”; munito di una “barbona bianca” e maestoso come un “quercione fronduto”, egli sembra appartenere a un’altra epoca. Indifferente alla poesia crepuscolare, declama invece gli autori radiosi del “mezzodì”, “dall’Alfieri al Carducci”, sulle cui movenze linguistiche modula il proprio registro espressivo:

Entrando e trovando la famiglia in domestica conversazione: «Quai detti?» esordiva grazioso fermandosi alla porta. [...] Chiamando un lavorante o il garzone del proprio laboratorio: «T’avanza» gli diceva con regale solennità. «Odi, m’ascolta», o altrimenti «Favella» con munifica condiscendenza. Per le piccole avversità quotidiane comuni a tutte le famiglie: rottura d’una chicchera, pietanze sbruciacchiate o cotte male: «Non ha più tuoni il ciel?» esplodeva: «la folgore a che giova?». E non appena intorno si levava il battibecco casalingo, a un certo punto irrompeva come il tuono: «Io fremo». Quando la moglie, o la nuora, gli consigliavano di prendere l’ombrello perché la veniva a orci o stava per venire: «Tosto vedrai s’io il traggo» rispondeva altezzoso e calmo. E non traeva un bel niente, preferendo di bagnarsi come un pulcino piuttosto che servirsi di quel mezzo che riteneva umiliante, pedestre. Chiamava “brando” il bastone e qualche volta, per nobilitarla, anche la forchetta, “nappo” il bicchiere. Nelle pubbliche calamità: «Ahi! serva Italia, di dolore ostello», davasi a gridare correndo scarmigliato per la stanza: «Oh! Numi!» invocava con alte le braccia: «Oh! Numi!». E mordendosi le mani digrignava: «Oh! rabbia!». Alla moglie era uso intimare quando apriva impercettibilmente la bocca: «Donna, vanne!», aggiungendo minaccioso: «o la testa dal corpo ti separo». Ma gli era, in realtà, la più innocente creatura di questa terra e non avrebbe separato una piccia di fichi secchi; lo sapevano tutti e lo lasciavano ai suoi canti e ai suoi vezzi, come un fanciullo, per vederlo contento.

La sproporzione del sor Giovanni, estroso “vecchione neoclassico”, si configura dunque anche come sproporzione linguistica: dalla dissonanza fra la realtà quotidiana e prosaica in cui è calato e il nobile rivestimento con cui impreziosisce gli oggetti più pedestri si sviluppa e trae vigore la parodia. A proposito si può considerare il conflitto fra le

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3 escandescenze verbali e il carattere mite del vecchio, fra gli accrescitivi enumerati, che ne dilatano la statura, e le similitudini, che la diminuiscono (egli è disposto a bagnarsi “come un pulcino” ed è immerso nei suoi canti e nei suoi vezzi “come un fanciullo”), oppure, dal punto di vista linguistico, il contrasto nell’uso dei pronomi, per cui il toscanismo della voce narrante (“la veniva a orci”) si alterna all’aulicismo del nonno (“Tosto vedrai s’io il traggo”).

La distanza fra la banale realtà e l’eccedenza linguistica del sor Giovanni non comporta una dissociazione drammatica, ma si iscrive per intero nell’ambito ilare del gioco, tanto lontano dalla gravità tragica del modello alfieriano quanto il rigoglio del “quercione fronduto e parato a festa” si differenzia dalla desolazione della “quercia antica”, che ostenta le sue “squallide radici” nel Saul (II, 2, 36-38).

La narrazione di Palazzeschi parodia garbatamente il carattere artificiale dello stile di Alfieri, la sua tensione idealistica, l’estraneità agli aspetti più concreti della vita; ad un tempo, ne sottolinea il velleitarismo fastoso e la retorica démodée, che – dopo la fortuna della stagione risorgimentale – ne rende possibile il recupero solo attraverso l’antifrasi e la mescidanza dei registri.

Se il linguaggio delle tragedie appare appassito già alla fine dell’Ottocento, si può comprendere come ai giorni nostri, a maggior ragione, esso costituisca l’ostacolo più arduo per la fruizione del teatro alfieriano, che non riesce a ritagliarsi uno spazio adeguato nei repertori delle compagnie italiane. Non a caso, anche chi decide di misurarsi con questi testi si pone innanzitutto il problema del loro stile, fino a rinunciare a una resa filologica: basti pensare alla riscrittura avviata nel 1967 da Davide Montemurri, in una rappresentazione dell’Agamennone che annoverava fra i suoi interpreti Giorgio Albertazzi, o alla scelta di Gabriele Lavia, nel suo Oreste del 1993, di sopraffare l’endecasillabo settecentesco attraverso il ricorso ad effetti scenici spettacolari, antitetici alla scabra sobrietà della scena alfieriana.

Anche gli attori, interpellati sull’interpretazione dell’endecasillabo tragico, non ne nascondono la difficoltà. L’articolo nella rivista «Sipario» redatto da Paola Pedrazzini in occasione della riapertura del Teatro Alfieri ad Asti1, verte principalmente sul carattere arduo della scrittura alfieriana, resa ancora più inconciliabile con le esigenze del presente dalla crisi che attraversa il teatro di parola. Eppure, nonostante

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4 l’ammissione della scarsa presenza di Alfieri sulle scene e dell’elitarismo della sua produzione, contraria agli interessi commerciali dello spettacolo, gli interpreti propendono per il mantenimento del testo originario. Infatti, uno studio attento del verso tragico ne rivela l’autentica destinazione teatrale: le difficoltà della parola scritta, evidenti sulla carta, svaniscono durante la rappresentazione, quando la parola diventa parlata. Tale è perlomeno il parere di Valter Malosti, che nel 1999 cura una rappresentazione di Polinice e Antigone:

Pur avendo lavorato molto con Ronconi non ho scelto una direzione legata ai versi come suoni, ma ho cercato di fare un lavoro più legato al senso e il risultato ottenuto è stato sorprendente: gli spettatori leggendo il libretto della tragedia dopo lo spettacolo venivano a chiederci se era proprio quello il testo rappresentato, perché in scena si comprendeva tutto ciò che, letto, risultava ostico2.

Con questa affermazione il regista si allinea alla difesa dello stile compiuta da Alfieri stesso, nel tentativo di controbattere le critiche che gli erano state rivolte dopo la pubblicazione del primo volume delle tragedie, nel 1783, e conferma pertanto la validità ancora attuale delle scelte del tragediografo.

Quest’ultima viene ammessa anche da Ginette Herry, che nel 2003, in coincidenza con le celebrazioni del bicentenario della morte di Alfieri, dà alle stampe la traduzione francese della Mirra3, accompagnandola con un articolo che illustra dettagliatamente le scelte adottate per affrontare l’estrema densità della scrittura alfieriana, che obbedisce a un suo ritmo interno di difficile trasposizione in strutture linguistiche differenti4. Convinta della necessità che “il faut faire confiance à l’écriture d’Alfieri”5, la studiosa propende per una versione che sia il più possibile conservativa, acconsentendo persino a violare alcune consuetudini della lingua francese:

Devant une conscience si rigoureuse des impératifs et des ressources phatiques de la scène, impossible, pour le traducteur, de ne pas rejeter ce qui ferait indûment chanter les mots, de ne pas s’ingénier à rompre leur ordre attendu dans sa propre langue, en sachant toutefois que les seuils de tolérance – en particulier pour le nombre des fragments antéposés successifs – sont différents d’une langue à l’autre et qu’ils sont fort étroits en

2 Ibid., p. 26.

3 V. Alfieri, Myrrha tragédie en cinq actes et en vers suivie des états préparatoires de la pièce. Textes

traduits, annotés et présentés par G. Herry, Circé théâtre, Dijon-Quetigny, 2003.

4 G. Herry, Traduire «Myrrha» aujourd’hui, in Vittorio Alfieri et la culture française, «Revue des Études

Italiennes», t. 50, janvier-juin 2004, pp. 267-280.

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français, plus encore dans la salle de théâtre qu’entre les pages du livre6.

Non è possibile negare l’artificiosità dello stile alfieriano, né la durezza del suo linguaggio, né la sua complessa retorica, che oggi possono scoraggiarne la lettura ed ancor più la rappresentazione. Eppure, per chi si accosta alle tragedie, sia nell’ottica del regista che del traduttore o dello studioso, la coerenza del progetto teatrale alfieriano e la necessità poetica delle sue scelte finiscono con l’emergere e con l’appassionare.

Lo stile riveste un ruolo determinante nella creazione artistica di ogni scrittore, ma nella carriera di Vittorio Alfieri esso si impone forse come il problema principale. Ciò appare innanzitutto nell’autobiografia, testimone eccezionale del percorso formativo dell’autore, che deve la sua coerenza unitaria alla centralità accordata alla vocazione poetica, che trionfa nonostante gli ostacoli iniziali: l’imperfetta conoscenza dell’italiano, le carenze di un’educazione “tardicola”, la mancanza di autorevoli predecessori capaci di fornire un modello adeguato sono le difficoltà che Alfieri affronta tenacemente attraverso lo studio dei classici, in cui individua gli strumenti necessari per forgiare lo stile del teatro tragico italiano.

Alla Vita occorre aggiungere i manoscritti che registrano tutte le fasi compositive delle tragedie, e quelli che accolgono gli esercizi stilistici giovanili e i primi tentativi poetici, che Alfieri custodisce accuratamente, approntando in prima persona il materiale necessario alla ricostruzione minuziosa dell’apprendistato descritto nell’autobiografia.

Eppure, nonostante la ricchezza e l’interesse dei documenti, la critica non ha ancora prodotto studi monografici che spieghino le ragioni della scrittura alfieriana e le sue peculiarità stilistiche. Non mancano contributi pregevoli, ma si avverte la necessità di un lavoro analitico, che rinnovi le vecchie categorie e sottoponga al vaglio critico le acquisizioni sullo stile di Alfieri, valutandone il percorso nella sua interezza.

La presente ricerca si propone di fornire una prima risposta a questa esigenza, che non ambisce certo all’esaustività, e costituisce il proseguimento di un lavoro intrapreso con la mia tesi di laurea – discussa presso l’Università di Pisa nel 2003 –, che mirava a descrivere l’influenza delle tragedie di Seneca sul corpus alfieriano,

6 Ibid., p. 273.

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6 avvalendosi dell’analisi del manoscritto Laurenziano Alfieri 4, depositario degli estratti che il poeta ricava dall’autore latino, impegnandosi a tradurli.

L’analisi degli esercizi condotti sul testo di Seneca è apparsa recentemente sul «Giornale Storico della Letteratura Italiana»7, per cui non si è ritenuto opportuno proporla in questa sede, mentre invece in appendice è stata riprodotta la trascrizione degli estratti corredata dalla relativa traduzione alfieriana, dal momento che fino ad oggi non è stata pubblicata. Insieme ad essa, vengono inserite le trascrizioni del ms. 1783, custodito presso l’Institut de France, che contiene gli estratti dalla Commedia di Dante, oltre che da composizioni minori di autori perlopiù contemporanei, e del ms. 61.20 della Biblioteca Emile Zola di Montpellier, riservato agli estratti dall’Adone del Marino.

Questi documenti sono esaminati nella prima parte della tesi. Si è infatti optato per una struttura bipartita: all’analisi dei primi tentativi poetici e degli esercizi condotti sui classici e sugli autori moderni, succede quella delle tragedie. Il discrimine fra le due sezioni è anche di ordine cronologico, in quanto si individua una cesura tra la fine del 1782 e l’inizio del 1783, quando Alfieri rappresenta l’Antigone a Roma ed affida alle stampe la prima edizione delle tragedie. In particolare la pubblicazione, che sancisce ufficialmente il suo debutto di autore, costituisce un evento dall’alto valore simbolico, che può far considerare conclusa la fase dell’apprendistato, per quanto Alfieri non interrompa mai il dialogo con i classici.

La cronologia – in genere manifesta grazie alle date apposte dal poeta sui manoscritti e sui volumi della sua biblioteca – rappresenta un criterio imprescindibile per orientarsi attraverso la complessa stratigrafia delle carte alfieriane, visto che egli interviene più volte, anche a distanza di tempo, a ritoccare gli esercizi giovanili ed itera le letture aggiungendo nuove postille. Il valore di questo materiale emerge se si considera che gli studi condotti in coincidenza con l’elaborazione delle singole tragedie lasciano traccia di sé, sedimentandosi nel testo alfieriano, con cui interagiscono.

Oltre che al rispetto dell’ordine cronologico, si è assegnata la priorità alla dimensione teatrale dell’endecasillabo, che ci appare il dato essenziale per comprenderne l’articolazione e le caratteristiche. A tal proposito si sono rivelati fondamentali gli autografi di Montpellier, che contengono i “copioni” impiegati da Alfieri durante le recite private delle sue opere. Essi restituiscono una versione che

7 V. Perdichizzi, Gli estratti senecani del ms. Laurenziano Alfieri 4, «Giornale Storico della Letteratura

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7 riproduce il testo definitivo delle tragedie, ma presenta inoltre indicazioni di lettura preziose per valutarne le modalità esecutive.

Nonostante si sia privilegiata un’analisi atta a conferire il debito rilievo alla cura che il poeta riserva anche alle questioni di dettaglio, si è cercato di evitare che l’approfondimento dei particolari compromettesse una visione d’insieme, indispensabile alla contestualizzazione dei dati all’interno della poetica alfieriana. Perciò si è fatto ricorso al paratesto che correda le tragedie e alle altre opere del poeta, soprattutto i trattati, l’autobiografia e l’epistolario, che contengono indicazioni utili all’interpretazione dei fenomeni indagati.

La tesi si sviluppa inizialmente secondo l’asse diacronico, prendendo in esame l’esperimento della Cleopatraccia, le stesure redatte in francese delle prime tragedie e la loro traduzione, le letture dei classici, gli estratti e le annotazioni riportate sui volumi della prima biblioteca, confiscata e dispersa durante le vicende rivoluzionarie francesi. Sono stati posti in risalto i quattro poeti del canone (Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso), la cui eccellenza li isola rispetto agli altri autori, tanto da renderli un costante punto di riferimento per Alfieri, che ne assimila e rielabora l’elocuzione. Si è adottata in seguito una ripartizione per generi letterari, funzionale a chiarire la collocazione del teatro alfieriano nel panorama della tradizione italiana e le tensioni che si instaurano fra la sua tragedia e l’epica, dovute alla comune adesione al modello eroico. L’immissione del codice epico nel tessuto dialogico della tragedia si accompagna alla rimozione della lirica, che aveva influenzato la produzione teatrale italiana fin dai tempi del Torrismondo e che si era imposta anche nella tragedia di stampo sentimentale francese come nel melodramma, cui il poeta reagisce tentando un rinnovamento interno al genere e al suo linguaggio.

La seconda parte della tesi, dedicata alla maturità artistica di Alfieri, ripercorre il fervore critico che accompagna la pubblicazione del primo volume delle tragedie, la polemica dei letterati e la difesa dell’autore, occasione che gli permette di chiarire i principi della sua poetica. Se Alfieri ostenta indifferenza per l’opinione dei professori e denuncia l’inadeguatezza e l’improduttività di un sapere erudito, in realtà, durante la lunga revisione cui sottopone i suoi testi in vista della stampa definitiva, mitiga le soluzioni più estreme che inizialmente aveva giustificato, e mostra così di cedere in parte alle esigenze dei contemporanei. L’analisi delle modifiche apportate alle prime quattro tragedie, che attraversano tutte le tappe correttorie che separano l’edizione Pazzini (1783) dalla Didot (1789), permette di tracciare una coerente strategia delle

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8 varianti, testimone dell’affinarsi del gusto del poeta e, al tempo stesso, della maturazione della sua coscienza artistica.

L’alto grado di consapevolezza delle scelte di Alfieri diventa evidente grazie all’analisi della lingua delle tragedie, affrontata stavolta in una prospettiva sincronica, attraverso l’esame dell’edizione finale. Si è infatti ritenuto indispensabile fornire all’analisi dello stile tragico il rigore di una valutazione linguistica, che consentisse di quantificare i fenomeni riscontrati e di metterli in rapporto con gli usi del tempo. Le ricerche condotte permettono di ridimensionare l’accusa di conservatorismo rivolta allo stile alfieriano che, se pure presenta tratti arcaizzanti – peraltro comuni anche alla poesia coeva – innova invece sul piano della sintassi, facendo ricorso alle strutture ellittiche e spezzate dello stile nominale.

L’analisi procede attraverso una disamina retorica dello stile tragico, avviata in contrapposizione agli antimodelli, Metastasio e, soprattutto, Racine, nella lettura stilistica proposta da Leo Spitzer. All’effetto sordina ascrivibile al sobrio classicismo del tragediografo francese la critica ha infatti contrapposto l’effetto di stridenza del verso alfieriano, che si avvale di soluzioni che inaspriscono il dettato, disperdendone l’armonia. Tuttavia, nonostante le differenze di intenti, la scrittura di Alfieri condivide molti tratti con quella di Racine, in quanto sottoposta a sua volta alle regole di una poetica classica, che impone ordine e simmetria nell’organizzazione del pensiero. L’esigenza di un rigido controllo dei mezzi espressivi e di una loro disposizione armonica convive però in Alfieri con i principi diffusi dalla progressiva affermazione della poetica del sublime, che scardina il sistema precedente, sostituendo alla regolarità classica l’anomalia e lo scarto. Lo stile alfieriano, che persegue un difficile equilibrio fra ordine e disordine, fra norma ed eccezione, fa proprie le istanze di entrambe le poetiche.

In questo contesto la soluzione stilistica più significativa è forse l’irruzione dei silenzi che frangono i dialoghi alfieriani, interrompendo la continuità discorsiva e, lungi dal costituire un vuoto di senso, acquisiscono una pregnanza semantica tale da renderli veicolo di un discorso alternativo, sotterraneo ed introverso, che a volte contraddice quello esplicito al fine di manifestare le pulsioni più segrete dell’io. Proprio attraverso i lunghi silenzi che lacerano il dettato tragico, smorzandone l’altisonante retorica libertaria, si attua il recupero della lirica estromessa dal tessuto verbale e si incrina il fragile sogno eroico sotteso al teatro alfieriano.

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9 Per questi motivi, ci sembra che i “due modi per mettere in scena Alfieri” proposti a teatro non si escludano a vicenda, ma anzi si integrino inevitabilmente:

Ci sono due modi per mettere in scena Alfieri: presentarlo come egli scrive o presentarlo come egli sente. Si può recitarlo cioè arrotando i denti e aprendosi fieramente il cammino nel groviglio di rovi e di quelle sue parole tronche e contratte, ed è un modo non privo di una certa ispida e difficoltosa bellezza; probabilmente Alfieri stesso lo avrebbe preferito. Oppure si può recitarlo sciogliendo in gola tutti gli spini e gli spigoli del verso, allargando le braccia alla furia, all’impeto e soprattutto alla pietà che è quasi sempre sottintesa nelle sue opere8.

In realtà, come si cercherà di dimostrare, non c’è contrasto fra il modo in cui Alfieri scrive e quello in cui sente, in quanto la sua scrittura corrisponde esattamente, e nella maniera più alta, al suo sentire: la pietà scaturisce per l’appunto dal martirio dei rovi e le dissonanze di una parola disarticolata e ruvida si attenuano fino a spegnersi nel taciuto di un malinconico ripiegamento, rovescio intimo della magniloquenza eroica cui anela il teatro alfieriano.

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CLEOPATRACCIA

, TRADUZIONACCIE,

ESTRATTI: L’APPRENDISTATO POETICO

(1774-1782)

In una pagina della Vita l’Alfieri ritrae efficacemente le difficoltà del suo apprendistato poetico e illustra al tempo stesso la tenacia spesa nello studio dei classici, ammettendo i modesti risultati delle prime composizioni, compromesse dalla scarsa dimestichezza nel maneggiare gli strumenti dell’officina letteraria:

Continuava intanto a schiccherare molte rime, ma tutte mi riuscivano infelici. [...] Il mal esito delle rime non mi scoraggiva con tutto ciò; ma bensì convincevami che non bisognava mai restare di leggerne dell’ottime, e d’impararne a memoria, per invasarmi di forme poetiche. Onde in quell’estate m’inondai il cervello di versi del Petrarca, di Dante, del Tasso, e sino ai tre primi canti interi dell’Ariosto; convinto in me stesso, che il giorno verrebbe infallibilmente, in cui tutte quelle forme, frasi, e parole d’altri mi tornerebbero poi fuori dalle cellule di esso miste e immedesimate coi miei propri pensieri ed affetti9.

Nella I redazione il passo si presentava alquanto diverso nei toni e più esteso, e ciò in contrasto con la tendenza all’amplificazione operante nella revisione10:

Continuai pure a fare un diluvio di altre poesie in rima d’ogni genere, e metro, ma tutte infelici; [...] ed erano quasi diciotto mesi che m’inondava di tutti i Poeti: e non mi mancavano, né pensieri, né affetti, né invenzioni; pure in quell’abbondanza di cose io mi ritrovava una penosa sterilità, e invincibile quasi, di eleganza e di modi, talché nulla mi riusciva; onde spesso ridubitai fra me stesso, della mia possibilità di scrivere mai versi, per l’essermivi dato così tardi. Non mi sgomentava pure, e proseguiva; e non mi mettea mai a fare sonetto, né canzone, né madrigale, né altro, se non quando un’idea mi si affacciava per forza alla mente, e volea pure uscirne in versi; e me ne trovava alle volte fatti a dirittura non male i tre quattro primi. Allora io proseguiva, ma la non padronanza della lingua, il bastardume talvolta dell’idea, che ancor ci si provava a comparire in francese, davano tosto al rimanente del componimento un non so che di stentato, che non essendo il mio naturale carattere mi assaettava oltre ogni dire. Non so forse esprimere neppure adesso con parole proprie ed efficaci quel meccanismo

9 V. Alfieri, Vita, IV, 2.

10 Cfr. a proposito E. Raimondi, Giovinezza letteraria dell’Alfieri, in «Memorie dell’Accademia delle

Scienze dell’Istituto di Bologna», V, 4-5, (1952-53), pp. 259-361, poi in Id., Il concerto interrotto, Pisa, Pacini, 1979, pp. 65-190 (da cui si cita, in particolare pp. 161-162), e I sentieri del lettore II. Dal Seicento

all’Ottocento, Bologna, il Mulino, 1993-94 (con il titolo Una giovinezza letteraria in Europa), pp. 233-266: “Mentre nell’endecasillabo di lingua tragica la correzione alfieriana sottrae, concentra per sottintesi, per ellissi, scava dentro la parola, nella prosa tende ad allargare la frase, ad arricchirla d’impasto pittorico, a condurla ai vertici di un patetismo esasperato”.

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dell’intelletto, e quella battaglia orribile che in me si passava fra esso, il cuore, e la lingua, ma l’ho ferocemente sentita11.

Oltre agli interventi che mirano a conferire maggiore espressività al testo (come la sostituzione di fare, sottolineato in segno d’insoddisfazione già nell’abbozzo, con il più vivace schiccherare), colpisce il mutamento di prospettiva: la fiducia incoraggiante della redazione ultima si presenta all’origine incrinata dai dubbi che, se non valgono a distogliere Alfieri dallo scopo ambito, lo assaettano, facendolo disperare dell’esito dei suoi sforzi. La prima redazione precisa infatti che le letture di cui egli si propone di inondare il cervello durante l’estate erano già cominciate da quasi diciotto mesi senza produrre risultati apprezzabili: la mente ripiena di cose, gli mancavano le parole per esprimerle.

L’alienazione linguistica si configura nei termini drammatici della dissociazione dell’io, una battaglia orribile fra intelletto, cuore e lingua, che a distanza di tempo ridesta ancora in tutta la loro intensità le emozioni dell’Alfieri maturo, confidate al violento avverbio modale che conclude il periodo (ferocemente).

Orientamento letterario della “vicenda linguistica” alfieriana

Non a caso è stato possibile proporre una lettura dell’autobiografia come “vicenda linguistica”12, che si snoda a partire dagli anni dei non-studi adolescenziali, attraverso la dissipazione dei viaggi e l’ingallicamento, fino alla faticosa riconquista dell’idioma che Alfieri definisce naturale. Prima di allora egli descrive una situazione di alalia “per via di non saper nessuna lingua”13, dato il ripudio del francese e la non ufficialità del “gergaccio piemontese”14.

11 V. Alfieri, Vita I red., p. 152.

12 A. Porcu, La «Vita» dell’Alfieri come vicenda linguistica, in «Lingua e stile», XI, 1976, pp. 245-268. 13 V. Alfieri, Vita, IV, 1.

14 Ibid., IV, 3. Secondo Porcu (La «Vita» dell’Alfieri come vicenda linguistica cit.), le dichiarazioni di

Alfieri sulla scarsa conoscenza del francese poggerebbero sull’apriorismo linguistico condiviso dall’autore, vale a dire “l’appartenenza di un individuo ad un certo «territorio linguistico», quello della sua nascita, indipendentemente da ogni concreta formazione linguistica individuale” (p. 256), il che comporta che “un piemontese per quanto si sforzi non potrà mai arrivare a possedere in misura sufficiente quella lingua estranea [sc. il francese] alla natura degli italiani, e tali sono i piemontesi” (p. 266). Mi sembra che conferma a queste affermazioni possa provenire dalle note con cui Alfieri accompagna due brevi composizioni in francese, escluse dalla raccolta ufficiale delle Rime e riprodotte da M. Sterpos, Il

primo Alfieri e oltre, Modena, Mucchi, 1994, pp. 216-217, XVI (“Consultation sur le fameux procès du Collier du Cardinal de Rohan, faite par un Avocat etranger à qui on pardonnera toutes les inexactitudes de (sa) langue, parce que n’est pas la sienne qu’il ecrit”); pp. 217-218, XVIII (“pessima cosa: e così va chi ha la temerità di far versi in lingua non sua”). Eppure, come è noto, la conoscenza del francese di Alfieri era certo più estesa di quanto l’autore lasci credere, a tal proposito cfr. P.-C. Buffaria, Thèmes et

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12 Nella ricostruzione fornita dalla Vita, infatti, la mancanza di una lingua per la scrittura sembra sovrapporsi e confondersi con quella di una lingua per la conversazione, per cui il problema linguistico si configura sin dall’inizio in termini strettamente letterari e la lingua cercata si identifica con quella dei classici; proprio per questo il resoconto autobiografico intreccia il leit-motiv del toscano parlato a quello delle letture.

Per il periodo dell’adolescenza lo scarso profitto dell’educazione ricevuta nell’Accademia torinese (dove le lezioni erano tenute in italiano) in “quei due o tre anni di studi buffoni di umanità e rettoriche asinine”15, è testimoniato dalla difficoltà d’intendere l’Ariosto, “il più facile dei nostri poeti”, difficoltà che sembra aumentare anziché diminuire con il passaggio alla classe superiore (“vedi rettorico!”)16. Parallelamente nella Vita si registra il disinteresse, se non addirittura il fastidio, per il “benedetto parlar toscano” dello zio paterno17.

Nel 1763, con l’ingresso nel Primo Appartamento dell’Accademia popolato per lo più da forestieri, le competenze linguistiche di Alfieri scemano in coincidenza con l’interesse rivolto ai romanzi francesi, che si sostituiscono alla lettura dell’Ariosto18. Ancora più significativi sono i dati riferiti per i primi anni dei viaggi: il “barbaro” ed irriverente disinteresse per l’autografo ambrosiano di Petrarca19, per la sua tomba ad

Arquà20, e per quella della “celebre Laura” ad Avignone21, la negligenza per la “patria e la tomba” di Ariosto a Ferrara22, e (ma solo nella prima redazione) la visita a Parma condotta “senza, non che vederlo, neppur sapere che vi esisteva, e fioriva il celebre Frugoni”23 sono tutte mancanze, riparate nei successivi “pellegrinaggi poetici”24, che si

variations épistolaires de l’écriture autobiographique: Alfieri et Louis XVI, in «1789 e dopo», 24, 1989/1, pp. 145-154, in cui si sottolinea come la lettera al re di Francia redatta in un “mauvais français”, secondo le parole di Alfieri, dimostri una padronanza della lingua tale da contenere un perfetto alessandrino monosillabico.

15 V. Alfieri, Vita, II, 7. 16 Ibid., II, 3.

17 Ibid., II, 3.

18 Ibid., II, 7: “La lettura di molti romanzi francesi (chè degli italiani leggibili non ve n’è); il continuo

conversare con forestieri, e il non aver occasione mai né di parlare né di sentir parlare italiano, mi andavano a poco a poco scacciando dal capo quel poco di tristo toscano ch’io avessi potuto intromettervi in quei due o tre anni di studi buffoni di umanità e rettoriche asinine”.

19 Ibid., III, 1. 20 Ibid., III, 4. 21 Ibid., III, 4. 22 Ibid., III, 3.

23 V. Alfieri, Vita I red., p. 58. Nell’ultima redazione l’omissione del passo relativo al Frugoni si deve

probabilmente al giudizio limitativo di Alfieri sulla sua produzione poetica, che non gli permette di competere con i quattro grandi vati della letteratura italiana. Anche nelle satira I viaggi (IX, 37-39) l’autore accenna al passaggio per Parma senza fare menzione del Frugoni.

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13 associano alla “giovenile stortura” da scontare con un profondo senso di vergogna di “essersi messo in Firenze ad imparare la lingua inglese [...] invece di imparare dal vivo esempio dei beati Toscani a spiegarsi almeno senza barbarie nella loro divina lingua”25. Ancora nel breve soggiorno livornese Alfieri “barbaramente andava balbettando l’inglese, ed avea chiusi e sordi gli orecchi al toscano”26, come viene ribadito nella satira I viaggi, in cui “muto e sordo e cieco a ogni arte bella”, l’autore si applica all’“Anglo sermon”27, insensibile all’“alma Cantata” e ridotto alla condizione di “Anglo-Vandalo-Gallo per la vita”28.

Al contrario, la necessità di rimettersi “alcun poco a cinguettare italiano” nell’inverno danese del 1770, dovuta alla frequentazione del pisano Conte Catanti, si accompagna immancabilmente alla ripresa delle letture italiane, fra le altre i Dialoghi dell’Aretino, a proposito dei quali i critici hanno già rilevato l’inversione di rotta rispetto alla stesura iniziale: se infatti, in un primo tempo – e più sinceramente, occorre credere – Alfieri confessa di aver gustato “le sole porcherie, non i vezzi infiniti di lingua”29, in seguito si corregge e fornisce una versione più austera:

In quell’inverno mi rimisi alcun poco a cinguettare italiano con il ministro di Napoli in Danimarca, che si trovava essere pisano; il conte Catanti, cognato del celebre primo ministro in Napoli, marchese Tanucci, già professore nell’Università pisana. [...] Onde alquanto inanimito dal suddetto conte Catanti a non trascurare una sì bella lingua, e che era pure la mia, dacché di essere io francese non acconsentiva a niun modo, mi rimisi a leggere alcuni libri italiani. Lessi, tra’ molti altri, i Dialoghi dell’Aretino, i quali benché mi ripugnassero per le oscenità, mi rapivano pure per l’originalità, varietà e proprietà dell’espressioni30.

Quello che ci interessa notare è come l’ultima redazione, motivando l’interesse per l’Aretino con le qualità artistiche della sua scrittura, stringa ulteriormente i legami fra la pratica del toscano come lingua della conversazione e l’apprendistato letterario come momenti di un unico processo, legami peraltro evidenziati nel brano dalla simmetrica reduplicazione delle espressioni (mi rimisi alcun poco a cinguettare italiano... mi rimisi a leggere alcuni libri italiani).

24 V. Alfieri, Vita, IV, 10. Cfr. G. Santato, I «pellegrinaggi poetici» di Alfieri ad Arquà e a Valchiusa, in

«Annali Alfieriani», VIII, 2005, pp. 103-124.

25 V. Alfieri, Vita, III, 1. 26 Ibid.

27 V. Alfieri, I viaggi, 53-54. 28 Ibid., 47-48.

29 V. Alfieri, Vita I red., pp. 85-86. Cfr. E. Raimondi, Giovinezza letteraria dell’Alfieri cit. 30 V. Alfieri, Vita., III, 8.

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14 Nel 1775, dopo la rappresentazione della Cleopatra, Alfieri, presa coscienza della vocazione tragica, si trova ad affrontare il problema linguistico e si ripromette di non risparmiare “né fatica né noia nessuna per mettersi in grado di sapere la sua lingua quant’uomo d’Italia”, convinto che se giungerà al “ben dire” non gli verranno mai meno “né il ben ideare, né il ben comporre”31.

Il ben dire agognato è in tutta evidenza una lingua della e per la letteratura, strumento essenziale alla creazione poetica, da ricercare pertanto nelle pagine dei classici, lette con “pazza attenzione” per carpirne i segreti32, ma lo studio accanito sui testi non può prescindere dal viaggio in Toscana, indispensabile per acquisire l’abitudine di “parlare, udire, pensare, e sognare in toscano, e non altrimenti mai più”33.

Si comprende come in questa prospettiva il toscano non rappresenti l’idioma popolare dei romantici, ma la lingua dei classici e Firenze costituisca “la translatio letteraria-civile di Atene, o di Roma: capitale letteraria di una entità storica, non geografica”34, come confermano i versi della satira I viaggi (43-45), in cui l’autore descrive l’arrivo in Toscana:

Eccomi all’Arno, ove in suonanti note La Plebe stessa atticizzando addita Come con lingua l’aria si percuote.

Riutilizzando una clausola ariostesca (Orl. F. I, 39 “Né pur d’un sol sospir l’aria percuote”), Alfieri conferisce veste poetica a un concetto espresso altrove nelle Rime (“In dolce stile, a nullo altro secondo, / Qui tal favella, cui nutriscon ghiande”)35 e nella Vita (“io mi sentii quasiché un vivo raggio che mi rischiarava ad un tratto la mente, e una dolcissima lusinga agli orecchi e al cuore, nell’udire le più infime persone così soavemente e con tanta eleganza proprietà e brevità favellare”)36, ma l’impiego del

31 V. Alfieri, Vita, IV, 1.

32 Ibid.

33 Ibid., IV, 2. Cfr. A. Di Benedetto, «Arrivammo a Firenze...» La Toscana di Vittorio Alfieri fra

esperienza e mito, in Id., Il dandy e il sublime. Nuovi studi su Vittorio Alfieri, Firenze, Olschki, 2003, pp. 55-77 (comparso per la prima volta in Alfieri in Toscana, Atti del Convegno Internazionale di Studi, a c. di G. Tellini e R. Turchi, Firenze ottobre 2000, Olschki, 2002, vol. I, pp. 3-20).

34G. L Beccaria., I segni senza ruggine. Alfieri e la volontà del verso tragico, «Sigma», IX, 1976, pp.

107-151.

35 V. Alfieri, Rime, CX, 5-6. 36 V. Alfieri, Vita, III, 1.

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15 verbo atticizzare37 contiene un riferimento, assente negli altri due passi, all’Atene delle lettere che finisce dunque col sovrapporsi a Firenze, erede della sua tradizione38.

Il toscano infatti è la “men barbara” tra le lingue moderne39, capace di competere con le antiche: grazie a un “[...] giocondo / Parlare, a un tempo armonïoso e grande”40 sovrasta gli “urli maladetti” con cui si esprimono “Sarmati, Galli, Angli e Tedeschi”41; “doviziosissima ed elegante”42, dotata di dolcezza e musicalità, secondo l’opinione del tempo, tanto che “Nasce appena il pensiero, e già s’innostra / Di poetico stil [...]”43, è nondimeno duttile al punto da risuonare “sì maschia anco ed energica e feroce in bocca di Dante”44, e possiede “denti, ed ugne, e saette, e feroce brevità, quanto e più ch’altra lingua mai l’abbia, o le avesse”45. La celebrazione del toscano riguarda dunque in via esclusiva l’ambito letterario, senza preoccupazione alcuna per le carenze funzionali, avvertite invece dai contemporanei sulla base del confronto con le lingue nazionali europee. Alfieri dichiara persino di preferire “di gran lunga [...] di scrivere in una lingua quasi che morta, e per un popolo morto, e di vedersi anche sepolto prima di morire, allo scrivere in codeste lingue sorde e mute, francese ed inglese, ancorché dai loro cannoni ed eserciti elle si vadano ponendo in moda”46.

Per Alfieri il degrado politico e morale dell’Italia si riflette sul suo linguaggio, ne deriva la definizione di lingua morta; la decadenza investe persino la sede originaria dell’idioma, al punto che nella Vita egli avverte, sia pur incidentalmente, che nei tempi moderni “i presenti Toscani” non sfoggiano quanto dovuto la “purità toscanesca e

37 Su atticizzare si modella gallizzare all’interno della stessa satira, cfr. V. Alfieri, I viaggi cit., v. 170, “il

Gallizzato tartaro”.

38 Cfr. anche il sonetto 278 delle Rime in cui, con riferimento a Firenze, si legge: “Sacro tributo a Grecia

tutta impone / L’unica Atene, di ogni grazia sede, / Cui la Beozia stolta in van si oppone”.

39 V. Alfieri, Epistolario, III, 431. 40 V. Alfieri, Rime, 110.

41 Ibid. Sulla superiorità del toscano cfr. anche Misogallo, son XXVII, XXXII e XXXIII. 42 V. Alfieri, Vita, IV, 2.

43 V. Alfieri, Rime, 277. Sulle qualità dell’italiano cfr. anche J. B. Le Rond d’Alembert, Observations sur

l’art de traduire en général, et sur cet essai de traduction en particulier, in Essai de traduction de

quelques morceaux de Tacite avec des observations préliminaires sur l’art de traduire, in Mélanges de

Littérature, d’Histoire, et de Philosophie, Amsterdam, Zacherie Chatelain, 1773, 5 voll., t. III, pp. 3-32.

44 V. Alfieri, Vita, IV, 1.

45 Ibid., IV, 11. Sulla celebrazione del toscano come lingua letteraria e sulla denigrazione delle altre

lingue, in primis il francese, cfr. A. Di Benedetto, La lingua sbarbarizzata: l’operetta sul linguaggio

militare progettata e non scritta da Vittorio Alfieri, in Id., Le passioni e il limite. Un’interpretazione di

Vittorio Alfieri, nuova edizione riveduta e accresciuta, Napoli, Liguori, 1994, pp. 151-171.

46 V. Alfieri, Vita, IV, 17. L’italiano appare una lingua quasi che morta a causa della situazione politica in

cui versa l’Italia, frammentata e asservita. Occorre notare, con Morena Pagliai, (Introduzione a Fra lingua

e stile. Contributi toscani alle discussioni linguistiche del ’700, Urbino, Argalia, 1977, pp. XIII-XIV) che “proprio nel purista Salvini abbiamo, per la prima volta, chiaramente denunciata l’artificiosità della lingua letteraria italiana: in termini inequivocabili afferma nelle sue Annotazioni a Della perfetta poesia del

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16 grammaticale”47. Il “bel parlar” si può ancora udire nella terra incorrotta di Siena, che non a caso costituisce anche l’unico rifugio per Cortesia uscita “[...] in bando / [...] da Flora”48.

Nelle riserve di Alfieri sul toscano dei contemporanei si può forse cogliere l’eco delle posizioni critiche di chi, come il Baretti, rifiutava di riconoscere nel dialetto fiorentino moderno la lingua nazionale49, ma la necessità per i toscani stessi di ricorrere al verbo degli ottimi antichi per forbire l’uso moderno era tesi sostenuta già dal Salviati negli Avvertimenti della lingua sopra il Decamerone, testo acquistato da Alfieri a Firenze nel 1780, secondo la data di possesso riportata sul foglio di guardia50. Con un tratto verticale a margine Alfieri evidenzia in segno di approvazione un brano del cap. XIX del secondo libro, dal titolo “Vane contese d’alcuni non Toscani co’ Fiorentini per conto della lingua”:

47 V. Alfieri, Vita, IV, 2. Sull’uso positivo del termine toscanesco cfr. M. Fogarasi, Storia di parole storia

della cultura, Napoli, Liguori, 1976, p. 92, secondo cui “già questo aggettivo col suffisso –esco in altri, come per esempio nei caffeisti o nel Baretti, avrebbe potuto suonare quale connotazione spregiativa irradiata da aggettivi come arlecchinesco (A. Verri 1767), maccheronesco (Beretti 1779), ecc. Ma per l’Alfieri era la purità del modello, la purità toscanesca appunto, opposta a parole barbare italianizzate 63, a barbaro gergo piemontese 81, a barbaro Allobrogo 66, ecc.”.

48 V. Alfieri, Rime, 111. Sempre nella Vita (IV, 4) Alfieri per apprendere la lingua preferisce soggiornare

a Siena “dove si parla meglio, e vi son meno forestieri”. Di Benedetto («Arrivammo a Firenze...» La

Toscana di Vittorio Alfieri fra esperienza e mito cit., p. 66), fa osservare come nello stesso sonetto CX, “Deh! che non è tutta Toscana il mondo!”, “l’elogio celi una gravissima riserva: Ben è gran danno, che ignoranza inveschi / ora pur tanta i parlator sì pretti; / e nulla in lor, che il vuoto sòno, adeschi”.

49 Cfr. G. Baretti, La frusta letteraria, a c. di L. Piccioni, Bari, Laterza, 1932, n. 25, Diceria di Aristarco.

Sulla questione della lingua nel Settecento cfr. Teorie e pratiche linguistiche nell’Italia del Settecento, a c. di L. Formigari, Bologna, il Mulino, 1984; A. Fabrizi, Tra le discussioni sulla lingua nel secondo

Settecento (I-II), in «Lingua Nostra», LXIII, fasc. 1-2, marzo-giugno 2002, pp. 1-17; fasc. 3-4, settembre-dicembre 2002, pp. 72-88; Id., Le discussioni sulla lingua nel secondo Settecento da Baretti a Galeani

Napione, in Letteratura italiana e cultura europea tra Illuminismo e Romanticismo, a c. di G. Santato, Genève, Droz, 2003, pp. 225-241; B. Migliorini, Storia della lingua italiana, introduzione di G. Ghinassi, Firenze, Sansoni, 199211 (1937); S. Battaglia, Il problema della lingua dal Baretti al Manzoni, Napoli,

Liguori, 1965; G. Folena, L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi, 1983; T. Matarrese, Il Settecento, Bologna, il Mulino, 1993; A. Schiaffini, Aspetti della crisi linguistica

italiana del Settecento, in Italiano antico e moderno, a c. di T. De Mauro e P. Mazzantini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975, pp. 129-165; M. Pagliai, Fra lingua e stile. Contributi toscani alle discussioni

linguistiche del ’700 cit.; L. Serianni, La lingua italiana dal cosmopolitismo alla coscienza nazionale in

Storia della Letteratura Italiana diretta da E. Malato, vol. IV, Il Settecento, Roma, Salerno ed., 1999, cap. VI, pp. 187-237; Id., La prosa in Storia della lingua italiana a c. di L. Serianni e P. Trifone, Torino, Einaudi, 1993, vol. I, pp. 451-577 e nello stesso volume G. L. Beccaria, Dal Settecento al Novecento pp. 679-749 e A. Sorella, La tragedia, pp. 751-792; E. Travi, La lingua in Italia tra riforma e letteratura

1750-1800, Milano, Vita e Pensiero, 1988; M. Vitale, L’oro nella lingua. Contributi per una storia del

tradizionalismo e del purismo italiano, Milano-Napoli, Ricciardi, 1986 e Id., Proposizioni teoriche e

indicazioni pratiche nelle discussioni linguistiche del Settecento, in Id., La Veneranda Favella, Napoli, Morano ed., 1988, pp. 353-387.

50 Degli Avvertimenti della lingua sopra il Decamerone del cavalier Lionardo Salviati, in Napoli nella

stamperia di Bernardo-Michele Raillard, 1712, (Montp. 33489). Devo a Christian Del Vento la segnalazione di questo e di altri volumi postillati della biblioteca alfieriana.

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Ma non si sdegnino per Dio i presenti huomini della nostra città, non d’imparare dagli strani, ma solamente di ripigliar dagli avoli, non dico tutto il linguaggio, ma un cotal raffinamento dell’idioma loro; e reputino orrevol cosa, e per la lingua, e per se, che con qualche fatica, e con alcuno studio, eziandio da’ suoi proprj, il pregio se ne guadagni. Ma tolgano agli altri allo ’ncontro questa nostra modestia per ammaestramento che se a noi a far progresso nel favellar natio, l’osservanza delle scritture de’ nostri antichi abbisogna, che fia da dir di quelli, che con parole, e con terminazioni, e con regole, e con pronunzia nascono, e vivono quasi tutta diversa?51

e in seguito un periodo del cap. XXI:

Ma come ai forestieri, è quasi necessaria l’usanza de’ nostri huomini, per saper la lingua perfettamente, e così a i nostri fa di bisogno l’osservanza degli scrittori, per iscriverla correttamente52.

In fin dei conti, solo i “buoni autori” hanno il diritto di legiferare in fatto di lingua, come emerge da un passo del cap. XVI degli Avvertimenti, giudicato da Alfieri “ottima sentenza” in una postilla:

Ed il miglioramento nell’opera delle lingue al contrario vuol giudicarsi, che non sarebbe nell’altre cose: cioè non tanto dall’essere, quanto dall’essere approvato da giudice competente. E questo, come si disse, sono i buoni Autori53.

In una annotazione al capitolo “Come si conosca, e si pruovi, che in Firenze si parla oggi manco bene, che non vi si parlava nel tempo del Boccaccio”, Alfieri stabilisce un parallelismo fra il latino medievale contaminato dal volgare e il toscano contemporaneo, minacciato, a suo avviso, dalla più temibile lingua barbara moderna: il “Latino era nel [’300] come il Francese nel [’]700 guastato dal Toscano ma con meno danno”.

Ne risulta quindi che la Firenze “attica” per Alfieri non è quella del secolo attuale, il quale “balbetta, ed anche in lingua assai dubbia”, ma piuttosto quella del Trecento, che veramente “diceva”, considerando che

51 Ibid., II, XIX, p. 127.

52 Ibid., II, XXI, p. 133. Non sorprende dunque la raccomandazione di studiare a fondo il toscano che

Alfieri rivolge al Polidori, nonostante le sue origini pisane, nel momento in cui gli affida alcune lettere di presentazione per Londra, dove il suo ormai ex segretario intendeva recarsi per insegnare l’italiano. Dati i rapporti burrascosi fra i due, si potrebbe supporre anche un ultimo affondo polemico di Alfieri, ma mi sembra plausibile una lettura non ironica dell’epistola: “La prego soltanto, siccome la raccomanderò come atto ad insegnare la lingua italiana, a fare onore a questa mia raccomandazione con lo studiarla indefessamente; e non è lingua facile a sapersi né ad insegnarsi, tanto più a Londra dove è assai più nota di qui, e dove i maestri sono in più gran numero di qui” (V. Alfieri, Epistolario, II, 209).

53 Degli Avvertimenti della lingua sopra il Decamerone del cavalier Lionardo Salviati cit., II, XVI, p.

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la nostra lingua, diversa da tutte le altre nelle vicende sue, è nata gigante, e direi, come Pallade dalla testa di Giove, tutta armata54.

Negli anni dell’apprendistato poetico Alfieri si piega pertanto a “ingoiarsi le più insulse e antitragiche letture dei nostri testi di lingua per invasarsi di modi toscani”55, e studia e postilla “tutti quei nostri prosatori del trecento” per avvalersi “dell’oro dei loro abiti, scartando i cenci delle loro idee”56. “Gli ottimi e noiosi prosatori trecentisti” gli servono da “contravveleno dei gallicismi” ancora nel 1778, quando il legame con l’Albany lo risospinge verso la lingua francese57; si tratta di “tutti quei seccatori trecentisti di Vite di Barlaam, di Storie di Santi Padri, di Specchi di croce, ecc., in cui bisogna pescare il buon oro del puro, e del forte parlare”, come precisa la prima redazione della Vita58.

Lo studio di questi testi, congiunto a quello dei classici della letteratura italiana compitati, postillati più volte e appresi a mente, si integra con la consultazione di grammatiche e vocabolari, con l’esercizio della traduzione dal latino e la pratica quotidiana della “lingua parlabile” nella conversazione con i Fiorentini59: provvisto di tali supporti e armato di pazienza Alfieri comincia dal basso la sua personale ascesa al Parnaso.

54 V. Alfieri, Risposta dell’Alfieri, in V. Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, p. 237. Con

questa affermazione il poeta intende contrapporsi al Calzabigi, secondo il quale nel “secolo di Dante” la lingua “balbettava bambina; ora eloquentemente, maestosamente, e leggiadramente si spiega nella sua virilità”, (Lettera di Ranieri de’ Calzabigi sulle prime quattro tragedie dell’Alfieri, in V. Alfieri, Parere

sulle tragedie e altre prose critiche, p. 213). Al tempo stesso si potrebbe pensare a una risposta polemica di Alfieri alla recensione del I volume delle tragedie apparsa su Il corriere europeo, in cui il tragediografo viene criticato per aver assunto a modello i poeti antichi e soprattutto il “Principe della Poesia Italiana, che balbettava una lingua non ancora formata”.

55 V. Alfieri, Vita, IV, 1. 56 Ibid.

57 Ibid., IV, 10.

58 V. Alfieri, Vita I red., p. 172. Cfr. ancora l’Epistolario, I, 183 e II, 283, dove certi testi del Trecento

sono definiti “rancidumi”.

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Le Cleopatre

Le prima ricognizione critica dell’evoluzione artistica di Alfieri è affidata alle pagine autobiografiche con cui l’autore, a conclusione dell’Epoca Terza, chiude il periodo della Giovinezza, riportando alcuni squarci ricavati da redazioni distinte della Cleopatra.

Con Antonio e Cleopatra Alfieri inaugura il dossier di testi chiamati a documentare la sua “asinità nell’età non poca di anni venzei e mezzo”, e “i lentissimi progressi, e l’impossibilità di scrivere che tuttavia sussisteva”60, progressi per l’appunto verificabili grazie al raffronto della Cleopatra Prima, informe Abbozzaccio, con la Cleopatra Seconda e la Cleopatra Terza, quale fu recitata nel Teatro Carignano, ugualmente trascritte. La volontà di Alfieri di rendere note anche le fasi provvisorie e persino incompiute della versificazione trova corrispondenza nella cura con cui egli custodisce i manoscritti di tutte le tragedie, complete delle redazioni originarie61.

Emerge da ciò la profonda attenzione con cui l’autore calibra varianti anche minime dettate dalla stessa esigenza che lo spingerà al termine della carriera a correggere il primo volume dell’edizione Didot delle tragedie, dopo appena due anni dalla conclusione della stampa:

due anni dopo, finito di stamparle tutte, ricominciai da capo a ristampar quelle prime tre [sc. tragedie]; a solo fine di soddisfare all’arte e a me stesso; e forse a me solo; che pochissimi al certo vorranno o sapranno badare alle mutazioni fattevi quanto allo stile; le quali, ciascuna per sé sono inezie; tutte insieme, son molte e importanti, se non per ora, col tempo62.

Se non per ora, col tempo: si tratta dunque di un tentativo di approssimazione all’opera perfetta, tramite il ritocco delle imperfezioni anche minime, destinate però ad acquisire visibilità di fronte al tribunale dei posteri. L’espressione compare solo nella seconda redazione della Vita di Alfieri, che mostra, secondo Jannaco, “come nella sua

60 Ibid., III, 14.

61 Il valore documentario degli scartafacci alfieriani è ribadito dall’autore stesso, che nel 1799 appone il

seguente commento al ms. Laurenziano Alfieri 3, c. 1r, che contiene le prove poetiche giovanili: “L’Autore, raccolte queste sue prime prime sudicerie le ha volute conservare non per altra ragione, che per aver presso di sé un ricordo dimostrativo della di lui totale ignoranza in una età ove altri Autori aveano acquistata gran parte della loro fama. Siano intanto questi muti testimonj, un argomento di scusa all’Autore se egli in appresso non ha fatto benissimo, avendo dovuto in così inoltrata età superar tanti ostacoli: ma siano altresì un argomento di maggior lode, se gli fosse pure riuscito di superarli”.

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coscienza di autore quelle correzioni siano venute sempre più acquistando importanza e rilievo”63. La prima stesura infatti, pur qualificandole come molte e importanti, le sminuiva definendole mutazioncelle, laddove la seconda redazione sostituisce al suffisso alterativo una spiegazione diffusa, precisando che i ritocchi non hanno gran peso solo se considerati singolarmente e lo assumono invece nel loro insieme.

Resta certo che Alfieri, “preciso e implacabile archivista di sé stesso”64, raccoglie e ordina le proprie carte facendo tesoro persino degli abbozzi, di appunti e di progetti mai attuati; sfuggono gli scartafacci gettati nel fuoco in preda a moti collerici, ma anche, per esempio, e non sarà casuale, gli estratti dai primi diciotto libri della Storia Ecclesiastica del Fleury “in lingua francese”, della cui esistenza l’autore ci dà testimonianza nella Vita, affrettandosi a precisare che furono compilati “con molta ostinazione, ed anche con un qualche diletto, ma con quasi nessunissimo utile”65.

In maniera analoga i volumi della seconda biblioteca alfieriana ricostruita a Firenze contengono, com’è stato già osservato, una selezione assai ricca di titoli, significativi sia per le presenze che per le assenze, che mirano a corroborare il ritratto idealizzato della sua attività di scrittore che l’Alfieri traccia nella ricostruzione autobiografica66.

Le indicazioni che la Vita offre sulla sua attività creativa, integrate da quelle riferite dal Rendimento di conti da darsi al tribunale di Apollo e da altri prospetti cronologici, le date apposte sui fogli di guardia dei volumi acquistati, che spesso segnalano letture e riletture, ed appaiono anche sui manoscritti depositari delle diverse fasi delle composizioni poetiche, configurano un itinerario intricato e complesso, attraverso il quale è Alfieri in persona ad orientarci67. Se a volte gli strumenti forniti non si rivelano rigorosi – sia per semplice distrazione, sia per volontà deliberata di manipolare i dati del reale – possiamo considerarli tuttavia attendibili nel complesso e

63 C. Jannaco, Studi alfieriani vecchi e nuovi, Firenze, Olschki, 1974, pp. 54-55. 64 A. Di Benedetto, Il dandy e il sublime cit., p. 25.

65 Ibid., II, 7.

66 Cfr. G. Santato, Alfieri e Voltaire. Dall’imitazione alla contestazione, Firenze, Olschki, 1988, p. 40:

“l’ultimo Alfieri sapeva bene, senza aver letto Borges, che il catalogo della sua biblioteca avrebbe consegnato ai posteri, con la documentazione delle sue letture, l’immagine esemplare del suo lavoro di scrittore. Si adopera quindi perché esso coincida interamente con un ideale autoritratto, ovvero con l’immagine di sé che egli vuol consegnare alla posterità. Molti classici greci, latini e italiani quindi, pochi contemporanei, nessuno o quasi dei vituperati francesi formeranno lo sfondo dell’opera alfieriana. Il catalogo del Tassi rispetta ed esegue questa volontà: è un catalogo Posteritati”.

67 Sulle strategie testuali applicate da Alfieri negli scritti di poetica che accompagnano le sue opere cfr.

P.-C. Buffaria, Alfieri ou les aveaux d’une écriture, in Vittorio Alfieri et la culture française cit., pp. 60-67.

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percorrere fino in fondo la strada che il poeta ha tracciato a favore dei pochissimi disposti a seguirlo nella visita guidata alla sua officina letteraria.

I Autobiografia e scartafacci

I. 1 L’appendice dell’Epoca Terza

I documenti che Alfieri allega alla fine dell’Epoca Terza della Vita comprendono, oltre alla Cleopatra, il Primo sonetto, tre Colascionate e la commedia di un atto I poeti, corredate da due lettere del Paciaudi e da una del Tana68, cui occorre aggiungere il Primo capitolo trascritto all’inizio dell’Epoca Quarta, quasi a fornire il quadro completo dei generi in cui l’autore si cimenterà negli anni a seguire, compresenti fin dal suo esordio, e in particolare i due grandi filoni tragico e comico che segnano il suo ingresso in Parnaso calzato di “socco e coturno ad un tempo”69.

Se gli scritti di Alfieri risentono tutti del prorompente “io” del poeta, gli spunti biografici della Cleopatra, legata alla fine della relazione con la Prié, sono resi noti dall’autore stesso. L’idea della tragedia nasce durante le visite all’amante ammalata da un arazzo situato nell’anticamera della “Signora”, che raffigurava per l’appunto “vari fatti di Cleopatra e di Antonio”. Il manoscritto con le prime scene viene covato per circa un anno “sotto un cuscino della [...] poltroncina” nella camera della donna e recuperato prima della rottura70.

Secondo il resoconto della Vita, Alfieri decide di riprendere la tragedia interrotta e di farla rappresentare in scena dopo aver intuito “quasi come un lampo [...] la somiglianza del suo stato di cuore con quello di Antonio”71. L’attività creativa si configura dunque sin dall’inizio come proiezione delle pulsioni del poeta, che tramite la sublimazione dell’arte giunge a una catarsi personale, non priva di un certo compiacimento esibizionistico. Non a caso lo stesso rito liberatorio è applicato nel

68 Nei Poeti, del resto, Alfieri presta ai personaggi alcune critiche della tragedia ricavate dalle

osservazioni del Tana e dal proprio Examen. Cfr. M. Guglielminetti, «Ma le parole si vedono elle, o si

ascoltano?» Nota sulla Cleopatraccia, in Id., Saul e Mirra, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1993, pp. 85-111.

69 V. Alfieri, Vita, III, 15. 70 Ibid., III, 14.

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medesimo periodo alle scandalose vicende londinesi, rivissute con intento dissacrante nella Novella Prima, che traduce in versi autoironici una cocente delusione amorosa72.

Anche le altre composizioni riportate alla fine dell’Epoca Terza hanno alla base le stesse vicende biografiche che ispirano la tragedia. Il Primo sonetto celebra infatti la liberazione dall’indegna fiamma e la Colascionata prima ha per tema “le vicende d’amor strane, ed amare”, mentre le successive si rivolgono alla nuova passione che ha sostituito l’“intoppo amoroso” nell’animo del giovane Alfieri e con “impetuosità” superiore a qualsiasi altra “febbre [...] d’amore”73: la gloria poetica. Le aspirazioni letterarie sono ridimensionate per mezzo del distanziamento autoironico nel punto stesso in cui vengono sottoposte al giudizio altrui, quasi ad anticipare ed attenuare le critiche.

Come la Cleopatra è accompagnata da una farsa che la ridicolizza – e Alfieri introduce anche nell’Esquisse il personaggio della regina in atto di domandare giustizia per la mauvaise tragédie che la vede protagonista –, così le colascionate contengono tutte uno smascheramento dell’autore. Questo si presenta nella prima composizione come Poeta sudicio, e conclude, dopo aver messo alla berlina gli innamorati, attribuendosi la propria parte di ridicolo:

Io già rider vi ho fatto, e rido adesso delle donne, di voi, e di me stesso.

Nella Colascionata seconda, che ha per tema la sciocchezza, Apollo invita la cetra ad intonare versi che non risparmiano lo stesso cantore:

Dirò dunque di me, per mia disgrazia che senza la stoltezza avrei tacciuto,

e forse molto meglio avria valsuto, per conservar di voi la buona grazia.

Se il Poeta sudicio è poi contestato e apostrofato come “sporchissimo vate” e “vil cencioso” da Apollo, questi è a sua volta screditato nella Colascionata terza che si apre così:

72 Cfr. M. Sterpos, Il primo Alfieri e oltre cit., pp. 229-239. Sulla funzione del teatro come proiezione

dell’io cfr. E. Raimondi, Le ombre sull’abisso, in Id. Le pietre del sogno. Il moderno dopo il sublime, Bologna, il Mulino, 1985, pp. 65-89, poi in Id. I sentieri del lettore, II cit., pp. 293-314.

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Apolline già stufo di vagare, né sapendo che far, s’infinge adesso

che l’ha pregato alcun di ricantare; ma questo non è ver, se l’ha sognato.

L’osservazione riproduce esattamente una nota diaristica di Alfieri che, pari al suo Apollo, presentato a un uomo di lettere fa “adroitement tomber le discours sur sa dernière mascarade” e intona i suoi versi “le forçant à le prier de les chanter”74. Ma anche il poeta dell’ultima colascionata si attribuisce la propria parte di ridicolo, dandosi del vanitoso e del pazzo:

Quest’è la vanità; ma non lo canto potrei parlar di me senza sentirlo. Dirò che sono un pazzo, e ben m’avvedo

Che lo dite voi tutti anche tacendo. Finisco, per non dir, che anch’io lo credo.

Alfieri continua così a mettere in pratica ciò che aveva appreso durante gli anni dell’Accademia, quando si sparruccava spontaneamente per evitare di essere dileggiato dai “compagni petulantissimi”75. Insomma, poiché le sue azioni prestano il fianco al ridicolo, cui è oltremodo sensibile, egli lo assume per primo (“e primo io era a deridere la mia Cleopatra”)76, innanzitutto per contenerlo e poi per dotarsi di una imparziale credibilità, che gli permette di affermare che il suo “burlesco ingresso in Parnasso [...] è riuscito poi una cosa assai seria”77.

74 V. Alfieri, Giornali e Annali, p. 412. Durante la declamazione dei suoi versi Alfieri si rende conto che

l’uditorio non condivide il suo entusiasmo: “Je suis enthousiasmé de ma composition, je vois avec dépit, que les auditeurs ne le sont pas; je finis, et au lieu de conclure, que, puisque le musicien, ni le danceur, ni l’auteur, ne sont point transportés, les vers pourroient bien n’être que médiocres, j’en conclus, qu’ils n’avoient point le tact assez fin pour en sentir toute la délicatesse, et que les vers estoient excellents”. Parimenti, nella scena prima della farsa I Poeti, Zeusippo, inquieto per l’esito della propria tragedia si esorta ad assumere le sicurezze che l’Alfieri dei Giornali sapeva malfondate: “Zeusippo segui tracotante le orme dei poetastri, e se spiacerà la Tragedia concludi ad esempio loro, che il Publico non ha gusto, non ha discernimento; che giudica per invidia; e che tu sei un eccellente Poeta” (Vita, III, 15). Cfr. M. Sterpos,

Il primo Alfieri e oltre cit., p. 114.

75 V. Alfieri, Vita, II, 6. 76 Ibid. III, 15.

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I. 2 Varianti, postille, commenti

Queste premesse spiegano l’acrimonia delle note che corredano gli stralci della Cleopatra inseriti nella Vita, in cui lo scrittore non mostra indulgenza nei confronti del suo parto giovanile, ma al tempo stesso invita il lettore a riconoscere nelle opere imperfette “un qualche lampo e sale”, che preannuncia il tragediografo futuro78.

Occorre sottolineare che le postille inserite dall’Alfieri nell’appendice riguardano esclusivamente la tragedia e si indirizzano in primo luogo alla versificazione, di cui segnalano le irregolarità metriche, l’eccesso o il difetto di sillabe (“verso brevino”, “verso abortivo”, “verso lunghetto”, “rimaste due sillabe nella penna, pel troppo delirante affetto”), le rime disseminate inavvertitamente (“Qui le informi reminiscenze del Metastasio traevano l’autore a rimare senza avvedersene”) e il sistema accentuativo, compromesso anche nella redazione finale dell’opera (“anco un verso falso di accenti, e da non potersi strascinare con sei par di buoi, mi toccò di far recitare nella mia prima comparsa su le scene italiane”)79.

La metrica è oggetto privilegiato d’attenzione anche nel capitolo scritto per la società di liberi muratori, riportato nell’Epoca Quarta della Vita; nello specifico il commento dell’autore si indirizza alla “regola delle terzine”, disattesa nei primi versi della composizione, ed alla chiusa imperfetta (“Strano è che fatti tanti versi inutili, non ve ne aggiungessi uno in fine necessario, per chiudere il capitolo con la rima secondo le regole. Ma niuna regola mi s’era ancor fitta in capo”)80.

Ulteriori note alla Cleopatra segnalano le imprecisioni dell’interpunzione (“Almeno il punto interrogativo ci fosse stato”, “Lo scrittore era nemico giurato del punto fermo”, “Sia maladetto, se mai un punto fermo ci casca”81, “Nascea quest’autore con una predilezione smaniosa per le virgole”), ed errori attribuibili a distrazione (“o terra: rimasto nella penna”82, “è venuto scritto avari invece di avaro”); un’obiezione è mossa all’impiego di un’espressione lambiccata, che al tempo della stesura doveva

78 Ibid. III, 15.

79 Ibid., III, 14 80 Ibid., IV, 1.

81 Riferendosi a questa nota Sterpos integra un punto al v. 79 della Cleopatra Prima; in realtà però la nota

di Alfieri riguarda piuttosto il v. 81.

82 Di fatto il verso è completo nella Cleopatra; cfr. la nota del curatore al v. 37 della Cleopatra Prima

(Tragedie postume, I, p. 139): “Stranamente nella Vita l’A. mostra di credere di aver lasciato incompleto questo verso «o terra: rimasto nella penna» (I, 154). Ancor più strano il fatto che nella prima redazione della Vita le parole o terra invece compaiano [...]”.

Riferimenti

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