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1.1 Importanza dei prodotti di origine vegetale 1. INTRODUZIONE

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1. INTRODUZIONE

1.1 Importanza dei prodotti di origine vegetale

Lo scopo primario della dieta è fornire nutrienti sufficienti a soddisfare le esigenze nutrizionali della persona. Negli ultimi decenni, in Europa, si è registrato un notevole aumento dell’interesse da parte dei consumatori verso l’alimentazione e la salute. È un fatto ampiamente riconosciuto che oggi sia possibile ridurre il rischio di contrazione di malattie croniche e conservare la propria salute e il proprio benessere con un sano stile di vita accompagnato da una dieta corretta varia ed equilibrata (Temple, 2000).

Esiste già un’ampia scelta di alimenti a disposizione del moderno consumatore ma solo alcuni rientrano nella fascia dei cosiddetti “cibi funzionali”. In generale, un alimento può essere considerato funzionale se dimostra in maniera soddisfacente di avere effetti positivi su una o più funzioni specifiche dell’organismo che vadano oltre gli effetti nutrizionali normali, in modo tale che sia rilevante per il miglioramento dello stato di salute e di benessere e/o per la riduzione del rischio di malattia. Esempi di cibi

funzionali o di derivati di cibi funzionali che già esistono sono: frutta e verdura di tutte

le varietà, tè nero e verde, succo di mirtillo, aglio e cipolla, funghi commestibili, latticini arricchiti con fermenti, allilsolfati, antiossidanti, capsacina, flavonoidi, fruttosio ed altri oligosaccaridi, genisteina, glucosamina, glicirrizina, indoli, luteina, licopene, frazione D dei funghi maitake, polifenoli, resveratrolo, sulforafano. Le continue conferme dell’importanza di alimenti come frutta, verdura e cereali integrali nella prevenzione delle malattie e le più recenti ricerche sugli antiossidanti alimentari e sulle combinazioni di sostanze protettive presenti nelle piante hanno favorito ulteriori sviluppi del mercato degli alimenti funzionali in Europa. In particolare, le proprietà antiossidanti del licopene, un carotenoide che si trova in alte quantità nel pomodoro, hanno attratto un particolare interesse nel frutto di pomodoro come alimento con potenziali proprietà anticancerogene (Di Mascio et al., 1989). Un alto consumo di pomodoro è infatti compatibile con i regimi alimentari maggiormente consigliati da diverse organizzazioni come il Natianal Research Council of the National Academy of Science (1989), il National Cancer Institute (1987), il World Cancer Research Found (1997).

Negli ultimi quattro decenni la produzione globale dei pomodori (freschi e lavorati) è incrementata del 300%. La produzione mondiale annua di pomodori nel 2003 è stata stimata a 110 milioni t coprendo un’area di produzione di circa 4,2 milioni di ettari. È

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possibile che questi dati siano comunque sottostimati in quanto i pomodori vengono coltivati e consumati localmente anche in piccoli appezzamenti nelle zone tropicali e subtropicali dove rappresentano una importante fonte alimentare per la popolazione. L’industria del pomodoro è una delle industrie orticole più avanzate e globalizzate. La produzione è localizzata maggiormente nelle zone temperate caratterizzate da estati lunghe e inverni ricchi di precipitazioni. Comunque, il rapporto tra produzione per la trasformazione e/o consumo fresco e l’organizzazione della struttura dell’industria varia tra i paesi.

L’Italia rappresenta il produttore leader di pomodori in Europa, con una produzione di 6,9 milioni t, di cui il 70% è destinato alla trasformazione. Le aree di maggiore produzione sono la Puglia (con più del 50% della produzione totale) e la Campania (8% della produzione totale) (ANITOM, 2003; Santella, 2003). Riguardo al mercato fresco, la produzione totale in serra era di 547000 t nel 2000, che rappresenta un terzo della produzione vegetale italiana in serra. È rilevante anche la rapida espansione delle coltivazioni dei pomodori ciliegini in Sicilia (La Malfa, 2003).

1.2 La pianta e il frutto di pomodoro

1.2.1 Origine della pianta di pomodoro

La pianta di pomodoro è originaria dell’emisfero sudoccidentale, approssimativamente corrispondente all’attuale Perù; le otto specie selvatiche del pomodoro sono molto simili tra loro, di piccole dimensioni ed alcune caratterizzate da frutti verdi anche a maturità completa. Ai tempi delle civiltà precolombiane una varietà di pomodoro (Lycopersicum

esculentum cerasiforme) veniva già coltivata dai nativi e si pensa che questa varietà sia

l’antenato diretto delle cultivars moderne. Attraverso test di natura genetica è stato dimostrato che questa varietà dell’America centrale è più strettamente correlata alle cultivars moderne di quanto non lo siano le varietà reperibili in Sud America.

1.2.2 Descrizione della pianta di pomodoro

Il frutto della painta di pomodoro dal punto di vista botanico, è una bacca: il pericarpo, sviluppatosi da un ovario, è dunque interamente carnoso ed i semi sono contenuti all’interno delle cavità loculari (Ho e Hewitt, 1988). I frutti della specie coltivata (Lycopersicon esculentum Mill.) hanno da due a molti carpelli, con un peso finale variabile da pochi grammi a qualche etto.

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Il pericarpo consiste in un esocarpo, o epidermide, un mesocarpo, costituito da un parenchima con un fascio vascolare, e un singolo strato di cellule costituenti l’endocarpo, che riveste le cavità loculari. La parete del pericarpo è ulteriormente divisibile in parete esterna e pareti radiali (setti) che separano cavità loculari adiacenti e la parete interna detta columella. Il mesocarpo della parete esterna è composto principalmente da cellule parenchimatiche le cui dimensioni sono massime nella regione centrale e diminuiscono man mano che si procede verso l’epidermide e le cavità loculari. Anche i setti e la columella presentano le stesse caratteristiche cellulari del mesocarpo (Ho e Hewitt, 1988). Talvolta la columella può apparire meno colorata del pericarpo a causa dell’inclusione di ampi spazi di aria che rendono il tessuto più chiaro.

Fascio vascolare Cavità loculari Epidermide Setti Tessuto placentare Columella Parete esterna del pericarpo Semi Fascio vascolare Cavità loculari Epidermide Setti Tessuto placentare Columella Parete esterna del pericarpo Semi

Fig.1 Rappresentazione dell’anatomia del frutto di pomodoro in sezione trasversale.

1.2.4 La parete cellulare

I cambiamenti tissutali che avvengono durante il ripening di un frutto sono associati alle modifiche della struttura e della composizione della parete cellulare.

La parete primaria delle piante superiori è una struttura altamente organizzata composta principalmente da polisaccaridi e glicoproteine strutturali in minor quantità, esteri fenolici (acido ferulico e cumarico), minerali legati ionicamente e covalentemente alla parete (calcio e boro) ed enzimi. Inoltre, la parete contiene le espansine, proteine che

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hanno un ruolo nella regolazione dell’espansione cellulare (McCann e Roberts, 1992). La lignina, una macromolecola costituita da composti fenolici, è il maggior componente della parete cellulare secondaria. La composizione polisaccaridica (Brummell e Harpster, 2001) della parete varia considerevolmente sia tra le specie che all’interno della stessaspecie e i componenti polimerici che caratterizzano la parete di una cellula vegetale sono i seguenti:

1. la cellulosa, composta da catene di D-glucano β(1→4) tenute insieme da legami idrogeno formando le microfibrille insolubili. Si distinguono le microfibrille di cellulosa, a struttura cristallina, dove le catene glucaniche sono organizzate in maniera ordinata, e le microfibrille a struttura paracristallina nelle quali scompare l’organizzazione ordinata.

2. lo xiloglucano è una classe di emicellulosa. La struttura di base possiede una catena lineare di glucosio con legami β(1→4) dove si lega lo xilosio con legame α(1→6) in modo regolare ogni tre residui di glucosio consecutivi; spesso allo xilosio si legano altri zuccheri quali galattosio e fucosio.

3. il glucomannano è una catena costituito da regioni di D-glucano β(1→4) e D -mannano β(1→4) approssimativamente in eguali quantità, con occasionali catene di singole unità terminali di galattosio.

4. i glucuronarabinoxilani hanno una catena di xilosio β(1→4) con catene di singole unità terminali non riducenti di arabinosio e acido glucuronico.

5. gli omogalatturonani sono composti di lunghe catene di acido D-galatturonico tenute insieme da legami α(1→4) inizialmente altamente metilesterificato e costituiscono le pectine insieme ai ramnogalatturonani descritti in seguito. 6. i ramnogalatturonani di tipo I (RGI) sono catene polimeriche costituite da

residui di ramnosio alternati a residui di acido galatturonico.

7. i ramnogalatturonani di tipo II (RGII) sono costituiti da acido galatturonico α(1→4) come gli omogalatturonani ma con una complessa catena insieme di diversi tipi di zuccheri neutri. È un componente minore della parete cellulare ma i monomeri dei RG II possono dimerizzare con diesteri di boro e influenzare la porosità della parete.

8. le proteine strutturali, di quattro tipi differenti, di cui alcune altamente glicosilate.

Le pectine rappresentano la matrice della parete nel quale sono immerse le microfibrille di cellulosa dove lo xiloglucano è l’emicellulosa più abbondante. Le catene

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polisaccaridiche di xiloglucano si legano alla cellulosa attraverso i ponti a idrogeno. Questo tipo di interazione tra xiloglucani e cellulosa limita notevolmente la possibilità che le fibrille di cellulosa si associno tra loro e permette che si formino siti liberi per legami crociati tra la cellulosa e gli altri polimeri della matrice. I glucomannani e i glucuronarabinoxilani sono presenti nella parete in minore quantità e si legano anch’essi con le microfibrille attraverso i ponti a idrogeno sebbene più debolmente rispetto allo xiloglucano. I polimeri pectici che nella matrice di cellulosa vengono demetilati in regioni specifiche possono legarsi tra loro in presenza di ioni calcio formando dei gel insolubili a struttura rigida. La matrice di cellulosa e il network di pectine viene tenuto insieme da legami covalenti tra molecole di xiloglucano e pectine (Thompson e Fry, 2000) dove le proteine strutturali possono formare un network addizionale.

La parete secondaria, molto spessa e forte, viene depositata una volta che la cellula ha cessato di crescere e sono costituite principalmente da cellulosa, lignina ed emicellulose. Nella parete di questi tessuti la lignina, una sostanza idrofoba, va a sostituire le molecole di acqua, per interagir con gli altri componenti della matrice e interporsi tra le microfibrille di cellulosa. In tal modo i componenti polisaccaridici e proteici della parete vengono intrappolati in una matrice di lignina il cui significato è quello di aumentare notevolmente la resistenza meccanica, l’impermeabilità e la rigidità della parete. La presenza di lignina determina, inoltre, una maggiore resistenza ai microrganismi che degradano la parete. Nei tessuti legnosi, circa il 75-85% della lignina totale si trova nella parete secondaria, mentre il 15-25% nella lamella mediana e nella parete primaria (Brown et al., 2005).

1.2.5 Cambiamenti della parete durante il ripening

Durante la maturazione del frutto l’architettura della parete cellulare e i polimeri di cui è composta cambiano progressivamente assistendo ad una variazione della tessitura del frutto. Già allo stadio invaiato le pectine vengono depolimerizzate dall’enzima poligaratturonasi (PG) la cui attività umenta durante il ripening (Smith, 1988). Il grado di metil-esterificazione delle pectine di parete declina dal 90% allo stadio invaiato al 30% nel frutto red ripe (Koch e Nevins, 1989). Ciò è dovuto all’azione delle pectine metilesterasi (PME; EC 3.1.1.11). La de-esterificazione delle pectine attuata dalle PME attraverso la rimozione del gruppo metilico comporta variazioni di carica nella parete cellulare, importante per il bilancio ionico poiché le variazioni di pH nell’apoplasto possono influenzare l’attività degli enzimi localizzati nella parete (Almeida e Huber, 1999); segue l’aggregazione delle pectine in una struttura gelificata legata a ioni calcio,

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una maggiore degradazione da parte delle PG (Pressey e Avants, 1982). L’attività della PME è presente in tutto lo sviluppo del frutto, aumentando dall’inizio dello stadio green al mature green per poi aumentare nuovamente durante il ripening di due o tre volte con un picco all’inizio del ripening per poi diminuire lentamente (Harriman et al., 1991). Inoltre l’enzima β-galattosidasi causa la perdita dei residui di galattosio nelle frazioni pectiche (Gross e Sams, 1984). Nel pomodoro l’attività β-galattosidasica non cambia apprezzabilmente durante il ripening (Wallner e Walker, 1975) e agisce principalmente sulle catene laterali dei polimeri di RGI.

La matrice pectica della parete cellulare viene sottoposta a considerevole depolimerizzazione durante il ripening del frutto (Huber, 1983) che si sostiene contribuire sostanzialmente al softening del frutto. Gli enzimi che causano questa depolimerizzazione non sono stati identificati con precisione ma possono includere le endo-(1→4)β glucanasi (EGasi; EC 3.2.1.4). Questi enzimi, spesso denominati cellulasi sono attivi contro il polimero di xiloglucano e le cellulosa paracristallina (Wong et al., 1977). Nel pomodoro l’attività è alta nei frutti giovani in espansione e durante il ripening mentre, diversamente dalle PG, declina nei frutti over ripe (Hobson, 1968). La endo-rottura degli xiloglucani può essere attuata non solo dalle EGasi irreversibilmente ma anche dall’attività dello xiloglucan endotransglicosilasi (XET, EC 2.4.1.207) in modo reversibile (Smith e Fry, 1991). Questo enzima catalizza sia la rottura che la formazione del nuovo legame tra le molecole di xiloglucano. La sua attività veramente alta nei frutti giovani in espansione, declina durante la maturazione del frutto e aumenta leggermente durante il ripening (Maclachlan e Brady, 1992, 1994). Si ipotizza che le funzioni dello XET siano di incorporare lo xiloglucono nuovamente sintetizzato nella parete durante la crescita, depolimerizzare la parete durante la maturazione e consolidare la struttura della parete dopo la crescita (Campbell e Braam, 1999).

Le espansine invece sono delle proteine localizzate nella parete che non hanno né attività idrolitica nè attività transglicosilasica. Queste proteine, in vitro, si legano debolmente alle cellulose cristalline ma più energicamente alle cellulose immerse nella matrice glucanica. Probabilmente agiscono causando una distruzione reversibile dei legami a idrogeno tra le microfibrille di cellulosa e la matrice polisaccaridica, particolarmente lo xiloglucano, ottenendo un allentamento della parete e permettendo una scivolamento tra le microfibrille (McQueen-Mason e Cosgrove, 1995; Cosgrove, 2000).

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Molti fattori contribuiscono alla tessitura del frutto, che variano tra le specie, tra cui la morfologia della cellula, misura, forma, contenuto e turgore (Harker et al., 1997). Comunque, la componente più importante per la tessitura è fornita dall’adesione cellula -cellula, dallo spessore della parete e relativa struttura, e dalle loro modifiche durante il ripening. Le variazioni nella composizione cellulare e le proteine che modificano la parete contribuiscono sostanzialmente alla varietà delle tessiture dei frutti nelle diverse specie.

1.2.6 Accrescimento del frutto

La struttura definitiva del frutto è il risultato di una serie di profondi cambiamenti che iniziano già a partire dalle prime fasi dell’allegagione. Durante la prima settimana di sviluppo del frutto sono osservabili cambiamenti anatomici a carico delle cellule del pericarpo. Uno, due giorni dopo l’impollinazione, i piccoli vacuoli presenti all’interno di ogni cellula si uniscono a formare un grosso vacuolo centrale (Mohr e Stein, 1969) e, nel giro di un paio di settimane il citoplasma si riduce divenendo un sottile strato confinato alla periferia cellulare. In contemporanea si ha lo stadio iniziale di separazione delle cellule, che inizia nei punti di contatto delle pareti comuni a cellule contigue e continua lungo la lamella mediana. I plasmodesmi, che costituiscono punti di continuità tra i citoplasmi di cellule adiacenti, risultano molto piccoli.

Mentre ciò avviene, tutti gli organelli, oltre al tonoplasto ed al plasmalemma, rimangono fisicamente intatti (Mohr e Stein, 1969) e fisiologicamente attivi (Vickery e Bruinsma, 1973). Il frutto maturo conserva infatti un alto grado di organizzazione ultrastrutturale osservata, in particolare, a carico dei mitocondri, cromoplasti e reticolo endoplasmatico rugoso (Crookes e Grierson, 1983). I plastidi del frutto verde contengono amido dotati di un sistema tilacoidale con grana ed intergrana (Harris e Spurr, 1969) e le cellule epidermiche contengono meno amido di quelle parenchimatiche più interne (Rosso, 1968).

L’esocarpo consiste in uno strato epidermico esterno di 2-4 strati di cellule ipodermali che costituiscono una parete e un ispessimento tipo collenchimatico rivestito da una sottile cuticola. La struttura cuticolare misura 4-10 µm di spessore e consiste in due regioni, uno strato di cutina che ricopre le cellule epidermiche e una cuticola che, a sua volta, riveste la precedente (Wilson e Sterling, 1976). Questo processo di ispessimento può avere notevoli riflessi sugli scambi gassosi del frutto. Durante i primi 10 giorni di crescita del frutto la placenta comincia ad espandersi verso le cavità loculari per inglobare i semi, e riempie l’intera cavità loculare nei giorni seguenti. Nei frutti

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immaturi, la placenta è piuttosto consistente ma, con la maturazione del frutto, le pareti cellulari degenerano ed il tessuto loculare dei frutti verdi ad accrescimento completo assume una consistenza gelatinosa. A stadi più avanzati il fluido intracellulare può accumularsi nei loculi. Nonostante questa degenerazione, i protoplasti di solito rimangono intatti.

1.2.7 Tasso di crescita e cambiamenti fisici del frutto

Il tasso di crescita può essere descritto da una curva ad andamento sigmoidale suddivisibile in tre fasi. La prima è una fase di lenta crescita che si protrae per 2-3 settimane con un peso del frutto che è minore del 10% del peso finale (Archbold et al., 1982). La seconda fase, che ha una durata di 3-5 settimane, è di rapida crescita. Infine, si ha un periodo di lenta crescita di due settimane durante il quale si nota un piccolo aumento di peso del frutto ed in cui hanno luogo intensi cambiamenti metabolici. La lenta crescita iniziale risulta dalla divisione e dalla successiva distensione cellulare, mentre la seguente rapida crescita è interamente dovuta alla distensione (Monselise et

al., 1978) e comporta, quindi un notevole incremento nel peso fresco. Si ha, infine, una

nuova fase di lento accrescimento in cui il frutto va incontro ad una serie di profondi cambiamenti anatomici, fisiologici e metabolici, che lo portano alla maturazione (Ho e Hewit, 1988).

Tra le modificazioni metaboliche una, evidente anche a occhio nudo, è la variazione di colore. Il primo cambiamento di colore è già visibile 2-3 giorni dopo lo stadio verde e progressivamente evolve da giallo ad arancione ed infine a rosso. La produzione della normale colorazione rossa del pomodoro maturo è dovuta alla distruzione della clorofilla e all’intenso accumulo dei carotenoidi β-carotene e licopene nel momento in cui i cloroplasti si trasformano in cromoplasti

Dal momento che il colore del pericarpo è un eccellente indicatore del grado di maturazione del frutto, sono state sviluppate alcune scale di valutazione per classificare gli stadi maturativi dei pomodori sulla base della colorazione mostrata dal frutto (Tab.1) (Grierson e Kader, 1986).

La colorazione arancione tipica di un frutto giunto a circa metà maturazione è attribuibile all’incremento nel contenuto di licopene e β-carotene, mentre la colorazione rossa che caratterizza il frutto completamente maturo è dovuta esclusivamente al successivo grande accumulo di licopene

Classificazione Descrizione

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2 Invaiatura Prima apparizione di un colorito esterno roseo, rosso o giallo-tannino, che comunque interessa non più del 10% della superficie della buccia.

3 Viraggio La colorazione rosea, rossa o giallo-tannino interessa una

superficie che rientra tra il 10% ed il 30% della buccia

4 Rosa Più del 30% ma meno del 60% della buccia appare rosa o

rossa

5 Rosso chiaro Più del 60% ma meno del 90% della buccia risulta rossa.

6 Rosso Più del 90% della buccia risulta rossa. Questo è il più

desiderabile grado maturativo per un pomodoro da mensa. Tab.1 Classificazione degli stadi maturativi del frutto di pomodoro sulla base della

colorazione mostrata dalla bacca (da Grierson e Kader, 1986).

1.2.8 Cambiamenti biochimici durante lo sviluppo del frutto

I frutti di pomodoro in via di maturazione presentano rispetto a quelli più giovani, una serie di cambiamenti biochimici e fisiologici (Tab.2) che comprendono variazioni della pigmentazione, della tessitura, dell’aroma e del gusto e della composizione nutrizionale (Rhodes, 1980; Seymour et al., 1993).

Degradazione dell’amido e produzione di glucosio e fruttosio Perdita della clorofilla

Sintesi di pigmenti quali licopene e β-carotene

Incremento delle pectine solubili derivanti dall’ammorbidimento e da dalla degradazione della parete

Produzione dei composti che determinano il sapore e l’aroma del frutto maturo Incremento nella proporzione di acido citrico/acido malico

Incremento dell’acido glutammico Crollo dell’alcaloide tossico α-tomatina

Tab.2 Cambiamenti nella composizione del frutto durante la maturazione (da Grierson

e Kader, 1986)

Durante la crescita del frutto, la frazione di sostanza secca (Tab.3) diminuisce ed aumenta il quantitativo di acqua. Prima della fecondazione la sostanza secca rappresenta il 17% del peso dell’ovario; dal momento in cui il frutto comincia a crescere, il contenuto in sostanza secca si riduce fino al 5-7% alla maturità (Gustafson, 1926). Il

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contenuto in carbonio, come percentuale di sostanza secca, non cambia sostanzialmente ma rimane, durante lo sviluppo, intorno al 39% (Ho e Hewitt, 1988).

Contenuto Sostanza % ss Glucosio 22 Zuccheri Fruttosio 25 Saccarosio 1 Proteine 8

Solidi insolubili in alcool Emicellulosa 4

Cellulosa 6

Acidi organici Acido citrico 9

Acido malico 4

Minerali principali K, Ca, Mg, P 8

Lipidi 2

Pigmenti 4

Altro Acido ascorbico 0,5

Composti volatili 0,1

Aminoacidi, vitamine,polifenoli 1

Tab.3 Composizione del frutto di pomodoro maturo, espresso come percentuale dei vari

costituenti sulla sostanza secca (da Davies e Hobson, 1981).

Tra gli elementi minerali, la somma di potassio, azoto e fosforo rappresenta più del 90% del contenuto totale minerale (Davies e Hobson, 1981).

Gli zuccheri, soprattutto glucosio e fruttosio, rappresentano circa la metà del totale dei solidi solubili di un pomodoro maturo (Winsor, 1966). Tale contenuto varia in un range da 1,7 a 4% di peso fresco ed il totale dei solidi solubili dal 4% al 9% di sostanza secca a seconda della cultivar (Davies e Hobson, 1981). Il maggiore quantitativo di zuccheri si riscontra nel mesocarpo rispetto alle cavità loculari (Janes, 1941; Winsor and Adams, 1967). Sebbene il saccarosio sia il principale assimilato, il suo contenuto nel pomodoro si mantiene piuttosto basso (Walker e Ho, 1977). Dopo l’impollinazione, la percentuale

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di zuccheri riducenti ed amido aumenta nettamente, ma quella di saccarosio diminuisce dall’1% di peso fresco dell’ovario allo 0,2% di peso fresco del frutto in otto giorni (Marre e Murneek, 1953). L’accumulo di amido durante il periodo di rapida crescita ha grande influenza sul contenuto finale di solidi solubili. Il massimo contenuto di amido rappresenta il 20% della materia secca e si ha dopo 25-30 giorni dopo l’antesi. Dal momento che la degradazione dell’amido è associata con un rapido accumulo di zuccheri riducenti, esiste un’alta correlazione fra il contenuto di amido nei frutti verdi e il totale di solidi solubili nei frutti maturi (Dinar e Stevens, 1981).

Gli acidi organici del pomodoro consistono soprattutto in acido citrico e malico per un totale del 13% di sostanza secca. Durante la crescita iniziale, l’acido malico è predominante mentre l’acido citrico rappresenta solo il 25% dell’acidità totale (Davies 1961).

1.3 Il pomodoro come sistema modello

Il pomodoro è da molto tempo la specie modello per lo studio del ripening dei frutti climaterici, in parte, a causa della sua importanza come specie colturale dal punto di visto alimentare. Questa importanza pratica combinata con l’eredeità diploide, la semina semplice e la propagazione clonale, l’efficiente ibridizzazione sessuale, un periodo di generazione relativamente corto, la crescita di durata annuale, ha fatto del pomodoro il modello primario per la ricerca del ripening. Dal punto di vista della ricerca genetica e molecolare il pomodoro ha il vantaggio aggiuntivo di possedere un genoma relativamente piccolo (n=12) (Arumuganathan e Earle, 1991) del quale circa 2000 markers sono stati mappati (Tanksley et al., 1992; Solanaceae Genome Network

http://www.sgn.cornell.edu/) in attivo sequenziamento.

1.3.1 Nutrienti del pomodoro

Il pomodoro è una eccellente fonte di potassio, folato, vitamina A, vitamina C e vitamina E (Tab.4) (USDA, 2004). I prodotti derivati dal pomodoro contengono simili quantità di potassio e folato ma rappresentano delle maggiori fonti di α-tocoferolo e di vitamina C (USDA, 2004). Quando comparati con altri prodotti di origine vegetali consumati regolarmente solo la carota è la migliore fonte di vitamina A rispetto ai prodotti ottenuti dal pomodoro. Anche la fibra è un componente della dieta che è stato associato alla diminuzione del rischio delle malattie croniche e nel pomodoro possiamo trovarne delle quantità apprezzabili. Il derivato del pomodoro che contiene maggiori

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quantità di fibre è il concentrato di pomodoro con 11,8 g di fibre a porzione (USDA, 2004).

Su 100 g di prodotto

Nutrienti Pomodoro fresco Ketchup pomodoro Succo pomodoro Salsa pomodoro Zuppa

Potassio (mg) 237 382 229 331 181

α-tocoferolo (mg) 0,54 1,46 0,32 2,08 0,5

Vitamina A (IU) 833 933 450 348 193

Vitamina C (IU) 12,7 15,1 18,3 7 27,3

Folato totale (µg) 15 15 20 9 7

Tab.4 Nutrienti del pomodoro fresco e dei suoi derivati (USDA 2004)

I pomodori inoltre contengono una varietà di fitochimici, tra i quali carotenoidi ed una moderata fonte di polifenoli. Nel pomodoro e nei suoi derivati, il licopene è il carotenoide con la più alta concentrazione anche se il pomodoro contiene altri carotenoidi come il fitoene, il fitofluene (Tab.5) (USDA, 2004; Tonucci et al., 1995).

Carotenoidi Pomodoro fresco Ketchup pomodoro Succo pomodoro Salsa pomodoro Zuppa

β-carotene 449 560 270 290 75 α-carotene 101 0 0 0 0 Licopene 2573 17007 9037 15152 5084 Luteina zeaxantina 123 0 60 0 1 Fitoene 1860 3390 1900 2950 1720 Fitofluene 820 1540 830 1270 720

Tab.5 Contenuto dei carotenoidi nel pomodoro e nei suoi derivati (USDA, 2004;

Tonucci et al.1995)

I pomodori sono anche una moderata fonte di flavonoli, con il 98% dei flavonoli totali contenuti nella buccia (Stewart et al., 2000). Il flavanone naringenina è presente in piccole quantità nel pomodoro nella sua forma coniugata (Hunt e Baker, 1980). Molti di questi nutrienti e fitochimici hanno proprietà antiossidanti e in combinazione con il licopene possono contribuire a numerosi effetti benefici e salutari del pomodoro.

1.4 La qualita’ del frutto di pomodoro

La qualità può essere definita come l’insieme delle caratteristiche e degli attributi che soddisfano le domande, i bisogni, le aspettative della persona che formula il

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giudizio. Per i produttori una buona cultivar è quella che fornisce pomodori di bell’aspetto, che comporta una produzione cospicua, mostra resistenze alle malattie e presenta facilità di raccolta. I fattori che influenzano l’aspetto sono il colore, la dimensione, la forma, l’assenza di difetti e deperimenti. Il colore esterno dei pomodori è il risultato della pigmentazione della polpa e dell’epidermide. La maggior parte dei consumatori preferisce pomodori rossi uniformemente colorati. Le cultivar di pomodoro differiscono molto per la forma dei frutti, che può essere sferica, allungata o piriforme. I difetti nella forma sono solitamente legati ad una impollinazione insufficiente oppure ad un irregolare sviluppo di alcuni loculi.

Dopo l’aspetto visivo, il più importante fattore nella qualità del pomodoro è la consistenza che è strettamente associata allo stadio di maturazione. Metodi di valutazione oggettivi della consistenza dei frutti prevedono l’uso di strumenti, detti penetrometri, che indicano il grado di resistenza opposto alla penetrazione da parte del frutto. La maggior parte dei consumatori preferisce frutti consistenti che non perdano troppo succo quando vengono affettati e che non abbiano un’epidermide resistente. La quantità di zuccheri ed acidi e le loro interazioni sono importanti nella determinazione della dolcezza, acidità, ed intensità del sapore (Stevens et al., 1977). Il fruttosio e l’acido citrico sono i composti più importanti rispettivamente per la dolcezza e l’acidità rispetto al glucosio e all’acido malico. La porzione pericarpale dei frutti di pomodoro contiene molti zuccheri ridotti e pochi acidi organici rispetto alle porzioni alveolari: cultivar che danno frutti con grandi alveoli daranno un prodotto finale con un miglior aroma.

I composti volatili sono importanti non solo per l’aroma ma anche per il sapore finale. Sono stati separati più di 200 picchi con tecniche gas-cromatografiche e tra i composti più importanti troviamo l’esanale, il trans-2-esanale, il 2-isobutiltiazolo, il 2-metil-2-eptene-6-one, il geranilacetone e il farnesilacetone.

La composizione e la qualità dei pomodori è influenzata da molti fattori pre-raccolta; oltre alle pratiche agronomiche realizzate (tipo di suolo, nutrienti, acqua, metodo di raccolta manuale o meccanico) anche i fattori genetici ed ambientali (temperatura, luce, inquinamento) risultano determinanti.

1.4.1 Effetto dei fattori ambientali sulla qualità del frutto.

Le attività metaboliche vitali per il frutto come la respirazione e la sintesi dell’amido sono grandemente influenzate dalla temperatura (Walker e Ho, 1977); l’optimum di temperatura notturna è compreso tra 15 e 20°C (Kuo et al., 1979). La disponibilità di

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acqua è un altro parametro ambientale da tenere in considerazione, infatti la dimensione dei frutti è ridotta dallo stress idrico soprattutto come conseguenza di un accorciamento del periodo di accrescimento del frutto (Salter, 1958). Da non trascurare sono soprattutto gli effetti diretti della luce sui processi metabolici e fisiologici del frutto, come la fissazione di CO2, la sintesi di proteine (Davies e Cocking, 1965; Farineau e Laval-Martin, 1977) e dei pigmenti (Raymundo et al., 1976), e la maturazione del frutto stesso.

Il processo maturativo di un frutto ha un impatto sul contenuto e la composizione delle fibre, sul metabolismo lipidico, sui livelli di vitamine e dei vari antiossidanti (Ronen et

al., 1999). La comprensione dei punti chiave del controllo della maturazione o dei punti

regolatori di uno specifico processo attraverso l’incrocio e gli approcci biotecnolgici permetteranno di manipolare le caratteristiche relative alla qualità di un frutto che sono associate con il ripening come per esempio il livello dei carotenoidi, dei flavonoidi e delle vitamine.

1.5 Le radiazioni UV-B

Le piante si sono evolute naturalmente in modo da assorbire efficacemente le radiazioni solari per utilizzare la loro energia. Una conseguenza necessaria all’autotrofia delle piante ed al loro habitus immobile è l’assorbimento delle radiazioni solari UV-B. La radiazione ultravioletta è una radiazione elettromagnetica non ionizzante, con lunghezze d’onda leggermente inferiori a quelle percepite dall’occhio umano. Dato che i fotoni delle radiazioni hanno livelli energetici tanto più elevati quanto minore è la lunghezza d’onda, le radiazioni UV sono particolarmente efficaci nel provocare reazioni fotochimiche, e ciò vale anche per i sistemi biologici.

Per convenzione, le radiazioni UV vengono normalmente suddivise in tre bande fondamentali: UV-A, da 315 a 400 nm; UV-B, da 280 a 315 nm e UV-C al di sotto di 280 nm. La parte UV-A della normale luce solare provoca diverse reazioni fotochimiche e quindi diverse manifestazioni fisiologiche nelle piante, tra cui la repressione della crescita e varie modificazioni in metaboliti secondari, comunque la maggior parte dei fenomeni fisiologici provocati dalle radiazioni UV-A possono essere indotti in modo più efficace dalle radiazioni visibili (Caldwell et al., 2003). La maggior parte delle risposte alle radiaizoni UV-A non sono così pronunciate come le risposte alla radiazione UV-C; quest’ ultima infatti comprende i fotoni più ricchi di energia. Poiché i principali composti che assorbono le radiazioni a breve lunghezza d’onda sono le

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proteine e gli acidi nucleici, la radiazione UV-C è altamente efficace nell’uccidere la maggior parte dei microrganismi con esposizioni relativamente brevi ma con esposizioni sufficientemente lunghe sono anche capaci di danneggiare seriamente la maggior parte delle piante superiori. Questi effetti enormemente deleteri sono limitati dal sottile strato di ozono, presente nella parte superiore dell’atmosfera, che è capace di assorbire completamente tutte le radiazioni UV-C e le radiazioni UV-B con lunghezza d’onda inferiore a 295 nm circa. Rispetto a tutte le radiazioni solari che raggiungono la superficie terrestre, la porzione UV-B è quindi quella più efficace. Una delle preoccupazioni più recenti è che il continuo e graduale impoverimento dell’ozono della stratosfera dovuto alla presenza in atmosfera di un gran numero di composti chimici e altri gas influenzi la porzione UV-B dello spettro solare che raggiunge la superficie terrestre (Blumthaler e Ambach, 1990).

1.5.1 Trasduzione del segnale

Le piante sono degli organismi sessili e l’adattamento ai cambiamenti dell’ambiente naturale è una strategia importante per la loro sopravvivenza. La luce è il fattore ambientale dominante ma allo stesso tempo variabile. Non solo rappresenta una fonte di energia ma è anche un segnale essenziale per l’adattamento e la regolazione della crescita e dello sviluppo della pianta. Prima che gli UV-B o le radiazioni di altre lunghezze d’onda possano provocare una risposta cellulare è necessaria una percezione da parte di alcuni tipi di recettori e l’informazione viene tradotta dal segnale.

Le piante probabilmente contengono tre tipi di fotorecettori: i recettori della luce rossa (fitocromi), i recettori della luce blu/UV-A (criptocromi e fototropine) e un recettore della luce UV-B non ancora identificato (Lin 2000, Nagy e Schafer 2000, Kagawa et

al., 2001). I fitocromi sono i recettori maggiormente conosciuti. Numerose review

hanno suggerito l’esistenza di uno specifico fotorecettore UV-B, sebbene l’esatta natura di questo recettore sia ancora sconosciuta (Jordan 1996; Jenkins 1997; Nagy e Schafer 2000).

Uno dei problemi maggiori in questo senso è rappresentato dal fatto che moltissimi componenti cellulari assorbono a lunghezze d’onda tra i 280 e i 320 nm, tra cui anche gli aminoacidi aromatici contenuti nelle proteine, DNA, RNA, e piccole molecole come i flavonoidi. Il parziale sovrapporsi degli spettri di assorbimento di differenti fotorecettori, che controllano lo stesso tipo di risposta nelle regioni del blu e dell’ultravioletto, non permette una esaustiva conclusione circa la natura, il ruolo e le interazioni tra i vari pigmenti assorbenti (Lercari et al., 1990). Le risposte

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fotomorfogeniche alla radiazione UV-B potrebbero essere mediate dal fitocromo, da fotorecettori UV o da entrambi e, dal momento che trattamenti con UV determinano la fotoconversione del fitocromo, non è possibile escludere un coinvolgimento del Pfr in una data risposta (Lercari et al., 1990). Le ipotesi avanzate relative al sistema deputato al rilevamento della radiazione UV-B possono essere riassunte come segue: potrebbe trattarsi di un fotorecettore nel senso classico del termine come, ad esempio, un complesso pigmento-proteina. A supporto di tale ipotesi possiamo addurre l’osservazione che tale processo possiede le caratteristiche tipiche di una risposta fotomorfogenica, come il periodo di latenza successivo alla rimozione del segnale. Candidati ideali per tale ruolo di fotorecettori potrebbero includere proteine che portano legate o flavine o pterine, dal momento che questi cromofori assorbono fortemente gli UVB (Briggs e Short, 1991; Ensminger e Schafer, 1992) oppure residui aromatici a livello della sequenza primaria della proteina (Kim et al., 1992). Il processo di recezione UV-B potrebbe avvenire attraverso la fotomodificazione di una piccola molecola come un metabolita od un ormone, ad esempio, l’auxina, dal momento che essa viene effettivamente degradata dai raggi UV-B. In questo modo il processo sensoriale potrebbe essere rappresentato semplicemente dalla fotoconversione di questo fitoormone in una molecola differente. Si potrebbe avere la percezione della presenza di radiazione UV-B attraverso il danno operato da radicali liberi, a carico di macromolecole quali DNA, proteine o fotosistemi (Pang e Hays, 1991), notoriamente bersaglio di tale tipo di radiazione. Recentemente sono state avanzate ipotesi relativamente al meccanismo di percezione della radiazione UVB da parte dell’organismo vegetale che prendono in considerazione anche l’intensità della radiazione luminosa (Broschè e Strid, 2003). Si è infatti propensi a credere che la percezione di bassi livelli di UV-B avvenga attraverso un fotorecettore specifico a cui fanno seguito diverse vie di trasduzione del segnale, mentre alti livelli di radiazione UV-B, responsabili di danno cellulare e stress ossidativo, innescherebbero un generico percorso di trasduzione del segnale, che prevede il coinvolgimento di vari metaboliti fra i quali etilene ed acido jasmonico, e che determinerebbe risposte da parte della pianta del tutto simili a quelle che si verificano nel caso di attacco da parte di patogeni o di altri stress biotici o abiotici. Nel caso di bassi livelli di UV-B si può parlare di un evento di segnale “specifico” nel senso che prevede l’assorbimento di un piccolo numero di quanta da parte di uno o pochi componenti cellulari, i quali poi producono un segnale; per essere definibile “evento UV-B specifico” è necessario che esso non venga,

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ovviamente, scatenato da altri fattori ambientali come altre lunghezze d’onda, caldo, freddo, specie chimiche gassose etc. Nel caso in cui la radiazione UV-B raggiunga alti livelli non fisiologici i cambiamenti nell’espressione genica e nel metabolismo cellulare potrebbero essere causati dalla radiazione UV-B come il risultato di una perturbazione non specifica o di altre vie di segnale generate dall’assorbimento della radiazione UV-B da parte di un’ampia moltitudine di molecole. Dal momento che in questo caso non è previsto il coinvolgimento di uno specifico fotorecettore, si rendono necessari più quanta di UV-B rispetto al verificarsi di un evento “specifico” (Broschè e Strid, 2003). A seguito della percezione della radiazione UV-B da parte del fotorecettore si ha l’attivazione del segnale che vede implicati il calcio ed eventi di fosforilazione come candidati preferenziali nel ruolo di secondi messaggeri (Christie e Jenkins, 1996; Frohnmeyer et al., 1999) in maniera analoga a quanto già riportato riguardo ai meccanismi fitocromici del segnale luminoso. In alternativa è ipotizzabile un’altra via di trasduzione del segnale percepito dal recettore che prevede il coinvolgimento della NADPH ossidasi che, insieme ad altri enzimi, portano alla produzione delle specie reattive dell’ossigeno (ROS) (A.-H.-Mackerness, 2001), in primo luogo la specie O2·- a cui segue la specie H2O2 tossica per le strutture cellulari.

I geni coinvolti nella via biosintetica di fenilpropanoidi e flavonoidi mostrano incrementi nelle loro espressioni in presenza di UV-B anche a bassa intensità (1 kJ m-2) (Koopman et al., 1999) e ciò trova giustificazione nel fatto che tutte le proteine in questa via sono necessarie per portare a compimento la formazione di pigmenti protettivi nei confronti dell’UV-B. Anche l’espressione di alcuni enzimi coinvolti nel metabolismo primario, che ha il compito di fornire precursori a tali vie biosintetiche, mostrano gli stessi andamenti in relazione alla radiazione UV-B. Inoltre è stata rilevata una maggiore attività trascrizionale anche a carico di geni codificanti per proteine a carattere antiossidativo quali catalasi, glutatione perossidasi, superossido dismutasi e glutatione reduttasi (Strid, 1993; Willekens et al., 1994). E’ stato visto recentemente che la radiazione UV-B esercita un effetto temporaneo su alcuni geni con un ruolo nel controllo del ciclo cellulare, con il risultato di diminuirne il livello di trascrizione (Logemann et al., 1995). Infatti, per permettere la riparazione del danno a carico del DNA provocato dalla radiazione UV-B, potrebbe risultare vantaggioso per la cellula vegetale fermare temporaneamente il ciclo cellulare per evitare di introdurre mutazioni nel DNA delle cellule figlie.

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Durante la fosforilazione ossidativa, in cui si assiste all riduzione sequenziale di quattro elettroni dell’ O2 a H2O2, possono formarsi i metaboliti dell’ O2 parzialmente ridotti e altamente reattivi, generalmente definiti come “specie reattive dell’ossigeno” (ROS) a causa della loro reattività nei confronti di molecole donatrici di elettroni.

Le ROS sono spesso definite erroneamente come radicali liberi ma non tutte le ROS sono dei radicali liberi. Per definizione un radicale libero è una specie atomica o molecolare che contiene uno o più elettroni spaiati in uno dei suoi orbitali molecolari (Halliwell e Gutteridge, 1989). Quando una specie radicalica incontra invece una molecola che non è in grado di fornire un elettrone si formerà una nuova specie radicalica capace di reagire ulteriormente con l’ossigeno innescando un meccanismo di reazioni a catena; quando due radicali liberi si incontrano possono riunire in un doppietto i due elettroni spaiati formando un legame covalente e quindi un composto non radicalico stabile.

Nelle cellule il metabolita dell’O2 più comune è l’anione superossido (O2·¯) un ossidante fortemente reattivo che si forma per addizione di un singolo elettrone all’ossigeno molecolare:

O2 + 1e- O2·¯ (anione superossido)

Altre specie radicaliche importanti da un punto di vista biologico sono il radicale idrossilico (OH· ), l’ossido di azoto (NO· ) ed altri che possono reagire tra loro o con

altre molecole disponibili all’interno della cellula per formare ulteriori tipi di molecole reattive, come il perossido di idrogeno (H2O2), a partire dall’anione superossido.

La maggiore fonte di generazione dei ROS nelle piante è il cloroplasto (Asada, 2000). Queste ROS, se non rimosse immediatamente, possono danneggiare le strutture cellulari e molecolari, modificare le proteine e causare la perossidazione lipidica.

Per difendersi dagli effetti dei ROS le piante hanno evoluto vari sistemi antiossidanti basati su attività enzimatiche e composti non enzimatici a basso peso molecolare (Asada, 1999). Halliwell and Gutteridge (1989) hanno definito con il termine antiossidante una sostanza che è capace, in concentrazioni relativamente basse, di competere con altre sostanze potenzialmente ossidabili e quindi inibire o impedire la loro ossidazione Gli antiossidanti, attraverso le loro proprietà chimiche agiscono da veri e propri “spazzini” delle ROS preservando la cellula da possibili danni ossidativi e quindi dalla morte. Nonostante ciò, l’equilibrio tra produzione ed eliminazione dei ROS può essere perturbato da varie condizioni di stress a cui è sottoposta la pianta che

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possono essere sia di origine biotica che abiotica causando un innalzamento dei livelli di ROS (Apel e Hirt, 2004; Asada, 2006).

I principali sistemi enzimatici coinvolti nella difesa antiossidante sono costituiti da perossidasi, superossido dismutasi, catalasi e glutatione perossidasi. Molti oligoelementi essenziali, tra cui selenio, rame, manganese e zinco rivestono un ruolo fondamentale nella struttura molecolare o sono coinvolti nell’attività catalitica di questi enzimi. Una seconda linea di difesa è formata dai composti antiossidanti endogeni a basso peso molecolare che reagiscono con le specie ossidanti riducendone il potenziale nocivo. Grazie all’alta concentrazione della superossido dismutasi (SOD) nei mitocondri la concentrazione di O2·¯ prodotto viene mantenuta a livelli molto bassi (Tyler, 1975) poiché viene convertito dall’enzima in perossido di idrogeno (H2O2):

2 H+ + 2 O2·¯ superossido dismutasi O2 + H2O2

Diversamente dall’ O2·¯, l’ H2O2 non è un radicale libero ma è comunque una molecola molto stabile e tossica, dannosa per le strutture cellulari capace di diffondere attraverso le membrane biologiche; la sua pericolosità deriva dal fatto che in presenza di metalli di transizione (come il ferro o il rame) o di molecole organiche (come idro e semichinone) può formare il radicale idrossile OH· attraverso la reazione di Fenton:

Fe2+ + H2O2 Fe3+ + OH· + OH ¯

dove Fe2+ può essere rigenerato attraverso l’ossidazione dell’anione superossido O 2· ¯ :

Fe3+ + O2· ¯ Fe2+ + O2 .

La combinazione di queste due reazioni è detta reazione di Haber-Weiss catalizzata dal ferro mostrata di seguito:

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H2O2 + O2· ¯ Fe2+/Fe3+ OH· + OH ¯+ O2

Il radicale ossidrilico OH· costituisce chimicamente la specie più reattiva delle specie

dell’ossigeno attivo che si forma da successive riduzioni monovalenti della molecola di ossigeno O2 nel metabolismo cellulare, ed è primariamente responsabile degli effetti citotossici dell’ossigeno nelle piante, animali e microrganismi, che vivono in un’atmosfera ossigenica (Halliwell e Gutteridge, 1989, 1992). La molecola OH·, che ha

una vita molto breve, attacca aspecificamente biomolecole in una reazione a diffusione limitata ed è capace così di ossidare, per esempio, polisaccaridi, proteine e acidi nucleici situati a meno di pochi nanometri dal suo sito di generazione (…).

All’interno della cellula il livello di H2O2 viene mantenuto sotto controllo grazie alle catalasi (CAT, EC 1.11.1.6):

2 H2O2 catalasi 2 H2O + O2

Nella cellula il processo di detossificazione dell’ H2O2 è attuato anche da un’altra importante famiglia di enzimi, le perossidasi, che include l’ascorbato perossidasi (APX) e altre perossidasi (POD), dette aspecifiche (Ranieri et al., 2000). L’APX reagisce in maniera specifica con l’acido ascorbico mentre le altre POD reagiscono in maniera aspecifica con un largo range di substrati fenolici (Everse, 1991) che vengono degradati a spese del perossido di idrogeno:

H2O2 + AH2 perossidasi 2 H2O + A

In piante di Cucurbita pepo sottoposte a stress ossidativo da O3 (Ranieri et al., 1994) è stata osservata la stimolazione dell’attività enzimatica sia di catalasi che di perossidasi. A parte il sistema di detossificazione le perossidasi sono coinvolte in numerosi processi fisiologici che verranno descritti successivamente.

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1.6 Le perossidasi

Esistono diversi tipi di perossidasi che si trovano in tessuti animali, piante e microrganismi e vengono divise in tre superfamiglie in base alle loro proprietà strutturali e catalitiche (Welinder, 1991).

Le perossidasi vegetali, insieme a quelle trovate in funghi, batteri e lieviti, fanno parte della terza superfamiglia che viene ulteriormente suddivisa in tre classi (Welinder 1992). Le perossidasi della classe I includono enzimi intracellulari di piante, batteri e lieviti come la citocromo perossidasi c (EC 1.11.1.6), la catalasi (EC 1.11.1.5) e l’ascorbato perossidasi (EC 1.11.1.11) che sono localizzate in cloroplasti, mitocondri, citosol e perossisomi. Perossidasi di classe II sono gli enzimi extracellulari dei funghi. La III classe comprende perossidasi generalmente secrete dalla pianta all’esterno della cellula o trasportate nei vacuoli, dette anche perossidasi aspecifiche, in grado di ossidare una vasta gamma di composti fenolici (Siegel, 1993).

L’enzima perossidasi (POD; EC 1.11.1.7) è una glicoproteina contenente il gruppo eme allo stato di ossidazione +3 [Fe(III)]. Il ferro è penta coordinato con quattro atomi di azoto pirrolici del gruppo eme e ad un atomo di azoto dell’istidina assiale in una sequenza aminoacidica del tipo Gly-Gly-His-Thr-Ile-Gly. La posizione della sesta coordinazione è libera, determinando così un alto stato di spin del ferro (Banci, 1997). Inoltre la presenza di due ioni Ca2+ osservata nella molecola avvolta è considerata necessaria per la stabilità dell’enzima (Banci, 1997). Il processo catalitico procede in una reazione multi-step che coinvolge il sito attivo in presenza di H2O2; quest’ultimo viene ridotto ad H2O e la proteina viene ossidata con trasferimento di due elettroni. La proteina ottenuta, detta composto I, contiene un catione radicalico e ossida una molecola di substrato (S), per ottenere il CompostoII allo stato fondamentale. Infine, il composto II viene ridotto da una seconda molecola di substrato per riportare lo ione Fe al suo stato fondamentale +3. (Fig.2)

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Fig.2 Ciclo catalitico delle perossidasi di classe III che mostra l’interconversione dello

ione Fe+3.

Poiché il ferro costituisce il cofattore di questi enzimi le condizioni di carenza da ferro possono influenzare l’attività perossidasica come osservato in studi effettuati su piante di girasole ferro-carenti (Ranieri et al., 2001) dove un alto contenuto di H2O2 era accompagnato da una bassa attività delle perossidasi. Inoltre, nello stesso tipo di tessuti non si riscontravano danni ossidativi alle strutture lipidiche e proteiche delle cellule molto probabilmente perché in carenza dello ione Fe la reazione di Fenton non poteva comunque avere luogo (Ranieri et al., 1999b).

1.6.1 Localizzazione e funzioni delle perossidasi

La presenza di enzimi perossidasici è stata riscontrata in numerosi compartimenti cellulari, come il reticolo endoplasmatico, l’apparato di Golgi, il vacuolo, l’apoplasto e la parete cellulare (Prasad et al., 1995; Takahama e Hegashira, 1991; Van Hustee e Zheng, 1995).

Le perossidasi sono degli enzimi molto versatili in grado di reagire con vari tipi di substrati e catalizzare l’ossidazione di numerosi composti fenolici.

È ben documentato ormai che individuali isoforme di perossidasi sono presenti in numerosi compartimenti cellulari tra cui la parete cellulare, dove sono presenti in forma solubile, legata ionicamente e covalentemente. Le perossidasi possono essere considerate enzimi bifunzionali capaci di ossidare vari substrati fenolici in presenza di

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H2O2 e di catalizzare la formazione dei ROS attraverso l’ossidazione del NADH (Halliwell, 1978; Otter e Polle et al., 1994).

Si può ipotizzare che ogni volta che la perossidasi entra in contatto con concentrazioni adatte di O2·¯ e H2O2, originati sia dal ciclo ossidativo delle perossidasi che da altre fonti venga prodotta probabilmente la specie OH·. Questa situazione prevale, per esempio,

quando livelli di O2·¯ e H2O2 aumentano nelle piante in risposta ai vari stress. La produzione di OH· da parte delle POD legate alla parete cellulare può essere rilevante

per il controllo della degradazione di polimeri strutturali. È ben saputo che gli enzimi possono essere strutturalmente modificati o danneggiati da OH Così, considerando la breve emivita dell’ OH·, che limita l’effettivo range d’azione a pochi nanometri dal suo

sito di generazione, sembra inevitabile che la perossidasi stessa diventi un bersaglio dell' OH·. Questa azione suicida fornisce una spiegazione plausibile per la quantità di

isoforme di perossidasi che generalmente si trovano nelle pareti cellulari delle piante. In questo contesto è anche interessante notare che la depolimerizzazione delle lignine attraverso i funghi è mediata da enzimi detti ligninasi, in presenza di H2O2. Il meccanismo biomeccanico di questa reazione estremamente importante non è stata finora risolta e sarebbe interessante testare l’ipotesi che le ligninasi iniziano la biodegradazione delle lignine via OH· per azione delle perossidasi.

Attraverso lo studio delle proprietà catalitiche in vitro, dei profili di espressione dei geni che la codificano, della localizzazione e dell’utilizzo di opportune piante transgeniche, vari autori hanno ipotizzato che le perossidasi siano coinvolte in vari processi metabolici tra i quali figura il metabolismo delle auxine (Normanly et al., 1995), legami tra componenti della parete cellulare attraverso la formazione di ponti isodi-tirosina tra molecole di estensine ricche in idrossiprolina, formazione di ponti diferulici tra residui di pectine (Fry, 1986; Brownleader et al., 1999; Hatfield et al., 1999), e ossidazione di alcol cinnamilici prima della loro polimerizzazione durante la formazione della lignina e della suberina (Roberts et al., 1988, Whetten et al., 1998) oltre alla difesa da attacchi patogeni (Lagrimini et al., 1993).

Molti ricercatori hanno spesso tentato di correlare l’attività enzimatica di perossidasi con la cessazione della crescita del frutto in diversi organi vegetali (Goldberg et al., 1987). Thompson et al. (1998) hanno infatti osservato la comparsa di una specifica attività perossidasica non presente prima della cessazione della crescita del frutto. Comunque è difficoltoso definire funzioni specifiche di POD individuali a causa della loro bassa specificità ai substrati in vitro e la presenza elevata di diversi isozimi.

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1.6.2 Le perossidasi nel frutto di pomodoro in relazione alla crescita

Il pomodoro è una coltura di importanza economica mondiale e i fattori che controllano la sua crescita hanno attratto un interesse considerevole della ricerca. La velocità e il grado della crescita del frutto sono cruciali per il raccolto in quanto possono anche essere responsabili dei maggiori disturbi come la spaccatura e la fine della fioritura. Inoltre, le POD sono coinvolte nel controllo delle dimensioni del frutto, il fattore maggiormente determinante della qualità nel pomodoro come in molti altri prodotti orticoli. La potenziale dimensione di un frutto può dipendere dal numero delle cellule all’interno dell’ovario in via di sviluppo, mentre la misura finale del frutto dipende dall’espansione di queste cellule (Ho, 1992). Nel frutto di pomodoro, come in molti organi vegetali, l’espansione cellulare è quel processo che, sotto la spinta della pressione di turgore, coinvolge importanti riarrangiamenti nella struttura della parete cellulare quali il suo rilassamento.

Tra gli enzimi che sembrano avere un ruolo nel rilassamento della parete, l’attività di xiloglucano-endotransglicosilasi (XET) mostra una correlazione generale con il tasso di crescita nel pomodoro. Anche le espansine hanno dimostrato di essere coinvolte nel rilassamento della parete nel frutto di pomodoro.

Per quanto concerne la cessazione della rescita del frutto di pomodoro, esistono importanti evidenze che la buccia possa giocare un ruolo determinante in quanto tessuto che si oppone all’espansione degli strati cellulari sottostanti. Al riguardo, le perossidasi presenti nella buccia del frutto di pomodoro sono indiziate quali principali artefici dell’irrigidimento (stiffening) della buccia, in modo da permettere a quest’ultimo di poter contrastare l’espansione del frutto.

Le correlazioni tra attività perossidasica e la fine della crescita sono state in diversi frutti incluso uva, mango, papaia, pera, arancia e pesca (Goldberg et al., 1987).

Nel pomodoro, la crescita rallenta e cessa 40-50 giorni dopo l’antesi e in questo periodo non è stato trovato alcun cambiamento marcato nella pressione di turgore della cellula o negli enzimi pareti-rilassanti, mentre, nella buccia, è stato osservato un incremento marcato nell’attività delle perossidasi legate alla parete (Thompson, 1998).

È stato osservato che i tessuti dell’esocarpo dei frutti immature mostrano un’intensa attività perossidasica associata con il tonoplasto, la membrana provacuolare e in aluni particolati all’interno del vacuolo. Le sezioni del frutto giunto allo stadio mature green confermano la presenza di attività perossidasica nel margine interno della parete

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cellulare e occasionalmente vicino alla lamella mediana mentre non è stata rilevata nessuna attività nella cuticola dell’epidermide esterna (Andrews et al., 2002a).

Attraverso misure tensili (Andrews et al., 2002b) è stato dimostrato il cambiamento delle proprietà meccaniche dell’esocarpo del frutto di pomodoro durante la crescita (10-60 dpa). In particolare, è stato osservato che l’estensibilità dell’esocarpo diminuisce con l’avanzamento dell’età del frutto. Inoltre, l’estensibilità massima del tessuto non era influenzata dall’applicazione di perossidasi mentre l’irrigidimento (stiffening) e la forza richiesta per causare la deformazione del tessuto aumentava in seguito all’applicazione di perossidasi. La capacità delle perossidasi di alterare le proprietà meccaniche dell’esocarpo supporta l’ipotesi che le perossidasi mediano un aumento nell’indurimento dell’esocarpo durante il corso della crescita del frutto, restringendo l’espansione nei frutti più vecchi e così controllando la crescita (Andrews et al., 2002b). Le perossidasi sono implicate anche nella degradazione dell’auxina endogena (Krylov e Dunford, 1996), l’acido indolacetico, oltre alla formazione di legami con composti fenolici in grado di assorbire la radiazione UV-B. In piante transgeniche di tabacco (Nicotiana sylvestris) è stato studiato l’eventuale contributo delle perossidasi alla tolleranza degli UV-B (Jansen, 2001) in relazione al catabolismo delle auxine. In studi effettuati su diversi tessuti si è riscontrato che il turnover delle auxine, ma non il loro livello, è correlato all’acquisizione della tolleranza agli UV-B (Jansen, 2001). Diventa quindi duplice l’azione delle perossidasi che potenzialmente coinvolte al catabolismo delle auxine sono legate al metabolismo dei composti fenolici in grado di assorbire nella regione UV-B dello spettro.

1.7 Il metabolismo fenilpropanoidico

I composti fenolici, o polifenoli, costituiscono uno dei gruppi di sostanze più numerosi e ampiamente distribuiti nel Regno vegetale, con più di 4000 molecole diverse finora conosciute. L’espressione “composti fenolici” un insieme considerevole di sostanze che posseggono almeno un anello aromatico legato ad uno o più sostituenti idrossilici. Le maggiori classi di polifenoli sono elencate nella tabella (Tab), in base al numero di atomi di carbonio dello scheletro di carbonio e possono essere suddivisi in fenoli semplici, come gli acidi fenolici, e in fenoli complessi altamente polimerizzati, come i tannini. I composti fenolici vegetali sono biosintetizzati seguendo diverse vie rappresentando così, da un punto di vista metabolico, un gruppo eterogeneo di molecole. Sono coinvolte due vie biosintetiche di base: la via dell’acido scichimico e la

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via dell’acido malonico. La via dell’acido scichimico partecipa alla biosintesi della maggior parte dei fenoli vegetali mentre la via dell’acido malonico, sebbene sia una importante fonte di prodotti secondari fenolici nei funghi e nei batteri, riveste nelle piante un significato minore

Scheletro di base Classi Esempi

C6 Fenoli semplici Catecolo

Fenoli

semplici C6-C1 Acidi fenolici Acido gallico, salicilico

C6-C3 Acidi idrossicinnamici Acido caffeico, ferulico

Fenilpropeni Eugenolo Cumarine Umbelliferone C6-C2-C6 Stilbeni Resveratrolo C6-C3-C6 Flavonoidi Quercetina Isoflavonoidi Genisteina (C6-C3)n Lignine Guaiacil-siringil Fenoli

complessi (C6-C3-C6)n Tannini condensati Polimeri di catechina

(C6-C)n Tannini idrolizzabili Gallotannini Tab.6 Classificazione dei composti fenolici.

1.7.1 La via dell’acido scichimico

La via dell’acido scichimico, che prende il nome da un suo intermedio procede verso la formazione degli amminoacidi aromatici e rappresenta il maggior legame tra il metabolismo primario e il metabolismo secondario.

Nel primo step, il fosfoenolpiruvato, prodotto terminale della glicolisi, e l’eritrosio-4-fosfato, prodotto dalla via dei pentosofosfati, vengono condensati per formare un composto eterociclico a sette atomi di carbonio, il 3-deossi-D-arabino-eptulosonato 7-fosfato (DAHP) attraverso l’azione dell’enzima DAHP sintasi. Nella reazione successiva il 3-deidrochinato sintasi catalizza la formazione di un cicloesano altamente sostituito, l’acdio 3-deiderochinico; questa molecola costituisce il substrato di un enzima bifunzionale (Koshiba, 1978; Polley, 1978), il 3-deidrochinato deidratasi e scichimato deidrogenasi, che porta alla produzione dell’acido scichimico. La scichimato

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chinasi fosforila il composto appena ottenuto per formare l’acido scichimico 3-fosfato. Il penultimo step consiste nella formazione dell’acido 5-enolpiruvil-scichimico 3-fosfato (ESPS) per addizione del fosfoenolpiruvato in presenza della ESPS sintasi. Il settimo ed ultimo step, catalizzato dalla corismato sintasi, porta alla formazione dell’acido corismico (Balasubramanian et al., 1990; Hawkes et al., 1990).

Due intermedi della via biosintetica che porta all’acido corismico sono anche intermedi della degradazione del’acido chinico. Questo metabolita è un precursore dell’acido clorogenico e funge come forma di accumulo o di trasporto del carbonio (Beaudolin-Eagan and Thorpe,1984). L’acido clorogenico, che in diverse piante si accumula a livelli modesti, è il fenilpropanoide maggiormente solubile nella pianta di tabacco e costituisce una protezione dagli attacchi fungini (Maher et al., 1994).

1.7.2 Biosintesi degli amminoacidi aromatici

L’acido corismico prodotto dalla via dell’acido scichimico rappresenta il precursore comune nella biosintesi dei tre amminoacidi aromatici tirosina, fenilalanina e triptofano. Poiché la via dell’acido scichimico è presente nei batteri, nei funghi e nelle piante ma è assente negli animali monogastrici l’uomo deve assumere la fenilalanina e il triptofano attraverso la dieta alimentare, mentre la tirosina viene sintetizzata direttamente dalla fenilalanina. altri composti aromatici altrettanto importanti, derivanti da questa via biosintetica, sono la vitamina K, l’ubichinone o il p-amminobenzoato. Attraverso l’azione dell’enzima antranilato sintasi l’acido corismico viene convertito in antralinato che porterà alla successiva formazione del triptofano; l’enzima corismato mutasi catalizza invece la conversione dell’acido corismico in acido prefenico, la prima reazione specifica per la sintesi della fenilalanina e della tirosina. L’acido prefenico a questo punto può seguire due diverse vie per ottenere comunque gli stessi prodotti. Nella prima via può essere convertito in acido L-arogenico in presenza di una amminotrasferasi che, in una reazione catalizzata dall’arogenato deidratasi e dall’arogenato deidrogenasi, porta alla formazione della fenilalanina e della tirosina. Nella via alternativa l’acido prefenico, in una reazione catalizzata dalla acido prefenico deidratasi e acido prefenico deidrogenasi, forma il fenilpiruvato e il p-idrossifenilpiruvato, i quali, in una reazione di transaminazione produrranno rispettivamente la fenilalanina e la tirosina. Sebbene siano possibili entrambe le vie nelle piante sembra che l’acido L-arogenico sia il precursore preferenziale per la sintesi della fenilalanina e della tirosina (Bonner e Jensen, 1987).

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1.7.3 Via biosintetica dei monolignoli

La fenilalanina ammoniaca-liasi (PAL; EC 4.3.1.5) è un enzima importante del metabolismo secondario poichè converte la fenilalanina ad acido trans-cinnamico (Fig.3), struttura di molti composti del metabolismo secondario, detti anche fenilpropanoidi, come i flavonoidi, le cumarine, gli stilbeni, derivati dell’acido benzoico e precursori della lignina (Whetten e Sederoff, 1995). Un’attività enzimatica analoga quella della PAL viene esplicata dalla tirosina ammoniaca-liasi (TAL) che deamina la tirosina per formare l’acido p-cumarico. Questa attività viene frequentemente equiparata a quella della PAL e rimane comunque incerto se si tratta di due differenti proteine o semplicemente di due attività di un singolo polipeptide. La PAL gioca un ruolo chiave nel metabolismo dei fenilpropanoidi controllando la biosintesi di tutti i composti fenilpropanoidici incluso la lignina (Northcote, 1985). Piante transgeniche con livelli modificati di attività della PAL hanno dato l’opportunità di testare l’ipotesi sul ruolo della PAL nel metabolismo e nello sviluppo della pianta. L’acido trans-cinnamico viene idrossilato ad acido p-cumarico attraveso l’azione del cinnamato 4-idrossilasi (C4H), un citocromo P-450 legato alla monossigenasi localizzato nel reticolo endoplasmatico. L’ossigeno molecolare viene scisso durante questa reazione con aggiunta di un atomo di ossigeno all’anello aromatico e l’altro ridotto ad acqua. L’enzima cumarato 3-idrossilasi (C3H) catalizza l’idrossilazione dell’acido p-cumarico per formare l’acido caffeico. La metilazione dell’acido caffeico porta alla formazione dell’acido ferulico in una reazione catalizzata dal caffeato 3-O-metiltrasferasi (COMT), usando l’S-adenosil metionina come donatore del gruppo metilico. Il ferulato 5-idrossilasi (F5H), un altro citocromo P-450 legato alla monossigenasi, catalizza l’idrossilazione dell’acido ferulico per ottenere l’acido 5-idrossiferulico, convertito dell’enzima caffeato 3-O-metiltrasferasi (COMT) in acido sinapico. Gli acidi idrossicinnamici ottenuti a partire dall’acido trans-cinnamico possono produrre i corrispondenti tioesteri attivati attraverso

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Fig.3 Via biosintetica dei monolignoli. CAD, cinnamil alcol deifrogenasi; 4CL,

4-cumarato:CoA ligasi; C3H, p-cumarate 3-idrossilasi; C4H, cinnamato 4-idrossilasi; CCoA3H, caffeoilCoA 3-idrossilasi; CCoAOMT, caffeoil-CoA O-metiltrasferasi; CCR, cinnamoil-CoA reduttasi; COMT, acido caffeico O-metiltrasferasi; F5H, ferulato 5-idrossilasi; PAL, fenilalanina ammoniaca-liasi; SAD, sinapil alcol deidrogenasi.

acido p-cumarico acido caffeico acido ferulico acido 5-idrossiferulico acido sinapico NH2

fenilalanina acido trans-cinnamico PAL

C4H

COMT F5H COMT

C3H

COSCoA COSCoA

CHO CHO CHO

OH OH OH

4CL 4CL 4CL 4CL 4CL

CCR CCR CCR

SAD CAD SAD CAD SAD CAD

CCoAOMT ? CCoAOMT

CCoA3H

p-cumaril alcol coniferil alcol sinapil alcol

p-cumaril aldeide coniferil aldeide sinapil aldeide

p-cumaroil-CoA feruloil-CoA sinapoil-CoA

COSCoA COSCoA COSCoA

caffeoil-CoA 5-idrossiferuloil-CoA

acido p-cumarico acido caffeico acido ferulico acido 5-idrossiferulico acido sinapico NH2

fenilalanina acido trans-cinnamico PAL

NH2

fenilalanina NH2

NH2

fenilalanina acido trans-cinnamicoacido trans-cinnamico PAL

PAL

C4H C4H

COMT

COMT F5HF5H COMTCOMT

C3H C3H

COSCoA

COSCoA COSCoACOSCoA

CHO CHO CHO

OH OH OH

4CL

4CL 4CL4CL 4CL4CL 4CL4CL 4CL4CL

CCR

CCR CCRCCR CCRCCR

SAD CAD SAD CAD SAD CAD

CCoAOMT ?? CCoAOMT

CCoA3H

p-cumaril alcol coniferil alcol sinapil alcol

p-cumaril aldeide coniferil aldeide sinapil aldeide

p-cumaroil-CoA feruloil-CoA sinapoil-CoA

COSCoA COSCoA COSCoA

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