CAPITOLO 2
ALCUNE QUESTIONI DI METODO
La distribuzione del reddito fa riferimento a diversi concetti, per alcuni dei quali non esistono definizioni univoche, ma dipendono dalle finalità d’analisi.
Prima di entrare nel merito del problema della misurazione della disuguaglianza e della povertà, occorre quindi affrontare una serie di questioni metodologiche, di carattere preliminare, ma non meno importanti:
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Quale variabile economica è in grado di rappresentare in modo migliore il benessere dei soggetti: il reddito, il consumo, o altre grandezze?-
Quale unità di tempo impiegare: l’anno, l’intero ciclo vitale?-
Qual è l’unità di riferimento più appropriata per la valutazione del benessere: l’individuo o la famiglia7?-
Come rendere omogeneo il confronto tra nuclei familiari con diverse caratteristiche socio-demografiche?-
La rappresentatività del campione2.1 LA VARIABILE ECONOMICA DI REFERIMENTO
Stabilire quale sia la variabile monetaria più adeguata a rappresentare il benessere economico delle unità di analisi, siano esse famiglie o individui, è un problema complesso perché si sta cercando di tradurre un concetto come il benessere o il tenore di vita, i quali non necessariamente sono esprimibili in termini monetari, in una grandezza monetaria che è invece misurabile.
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Il reddito. Il primo concetto che andremo ad analizzare è il reddito, per passare poi a definizioni più generali del benessere e ai modi con cui esso si può misurare. Il reddito, in prima approssimazione, può essere definito come il7
Sia il singolo che il nucleo familiare vengono considerati in qualità di percettori di reddito. Tuttavia rientrano in questa categoria anche i proprietari (o soci) di società di pers ona poiché, in caso di impresa individuale, è difficile, se non impossibile, scindere reddito e patrimonio di una persona in qualità di imprenditore ed in qualità di percettore.
flusso che deriva, in un certo intervallo temporale, da uno stock di ricchezza. A sua volta, la ricchezza può assumere diverse forme: a) capitale reale; b) capitale
finanziario; c) capitale umano.
Ogni tipo di capitale produce un flusso di reddito: nel primo caso si avrà reddito sia sotto forma non monetaria che sotto forma monetaria; nel secondo caso si avrà solo reddito monetario; nel terzo caso si avrà sia reddito monetario che non monetario.
La definizione più generale di reddito, che in astratto sembra meglio in grado di tener conto di tutte le componenti di reddito che derivano dai vari tipi di capitale, è quella classica proposta nel 1930 da Henry Simons (1938) e nota con il termine di reddito entrata. Secondo Simons “il reddito può essere definito come la somma di: 1) il valore di mercato dei diritti esercitati nel consumo; 2) la variazione del valore dei diritti di proprietà tra l’inizio e la fine del periodo”.
Si tratta di una definizione soddisfacente dal punto di vista teorico, ma può essere difficile da quantificare. Per il suo calcolo concreto occorrerebbe infatti stimare alcune specifiche voci di entrata (guadagni e perdite in conto capitale, fringe benefits, rendite imputate, lavoro non pagato e trasferimenti pubblici in natura), che non sempre è facile quantificare.
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Il consumo. In alternativa al reddito, molti studi empirici utilizzano il consumo per valutare il benessere degli individui. I motivi di tale scelta sono di natura sia pratica che teorica. Innanzitutto si deve osservare che in molti paesi in via di sviluppo è più facile avere informazioni sul consumo piuttosto che sul reddito, per la diffusione dell’economia sommersa e per la scarsa affidabilità dei dati campionari. Inoltre in questi paesi il tenore di vita di molte persone dipende in modo cruciale dal consumo dei beni prodotti, per i quali non esiste la percezione di un reddito.Dal punto di vista teorico il discorso è più articolato. Il reddito di un individuo è soggetto a fluttuazioni di breve periodo, in relazioni a mutamenti che intercorrono ne lla sua vita professionale; il consumo tende invece ad essere più stabile nel tempo, perché riflette le prospettive reddituali di medio lungo periodo. Secondo la teoria del reddito permanente (Friedman 1957) una persona sceglie il profilo del consumo tenendo conto dei redditi di tutta la vita, non del reddito corrente. In altre parole, il reddito risente molto di più rispetto al consumo degli eventi che influenzano e modificano la vita di
ognuno. Se un individuo potesse prendere a prestito senza incontrare mai alcun razionamento, probabilmente cercherebbe di pianificare un profilo costante del consumo, anche a fronte di un andamento irregolare del reddito corrente8. Presentando un andamento più stabile nel tempo, il consumo può essere considerato una proxy più fedele del benessere medio dell’individuo.
Tuttavia, l’uso del consumo quale variabile che meglio rappresenta il benessere poggia su basi ipotesi prive di un robusto fondamento empirico e tali da metterne in discussione la presunta superiorità. Un esempio di tale debolezza consiste nel fatto che il consumo riflette allo stesso tempo le concrete opportunità di spesa della famiglia e le sue preferenze. Un nucleo familiare, ad esempio, composto da anziani parsimoniosi ma dotati di una buona pensione potrebbe essere scambiato per povero solo per la sobrietà dello stile di vita.
Il reddito invece esprime direttamente il “potere di disporre di risorse”, quindi è forse più adatto a descrivere le possibilità di benessere individuali, indipendentemente dalle scelte di consumo. In conclusione, la scelta di come valutare il benessere economico, se in termini di consumo o in termini di reddito, non discende soltanto da considerazioni di carattere teorico ma è spesso legata all’effettiva disponibilità dei dati e all’attendibilità delle fonti statistiche.
2.2 L’UNITA’ DI TEMPO
È importante, a questo punto, chiedersi se debba essere studiata la distribuzione del reddito settimanale, mensile o annuale? O addirittura del reddito vitale?
Nel caso di un’elevata mobilità sociale, studiare la disuguaglianza presente in un certo istante potrebbe essere poco informativo. Si pensi, ad esempio, ad un mondo di due soli individui, che vivono ciascuno due periodi, t e t + 1: in t il primo soggetto ha un reddito pari ad 1 e il secondo un reddito pari a 0, in t + 1 vale il contrario. In ciascun periodo si osserva che la disuguaglianza è massima perché uno dei soggetti ha tutto mentre l’altro niente; però, se valutata nell’arco dei due periodi, la disuguaglianza è nulla perché ciascuno ha lo stesso reddito dell’altro.
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Affinché il profilo del consumo nel ciclo vitale sia costante sono necessarie due ulteriori condizioni: la funzione di utilità deve essere additiva e separabile e il tasso di sconto deve essere uguale al tasso di interesse.
Un’analisi statica (cross-section) che rileva i redditi percepiti in un arco di tempo limitato come il mese o l’anno trascura inoltre il fatto che gli individui di un campione si trovano in fasi diverse della loro vita.
I loro redditi in ciascun periodo tendono quindi ad essere distribuiti in modo più disuguale di quanto sarebbe in un’analisi “life-cycle”, in grado di tener conto dei redditi medi o totali percepiti nel corso dell’intera vita.
La disuguaglianza tenderà quindi a diminuire all’ampliarsi del periodo temporale di riferimento. Se si considera l’intera vita dei soggetti, la misura della disuguaglianza non è influenzata né da oscillazioni temporanee dovute a disoccupazione, malattia ecc.., né dall’andamento del reddito nelle varie fasi della carriera lavorativa. Anche tra i redditi misurati nell’intero ciclo di vita, comunque, persiste un notevole grado di disuguaglianza: gli studi disponibili hanno mostrato che la disuguaglianza tra i redditi relativi all’intero ciclo di vita è circa il 50% di quella calcolata sui redditi annuali9. Il problema principale per la stima della disuguaglianza life-cycle consiste dalla scarsità di dati adeguati: sarebbe infatti necessario avere a disposizione dati panel (o longitudinali), che seguono gli stessi individui o famiglie per tutto il corso della vita. Per questo motivo nell’analisi che presenteremo verrà utilizzato, come unità di tempo, l’anno la cui ampiezza è tale da permettere uno studio approfondito.
2.3 L’UNITA’ DI RIFERIMENTO PER LA VALUTAZIONE DEL BENESSERE: LA FAMIGLIA
Tipicamente nell’economia del benessere l’individuo viene considerato come punto di riferimento per le teorie normative. Per ragioni demografiche ed economiche, però, il benessere individuale ha come importante referente la famiglia. In primo luogo la famiglia è essenziale alla sopravvivenza degli individui nelle fasi iniziali e finali del ciclo vitale in cui gli stessi non sono autosufficienti; l’organizzazione all’interno di una famiglia consente di realizzare numerose economie di scala, ovvero permette la condivisione dei costi dell’abitazione e di molti beni durevoli e di tutta una serie di servizi che altrimenti graverebbero esclusivamente sull’individuo. Infine si deve ricordare che l’esclusivo riferimento all’individuo comporterebbe l’attribuzione ad una quota rilevante della popolazione (casalinghe e bambini) di un reddito nullo, anche se il
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benessere effettivo da essi goduto è determinato a livello familiare, potendo disporre del reddito guadagnato dagli altri membri del nucleo.
La famiglia dimostra di essere l’unità di riferimento più appropriata per una valutazione del livello di benessere. L’aggregato “famiglia” non è semplice da definire: solitamente si distingue tra famiglia anagrafica (marito, moglie e figli a carico) e famiglia in senso esteso, che alla prima aggiunge anche gli altri individui che risiedono nella stessa abitazione (nonni, figli maggiorenni a carico o no), eventualmente percettori di reddito. A quest’ultimo tipo di famiglia ci si riferisce con il termine inglese household. Normalmente l’uso di definizioni alternative di famiglia può portare a risultati anche molto diversi circa la distribuzione del reddito. Le due principali indagini campionarie presenti in Italia (indagine ISTAT sui consumi delle famiglie e Banca d’Italia sui bilanci familiari) fanno entrambe riferimento alla famiglia in senso esteso, ovvero un gruppo di individui, legati da vincoli di sangue o dal matrimonio, che convivono nella stessa abitazione e mettono in comune la totalità o parte dei loro guadagni.
Rimangono due problemi da risolvere: uno di natura sostanziale e l’altro di natura metodologica.
Il problema sostanziale riguarda la distribuzione intrafamiliare : le persone che vivono all’interno di una stessa famiglia non godono dello stesso livello di benessere. Si può pensare che esista comunque una relazione tra reddito individuale e benessere individuale, nel senso che, se un individuo percepisce un reddito maggiore rispetto agli altri membri, egli non solo potrebbe avere un maggior peso decisionale circa l’impiego del reddito familiare, ma potrebbe anche disporre di parte del suo reddito senza metterlo a disposizione dell’intero nucleo familiare.
A causa della scarsità delle informazioni che riguardano la distribuzione intrafamiliare, la maggior parte degli studi empirici fanno l’ipotesi che tutte le risorse a disposizione di una famiglia vengano distribuite in parti uguali tra i suoi componenti. La conseguenza è una probabile sottostima del grado di disugua glianza tra le persone, con una sopravvalutazione del benessere dei bambini e delle donne.
Il problema metodologico riguarda la scelta dell’unità su cui effettuare l’analisi empirica: si potrebbe studiare come si distribuisce il reddito su un campione di famiglie (metodo utilizzato nella presente analisi), oppure su un campione di individui, attribuendo a ciascun individuo il reddito della famiglia. Entrambe le scelte sono lecite. Il risultato dell’analisi distributiva dipende dalla scelta fatta, perché se si confrontano le
persone e non le famiglie si ha che le famiglie più numerose aumentano il proprio peso nel campione.
2.4 BENESSERE E REDDITO: SCALE DI EQUIVALENZA
La letteratura ha rilevato da tempo come il reddito familiare disponibile espresso in forma monetaria non sia un corretto indicatore delle differenti condizioni di esistenza di un nucleo di convivenza: appare ovvio sostenere che la ricchezza e il reddito (in termini di benessere) di una coppia con un figlio a carico sarà sostanzialmente differente di quello di una famiglia composta da un solo adulto. Il benessere risulta quindi condizionato dai diversi livelli di living standard conseguibili dai componenti delle varie tipologie di famiglie e non vi è dubbio, che a parità di reddito, il benessere varierà significativamente in relazione all’ampiezza a alla composizione del nucleo familiare10. Al fine di avere un criterio in grado di riflettere tali problematiche ed effettuare comparazioni di benessere in presenza di eterogeneità nella composizione della popolazione usualmente si fa uso di una scala di equivalenza11, ovvero di un vettore di coefficienti - funzione di parametri quali il numero dei componenti o la loro età – che standardizza l’eterogeneità demografiche associando a ciascuna tipologia familiare un numero di componenti equivalenti. La divisione del reddito familiare per il coefficiente della scala determina il reddito equivalente, una misura che non dipende dalle caratteristiche demografiche della famiglia. Formalmente, una scala di equivalenza è definita come il rapporto tra il costo sostenuto da una famiglia con certe caratteristiche demografiche per raggiungere un certo tenore di vita e il costo sostenuto da una famiglia “di riferimento” per raggiungere lo stesso livello di benessere (Baldini e Toso, 2004).
Se la scala di equivalenza è costituita semplicemente dal numero dei componenti, il benessere della famiglia è identificato con il reddito familiare pro capite. Questa procedura non tiene, tuttavia, conto della presenza di economia di scala familiari: per molti beni e servizi la spesa tende ad aumentare in modo meno che proporzionale alla dimensione della famiglia. Il numero di componenti equivalenti è dunque inferiore alla
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L’utilizzo come unità di analisi del nucleo familiare non è immune da critiche, ad esempio il numero di componenti può non essere indipendente dalle scelte connesse con il reddito monetario disponibile dopo il processo redistributivo.
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Per una metodologia alternativa all’uso delle scale d’equivalenza in presenza di eterogeneità cfr. Atkinson-Bourguignon, 1987
numerosità familiare: affinché il benessere della famiglia rimanga invariato all’aumentare dell’ampiezza del nucleo, il reddito monetario deve crescere meno che proporzionalmente.
La scelta della scala d’equivalenza più appropriata non è affatto scontata; sono state proposte numerose alternative. Esse possono essere suddivise in cinque classi sulla base del metodo di derivazione (Coulter, Cowell e Jenkins, 1992):
1. scale econometriche; 2. scale soggettive; 3. scale pragmatiche;
4. scale desunte dai minimi nutrizionali;
5. scale implicite nei programmi di assistenza sociale;
Nel caso di scale di equivalenza econometriche , si tratta di scale stimate sulla base dei dati campionari, sulla base di modelli fondati sulla teoria microeconomica del consumatore. L’ipotesi di fondo è che le scale possono essere costruite sulla base del comportamento di consumo osservato. Un tipo di scala econometrica è stata proposta da Ernest Engel, il quale oltre un secolo fa osservò che la quota della spesa destinata ai generi alimentari: decresce all’aumentare del reddito della famiglia (a parità di composizione familiare); aumenta al crescere del numero dei componenti (a parità del reddito monetario).
Tale quota rappresenta un indicatore indiretto del tenore di vita, nel senso che due famiglie con la stessa quota di spesa alimentare hanno livelli di benessere uguali, pur presentando una composizione familiare diversa. È quindi sufficiente confrontare i redditi monetari delle famiglie, con struttura differente ma con una quota di spesa in beni alimentari identica, per ottenere un indice del maggior costo necessario a mantenere costante il benessere al variare della struttura familiare.
In Italia, la Commissione d’indagine sulla povertà e sull’emarginazione ha adottato fin dalla sua costituzione, nel 1984, una scala di equivalenza direttamente derivata dal metodo di Engel, nota come scala Carbonaro (1985) (dal nome dell’autore che l’ha stimata), che quindi costituisce una sorta di scala ufficiale. Tale scala viene utilizzata dall’ISTAT per alcune analisi sulla povertà in Italia. I valori stimati della scala, distinti unicamente sulla base del numero dei componenti del nucleo familiare, sono riportati nella tabella 2.1.
Tab 2.1 La scala di equivalenza Carbonaro NUMERO
COMPONENTI
SCALA (BASE: FAMIGLIA CON 2 COMPONENTI)
SCALA (BASE: FAMIGLIA CON 1 COMPONENTE) 1 2 3 4 5 6 7 0,599 1 1,335 1,632 1,905 2,150 2,401 1 1,669 2,229 2,725 3,180 3,589 4,008
Quando,invece, si parla di scale di equivalenza soggettive ci riferiamo a scale desunte da indagini in cui ad ogni famiglia viene chiesto di valutare quale reddito corrisponderebbe, date le proprie caratteristiche demografiche, a determinate condizioni di benessere, ad esempio ad un tenore di vita basso,medio o elevato.
Le scale di equivalenza desunte dai minimi nutrizionali sono costruite sulla base di specifici panieri di beni di consumo che mettono famiglie di diversa composizione in grado di conseguire lo stesso benessere. Queste scale, nonostante siano create con un approccio scientifico, sono del tutto arbitrarie poiché non esiste un modo oggettivo per definire i bisogni di base.
Scale costruite secondo semplici schemi di calcolo, e usate soprattutto in sede di confronto tra i livelli di disuguaglianza o povertà, prendono il nome di scale di equivalenza pragmatiche . Una tra le più note è la scala OCSE, che assegna peso 1 al capofamiglia, 0,7 al coniuge e agli altri membri della famiglia con almeno 14 anni e 0,5 a ciascuno dei figli con meno di 14 anni. Questa scala tende a ridurre in maniera forse eccessiva il reddito equivalente delle famiglie molto numerose, per questa ragione molti studiosi preferiscono usare la scala OCSE “modificata”, che assegna 1 al capofamiglia, 0,5 ai componenti con almeno 14 anni e 0,3 agli altri.
Una formulazione, molto diffusa, particolarmente semplice ed intuitiva prevede la conversione del reddito monetario in reddito equivalente tramite un coefficiente dato dalla funzione:
θ
N
E =
dove N indica il numero dei componenti del nucleo familiare e ? è un fattore di correzione del reddito monetario, con 0≤θ ≤1.
Il reddito equivalente si ottiene dividendo l’ammontare totale per E. Quanto maggiore è
?, tanto minori sono le economie di scala familiari; se infatti ? è elevato occorrerà un
forte incremento del reddito per mantenere lo stesso livello di benessere familiare all’aumentare della numerosità familiare.
Atkinson et al (1995) hanno suggerito per le comparazioni una square root rule, e cioè deflazionare il reddito monetario con la radice quadrata del numero dei membri del nucleo d’analisi (ovvero ? = 0,5)12.
Se ? = 0, ciò implica non fare alcuna correzione in quanto il reddito monetario viene diviso per 1: le economie di scala sono massime. Se all’opposto ? = 1 il peso della composizione familiare e delle economie di scala si annulla, e si impiega il reddito monetario pro capite. Il parametro ? misura l’elasticità della scala rispetto al numero dei membri di una famiglia.
In questa sede, si è deciso di presentare il caso in cui ? = 0,5; verrà poi fatto un confronto con i casi di ? = 1 e ? = 0 per valutare come variano gli indici di disuguaglianza. La scelta del parametro ? infatti influenza il profilo della disuguaglianza:
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quanto più ? è basso tanto più le famiglie numerose tendono a ricadere nella parte alta della distribuzione del reddito equivalente, mentre le famiglie poco numerose si collocano nella parte bassa;-
quanto più ? è alto tanto più le famiglie numerose tendono a concentrarsi nella parte bassa della distribuzione del reddito equivalente, mentre le famiglie poco numerose ricadono nella parte alta.Numerosi studi empirici (Cowell e Mercader-Prats 1999; Coulter et al. 1992) hanno, infatti, riscontrato un andamento ad U degli indici di disuguaglianza al variare del parametro ?: la disuguaglianza è alta per livelli bassi di ?, decresce all’aumentare del valore di ?, per poi risalire in corrispondenza di valori prossimi ad 1.
Spesso gli enti locali o centrali differenziano, tra famiglie di diversa composizione, la possibilità di accesso ai servizi sociali. Ad esempio, la fascia tariffaria per l’asilo nido è crescente al crescere del reddito familiare equivalente. Per calcolare il reddito equivalente si utilizza necessariamente un scala. In questo caso si parla di scale di equivalenza implicite nei programmi di assistenza sociale. In Italia la scala di equivalenza adottata dalla fine degli anni ’90 è quella dell’ISE (Indicatore di situazione
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economica equivalente), una scala data dal numero dei componenti elevato alla potenza 0,65: E =N0,65. Il coefficiente 0,65 quindi, rappresenta l’elasticità della scala rispetto al numero dei componenti.
Qualunque sia la scala di equivalenza utilizzata, è solo dopo questo tipo di conversione che, per la collettività, si possono correttamente individuare tutti i risultati descritti nel quarto capitolo (dove tutti i termini reddituali devono ora essere intesi in senso “equivalente”).
2.5 LA RAPPRESENTATIVITA’ DEL CAMPIONE
Nell’analisi condotta in questo studio, i dati derivano dal database presente nell’Archivio Storico della Banca d’Italia. Al fine di ottene re un campione rappresentativo della popolazione si ricorre all’utilizzo dei pesi dell’unità statistica forniti dallo stesso database. L’uso dei coefficienti di ponderazione è necessario per ottenere stime non distorte; i coefficienti tengono inoltre conto del processo di risposta limitandone i possibili effetti distorsivi sulle stime.
Ad ogni individuo delle famiglie rilevate viene attribuito un peso campionario e per tutti gli individui all’interno del nucleo familiare esso è identico. A ciascuna famiglia è quindi assegnato un peso, in proporzione inversa alla sua probabilità di essere inclusa nel campione. La somma dei pesi è uguale alla numerosità del campione e quindi la media aritmetica è uguale ad uno.
Formalmente, definito con Wi il peso della famiglia i e con Ni il numero dei componenti, si ha: NF W NF i i =
∑
=1 NI N W i NF i i =∑
=1dove NF e NI sono, rispettivamente, il numero totale di famiglie e di individui nel campione. Se TF indica il numero delle famiglie residenti in Italia e TI quello degli abitanti, si possono calcolare i seguenti pesi di riproporzionamento:
(
)
ii TF NFW
W1, = / W2,i =
(
TI/NI)
Wi W3,i=(
TI/NI)
WiNiI pesi W1,i e W2,i sommano entrambi al numero di famiglie italiane. Tuttavia, mentre il primo richiede, per essere calcolato, la conoscenza del valore TF , il secondo lo stima
indirettamente dividendo la popolazione totale, TI, per la dimensione familiare media risultant e dal campione, NI/NF. Nel caso in esame si è portati a preferire W2,i a W1,i
essenzialmente perché il valore ufficiale di TF, basato sulle risultanze anagrafiche, è generalmente ritenuto meno attendibile di quello di TI.
Va peraltro notato che l’adozione di W1,io W2,iinfluenza la stima del reddito totale delle famiglie,ma non altera le misure di disuguaglianza, poiché in entrambi i casi si moltiplicano i pesi Wi per un coefficiente costante per tutte le unità. La scelta fra i primi
due pesi ed il terzo dipende invece dal giudizio se sia più opportuno valutare la distribuzione delle risorse fra le famiglie o fra gli individui ed è in parte legata alla scelta della scala di equivalenza. Prescindendo dai valori Wi , con W2,i ogni famiglia
conta per un’unità, mentre con W3,i conta tante volte quanti sono i suoi componenti. Il primo peso è intuitivamente appropriato nelle analisi del reddito familiare e il secondo in quelle del reddito pro capite. In entrambe i casi comunque si otterrebbe lo stesso reddito totale. Per quanto riguarda il reddito equivalente, mancando ragioni valide in favore dell’una o dell’altra ipotesi, possono essere presentate stime sia con W2,i che con W3,i.
Nella nostra analisi i coefficienti usati per ponderare i dati sono riportati nella variabile PESOFIT fornita dal database della Banca d’Italia. Tale variabile contiene i coefficienti di ponderazione per il complesso delle famiglie intervistate e ogni famiglia conta come unità (ovvero si utilizzerà pesi del tipoW2,i); sono i pesi campionari delle indagini annuali.