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Capitolo 1: Ricognizione filologica

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Capitolo 1: Ricognizione filologica

1.1 Il manoscritto, l‘edizione a stampa e i criteri di ricostruzione testuale

Se, per effettuare un‘indagine linguistica sul testo greco del Timeo ‒ che consenta anche di confrontarlo proficuamente e in modo metodologicamente corretto con quello armeno ‒ è inevitabile affrontare problemi di natura filologica, la commistione disciplinare è ancora più forte per quanto riguarda la parte del presente studio che concerne appunto, direttamente, la traduzione armena.

Come si è accennato nell‘Introduzione, una possibile ‒ e probabile ‒ fonte di divergenze tra il testo greco e la traduzione armena è, evidentemente, la dipendenza da un testo soggiacente che presentasse caratteristiche differenti da quello accettato o ricostruito dagli editori moderni; ciò è appurabile, in certa misura, tramite un confronto con le varianti testuali presenti nella tradizione manoscritta greca (cfr. in proposito Dragonetti, 1988)1.

Un‘altra eventualità da vagliare e possibilmente escludere prima di attribuire un determinato tratto ad una scelta originale del traduttore, e di servirsene quindi per uno studio del suo modus operandi, è rappresentata poi da corruttele e varianti costituitesi all‘interno della stessa tradizione manoscritta armena. In questo campo si può fare ricorso, purtroppo, solo a strumenti qualitativamente e quantitativamente inferiori rispetto a quelli disponibili per il greco: in primis, non esiste per il Timeo armeno un‘edizione critica condotta secondo criteri moderni.

Il testo è reperibile, insieme all‘Eutifrone e all‘Apologia di Socrate, in un‘edizione ottocentesca (Tramaxōsowtʿiwnkʿ, 1877: il Timeo occupa le pp. 75-174) curata da Arsēn Sowk῾rean a partire dall‘unico testimone esistente. Tale manoscritto, custodito tuttora nella biblioteca del convento mechitarista di S. Lazzaro e indicato con il numero 1123, contiene oltre ai dialoghi editi nel 1877 anche le traduzioni delle Leggi e del Minosse pseudo-platonico, entrambe pubblicate in Tramaxōsowtʿiwnkʿ (1890) a cura di Garegin Zarbhanalean (o Zarphanalean)2. Una seconda sezione, che presenta caratteristiche codicologiche e paleografiche differenti, contiene invece una versione delle Institutiones Theologicae di Proclo, che non è tradotta direttamente dal greco e, a differenza delle opere platoniche, è attestata in altri testimoni, e il commento alle Insitutiones del georgiano Petritsi (v. infra)3.

Secondo quanto riporta Conybeare (1889 e 1891a) basandosi su informazioni fornite per via epistolare da Padre Zarbhanalean, il manoscritto è giunto a Venezia nella prima metà del XIX secolo, provenendo da Madras (India), ma si sarebbe trovato precedentemente a Ispahan (Iran). Questi dati trovano del resto conferma nei memoriali presenti nel codice stesso (riportati e tradotti in Aimi, 2008-2009: 14): per l‘esattezza, la data di arrivo del codice a San Lazzaro, per mano di Sargis Tʿeodorean, è indicata nel secondo memoriale come 3 novembre 1835. L‘unica altra copia di cui si ha notizia, un tempo conservata anch‘essa a Madras, è andata perduta in un naufragio presso il Capo di Buona Speranza mentre veniva portata a Venezia. Il manoscritto superstite non riporta il nome del copista della sezione platonica né

1

Ella suggerisce un‘affinità della versione armena con il ramo A, segnalando, nel contempo, la presenza di varianti più antiche; cfr. infra, in particolare l‘analisi della tesi di Saffrey.

2

Entrambe le grafie sono attestate.

3Per una descrizione del codice e delle due sezioni, v. Zanolli (1947: 158 ss.) e Aimi (2008-2009: 11

ss.). La Dottoressa Chiara Aimi dell‘università di Bologna sta attualmente conducendo ricerche sul manoscritto, con l‘intento di giungere a una migliore comprensione della composizione del codice, della sua datazione, dei rapporti tra le parti.

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l‘epoca di realizzazione; esso sarebbe stato copiato non prima del XVI o XVII secolo (al XVII secolo si fa riferimento anche nel catalogo della biblioteca di San Lazzaro: v. Čemčemean, 1998: 556)4 su un esemplare che Zarbhanalean ‒ attribuendo le lacune presenti nella copia a una scarsa leggibilità dell‘antigrafo ‒ giudica molto più antico; a giudicare dalle corruttele presenti nel testo, Conybeare ipotizza comunque che esso sia disceso dall‘archetipo della tradizione armena attraverso un numero considerevole di copie intermedie (cfr. le precisazioni di Aimi in merito: 15 ss.).

Per quanto riguarda la qualità del testo del Timeo, è opportuno segnalare che Sowk῾rean, purtroppo, non si è limitato a riprodurre il testo conservato nel manoscritto o a normalizzare eventuali forme aberranti, ma è intervenuto su di esso, colmando le lacune, sciogliendo le abbreviazioni in un modo che occasionalmente risulta passibile di discussione (v. infra), e talora modificandone nettamente il dettato5. Dragonetti (1986) ha effettuato uno studio dell‘edizione ottocentesca in rapporto al modello, segnalando e motivando numerose divergenze, alcune delle quali sono imputabili a manifesto fraintendimento o confusione dovuta a somiglianza grafica. Altrove, tuttavia, le modifiche di Sowk῾rean sono dovute a una consapevole ricerca di maggiore adesione al testo greco: di tale attitudine egli non fa mistero, dichiarando, nell‘introduzione, di voler correggere senza scrupoli, in base appunto all‘originale greco, gli errori dello scriba e del traduttore, per evitare che la loro presenza, sommata alla lingua grecizzante, renda troppo oscuro e ostile al lettore il dettato dei dialoghi (Tramaxōsowt῾iwnk῾, 1877: 10). Ciò determina interventi ipercorretti atti a modificare l‘ordine delle parole o la struttura sintattica, che denotano peraltro, in taluni casi, una mancata comprensione del greco o dell‘armeno del manoscritto, oppure pongono l‘interrogativo su quale testo greco Sowk῾rean avesse a disposizione (cfr. Finazzi, 1977: 28 e 1990a: 68; Aimi, 2008-2009: 19 segnala, per l‘Apologia, tre casi in cui le correzioni di Sowk῾rean trovano riscontro nel codice Venetus 184).

Poiché l‘edizione ottocentesca non è una fonte affidabile, Dragonetti (1986) propone emendazioni del testo a stampa per ricondurlo, dove necessario, alla lezione dell‘esemplare: l‘articolo si configura, in questo senso, come una piccola edizione critica, e di esso è ovviamente necessario tenere conto. Dato che non esistono indici o concordanze del testo del Timeo, chi scrive ha realizzato una versione digitalizzata dell‘edizione di Sowk῾rean, contenente tutte le correzioni di Dragonetti, per poter effettuare ricerche lessicali ed estrapolare, se necessario, dati numerici.

Uno spoglio anche episodico del manoscritto consente tuttavia di notare che Dragonetti non rende conto di tutte le divergenze, e che, in ogni caso, data la natura del contributo, esso non sostituisce l‘esame autoptico della fonte. Anche in un‘indagine che non ha come scopo primario l‘accertamento filologico su un piano sistematico, non si può pertanto prescindere da un controllo dei passi rilevanti: come si è anticipato nell‘Introduzione, chi scrive ha avuto l‘opportunità di prendere visione del codice nel dicembre del 2010, ma ha utilizzato come principale strumento di lavoro una riproduzione in bianco e nero su supporto digitale, realizzata a partire da un microfilm in possesso dell‘Università Cattolica di Milano, e fotografie a colori, in parte fornite dai Padri Mechitaristi, in parte realizzate da Chiara Aimi e Maddalena Modesti durante la menzionata visita a San Lazzaro.

Dove non altrimenti indicato, il testo e la punteggiatura dei passi riportati nel corso della trattazione si attengono al dettato del manoscritto, previo svolgimento delle abbreviazioni. In taluni casi è stato tuttavia necessario avanzare proposte di emendazione, senza voler proseguire, con questo, nell‘opera di omologazione forzosa al greco intrapresa dall‘editore

4

Per alcuni elementi di valutazione v. Aimi (2008-2009: 13 ss.).

5

Un giudizio analogo sulla qualità dell‘edizione del 1877 si trova, ad esempio, in Solari (1969), Rossi (1982-1983); Dragonetti (1986 e 1988); Aimi (2008-2009); per la scarsa qualità dell‘edizione del 1890, cfr. Finazzi (1974, 1990a e 1990b), Scala (1999, 2000, 2001, 2002), Bolognesi (2000b).

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ottocentesco. Gli interventi sono limitati ai casi in cui la lezione tradita non dà senso o risulta incongrua al contesto dal punto di vista armeno, e non è giustificabile a partire dal greco in nessuna delle varianti attestate, e sempre che la corruttela possa ragionevolmente essere spiegata in base a fattori meccanici e la soluzione proposta sia compatibile con il dato paleografico.

1.2 Il problema della datazione e/o attribuzione

Oltre alle oggettive difficoltà di lavoro dovute alla condizione documentaria descritta nel paragrafo precedente, la situazione è, in questo caso, problematica ab origine, poiché le versioni dei cinque dialoghi platonici ‒ o pseudo-tali ‒ conservate nel manoscritto sono anonime e non datate. Ciò ha ripercussioni, evidentemente, anche sulla valutazione linguistica del testo, rendendo ardua qualsiasi analisi a carattere contrastivo che coinvolga altre opere della letteratura armena. Per questo motivo, una parte considerevole del presente studio è stata dedicata a riesaminare gli indizi addotti in favore dell‘una o dell‘altra proposta di datazione, verificandone la solidità. Si auspica che eliminando alcuni elementi riproposti talora acriticamente in letteratura e fornendo una rassegna meditata delle prove disponibili ‒ alcune delle quali non hanno ricevuto finora la debita attenzione ‒ si possa fornire un punto di partenza, in vista di una futura, necessaria analisi comparata della lingua e dell‘usus vertendi di tutti i dialoghi, che consenta di offrire una proposta di datazione in base a criteri interni.

1.2.1 Presentazione della ―questione platonica‖ e rassegna di alcuni contributi critici ottocenteschi

La difficoltà di attribuzione e collocazione cronologica delle opere in oggetto traspare già dalla voce dedicata a Platone (Płat.) nell‘elenco dei libri e degli autori all‘inizio del NB (18), la cui pubblicazione segue di poco l‘arrivo in Occidente del codice stesso (per l‘esattezza, il manoscritto giunse a San Lazzaro mentre veniva stampata la lettera A del dizionario, poi pubblicato nel 1836-1837)6. In questa sede è infatti riportata la notizia che Grigor Magistros (nobile ed erudito del X-XI sec.: v. infra) aveva dichiarato di essersi dedicato tra l‘altro alla traduzione del Timeo; di seguito, però, si osserva che la versione presente nel codice, poco prima descritta come antica e aderente al greco, ―sembra anche più antica‖ («erewi ew ews hnagoyn») di Grigor stesso (cfr. Aimi, 2008 – 2009: 18).

Nell‘occuparsi di questo personaggio da un punto di vista storico e biografico, anche Langlois (1869: 22) tratta brevemente la questione, affermando che le traduzioni realizzate da Grigor ‒ a parte un frammento dell‘opera di Euclide, la cui attribuzione è stata a sua volta a lungo dibattuta ‒ non sono sopravvissute, e ascrivendo a «quelques critiques» l‘ipotesi di una datazione alta (V secolo) del Timeo di San Lazzaro (e del Fedone, segnalato, probabilmente per errore, come conservato7, dato che anch‘esso compare nell‘elenco delle opere tradotte da

6

La notizia si trova nel NB stesso (18).

7

« (…) la traduction du Phédon et du Timée, qui nous est parvenue»; cfr. Langlois (1880: 403), dove la formulazione è inequivocabile: «il ne nous reste de toutes ces traductions que le Timée et le Phédon, et environ une page de la Géométrie d‘Euclide». È più verosimile che si tratti di un‘imprecisione ‒ che si ritroverà del resto in studi di molto successivi: v. infra ‒ piuttosto che di una testimonianza della sopravvivenza del Fedone armeno nella seconda metà dell‘800, dato non altrimenti suffragato. A

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Grigor: v. infra). In Langlois (1880: 403) egli dichiara invece, onestamente, di non essere in grado di prendere una posizione sull‘argomento; stranamente però, nel riportare l‘opinione di coloro che attribuiscono il Timeo a traduttori del V secolo, afferma che ad essi «on doit la version des ouvrages philosophiques de Platon et de Philon le juif» (la formulazione è quasi identica in Idem, 1869: 22), come se esistessero notizie indubbie di altre traduzioni platoniche condotte in epoca più antica8.

In Tramaxōsowtʿiwnkʿ (1877: 10) l’editor princeps Arsēn Sowkʿrean abbraccia senz‘altro l‘attribuzione a Grigor, il quale avrebbe tradotto le opere platoniche «iwrov əndel maṙaxlapat ew hellenaban xrtʿnowtʿeambn», ―con la familiare, nebulosa ed ellenizzante astrusaggine‖ (cfr. Aimi, 2008-2009: 27). La lingua di Grigor, si noti, era del resto già stata definita in questi termini da Langlois (1869: 7): «ses écrits fourmillent en effet d‘expressions étrangères à l‘arménien et présentent une foule de tournures bizzarre qui rendent de prime abord son style fort difficile à saisir». Tale posizione è inizialmente riportata anche in Zarbhanalean (1889: 656 ss.): il futuro editore di Minosse e Leggi cita infatti la mancanza di notizie relative a una traduzione antica delle opere di Platone, che pure era ben conosciuto in area armenofona già dal V secolo, e, menzionando la testimonianza di Grigor stesso, secondo la quale egli avrebbe intrapreso alcune traduzioni platoniche poiché non aveva trovato versioni delle opere del filosofo in armeno (v. infra), procede ad elencare, come tradotti nel suo ―particolare stile e lingua‖, tutti i dialoghi presenti nel manoscritto 1123. Terminato l‘elenco, tuttavia, egli ricorda che ―alcuni filologi‖ non meglio precisati attribuiscono le traduzioni armene di Platone ad un epoca più antica, ed alcuni di essi in particolare le ascrivono al V secolo e a Dawitʿ Anyałtʿ, traduttore tra l‘altro di alcune opere aristoteliche (v. infra), adducendo come motivo una ―somiglianza di lingua e di stile‖. A questo punto Zarbhanalean procede a contestare tale proposta e, implicitamente, anche l‘ipotesi di partenza: sottolineando le caratteristiche non omogenee del dettato dei singoli dialoghi, afferma infatti esplicitamente che essi probabilmente non sono opera di un unico traduttore, e che non esistono elementi sufficienti a stabilirne inconfutabilmente una datazione né una paternità9. Constata inoltre che le traduzioni sembrano indicare una scarsa precisione, o addirittura una difettosa comprensione dell‘originale greco, il che contrasta con quanto si conosce della competenza di Dawitʿ; non esclude, invero, che talune di queste oscurità o divergenze siano imputabili al copista, ma dichiara di non aver trovato notizia in alcun catalogo dell‘eventuale esistenza di altri testimoni, che sarebbero evidentemente utili per un confronto in tal senso.

Il problema dell‘inquadramento storico dei dialoghi è delineato anche in un articolo coevo di Frederick C. Conybeare (1889), che sarà il primo di una serie di contributi da lui dedicati alle versioni armene di Platone. In esso sono esposti ‒ peraltro in inglese, lingua maggiormente fruibile in Occidente ‒ alcuni dati che saranno oggetto di analisi nei successivi studi sul tema. Al fine di valutare correttamente tali dati, è opportuno ricordare che i lavori di Conybeare costituirono per molto tempo ‒ e in taluni casi, come si vedrà, tuttora sono ‒ il riferimento bibliografico imprescindibile per chi affrontasse anche tangenzialmente il tema delle traduzioni armene di Platone, delle loro dipendenze testuali e caratteristiche questo proposito, si noti che Sukias Somal (1825: 33), prima dell‘arrivo in Occidente del ms. 1123, segnalava le traduzioni platoniche di Grigor come perdute; su un altro aspetto della sua testimonianza, molto rilevante per valutare gli indizi esterni in favore di una datazione delle traduzioni platoniche conservate, si tornerà più estesamente alla conclusione di questa sezione del testo.

8

La datazione delle opere di Filone è stata, a sua volta, oggetto di discussione, anche all‘interno del più ampio dibattito sulla periodizzazione e datazione della cosiddetta Scuola Ellenizzante. Su quest‘ultima, v. infra, passim; per alcune indicazioni bibliografiche relative nello specifico a Filone, si vedano le voci a lui dedicate nei repertori di Thomson (1995 e 2007).

9

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traduttologiche e, ovviamente, dell‘assegnazione ad una specifica fase della letteratura armena10. Tuttavia essi, oltre ad essere oggi, inevitabilmente, datati, sono intrinsecamente viziati da alcune pecche, non ultima la fiducia nel dettato delle edizioni ottocentesche dei dialoghi (Tramaxōsowtʿiwnkʿ, 1877 e 1890), che costituiscono il punto di riferimento principale, se non unico, dello studioso, soprattutto per quanto riguarda la costituzione del testo (cfr. Finazzi, 1990a: 67 per le Leggi; Aimi, 2008-2009: 13; 18), ma non sono invece, in molti casi, riproduzioni attendibili del manoscritto. Emblematica in proposito è l‘affermazione presente in Conybeare (1891a: 193), secondo la quale «A. Suqrean [sic] (…) deserves all praise for the careful manner in which he gives the text of the manuscript».

Nel corso del tempo, l‘opinione di Conybeare sulla possibile datazione delle traduzioni armene non è rimasta uniforme, spaziando dal V all‘XI secolo per poi fissarsi sulla data seriore, sebbene, si noti, ancora in Conybeare (1895: 300) egli dimostrava una certa flessibilità in merito, affermando che «the old Armenian Version (…) was made not later and perhaps two or three centuries earlier than the year 1030 A. D.»11. Riguardo all‘attribuzione ‒ comune o meno ‒ delle versioni di tutti i dialoghi, anche se in Conybeare (1889: 340) egli manteneva una posizione prudente, sottolineando una presunta differenza stilistica almeno tra il Timeo e le altre opere, già in Idem (1891a: 193) affermava senz‘altro che «all five dialogues are rendered by the same hand».

1.2.2 L‘attribuzione a Grigor Magistros

10 Ciò non riguarda solo la letteratura scientifica occidentale: cfr. ad esempio l‘esposizione della

‗questione platonica‘ in Aṙakʿelyan (1959: 631-635). Talora, soprattutto tra studiosi non armenisti, per cui l‘interesse per il Platone armeno è solo collaterale e/o che non hanno accesso alla bibliografia in armeno moderno, Conybeare risulta l‘unica fonte di informazioni, diretta o indiretta, cosicché alcuni errori si trasmettono di contributo in contributo, ed eventuali fraintendimenti non vengono corretti. Un esempio citato da Leroy (1935: 284), Finazzi (1990a: 66-67), Aimi (2008-2009: 20) è la menzione in Burnet (1900: VIII; Leroy indica la p. 4, forse perché si tratta, effettivamente, della quarta pagina della prefazione)di una traduzione del Critone in armeno, che sarebbe stata studiata in Conybeare (1891a) insieme all‘Apologia e all‘Eutifrone. Burnet (1900), si noti, si basò interamente sulle collazioni di Conybeare quando utilizzò il testo armeno nella sua edizione di Apologia e Eutifrone (per i limiti di questa operazione, cfr. Aimi, 2008-2009: 20 e Rossi, 1982-1983: 127 ss.). L‘errata informazione sull‘esistenza di un Critone armeno (oltre all‘Apologia e all‘Eutifrone; è possibile che Timeo, Leggi e Minosse non vengano menzionati perché non rilevanti per l‘edizione in oggetto) è ripresa anche da Croiset (1980: 17; la prima edizione è del 1920), che cita Conybeare e Burnet e, non dispondendo evidentemente di informazioni di prima mano, ritiene inutile utilizzare le lezioni fornite dalle versioni armene, in quanto tutte sarebbero appoggiate da altri testimoni. Alline (1915: 202) elenca correttamente i cinque dialoghi esistenti in traduzione armena, ma afferma a torto che Conybeare li analizzò tutti (quando egli, invece, non condusse un‘analisi filologica sul Timeo).

11

In Conybeare (1889: 340) egli riporta l‘opinione di Padre Garegin Zarbhanalean (le traduzioni sarebbero al più tardi opera di Grigor Magistros; forse del VII secolo) e degli autori del NB (affermando peraltro, erroneamente, che essi propendevano per il VII secolo: cfr. invece supra, a testo), oltre alla propria: VIII o forse persino V secolo. In Idem (1891a: 194), afferma che «the date at which this version was made is not known, and the style gives but little clue. It is not likely to be earlier than the seventh nor later than the eleventh century. Probably it is of the latter date»; nel medesimo contributo la datazione tarda è inoltre messa in relazione con la possibile realizzazione su un esemplare in minuscola (210; cfr. infra). In Idem (1891b: 399) l‘autore sembra propendere nettamente per la datazione bassa: «there is good evidence for supposing that the Armenian Version was made by Gregory Magistros early in the eleventh century» (cfr. ibidem: 413).Per Idem (1895) v. supra, a testo. In Idem (1924: 105) si parla senz‘altro di Grigor Magistros e di una data prossima all‘anno 1000.

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Conybeare non ha mai contraddetto l‘assunto iniziale secondo il quale il terminus ante quem per la realizzazione delle traduzioni platoniche sarebbe individuabile nei primi decenni dell‘XI secolo. Grigor Magistros (c.a. 990-1058: v. Alpi, 2009-2010), che vantava una discendenza da Grigor Lowsaworičʿ evangelizzatore d‘Armenia12, sarebbe infatti «the latest Armenian writer who could have produced them13, for the practice of translating from the Greek died with him» (Conybeare, 1889: 340). Tale affermazione trova eco in Leroy (1935: 283-284), che sottolinea come le vicende della politica e della letteratura armena non permettano di ipotizzare per i dialoghi di Platone una datazione posteriore all‘XI secolo.

In realtà, come sottolinea giustamente Aimi (2008-2009: 27), è opportuno ricordare che la pratica delle traduzioni dal greco non morì con Grigor Magistros. Secondo Yarnley (1976: 51) tale attività, che proseguì per tutto l‘XI secolo, avrebbe interessato testi antichi e patristici, e raggiunto il culmine con il figlio del Magistros, Grigor Vkayasēr14. Egli, che si dedicava alla trasposizione di vite dei santi, martirologi, encomi per feste religiose, opere dei Padri della Chiesa e in generale testi stranieri rilevanti non ancora disponibili in armeno, raccolse intorno a sé dotti che lo assistevano nelle traduzioni (tra i suoi collaboratori nell‘attività erudita, un colofone del 1098 menziona Gēorg Mełr e Kirakos, i cui nomi ritornano anche in altri memoriali: cfr. Akinean, 1930: 561 ss., in particolare le note 22-24)15. Per Grigor Vkayasēr ‒ come per altre figure cronologicamente vicine ‒ è testimoniato un metodo di traduzione sinergico: versioni iniziali realizzate da lui sul greco sarebbero poi state affidate ad altri per una revisione linguistica e retorica16. Opera di traduzione dal greco all‘armeno fu inoltre portata avanti, ad esempio, in collaborazione con un aiutante grecofono (che si occupava della trasposizione linguistica vera e propria), da Nersēs Lambronacʿi (1153/4-1198), a sua volta discendente del Magistros (v. infra): oggetto del suo interesse erano testi di argomento religioso.

Al di là della plausibilità storico-politica, comunque, il principale argomento esterno in favore dell‘attribuzione a Grigor Magistros delle traduzioni platoniche superstiti, ovvero la testimonianza che ha inizialmente indotto gli studiosi a concentrare l‘attenzione su di lui come possibile autore, è contenuta nella sua stessa corrispondenza17. Nella lettera XXI al vardapet Sargis (Langlois, 1869: 52-53; Kostaneancʿ, 1910: 64-66; Leroy, 1935: 279 ss.), egli sembra affermare infatti di avere intrapreso una traduzione del Timeo e del Fedone.

Il brano rilevante recita:

12

Sulla vita e la personalità di Grigor, si vedano, tra gli altri, Langlois (1869 e 1880: 401-403, nel capitolo intitolato Grégoire Magistros, Duc de la Mésopotamie); Leroy (1935: tra le pp. 272 e 273 è riportato l‘albero genealogico della famiglia); Sanjian (1993); Alpi (2009-2010) e bibliografia relativa. Sul suo interesse erudito per il mondo grecofono e sui suoi rapporti politici con Bisanzio, cfr. Yarnley (1976: 49 ss.).

13

Terian (1980: 206), peraltro sostenitore della datazione alta, afferma che Grigor «may belong to the last generation of those who were aware of the underlying Greek syntax», e che sarebbero stati quindi in grado di interpretare le traduzioni ellenizzanti.

14

Per la sua attività di traduzione ‒ che interessava il greco e il siriaco ‒ e per le difficoltà da lui incontrate, cfr. Ter Petrosian (1992: 9, 21-22).

15

La traduzione latina del colofone in questione si trova in Peeters (1946: 374-377).

16

Cfr. Ter Petrosian (1992: 22). V. ibidem (19 ss.) per testimonianze che riguardano traduzioni posteriori a Grigor Magistros, e documentano anche la collaborazione tra armeni, greci e siri, con gli armeni spesso nel ruolo di revisori di versioni preliminari effettuate dai loro collaboratori alloglotti.

17 Sulla lettura di brani platonici come parte del percorso di studi che consigliava ai suoi discepoli, v.

la lettera XLV (Kostaneancʿ, 1910: 105 ss.; numero 8 in Langlois, 1869: 36). La medesima lettera allude anche alla compresenza, nella formazione di costoro, di testi conservati in diverse tradizioni linguistiche, tra cui quella greca, araba e persiana; cfr. (con una certa cautela) Sanjian (1993: 139).

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vasnzi očʿ emkʿ erbēkʿ dadareal i tʿargmanowtʿenē ews. bazowm mateans, zors očʿ emkʿ gteal i mer lezows` zerkows mateansn Płatoni, zTimēosi tramabanowtʿeann [tramabanowtʿiwnn in Zarbhanalean, 1889: 42] ew zPʿedovni (…) bayz ew gteal mer isk i hay lezow greal tʿargmančʿacʿn, zgirs (…)

(Kostaneancʿ, 1910: 66)18,

―poiché non abbiamo ancora mai cessato dalla traduzione: molti libri, che non abbiamo trovato nella nostra lingua, i due libri di Platone, il dialogo di Timeo e quello di Fedone (…); ma abbiamo anche trovato nella nostra lingua armena, scritti dai traduttori, i libri (…)‖.

Nell‘articolo del 1889, Conybeare sembra in realtà non essere certo che questa sia l‘interpretazione corretta del passo in questione: «I do not feel sure that the writer did not mean to say that the Phaedo and Timaeus are among the books he had found already translated into Armenian»: 340); si confronti in proposito la (strana) traduzione di Yarnley (1976: 49): «[I have found] many works which we have not known in our language: two works by Plato, and [sic: n. d. A.] the plays Timaeus and Phaedo». Yarnley parla in effetti, nella medesima nota, di «discoveries», ma a testo tratta senz‘altro dell‘attività di traduttore di Grigor, attribuendogli i due dialoghi platonici e la versione di Euclide19. Già in 1891a, comunque, Conybeare afferma senz‘altro che «at any rate this writer [sc. Grigor: n. d. A.] in his letters claims to have translated the Timaeus and Phaedo». Secondo Arevńatyan (1971: 10), invece, dal brano è lecito solo dedurre che Grigor abbia cominciato la traduzione dei due dialoghi, ma non che l‘abbia portata a termine (v. infra).

In ogni caso, i dati desumibili dalla lettera XXI non sono, di per sé, probanti. La versione del Fedone non si è conservata; quella del Timeo potrebbe essere identificata o meno con il testo riportato nel ms. 1123. Evidentemente, anche qualora si propendesse per tale identificazione, gli altri dialoghi platonici conservati nel medesimo manoscritto e non menzionati da Grigor – dialoghi «which differ somewhat in style» dal Timeo stesso (Conybeare, 1889: 340; cfr. Finazzi 1990a: 6520) – non dovrebbero essergli necessariamente attribuiti. A questo proposito, Tańean (1890: 160) riporta e si dichiara d‘accordo con un‘opinione presente nella rivista «Arjagankʿ» (pagina 6 del numero I del 1890): nel paragrafo citato, che sottolinea come le parole di Grigor non siano oscure, si afferma che da esse è possibile dedurre che prima del Magistros esistevano versioni armene di tutti i dialoghi platonici, tranne quelle del Timeo e del Fedone, alla cui traduzione si accinse egli stesso. In realtà, anche tale proposta presuppone arbitrariamente elementi non dimostrati, in primis che siano effettivamente esistite traduzioni di altri dialoghi oltre a quelle sopravvissute (e,

18

In Tańean (1890: 159), che dichiara di seguire un manoscritto viennese (probabilmente il n. 27; cfr. Tańean, 1895: 147 arm., 21 ted.), è riportato un testo che presenta minime differenze: Vasn zi očʿ emkʿ erbēkʿ dadareal i tʿargmanowtʿean. ews bazowm mateans` zors očʿ emkʿ gteal i mer lezows, zerkows mateansn Płatonē (ayspēs [la nota è di Tańean: n. d. A.]), zTimēosi tramabanowtʿiwnn ew zPʿedovni (…) bayz gteal mer isk i hay lezow gteal [Tańean segnala che il manoscritto aveva la variante greal, poi corretta dalla stessa penna in gteal: n. d. A.] tʿargmančʿacʿ zgirs (…); ―poiché non abbiamo mai cessato nella traduzione: (abbiamo tradotto) ancora molti libri, che non abbiamo trovato nella nostra lingua, i due libri di Platone, il dialogo di Timeo e quello di Fedone (…) ma abbiamo trovato nella nostra lingua armena trovati dai traduttori i libri…‖.

19

A p. 49 Yarnley parla di Grigor come traduttore competente, «or so it seems from the fragments which survive»: non è esplicitato a che frammenti alluda, anche se, probabilmente, il riferimento è alla traduzione di Euclide, menzionata di seguito insieme al Timeo e al Fedone.

20

Finazzi osserva che «la traduzione del Timeo (…) è condotta in maniera più libera con espansioni e spiegazioni del testo», mentre la versione degli altri dialoghi platonici «è condotta secondo il metodo caratteristico delle versioni armene, in quanto conserva parola per parola il testo originale».

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140

possibilmente, al Fedone). Che la versione del Timeo sia più recente di quella delle altre opere platoniche andrebbe inoltre verificato con un sistematico confronto linguistico, dato che in bibliografia, a seconda dell‘ipotesi preferita, si sottolineano ora la disparità, ora le analogie (Arevńatyan, 1971: 9) che caratterizzano il dettato dei cinque dialoghi. In ogni caso, in linea generale, la creazione a posteriori di una silloge di traduzioni di opere tradizionalmente ascritte al medesimo autore, ovvero di un piccolo corpus dedicato all‘autore stesso, non sarebbe, di per sé, difficile da spiegare (v. infra).

Tanto l‘attribuzione a Grigor della superstite versione del Timeo, quanto la comune paternità dei cinque dialoghi sono sostenute da Leroy (1935)21. Per quanto riguarda la scelta della datazione bassa, egli considera rilevante, tra l‘altro, l‘opinione di Conybeare (1891a: 210) secondo cui il manoscritto greco alla base del Platone armeno doveva essere scritto in minuscola e con le parole già separate, il che collocherebbe l‘impresa dopo il IX secolo (v. infra). Afferma inoltre che, se Grigor, nella sua grande cultura, avesse conosciuto una precedente traduzione del dialogo, non si sarebbe dedicato a realizzarne una nuova; il riferimento è, evidentemente, alla distinzione effettuata nella lettera XXI tra opere già esistenti in armeno ed altre che ancora necessitano di una trasposizione.

A questo proposito, può essere utile ricordare che, in un‘epoca molto vicina a Grigor ‒ intorno all‘anno 986: v. Połarean, 1971: 162 ‒ Samowēl Kamrǰajorecʿi (940? – 1010?) scriveva, nell‘Epistola apologetica a Teodoro Metropolita, quanto segue:

ard tʿēpēs ew očʿ icʿemkʿ hmowt ew tełeak płatonakan perčabanowtʿeamb barjrayownak varžicʿ ew krtʿowtʿeancʿ, saks očʿ owneloy nma hałordowtʿiwn ənd awetaranin

(Girkʿ tʿłtʿocʿ, 1901: 305).

Shirinian (2001: 231; cfr. Stone – Shirinian, 2000) osserva, relativamente a questo passo, che secondo l‘autore «Armenians of his time are not well informed about Plato because he is not transmitted with the Gospel»22. La scelta del verbo transmit lascia, di per sé, legittimi dubbi relativamente all‘interpretazione data da Shirinian al brano in questione. Sembra piuttosto improbabile che si ipotizzi qui un riferimento alla trasmissione testuale ‒ implicando che i testi platonici non sarebbero stati tramandati negli stessi codici in cui era copiato il Vangelo ‒ poiché in ogni caso i testi sacri sarebbero stati difficilmente associati, nella loro fisicità, a opere profane. Potrebbe invece, più plausibilmente, trattarsi di un‘allusione all‘insegnamento: Platone non sarebbe stato spiegato e divulgato contestualmente alle Sacre Scritture. In assenza di ulteriori chiarimenti, la citazione, così intesa, deporrebbe comunque in favore di una ridotta circolazione di Platone in area armenofona a cavallo tra il X e l‘XI secolo, il che sarebbe compatibile con la situazione documentaria che Grigor dichiara di aver trovato. Il dubbio può essere comunque almeno parzialmente chiarito risalendo alla fonte; una traduzione adeguata del testo armeno originale, infatti, sarebbe:

―sebbene non siamo esperti e conoscenti nell‘eloquenza platonica di elevate scienze e dottrine, perché egli non è associato/ unito/ in comunione23 con il Vangelo‖.

21

Non esisterebbero, a suo parere, elementi cogenti contro una attribuzione comune.

22

Cfr. la traduzione italiana di Marco Bais e Sara Mancini Lombardi (77): v. Bibliografia.

23

(9)

141

Partendo da questa resa, l‘interpretazione più probabile è che le dottrine platoniche non fossero sempre e in toto compatibili con gli insegnamenti dei testi sacri: in una comunicazione telematica del 24 maggio 2011, la Professoressa Shirinian stessa si è dichiarata favorevole a una lettura in tal senso. Il brano testimonierebbe dunque, oltre a una ridotta circolazione di Platone, anche la percezione di una sua non totale integrabilità con le dottrine religiose, il che sarebbe confrontabile con i dati riportati supra relativamente all‘Occidente latino. Shirinian (2005) suggerisce, anzi, che simili professioni di ignoranza, talora esagerate, fossero soprattutto funzionali a sottolineare una presa di distanza ideologica dal pensiero pagano24. Platone non è, del resto, menzionato direttamente: il riferimento è all‘eloquenza (perčabanowtʿeamb), e l‘aggettivo płatonakan può significare tanto ―platonica‖ quanto ―degna di Platone‖ («or inčʿ ank ē Płatoni»; Ciakciak, 1837: s.v.). In effetti, il filosofo è spesso citato come l‘Eloquente per antonomasia (si confronti, ad esempio, il brano della Storia in versi di Nersēs IV Ńnorhali riportato infra, in cui Grigor Magistros è descritto come avente l‘eloquenza di Platone), e potrebbe rappresentare più latamente, in questo contesto, la pratica ‒ associata a una produzione filosofica pagana di tenore, contenuto e priorità diverse rispetto agli studi religiosi ‒ di sfruttare retoricamente le possibilità della lingua per parlare elegantemente di argomenti elevati25.

In ogni caso, per quanto riguarda la mancata conoscenza di versioni platoniche in armeno da parte di Grigor, è opportuno osservare che una più antica traduzione del Timeo avrebbe potuto avere una circolazione limitatissima, e sfuggire quindi anche alle indagini dell‘erudito.

Rilevante ai fini della presente analisi è anche l‘esistenza, nella lettera LXX, indirizzata da Grigor all‘emiro Ibrahim (musulmano di madre armena e sul punto di convertirsi al Cristianesimo: v. Langlois, 1869: 34-35; Kostaneancʿ, 1910: 170 ss.), di una parafrasi del cap. 41 del Timeo, che pare improntata a quella inserita nella prefazione alle Definizioni della Filosofia di Dawitʿ Anyałtʿ (Arevńatyan, 1960: 4). Alla luce di questo dato, Leroy (1935: 286) sostiene che, all‘epoca in cui questa lettera fu scritta (forse gli anni 1045-1048), Grigor non doveva avere ancora realizzato la propria traduzione – che coincida o meno con quella del ms. 1123 – perché, in caso contrario, avrebbe citato il proprio lavoro e non la parafrasi piuttosto libera di Dawitʿ. Sui rapporti tra il Timeo armeno, Dawitʿ e Grigor si tornerà ampiamente nel prossimo sottoparagrafo.

1.2.3 Arevńatyan e la proposta di datazione alta

Nel riportare le posizioni della critica in merito alla datazione del Platone armeno si è fatto cenno non solo ad argomenti esterni, di carattere testimoniale e storico-culturale, ma anche all‘opportunità di valutare dati interni che considerino le peculiarità linguistiche dei dialoghi. A questo proposito, è significativo sottolineare che Leroy (1935: 284-285) esclude categoricamente che la lingua e lo stile della traduzione, in virtù del loro carattere fortemente grecizzante, possano essere di alcuna utilità ai fini di una datazione. Proprio un‘analisi di

24

Sul rapporto fondante ma inevitabilmente conflittuale e complesso del pensiero cristiano con la cultura pagana antica ed ellenistica, cfr. Shirinian (2005). In particolare, per il brano di Samowēl in oggetto e per una sua contestualizzazione in relazione ad alcuni loci paralleli, a cui lo legano precise convergenze testuali, si vedano le pagine 61 ss..

25

Cfr. in proposito il brano di Sahak (?) riportato in Shirinian (2005: 61). Per quanto riguarda il dettato del passo di Samowēl, si noti che esso autorizzerebbe, di per sé, a interpretare il pronome nma come non riferito a un ―Platone‖ desumibile dall‘aggettivo, ma piuttosto all‘―eloquenza‖ di stampo platonico, che sarebbe, in tal caso, ―non associata con il Vangelo‖. È opportuno comunque segnalare che la Professoressa Shirinian, nel messaggio telematico citato supra, ha dichiarato di non considerare condivisibile questa interpretazione della sintassi del brano.

(10)

142

questo tipo, condotta utilizzando, come termini contrastivi, altre traduzioni dal greco, rientra però tra i metodi sfruttati da S. S. Arevńatyan, sostenitore di una proposta di datazione alta che ha incontrato molto favore soprattutto in Armenia, e che non è ancora stata sistematicamente contraddetta o confutata in un contributo originale (per quanto riserve siano state avanzate, tangenzialmente, in lavori dedicati ad altri argomenti: v. infra). Dopo aver sottolineato che gli indizi desumibili dalla corrispondenza di Grigor Magistros non sono cogenti (non vi è corrispondenza tra i dialoghi da lui menzionati e quelli sopravvissuti; la notizia che egli abbia intrapreso la traduzione di Timeo e Fedone non garantisce che il progetto sia stato condotto a buon fine), Arevńatyan (1971) censisce infatti alcuni elementi di lessico filosofico ‒ che non riguardano peraltro l‘ambito semantico dell‘essere ‒ presenti nelle versioni armene di Platone, alla luce della periodizzazione proposta da Manandean (1928) per la Yownaban Dprocʿ (che egli sottopone a revisione)26. In base a tale analisi, un‘appartenenza alla prima fase della Scuola Ellenizzante è esclusa, per la presenza di alcuni elementi lessicali che sarebbero invece tipici delle fasi successive: le traduzioni platoniche sarebbero collocabili nel terzo gruppo ‒ il Timeo è elencato in effetti come la prima opera del gruppo stesso ‒ e databili alla prima metà del VI secolo (dopo quelle di Aristotele e Porfirio). A questo proposito, comunque, Terian (1982: 176; cfr. Aimi, 2008-2009: 30), che propende per una classificazione meno rigida dei gruppi di opere ascrivibili alla Scuola Ellenizzante (v. infra), evidenzia come alcune delle parole considerate da Manandean come tipiche del terzo gruppo (nerhakan, makacʿowtʿiwn, əndhanrakan)27, e presenti anche nei dialoghi platonici (tutte e tre compaiono, con diversa frequenza, nel Timeo)28, siano in realtà già attestate in alcune traduzioni di Filone, ascrivibili al primo gruppo.

Le versioni di Platone sarebbero inoltre secondo Arevńatyan più vicine alle opere della seconda fase, per la presenza, ad es. nel Minosse, di forme artificiali di genitivo ampliato in -r, di quanto non lo sia la produzione di Dawitʿ Anyałtʿ, che sarebbe pertanto successiva29.Le opere di Dawitʿ, si noti, furono scritte in prima istanza in greco, e poi tradotte in armeno: Arevńatyan (1981: 35) parla comunque di un‘apparizione pressoché simultanea delle versioni armene, che sarebbe una testimonianza in favore «ou bien de traductions autorisées ou bien de l‘existence d‘un groupe de traducteurs dirigés par l‘auteur au cours de la troisième étape de l‘activité de l‘école hellénisante».

Oltre a respingere l‘attribuzione tradizionale a Grigor Magistros, dunque, Arevńatyan si distanzia anche da proposte di datazione più alta, come quella avanzata da Xačʿikyan (1945)30, che ascriveva le versioni platoniche alla prima fase della Yownaban Dprocʿ, datandole al V secolo (cfr. Conybeare, 1889, in termini puramente speculativi; l‘ipotesi era

26

Cfr. in proposito Arevńatyan (1973: 186 ss.): egli data la prima fase agli anni 450-480; la seconda al periodo compreso tra il 480 e la fine del primo decennio del VI secolo; la terza a quello dal 510 alla fine del VI secolo; la quarta all‘intervallo 610-720. Sul problema della datazione della Yownaban Dprocʿ la letteratura scientifica è molto vasta, e le opinioni divergenti; si vedano, tra i contributi relativamente recenti che riportano anche numerose indicazioni bibliografiche, Terian (1982), che ne pone l‘inizio intorno al 570, e Zekiyan (1997: 84 ss.) e Contin (2007: 34 ss.), che propendono invece per la seconda metà del V secolo. Cfr. anche Mercier (1978-1979).

27

Makacʿowtʿiwn (corrispondente di ) e nerhak (di ), da cui nerhakan deriva, sarebbero stati secondo Manandean (1928: 115, 133-134, 154, 195) creati nel secondo gruppo e usati diffusamente nel terzo; əndhanowr () da cui əndhanrakan deriva, sarebbe invece stato introdotto nel terzo gruppo (ibidem: 160).

28

Nerhakan ricorre molte volte (23.20 ms. = 102.25 st.; 32.29 ms. = 114.5 st.: due occorrenze; 38.8 ms. = 119.31 st.; 42.28/29 ms. = 125.8 st., etc.); makacʿowtʿiwn ha due occorrenze (22.3 ms. = 100.32 st.; 33.15 ms. = 114.27 st.); əndhanrakan una sola (25.17 ms. = 105.5/6 st.).

29

La periodizzazione proposta da Arevńatyan è molto sommariamente riportata, in inglese, in Ter Petrosian (1992: 7).

30

(11)

143

già esclusa in Conybeare, 1891a: v. supra) e citando in supporto della propria tesi presunte convergenze ‒ secondo la condivisibile opinione di Arevńatyan poco cogenti (12) ‒ tra il Timeo armeno e la Araracocʿ meknowtʿiwn di Ełińē31.

Secondo Arevńatyan sarebbero invece proprio le opere di Dawitʿ Anyałtʿ le prime a mostrare tracce di una conoscenza della versione armena di Platone. Egli attribuisce a questo elemento particolare importanza probatoria ai fini della datazione: le affinità dei dialoghi platonici con le caratteristiche lessicali e linguistiche della Yownaban Dprocʿ potrebbero essere infatti, di per sé, giustificabili con una voluta scelta arcaizzante da parte di un autore successivo (cfr. Arevńatyan, 1973: 220). Non a caso, più di un ventennio prima che Arevńatyan esponesse la propria ipotesi, Zanolli (1947: 158), accettando ovviamente l‘attribuzione tradizionale, parlava del «lessico filosofico armeno che (…) era consacrato da una tradizione che partiva da David l’Invitto e giungeva fino al traduttore di Platone, il Magistros». Come osserva Aimi (2008-2009: 26), del resto, «l‘uso ―grecizzante‖ della lingua armena non è una prerogativa delle traduzioni della Yownaban Dprocʿ»32, né, in realtà, della letteratura di traduzione in sé: un esempio sono le Lettere di Grigor Magistros33. Terian (1982: 182) sottolineava a sua volta che «the influence of the Greek language, rather than that of the Greek syntax of translations, may be discerned in writers as early as Eznik Kołbacʿi (…) and as late as Grigor Magistros»34

. La prova di un influsso del Platone armeno sulle opere di Dawitʿ sarebbe però, evidentemente, ben più rilevante, fornendo un effettivo terminus ante quem; gli elementi addotti da Arevńatyan nel corso della dimostrazione non sembrano tuttavia costituire, come si vedrà, indizi irrefutabili in tal senso.

Tra i dati citati a sostegno della collocazione cronologica relativa dei due gruppi di testi, egli menziona le corrispondenze e coincidenze lessicali che sarebbero riscontrabili tra due passi delle Definizioni della Filosofia (Arevńatyan, 196035: 4.34 – 6.1 e 110.13-16), che si collocano peraltro all‘interno di esplicite citazioni platoniche, e i relativi brani del Timeo armeno (27.3-5 ms. = 107.8-9 st.; 33.32-34.1 ms. = 115.14-17 st.). Il primo di essi è già stato menzionato supra, in relazione all‘analisi condotta da Leroy (1935): si tratta infatti della parafrasi di Timeo 41 b 7-8 che trova riscontri nella Lettera LXX di Grigor Magistros; secondo l‘interpretazione di Arevńatyan, dunque, la versione del dialogo platonico avrebbe influenzato i passi del Dawitʿ armeno, a cui avrebbe poi attinto Grigor.

Per valutare opportunamente gli elementi individuati, è opportuno innanzitutto confrontare i testi armeni con i relativi modelli greci ‒ non considerati invece in Arevńatyan (1971) ‒ al fine di comprendere fino a che punto eventuali coincidenze tra le versioni possano dipendere da una identità del testo di partenza e dall‘attuazione di corrispondenze interlinguistiche ben attestate. Si noti, a tal proposito, che Terian (1980: 206), che pure accoglie, come si vedrà, la datazione alta del Platone armeno, ascrive le somiglianze segnalate da Arevńatyan non a un contatto intertestuale, ma all‘utilizzo, da parte dei traduttori, di uno stesso strumento lessicografico, evidentemente a partire da un testo greco affine.

31

Per l‘autore e l‘opera, v. Hairapetian (1995: 127 ss.) e le indicazioni bibliografiche presenti in Thomson (1995 e 2007: s.v.); cfr. Zekiyan (1997).

32

Cfr. le caratteristiche delle cosiddette versioni ‗pre-ellenizzanti‘, soprattutto di testi patristici, riportate da Mowradean (2004). V. ibidem (298) e indicazioni bibliografiche relative per la coesistenza cronologica delle due diverse tecniche di traduzione.

33Sullo stile ellenizzante delle Lettere, e in generale della produzione di Grigor Magistros, cfr. ad es.

Langlois (1869: 23); Leroy (1935: 276-277); Yarnley (1976: 49-50), Sanjian (1993: 141).

34

Contin (2007: 35) ricorda che si danno esempi di lingua grecizzante anche in autori che usano, normalmente, quella classica.

35

Si farà riferimento, in questa sede, all‘edizione critica del 1960, riprodotta in Thomson – Kendall (1983) e, per ovvie ragioni cronologiche, citata in Arevńatyan (1971), e non alla riedizione rivista del 1980, poiché in quest‘ultima non sono riportate le varianti testuali in apparato.

(12)

144

Si tenga presente che la traduzione armena di Dawitʿ è caratterizzata da un usus vertendi che alterna momenti di estrema fedeltà a un approccio decisamente più libero nei confronti del modello (cfr. Calzolari in Calzolari – Barnes, 2009: 45 ss.). Il problema della possibile sinergia tra autore e traduttore (cfr. l‘opinione di Arevńatyan, 1981: 35) rende inoltre più complessa la valutazione del peso che eventuali varianti testuali presenti nella tradizione del greco possono rivestire per una giustificazione delle divergenze con l‘armeno.

Il testo del primo passo, nel Timeo, si presenta così (si riporta una sezione più ampia di quella selezionata per il confronto lessicale da Arevńatyan, al fine di facilitare la contestualizzazione):



  /  (41 b 7 – c 2)

―di specie mortali ne restano ancora tre non generate; e, non essendo nate queste, il cielo sarà incompiuto: infatti non avrà in sé tutte le specie di esseri viventi, ma deve averle, se è destinato ad essere compiuto in modo adeguato‖,

mah/kanacʿow` ews ayl eris seṙkʿ anełkʿ en` ew socʿa očʿ ełelocʿ erkinkʿn [?]36

ankatar icʿē` zi zamenayn seṙs kendaneacʿ` yinkʿean očʿ ownicʿi ew part ē` etʿē handerjeal ē katareal gol bavaka/nabar` (27.3-7 ms. = 107.8-12 st.)

―tra quelle mortali, ancora altre tre specie sono non generate, e non essendo venute ad essere queste il cielo sarà incompiuto, perché non avrà in sé tutte le specie di viventi, ed è necessario (che le abbia) se è destinato ad essere sufficientemente compiuto‖.

 

Il testo greco e armeno di Dawitʿ (ancora una volta più esteso di quello riportato da Arevńatyan, 1971) è invece il seguente:

  [omittit V]  ‗  ‘  (Busse, 1904: 2.16-21)

―e infatti l‘universo (o ―tutto‖: V) sarebbe stato incompiuto, se non ci fosse stato il genere umano, come mostra anche Platone nel Timeo: rappresenta infatti il demiurgo nell‘atto di dire, dopo la creazione di cielo e terra: ‗ci mancano ancora tre generi mortali e ingenerati, non essendo ancora nati i quali il cielo ‒ dice ‒ è incompiuto‘. Ha chiamato cielo l‘universo, nominando il contenuto dal contenente‖,

kʿanzi / etʿē očʿ ēr mardkayin seṙn, amenayn37

ankatar goyr, orpēs / yayt aṙnē ew Płaton i «Timēosi» tramabanowtʿeann, kʿanzi / ayspēs asē yałags [C: vasn] ararčʿin, etʿē yet aṙneloyn zerkins ew / zerkir, hratarakēr aṙ imanali zōrowtʿiwnsn ayspēs ew əst / aysm ōrinaki, etʿē ayl

36

V. infra.

37

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145

ews erekʿ seṙkʿ mez mahkanacʿowkʿ ane/łanelikʿ [F: mahkanacʿowkʿ pakas gon mez], orocʿ očʿ ełelocʿ` erkin ankatar: Isk mitkʿ asacʿe/locʿn ē əst aysm ōrimaki, etʿē ayl ews erekʿ seṙkʿ mahkanacʿowkʿ / pakas gon mez anełanelikʿ. aysinkʿn takavin očʿ ews [A: čʿew ews] ełealkʿ: / Ard, en erekʿ seṙkʿ mahkanacʿowk. ōdayinkʿ, ǰrayinkʿ ew erkra/yinkʿ, yorocʿ ew mardn ē, orocʿ očʿ ełelocʿ, orpēs asē, erkin an/katar: Erkin kočʿeacʿ zašxarh, i parownakołēn zparowna/kealn nšanakelov, kʿanzi erkin parownakē zašxarh

(Arevńatyan, 1960: 4.29 – 6.7)38

―perché se non ci fosse stato il genere umano, tutto sarebbe stato incompiuto, come mostra anche Platone nel dialogo Timeo, perché dice così riguardo al demiurgo, che dopo aver creato il cielo e la terra, fece una dichiarazione alle potenze intelligenti così e secondo quanto segue (let. ―secondo questo modello‖): ‗ancora altri tre generi mortali a noi sono non generati, non essendo nati i quali, il cielo (sarebbe) incompiuto‘. Ma il significato di queste parole è (da intendersi) secondo quanto segue, che ci sono ancora altre tre specie mortali per noi mancanti (e) non generate: cioè, non ancora venute ad essere. Ora, ci sono tre generi mortali: esseri dell‘aria, dell‘acqua e della terra, tra i quali c‘è anche l‘essere umano, non essendo nati i quali, come dice, il cielo (sarebbe) incompiuto. Ha chiamato cielo il mondo, indicando il contenuto dal contenente, perché il cielo contiene il mondo‖.

Arevńatyan (1971: 15) individua graficamente le presunte coincidenze lessicali che suggerirebbero un contatto tra i testi; innanzitutto, egli evidenzia mahkanacʿow` ews ayl eris seṙkʿ anełkʿ en del Timeo e ayl ews erekʿ seṙkʿ mez mahkanacʿowkʿ anełanelikʿ di Dawitʿ. In realtà, al di là della generale somiglianza del dettato, attribuibile ai parallelismi presenti nei rispettivi modelli greci (e ), si notano immediatamente alcune differenze. La corrispondenza tra gli aggettivi mahkanacʿow e è di per sé ben attestata (cfr. NB: s.v.)e pertanto non particolarmente significativa; d‘altro canto, laddove nel Timeo l‘occorrenza è nella forma base, in Dawitʿ essa presenta la marca di nominativo plurale (il che potrebbe comunque essere imputabile a un accidente della tradizione manoscritta, o dipendere dalla diversa posizione / funzione nella frase: v. infra). Inoltre, se ci si attiene al dettato presente nell‘edizione critica del Dawitʿ armeno (Arevńatyan, 1960), il numerale per ―tre‖ (erekʿ) ha una forma diversa rispetto a quella riportata, per esteso, nel manoscritto platonico (eris). L‘apparato al testo di Dawitʿ non segnala, in effetti, se il numerale fosse indicato, nei manoscritti o in alcuni di essi, in cifra (ovvero in lettere armene, cosa che, peraltro, succede altrove nel ms. 1123), e se lo svolgimento con erekʿ dipenda o meno dall‘editore moderno; poiché tale editore è lo stesso Arevńatyan, tuttavia, si può pensare che egli non avrebbe trascurato di segnalare, in sede di confronto con il Timeo, la possibilità di una coincidenza anche dei numerali. La discrepanza è in ogni caso poco cogente, poiché non si può escludere la possibilità che essa non risalga al testo originale, ma derivi piuttosto da una diversa lettura della cifra da parte di copisti, in qualche punto della tradizione.

Più significativa è senz‘altro la diversa resa di termine che, come è noto, ha rilevanza filosofica all‘interno del discorso del Timeo (v. supra). Nel passo platonico in esame, la nozione pertinente è quella di «nondum creatus» (cfr. Ast, 1956: s.v.), o meglio ―non generato‖, come risulta evidente dal contesto, in cui si tratta, appunto, di tre specie

38

In Arevńatyan (1971: 15) il dettato dei due brani armeni ‒ quelli greci, si ricordi, non sono citati ‒ comprende divergenze rispetto al testo del Timeo come è riportato nell‘edizione a stampa (in questo caso corrispondente al manoscritto), e rispetto all‘edizione critica delle Definizioni della filosofia di Dawitʿ: nello specifico, si tratta di aneł per anełkʿ nel primo caso e dell‘omissione di seṙkʿ dopo ews erekʿ nel secondo. Poiché Arevńatyan (1960) e Tramaxōsowtʿiwnkʿ (1877) sono esplicitamente citati come riferimento bibliografico, e le divergenze non sono presenti in Arevńatyan (1973: 224), si tratta, verosimilmente, di refusi di stampa.

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mortali non ancora poste in essere, senza la nascita delle quali l‘universo sarebbe incompleto; esse saranno poi fatte nascere dagli dei minori ‒ gli di 41 a 739, a cui il demiurgo si rivolge; il Dawitʿ armeno menziona invece come interlocutrici di Dio, in una delle numerose espansioni rispetto al relativo testo greco, le ―potenze intelligenti‖ o imanali zōrowtʿiwns ‒ poiché se fossero generate dal demiurgo sarebbero, a propria volta, immortali. Sia aneł sia

anełaneli sono indicati, nel NB (s.v.), come adeguati corrispondenti

dio; in effetti, per i significati di anełaneli il lessico rimanda alle prime due accezioni ascritte ad aneł, ovvero, rispettivamente, ―che non è creato, ma ha esistenza da sé‖ e ―che non è (ancora) venuto ad essere, non esiste, ma è destinato ad esserci o è possibile‖. Come esempi del secondo valore di anełaneli sono citati proprio il passo di Dawitʿ in questione, indicato come dipendente da Platone (i Płatonē), e Grigor Magistros, ovvero, evidentemente, la sezione della lettera LXX riportata anche da Leroy (1935); si noti che un altro passo di Dawitʿ è invece citato come esempio di uso di aneł nella prima accezione40.

La presenza di ayl in corrispondenza di in Dawitʿ costituisce invece effettivamente un punto di somiglianza con il Timeo armeno. Nel brano platonico, esso si spiega senza difficoltà a partire da (cfr. l‘elenco dei corrispondenti greci di ayl in NB: s.v.), a cui, come suggerisce anche l‘inserzione del verbo essere dopo anełkʿ, viene assegnata una funzione attributiva rispetto a  (―riguardo a quelle mortali, ancora altre tre specie sono non generate‖), laddove il testo greco sembrerebbe favorire, data la posizione reciproca degli elementi, una interpretazione in funzione predicativa (―ancora, di specie mortali, ne restano tre non generate‖). Il testo greco di Dawitʿ, d‘altra parte, con l‘uso di manifesta indubbiamente una interpretazione predicativa del platonico, di cui riproduce il contenuto affermando che ―ci restano ancora tre specie mortali e non generate‖. Il fatto che il traduttore armeno opti, anche in questo caso, per la resa con ayl invece che con una forma verbale (quale, ad esempio, mnan o mnay), oltre ad eliminare la congiunzione tra mahkanacʿowkʿ e anełanelik cosicché il secondo aggettivo sembra assumere funzione predicativa41, potrebbe essere ascritto all‘influsso del Timeo armeno, ma potrebbe anche essersi prodotto indipendentemente, per una interpretazione di quasicome rafforzativo di (cfr. LSJ: s.v. per l‘uso impersonale nel senso di «it remains») o semplicemente per un approccio libero al testo. L‘elemento non è di per sé sufficiente a provare una dipendenza, tanto più che, nel valutare la complessa questione dei rapporti tra i quattro testi in esame (Timeo greco e armeno e Dawitʿ greco e armeno), non è da escludere la possibilità che il traduttore di Dawitʿ avesse in mente o potesse consultare il dettato greco del Timeo, il che avrebbe potuto esercitare un‘interferenza al momento della traduzione stessa, laddove le citazioni platoniche del Dawitʿ greco divergono dalla fonte. La combinazione ayl ews compare, comunque, nel seguito del brano, nel punto in cui il Dawitʿ armeno, distaccandosi dal greco, spiega il contenuto della citazione platonica; in questo secondo caso è però presente pakas gon, (―sono mancanti‖) che ripropone il contenuto espresso da  (cfr. NB: s.v. per la corrispondenza), e non a caso si è introdotto, in parte della tradizione (ms. F), anche nella citazione stessa.

Per quanto riguarda la sequenza očʿ ełelocʿ` erkin ankatar, a sua volta evidenziata da Arevńatyan (1971), essa ricorre, in effetti, identica nei due testi ‒ probabilmente, come si

39

Sulla traduzione armena di questo passo in rapporto all‘interpretazione del greco, v. Dragonetti (1988: 80-81).

40

Ciò potrebbe, forse, suggerire una diversa specializzazione semantica dei due termini in Dawitʿ? Evidentemente la questione richiederebbe ulteriori indagini, che esulano, però, dallo scopo della presente ricerca.

41

Cfr. la traduzione di Thomson – Kendall (1983: 5-7): «there still remained three mortal genera to be made».

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vedrà a breve, la coincidenza riguarda anche l‘uso del nome del cielo al singolare ‒ sebbene il Dawitʿ armeno mantenga, come soggetto del genitivo assoluto, il relativo orocʿ presente nel modello greco, senza adeguarsi al dimostrativo (ew socʿa) del Timeo. Il traduttore del dialogo platonico ha reso, in questo caso, il testo di partenza verbum de verbo, e ciò riguarda anche la presenza di icʿē dopo ankatar in corrispondenza di Poiché il dettato del Dawitʿ armeno presenta, invece, piccole discrepanze rispetto a quello greco ( , si potrebbe essere tentati, ancora una volta, di ricorrere all‘ipotesi di un contatto intertestuale al fine di renderne conto. Di fatto, però, le divergenze non sono tali da non poter essere giustificate autonomamente, soprattutto nel contesto di un brano che si discosta ampiamente dal modello. La mancanza di un corrispondente immediato del parentetico per esempio, si spiega facilmente, se si considera che il Dawitʿ armeno introduce già un verbum dicendi di forma finita

nell‘introduzione alla citazione, rispondendo al semplice

(―rappresenta infatti il demiurgo nell‘atto di dire‖) con il ben più articolato kʿanzi ayspēs asē yałags ararčʿin, etʿē (…) hratarakēr aṙ imanali zōrowtʿiwnsn ayspēs ew əst aysm ōrinaki, etʿē… (―poiché così dice riguardo al creatore, che (…) dichiarava alle potenze intelligenti così e in questo modo, che…‖). Per quanto riguarda l‘assenza del verbo essere, la scelta di una frase nominale, che pure non è particolarmente problematica, contrasta con l‘uso sistematico del Timeo armeno, che tende invece a inserire predicati dove il modello non ne presenta; in questo caso, poi, se anche lo scopo fosse stato quello di rispettare la sequenza del brano platonico, mantenendo l‘immediato accostamento di erkin e ankatar, la copula avrebbe potuto essere inserita di seguito, in corrispondenza di quella (al tempo fututo) presente nel Timeo stesso. La resa di con il semplice očʿ (invece che, ad esempio, con očʿ ews o čʿew, čʿew ews: cfr. NB: s.v.) non ha una giustificazione specifica: la scelta potrebbe dipendere dall‘inambiguità del contesto, oppure, effettivamente, dalla forza del modello del Timeo (ma non necessariamente, si noti, da quello armeno: v. supra).

A proposito del nesso erkin ankatar, che ricorre due volte nel brano di Dawitʿ, la presenza del singolare per il nome del cielo, invece del plurale tantum attestato poco sopra (yet aṙneloyn zerkins ew zerkir, ―dopo aver creato il cielo e la terra‖)42

, è coerente con l‘uso prevalente nella traduzione armena del Timeo.

Per quanto riguarda, nello specifico, il passo ―parallelo‖ a quello di Dawitʿ, tuttavia, il testo dell‘edizione ottocentesca (107.9), seguito da Arevńatyan (1971: 15), riporta il segmento relativo al ―cielo incompleto‖ nella forma erkinkʿn ankatar. In realtà non è del tutto chiaro se tale lettura sia corretta: il nome del cielo è indicato infatti nel manoscritto (27.5) con un‘abbreviazione seguita dalla -n dell‘articolo. È in effetti possibile che l‘abbreviazione indichi, come di consueto (cfr. Abrahamyan, 1973: 206)43, erkinkʿ, salvo dove lettere aggiunte specifichino che si tratta di un caso diverso dal nominativo ‒ in tutti gli altri casi in cui il nome del cielo è indicato, nel manoscritto, con l‘abbreviazione, essa è seguita dalla marca -s di articolo o di accusativo plurale, talvolta accompagnata dalla -n dell‘articolo, nel qual caso la -s è sicuramente da interpretare come desinenza di accusativo) ‒ e che per il singolare, in

42

Grigor Magistros nella lettera LXX (Kostaneancʿ, 1910: 179) usa il singolare anche in questo nesso (zerkin ew zerkir); naturalmente ciò può dipendere da una semplice omologazione con le altre occorrenze nel brano (che, come in Dawitʿ, sono al singolare); il nesso zerkin ew zerkir, per giunta in un contesto in cui si parla della creazione, sarebbe comunque stato senz‘altro ben presente alla memoria dell‘autore, dato che compare nel primo verso della Genesi (i skzbanē arar Astowac zerkin ew zerkir, ―in principio Dio creò il cielo e la terra‖). A proposito di alcuni esempi di alternanza erkin / erkinkʿ nella letteratura armena, cfr. Tinti (2010a: 14-15).

43

Sulla presenza di forme di abbreviazione per il nome del ―cielo‖ in manoscritti armeni, in conformità con un uso attestato nella tradizione greca, cfr. Merk (1924: 13).

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quanto forma marcata, si preferisca invece la scrittura per esteso (cfr. 14.8, 16.17, 17.21, 19.14, 21.16, 22.15, etc.). Questa sarebbe, peraltro, l‘unica occorrenza nel dialogo del nominativo plurale articolato erkinkʿn. Il simbolo stesso potrebbe però anche essere inteso come equivalente del solo erkin, mentre ulteriori informazioni di natura morfologica e sintattica sarebbero veicolate dalle lettere ad esso aggiunte: in tal caso, la sequenza in 27.5 dovrebbe svolgersi erkinn. In effetti, considerando che il verbo icʿē è coniugato al singolare e che in genere, se un plurale tantum è soggetto, il predicato è regolarmente concordato al plurale44, è probabile che, come nella maggior parte delle occorrenze nel Timeo, anche in questo caso il nome del cielo sia al singolare.

In ogni caso, la presenza del singolare in erkin ankatar di Dawitʿ ‒ che coesiste, si ricordi, con la forma all‘accusativo nel nesso ―cielo e terra‖ ‒ si giustifica anche indipendentemente dalla problematica occorrenza nel Timeo, alla luce di quanto si legge nel seguito del brano, non riportato da Arevńatyan (1971). Dawitʿ ricorda infatti che Platone, nel passo citato, adotta ―cielo‖ come sinonimo di ―mondo‖, attribuendo tale uso ad un processo metonimico: erkin kočʿeacʿ zašxarh, i parownakołēn zparownakealn nšanakelov, kʿanzi erkin parownakē zašxarh (―ha chiamato cielo il mondo, designando il contenuto dal contenente, poiché il cielo contiene il mondo‖). Ciò è di per sé sufficiente a spiegare una preferenza, in questo caso, per la forma al singolare.

Una riflessione sui nomi con cui è appropriato chiamare il mondo si trova, nel Timeo, in 28 b 2-4:

— [om. F] [om. F ante correctionem]45 —

―invero tutto il cielo ‒ o mondo o anche in quale altro modo sia più appropriato chiamarlo, con questa sia chiamato da noi ‒‖,

tradotto liberamente ma correttamente in 14.8-10 ms. (= 91.23-25 st.):

ew ard` amenayn erkin` kam ašxarh, kam / etʿē ayl inčʿ əndowni a/nowanakočʿowtʿiwn, zayn inčʿ ew anowa/nescʿi

―e ora, tutto il cielo, o mondo, o se ammette un‘altra denominazione, con questa anche sia chiamato‖.

I verbi usati da Dawitʿ per esprimere le nozioni di ―chiamare‖ (kočʿem, in corrispondenza di ) e designare (nšanakem, in corrispondenza di ), non sono, si noti, ripresi dal Timeo, che usa, per rendere le due occorrenze di il verbo anowanem e una perifrasi contenente il sostantivo anowanakočʿowtʿiwn.

Le frasi immediatamente circostanti la sezione considerata da Arevńatyan (1971) forniscono, inoltre, ulteriori elementi utili ai fini di una valutazione comparativa del testo

44

Minassian (1996: 93); cfr., nella Bibbia, esempi di erkinkʿ con verbo al plurale: Isaia 66.1; Giobbe 11.8; 1Cronache 16.31; Gioele 2.10; Atti 7.49. L‘osservazione riportata a testo a proposito delle concordanze soggetto-verbo non contrasta, evidentemente, con quanto si dirà nel capitolo successivo a proposito dell‘associazione di verbo singolare a soggetto plurale in costruzioni calcate sul greco.

45

Per le varianti testuali segnalate a testo, cfr. Jonkers (1989: 150 e 186) e le edizioni critiche di Burnet (1902) e Rivaud (1963), ad loc.

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