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Capitolo 2 GRANDE GUERRA E OCCASIONI D’ARCHEOLOGIA Una guerra diversa

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Capitolo 2

GRANDE GUERRA E OCCASIONI D’ARCHEOLOGIA

Una guerra diversa

Non è l’intenzione di questo lavoro offrire una panoramica storica su quel fenomeno vasto e complesso che è la guerra svoltasi tra il 1914 e il 1918 sul palcoscenico europeo-mediterraneo, panoramica che andrebbe solo ad aggiungersi in ultima posizione a una nutrita lista di studi di gran lunga più competenti e migliori. È però bene avere presente alcune linee guida del conflitto nel quale proponiamo di addentrarci con il metodo archeologico, conflitto che rimane fondamentale per capire la storia di tutto il secolo appena tramontato139.

Guerra mondiale

Del conflitto deflagrato in Europa nel secondo decennio del secolo scorso riconosciamo radici fin nel tramonto del secolo precedente ancora. Il delicato equilibrio tra le nazioni sul suolo del vecchio mondo era andato stabilendosi dal 1870 con un periodo di pace dalle tinte ancora tese e pericolose delle rivendicazioni nazionalistiche un po’ ovunque, anche all’interno degli stati stessi. In ogni caso gli attriti e il conflitto si erano spostati altrove, nel vasto e variegato mondo dell’Africa e dell’Asia: obbiettivo, le colonie. Mantenendo una facciata pacifica nel vecchio continente, le principali nazioni europee tramite alleanze, accordi, tradimenti, colpi di mano e qualche guerra continuavano nelle lontane colonie conflitti e attriti.

L’inizio del nuovo secolo vedeva il delinearsi di due schieramenti di potenze contrapposte: da un lato l’Intesa dell’impero inglese, la Russia zarista e la Francia, dall’altra la Triplice Alleanza – già in piedi dal 1882 – della Germania, dell’Impero Austro-Ungarico e di un Regno d’Italia già molto indeciso, senza contare i numerosi stati “minori” tra le fila di una e dell’altra parte; l’intenzione degli accordi

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internazionali (alcuni dei quali, tra l’altro, non si sarebbero neppure immaginati a vedere i precedenti rapporti dei contraenti che nonostante tutto misero prontamente da parte rancori storici) poteva sembrare quella di evitare una guerra – che già si avvertiva essere catastrofica; in realtà contribuirono a creare una pericolosa sequenza di reazioni a catena violente e travolgenti. A questo si aggiunga una pressante corsa, qualitativa e quantitativa, agli armamenti che rifletteva il pensiero più in voga tra gli stati maggiori: una guerra, una guerra micidiale, ma breve; per tanto bisogna essere i più forti e subito.

Ben si conoscono le circostanze che innescarono la miscela esplosiva con cura preparata negli anni precedenti al 1914: il conflitto austro-serbo in sei giorni era diventato un conflitto Europeo, nel giro di pochi mesi al fronte combattevano truppe provenienti dai quattro punti cardinali. I meccanismi di alleanze e accordi avevano funzionato senza incepparsi, una dopo l’altra le nazioni erano scese in guerra: solo l’Italia tentennava aggrappandosi al carattere puramente difensivo dell’alleanza stipulata con gli Imperi Centrali, aspetto dunque che la teneva fuori dalla guerra scatenata proprio dagli alleati. La guerra presto dilagò: dall’Europa centrale al Mediterraneo, dai mari intorno alla Gran Bretagna fino alle sabbie del Medio Oriente, intere generazioni furono mandate al massacro per pochi palmi di terra. Nel 1915 gli interventisti italiani ebbero la meglio: l’Italia entrò in guerra voltando le spalle agli Imperi Centrali, ma non mise a frutto l’esperienza del primo anno di guerra degli altri belligeranti. La guerra si fermò, impantanata, non fu rapida ma restò micidiale. Nel 1917 una Russia in cerca di rinnovamento uscì dal conflitto che, anziché soluzione, fu il colpo di grazia per i gravissimi problemi interni; gli Stati Uniti e la loro possente economia si unirono nella guerra al fianco dell’Intesa. La pressione sugli Imperi Centrali si fece sentire, nonostante momentanei successi al fronte: la Turchia si arrese il 30 ottobre 1918, l’Austria crollò il 4 novembre dopo Vittorio Veneto, la Germania firmò l’armistizio a Compiègne l’11 dello stesso mese. La Grande Guerra era terminata. A guerra chiusa si ridisegnò il mondo, le conseguenze del nuovo assetto si protraggono fino ad oggi.

Guerra nuova e deludente

Al mondo che si trovò in guerra nel 1914 non mancavano certo gli strumenti per intuire la pericolosità di un conflitto: il secolo XIX, apertosi con le novità degli

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scontri napoleonici, si era chiuso con le sanguinosissime esperienze della guerra di Crimea, la guerra di Secessione, la guerra Anglo-Boera, la guerra Franco-Prussiana e la guerra Russo-Giapponese. Il vecchio modo di fare la guerra si era andato pian piano spegnendosi140: la leva fornisce ai generali enormi masse d’uomini, fortemente legati in una causa comune (difesa della patria molto spesso), la scienza e la tecnica procurano nuove armi, affidabili, sicure, precise, sempre più potenti; tutto ciò influenza la tattica di combattimento portando a evitare sempre più lo scontro ravvicinato all’arma bianca, si sviluppa velocemente l’uso dell’artiglieria, i campi di battaglia sono sempre più vasti, sfruttano al massimo il terreno e gli ostacoli naturali, sono travagliati da buche, trincee, ripari e ostacoli artificiali tra cui si muovono in ordine sparso soldati con colori di divise che tendono ad offrire sempre meno facile bersaglio possibile, le fortificazioni diventano di un’imponenza mai vista prima con enormi terrapieni e con l’uso sempre più frequente del cemento armato141.

Nel 1914 l’Europa non viveva una guerra da almeno una trentina d’anni, cosa che favorì senza dubbio una veloce e densa spinta al progresso generale, traghettando gran parte del vecchio continente verso l’era industriale; non servì, però, a evitare che l’entusiasmo per la guerra dilagasse rapidamente ovunque, anche dietro la spinta di propagande più o meno velate: presa come una cosa nuova, necessaria, addirittura bella, degna di uomini davvero liberi e adulti, la guerra scoppiò con una facilità incredibile142.

Ben presto però, per tutti i livelli sociali e della scala gerarchica militare la guerra risultò deludente: un’illusione di una guerra pulita e bella, una guerra di pulizia, una guerra rapida, lampo, una guerra dove poter essere eroi e mostrare il coraggio virile sul campo dell’onore affrontando a viso aperto il nemico, questo sogno non resse alla realtà concreta e quotidiana143. La guerra che pensavano di trovare esisteva solo nella propaganda, nei racconti, nel mito e in una lettura deviata della realtà storica; il vero volto della battaglia144, della guerra, si mostrò ben diverso da come se lo erano dipinto. Poco dopo l’inizio delle ostilità, gli scontri si arenarono nelle trincee, che divennero l’unico modo di condurre il conflitto: questo si trasformò in un gigantesco, eterno, insensato e inestricabile assedio145 come nessuno se lo era mai immaginato,

140 Per alcuni aspetti si veda Pieri 1968, pp. 122-123, Pieri 1986, pp. 13-23 e Ravenna 2001, pp. 11-13. 141 Prášil 1997, pp. 6-7.

142 Rimando all’affascinante capitolo che Leed (1985, pp. 59-101) offre per addentrarci nella

complessa e variegata umanità del 1914.

143 Audoin-Rouzeau 2002, p. 85. 144 Keegan 1974.

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in cui i ruoli di assediato e assediante non erano più distinguibili; la battaglia cessò di esistere nella sua forma nota fino a quel momento146, il campo di battaglia diventò una lunga e interminabile striscia di terra desolata che non escluse nulla, dalle foreste alle città, tormentata dal fuoco incessante dell’artiglieria. Proprio quest’ultima arma sembra essere la regina di un conflitto ormai a carattere del tutto difensivo per entrambi i contendenti147: la guerra sembra non essere più una guerra d’uomini, ma una guerra di macchine, di industria, di materiale148. La materia, e la materia lavorata dall’uomo nel polmone industriale della patria che deve essere difesa dal nemico, sembra sovrastare e annientare gli uomini in guerra rendendoli del tutto impotenti. Il nemico è invisibile, anonimo, lontano, “scomparso dietro una maschera macchinica”149, la morte è casuale, senza legge, senza motivo, di massa, ad opera di tecnologie fredde e insensibili; la baionetta, l’arma bianca sopravvive come atroce anacronismo150. Il campo di battaglia diventa – o semplicemente torna a mostrare ancora una volta ciò che veramente è – il campo dell’orrore, del terrore, della follia. Fin dall’inizio fu avvertita una pesante e profonda perdita di senso del conflitto in corso, non c’era soluzione né progresso né cedimento e questo sembrava voler durare molto a lungo. Anche l’autocontenimento della violenza, “tradizione” di lunga data nella condotta occidentale della guerra, cessò d’improvviso151: gli uomini al fronte152 si trovarono immersi in spirali di violenza inaudita, gratuita153; non solo, la guerra penetrò anche in contesti ben lontani dal fronte che risucchiava vittime da ambienti accademici, religiosi, civili in ogni parte del paese coinvolto154. La guerra è diventata

146 Pieri 1986, p. 17. Audoin-Rouzeau (2002, p. 18) si chiede se forse più che scomparire la battaglia

non si sia “solamente” trasformata in qualcosa per cui manca un vocabolario adatto a descriverlo.

147 Leed 1985, pp. 144-145. 148

Dopo l’esperienza della Somme nel 1916, i generali tedeschi coniarono Materialschlacht per indicare la nuova tipologia di combattimento (Audoin-Rouzeau 2002, p. 18). Il materiale, la materia per eccellenza è il metallo, il paesaggio bellico si presenta come paesaggio “metallico” (Saunders 2000, p. 55)

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cit. Leed 1985, p. 204; Pieri 1968, p. 123.

150 Pieri 1986, p. 18.

151 Audoin-Rouzeau 2002, p. 20.

152 Evito, per scelta, l’uso del termine “soldati”, categorizzazione qui poco malleabile – a mio parere –

per uno studio antropologico della guerra. Preferisco perciò “uomini”, “uomo-del-fronte”, “combattente” nelle quali è più facile individuare tutta la gamma di sfumature dell’umanità.

153 Questo discorso vale per i livelli strategico-decisionali della condotta della guerra: sul piano

quotidiano, accanto a testimonianze di crudeltà inenarrabili, abbondano quelle di taciti accordi, momentanee tregue, cessazioni di ostilità in numerosi punti del fronte (Leed 1985, pp. 144-146).

154 Pieri 1968, p. 123. L’esempio sotto i nostri occhi sono i numerosissimi monumenti ai caduti

presenti praticamente in ogni città d’Italia e Francia, segno di una guerra che arriva a mietere vittime laddove nemmeno ci era mai arrivata.

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totale155: ogni aspetto dell’esistenza è toccato e sconvolto. Lo stesso rientro in patria per licenza o malattia è diventata occasione per constatare la continuità stessa del conflitto: l’uomo che torna dal fronte, trova una realtà diversa da come l’ha lasciata, una realtà altra che non riesce a comprendere né riesce ad essere compreso da questa156; con il lavoro nelle fabbriche di armi la donna è trasformata da madre pacificatrice custode del focolare in complice della guerra157. Con il carattere mondiale di questa guerra al fronte, l’uomo “europeo” trova al suo fianco tutta la variegata umanità delle colonie, in precedenza per molti solo protagonista di romanzi e racconti esotici; anche per molte colonie è l’inizio di qualcosa di nuovo158.

La guerra del ’14-’18 è avvertita fin da subito come una tragica e profonda frattura con quanto accaduto fino ad allora: una guerra mondiale, lunga, totale, industriale e tecnologica, una guerra grande che non avrebbe mai più dovuto ripetersi.

Guerra di trincea

Approfondendo lo sguardo su questa guerra “nuova”, è bene calarci per un momento nella trincea, principale luogo del conflitto. Appartenente alle opere di fortificazione a carattere difensivo per la fanteria, si presenta come un fossato scavato più o meno parallelo al fronte di combattimento e protetto da un parapetto; più che di trincee singole, tatticamente poco utili almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale, si parla spesso di sistemi di trincee, con zone dedicate a varie tipologie d’utilizzo e caratteristiche diverse (trincee di collegamento, di osservazione, di prima linea, d’avanzamento e così via). Nata durante gli assedi cinquecenteschi, si sviluppa durante il XVIII secolo come efficace strumento tattico il cui utilizzo non andava oltre il corso di una singola campagna; era adoperata per l’avvicinamento alle fortificazioni avversarie assieme a tunnel, camminamenti coperti e ostacoli di ogni tipo159. A livello strategico era usata come copertura di singole, limitate porzioni di

155 Altra parola fresca di conio dopo le esperienze della Somme – questa volta appartenente ai gradini

più bassi della scala gerarchica militare – è Verwüstungschlacht, di cui una buona resa può essere “battaglia totale” (Audoin-Rouzeau 2002, p. 18).

156 Si apre qui tutto il vasto discorso dei reduci-veterani. Rimando al capitolo dedicato in Leed 1985,

pp. 257-282.

157

Saunders 2000, pp. 57-58.

158 Hobsbawn 2006, p. 35 cita l’esempio degli australiani e neozelandesi che formarono la propria

coscienza nazionale proprio sui campi di battaglia di Gallipoli.

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territorio, costringendo così l’avversario all’utilizzo di altre aree160. L’artiglieria fissa usò anche sistemi simili alla trincea, con terrapieni e parapetti creati appositamente da permettere il tiro. I trinceramenti sono poi molto utilizzati nelle guerre coloniali a protezione di accampamenti e insediamenti. Diminuito l’uso in Europa, per l’effetto del ridursi degli assedi e dell’aumento delle battaglie campali, i sistemi di trincee ricompaiono nella Guerra Civile americana a fianco di nuove armi e nuove tattiche di fanteria; nella stessa occasione venne utilizzato anche il filo spinato. Con la fine dell’ottocento e il novecento assistiamo allo sviluppo della guerra di trincea che vede il suo apice proprio nella Grande Guerra161: dal conflitto successivo la trincea perde il suo carattere centrale nella condotta delle ostilità e diventa obsoleta; oggi è utilizzata in piccoli conflitti a bassa tecnologia (guerra Iraq - Iran per esempio). La guerra di trincea, nel suo apice, durante il conflitto ’14-’18, è una guerra statica, di posizione e logoramento. Un sistema di trincee, su un piano puramente teorico, può essere così schematizzato (fig.17):

- la “terra di nessuno”: striscia di terreno tra i due sistemi di trincee avversari più o meno larga, non occupata né occupabile da nessuno dei contendenti;

- reticolati di filo spinato: stesi a protezione della prima linea bloccando del tutto un’avanzata di fanteria, sono continui e fissi ad eccezione di alcuni varchi utilizzati per assalti verso il nemico;

- la prima linea: trincea più avanzata possiede adeguati varchi e punti per l’uscita delle truppe d’assalto; sono presenti anche imbocchi di tunnel in direzione della terra di nessuno (per mine o contromine), ripari e postazioni d’osservazione; la larghezza consente al massimo il passaggio di due uomini, il parapetto può avere delle aperture per il fuoco difensivo o di soppressione;

- le trincee di collegamento: perpendicolari alla prima linea, collegano quest’ultima alle linee arretrate; servono per il movimento delle truppe in attacco o ritirata e del materiale da e verso la prima linea;

- le linee arretrate: almeno una linea di trincee è posta dietro la prima che può essere abbandonata in mano nemica e riconquistata dal contrattacco che dalle linee arretrate può partire; i collegamenti con le trincee avanzate sono controllati da postazioni apposite; pur rimanendo zona di combattimento e soggetta a bombardamento di artiglieria, più ci si allontana dalla prima linea meno la trincea è esposta a pericoli

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quali il fuoco della fanteria e soprattutto dei cecchini; qui sono presenti ripari, punti d’osservazione, postazioni di artiglieria da trincea e zone per la vita quotidiana, tra cui i posti di primo soccorso e i centri di comando; le più arretrate svolgono la funzione di smistamento di uomini e materiali;

- le retrovie: anche molto distanti dalla prima linea non si tratta più di vere e proprie trincee anche se non mancano strutture difensive contro l’artiglieria; sono collegate alle trincee tramite strade, sentieri e alle volte tracciati su rotaia; è il vero motore del fronte, senza il quale ogni scontro non andrebbe avanti; sono presenti infatti ospedali da campo più attrezzati in cui confluiscono i feriti più gravi, posti di comando e informazione, postazioni di artiglieria pesante, campi di volo, accampamenti e alloggiamenti per le truppe in riposo dai combattimenti, strutture per l’immagazzinamento, la gestione e la distribuzione di materiali e generi alimentari; le retrovie sono collegate al mondo “civile” tramite strade e ferrovie; salvo in casi di rottura del fronte, le retrovie non sono soggette a grandi movimenti.

Molte caratteristiche delle trincee dipendono direttamente dalle qualità fisiche dell’area in cui sono realizzate: se già il tracciato non è rettilineo ma zigzagante in modo da gestire al meglio la difesa (limitare i danni dovuti a proiettili shrapnel e evitare il fuoco d’infilata nemico), questo non è disegnato ad arte ma segue al meglio l’andamento del terreno. Lo stesso vale per la tecnica costruttiva e i materiali: su gran parte del fronte occidentale le trincee sono scavate per tutta la loro profondità nella terra, rinforzate da legno, fasciame e cemento; le coperture sono realizzare con legno, ondulato metallico e terra; esistono anche veri e propri bunker, costruzioni interamente realizzate in cemento armato atte a offrire una migliore protezione dai bombardamenti; i ripari sono in genere interrati, con l’uso, dove possibile, di cavità naturali. Sempre sul fronte occidentale, il materiale e la tecnica costruttiva riflettono le scelte strategiche dei costruttori: le linee tedesche sono erette in vista di una permanenza stabile e prolungata delle truppe stanziate prediligendo il cemento, mentre le linee anglo-francesi optano verso la mobilità delle truppe e dunque utilizzano materiali meno resistenti nel tempo. Un’eventuale avanzamento della prima linea o puntava direttamente alla prima linea avversaria, cosa alquanto difficile da realizzare ma anche da gestire, oppure avanzava lentamente sfruttando i crateri di mine o bombardamenti come avamposti nella terra di nessuno. Il caso della guerra di montagna – e di terreni prevalentemente rocciosi, com’è gran parte del teatro del fronte italo-austriaco – testimonia invece la costruzione di trincee solo parzialmente

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scavate nella roccia, con alti parapetti realizzati con pietrame a secco o con legante, o in cemento; per le quote più elevate e le stagioni più rigide anche neve e ghiaccio sono utilizzati. Nell’area carsica abbonda l’utilizzo di cavità naturali, allargate e sistemate con ogni genere di accorgimenti per ospitare grandi numeri di combattenti. Ovunque vengono comunque utilizzati gli ostacoli naturali: fiumi, fossi, crinali ma anche interi villaggi, viadotti ferroviari, massicciate stradali, tutto può venire inserito e usato a proprio vantaggio nella guerra di trincea.

Ritroviamo, nell’idea di un sistema di trincee, alcune intuizioni strategiche comparse già durante il III sec. d.C. nell’Impero Romano, la difesa elastica e la difesa in profondità162: la prima (usata per gran parte della guerra, tatticamente ingegnosa ma psicologicamente debilitante) fa della prima linea uno spazio conteso tra attaccante e difensore, il quale in caso di uno sfondamento della prima linea, dalle linee arretrate può far partire un contrattacco che coglie il nemico stanco e lontano dai suoi rifornimenti di materiale e truppe situati al di là della terra di nessuno. La seconda è invece più adeguata alla realtà della guerra di trincea: rifiutando ogni teorizzazione di linea si viene a creare una rete, un labirinto di piccole squadre di difensori capaci di intrappolare e annientare la forza penetrante dell’avversario163.

Le operazioni venivano condotte, nei vari settori in cui era diviso il fronte, con sequenze di fasi standard che possiamo riassumere così:

- fase di bombardamento di artiglieria: le batterie di artiglieria nelle retrovie e nelle posizioni arretrate bombardano il settore del fronte a portata interessato dall’attacco (per gli ultimi anni di guerra molte informazioni circa bersagli e danni vengono carpite tramite ricognizioni aeree), con lo scopo di danneggiare il più possibile i reticolati e le difese avversarie (in termini di strutture e uomini), o quanto meno di far rifugiare il nemico nei ripari così da impedire o minimizzare il fuoco della fanteria; se la terra di nessuno è molto vasta il fuoco di artiglieria diventa fuoco di sbarramento che si muove in sincronismo con l’avanzare della fanteria164;

- fase di attacco della fanteria: cessato il fuoco dell’artiglieria la fanteria esce dalle trincee e si lancia nella terra di nessuno per arrivare alla prima linea del fronte nemico e conquistarla; è la fase più delicata a causa del fuoco proveniente dalle linee avversarie su fanteria totalmente allo scoperto che avanza su terreno sconvolto e

162 Luttwak 2004.

163 Pieri 1968, pp. 184-185; Leed 1985, p. 139. 164 In inglese è chiamato rolling fire.

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difficile165. Se lo slancio è sufficientemente deciso e incontra un fuoco avversario rarefatto, una parte degli attaccanti arriva alle prime linee nemiche e inizia la conquista della trincea, di cui spesso non si conoscono esattamente le caratteristiche, con bombe a mano e combattimenti corpo a corpo;

- fase di consolidamento/contrattacco: una volta “ripulita” la trincea dal difensore, è necessario avvertire le proprie linee della situazione e difendersi dal contrattacco nemico che proviene dalle linee arretrate e senza difficoltà; molto spesso il nemico ha la meglio perché dispone di truppe fresche e più motivate. In tal caso le truppe attaccanti o sono annientate o subiscono fortissime perdite nel tentativo di rientrare alla posizione di partenza.

Per il resto del tempo in cui non c’erano attacchi, sul fronte si svolgeva una guerra di logoramento, con continue incursioni di reparti speciali contro avamposti o reticolati o le prime linee stesse, bombardamenti notturni e diurni, utilizzo di armi chimiche e tiri di cecchini166.

Uomini in trincea

La realtà di guerra esperita dagli uomini che vi parteciparono non fu così pulita, semplice e lineare come potrebbe sembrare dallo sguardo precedente: il campo di battaglia, spesso solo le prime linee che racchiudevano la temuta terra di nessuno, visto con gli occhi del combattente è ben lontano dal poter essere razionalizzato come ormai gli storici sono in grado di fare oggi.

Un continuo e pesante utilizzo dell’artiglieria e la massiccia e perpetua costruzione di trincee, ripari e ostacoli rendevano lo spazio caotico, totalmente alterato, labirintico167, gli uomini si muovevano su un perenne terreno insicuro, instabile, in continuo sconvolgimento; il tempo era imprecisato, confuso, notte e giorno si distinguevano a tratti, i mesi passavano ma gli assalti, le resistenze, i morti – a migliaia – sembravano inutili, non c’era scontro risolutivo, non c’era sfondamento né accerchiamento. La percezione sensoriale era alterata, il disorientamento frequente168. Persino gli ufficiali, responsabili della visione più generale della situazione e

165 Leed 1985, p. 134. 166

È noto, ormai, che la parola italiana per indicare il tiratore scelto è nata proprio durante il primo conflitto mondiale in riferimento ai tiratori scelti austriaci.

167 Leed 1985, pp. 106-108.

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dell’andamento del conflitto, stentavano a comprendere la realtà delle cose e gli ordini spesso risultavano inefficaci, pericolosi, inutili, carneficine, pure follie. La sensazione più comune era l’impotenza dell’individuo: i fanti erano relegati a strisciare nel fango, a rannicchiarsi sotto terra cercando un riparo, aspettando che cessasse il fuoco d’artiglieria; riemergendo il paesaggio era sconvolto, lo stesso elementare gesto del respiro diventava a tratti disgustante quando non pericoloso, la violenza interpersonale anche nei confronti del nemico diventava difficilmente sopportabile. Per sopravvivere a questa realtà avvertita come senza senso, non restò che la fuga, unica alternativa per la difesa del proprio essere: per molti fuga si tradusse incoscientemente in gravi forme patologiche che fecero la loro comparsa per la prima volta nel panorama medico-militare169; altri tentarono la diserzione con esiti che si ripercossero anche sui compagni. Nell’uomo di trincea trovò terreno fecondo il sentimento religioso con tutta la serie di spazi, immagini, simboli, liturgie personali e comunitarie che questo comporta: non pensiamo solo alle religioni vere e proprie – che pur ebbero una enorme presa su tutti i fronti – ma anche a tutto l’universo di superstizioni-mitologie scaturite soprattutto dall’ambito personale a causa della paura170.

Trincea, paesaggio di vita

Lo spazio “trincea” è quindi un paesaggio, un contesto ben più complesso di teoriche linee parallele disegnate sulle carte, contesto che brulica di vita171. Quelli che si affacciano sulla terra di nessuno possono essere facilmente letti come veri e propri piccoli mondi con propri aspetti sociali, culturali, economici. Al di là dei combattimenti la vita in trincea non trascorreva inerte: le strutture, il cui deterioramento era rapido sia per fenomeni antropici sia per aspetti climatico-ambientali, necessitavano una continua manutenzione; non dimentichiamo la cura delle armi, la gestione del servizio di informazioni e comunicazioni (che comprende la posta personale), gli spostamenti tra le linee; i pasti erano in genere preparati nelle

169 Leed 1985, pp. 217-255.

170 Si veda in particolare ivi, pp. 171-175; Audoin-Rouzeau 2002, pp. 102-121.

171 La figura non è casuale: una sorta di formicaio doveva sembrare la trincea vista dagli aviatori,

reputati gli unici uomini – dietro la suggestione del mito dei cavalieri medievali – che davvero potessero avere uno sguardo d’insieme, puro, umano (e dunque capace di cogliere un senso) di questo conflitto proprio per il motivo della loro posizione, alta, lontana dalla melma confusa delle trincee (Leed 1985, pp. 179-183).

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retrovie e trasportati a ciascuna unità che li consumava in loco; le religioni, secondo le eventuali confessioni, si esprimevano in celebrazioni comunitarie se possibile. Oltre a questi aspetti “ufficiali” della vita, la sfera personale non si esime dall’esprimersi: dove e quando possibile si potevano curare l’igiene personale – già a un livello molto basso – e gli indumenti; i pasti forniti dall’esercito potevano essere “aggiustati” cucinando su modesti e improvvisati fornelli da campo pietanze aggiuntive procurate in loco. Non manca il tempo dedicato a lavori manuali di carattere artigiano: l’uomo al fronte crea, con i materiali a disposizione, ogni genere di manufatti dall’arma rudimentale ai fornelli da campo fino a oggetti d’arte di non poco valore; l’attività manipolatoria è stata uno degli antidoti più utilizzati – anche a livello inconscio – contro gli stati ansiosi e le nevrosi emergenti in un contesto di assoluta impotenza nei confronti della realtà172. Anche la sfera religiosa personale contribuì a rendere sopportabile e in un qualche modo sensata la realtà della trincea; inoltre per alcuni il fronte fu tra le prime occasioni serie di incontro con credenti di diverse confessioni o diverse religioni173, per altri segnò l’inizio o il compimento di un percorso spirituale174 o un ritorno a qualcosa di molto simile all’animismo, riletto in chiave moderna175. I contatti con la patria, con i legami della precedente vita degli uomini combattenti, erano mantenuti tramite missive ma soprattutto attraverso l’azione di ricordo attuata sul fronte; tentativi di offrire letture degli eventi, spesso deviate, e forse qualche svago “intellettuale” erano portati avanti da giornali e pubblicazioni a carattere sia propagandistico sia satirico. La sofferenza personale, a livello fisico ma anche a livello emozionale - psicologico non poteva essere nascosta più di tanto ed era ben magra consolazione sapere il proprio male essere una cosa comune di molti simili.

Memoria di guerra, storia di guerra

Come accennato all’inizio di questa breve parte, la Grande Guerra fu da subito vista e vissuta come evento totalmente nuovo e lacerante la continuità storica che fino a quel momento era concepita come sicura. L’episodio bellico tra il 1914 e il 1918 non fu solo una guerra tra le tante che il mondo aveva conosciuto, ma fu “la” guerra, la 172 Leed 1985, p. 240; Saunders 2000, pp. 47-49. 173 Audoin-Rouzeau 2002, p. 109. 174 ivi, p. 114. 175 Leed 1985, p. 178.

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“Grande Guerra” ed inaugurava un epoca totalmente nuova. Il peso che ha avuto non è affatto trascurabile e lo dimostrano le longeve conseguenze; è bene però segnalare che questo peso si fa sentire anche su quei meccanismi di lettura e comprensione della realtà storica, quali sono la memoria e la storiografia.

La memoria personale è quella maggiormente esposta al peso del nuovo conflitto: non sono stati pochi i reduci che hanno scelto di tacere su molti aspetti essenziali del conflitto, in particolare sulla violenza interpersonale. Scrittori, pittori e ogni altro che ci abbia lasciato qualche testimonianza, parlano sì di violenza, di estrema violenza, ma è sempre anonima, opera di macchine o del nemico: paradossalmente «in guerra si viene uccisi ma non si uccide»176, non si dà mai la morte, al più sono gli altri a darla177. Sono rare, ma presenti, testimonianze diverse nelle quali la memoria fa lo sforzo di riconoscere la violenza inflitta178. Oltre ad alcuni aspetti della violenza, sono assenti quasi del tutto, nella letteratura memoriale della Grande Guerra, i riferimenti all’alterazione del controllo delle funzioni elementari del corpo umano nel momento parossistico del terrore e i riferimenti alla vita sessuale179. Non è certo casuale questo silenzio: il ricordo diventa in questi casi, per questi particolari aspetti, ricordo traumatico; ricordare è sempre ricostruire, rivisitare, quasi rivivere; rivivere quindi momenti traumatici, realtà, scelte e azioni traumatiche, che hanno segnato una frattura priva di senso con la realtà, le scelte e le azioni precedenti, non è quindi per nulla facile. La memoria di contesti di violenze estreme funziona in maniera molto diversa rispetto alle categorie di lettura di contesti consueti, normali: è quindi necessario tenere conto del contesto di queste memorie e approfondirlo, così da poter intuire le conseguenze sulla formulazione di queste, formulazione che può arrivare anche all’ossimoro di Chaunu: «La memoria serve a dimenticare»180.

La memoria collettiva lavora con modalità diverse a causa del largo contributo dato da sistemi ideologici, propagandistici e politico-sociali, pur nutrendosi anche degli apporti dati dalla memoria individuale. Anche in questo caso, comunque, grandi traumi significano un forte senso di colpa e una conseguente forte pulsione al

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cit. Audoin-Rouzeau 2002, p. 30.

177 Chi uccide è sempre il nemico, al più sono i compagni, in particolare i tipi più violenti, meno

graditi e i volontari: esisteva una categoria di combattenti detti “spazzini delle trincee”, “specializzati” nel ripulire le trincee da eventuali nemici rimasti, la cui crudeltà e freddezza erano note a tutti i combattenti. (Audoin-Rouzeau 2002, pp.31-32).

178 Audoin-Rouzeau 2002, p. 31. 179 Audoin-Rouzeau 2002, pp. 34-35.

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silenzio181. Silenzio rotto in maniera solo superficiale dalla rinnovata attenzione alla morte182: si sviluppano velocemente cimiteri per i caduti, monumenti, relative cerimonie e la possente retorica del milite ignoto183. Nascono, a guerra conclusa, ad opera di governi e associazioni di reduci e vittime del conflitto (mogli, genitori, orfani), i memoriali, grandiosi monumenti che segnano il paesaggio in cui si è svolto il conflitto, per non dimenticare, per non permettere più una catastrofe del genere. Accanto a questo, la memoria collettiva viene stimolata dall’apertura di musei, con stili e dinamiche espositive oggi del tutto antiquate che le fanno sembrare più delle Wunderkammer propagandistiche a svantaggio, ovviamente, del proprio avversario184: sono esposte armi catturate al nemico, ricostruzione di ambienti, fotografie e cartine rendono accessibili eventi salienti o semplici quotidianità. Con l’avvento del cinematografo, la guerra arriva sugli schermi e viene privata, in alcuni casi, di quell’aspetto violento che scandalizza e riduce al silenzio, mentre vengono accentuate altre tematiche ritenute più degne e sicuramente apprezzate.

La storiografia non è esente dal peso di qualunque conflitto, tanto meno da questo: fin da subito compare una storiografia aneddotica basata soprattutto su testimonianze, alle volte anche dal sapore apologetico o agiografico; è questa quella che ha grande fortuna in occasione del processo di mitizzazione della guerra operato da molti governi post-bellici, non esclusivamente quelli totalitari. Accanto troviamo una storiografia più tecnica, dedicata ai militari, agli addetti ai lavori, propriamente una storia militare per capire i nuovi meccanismi della guerra.

Anche in lavori di ampio respiro, opere di grandi nomi, rimane comunque forte il pudore nel trattare alcuni aspetti, in particolare la cruda e concreta violenza operata nel conflitto185. È bene anche accorgersi – senza per questo farne una colpa – che in ogni caso la storiografia che ne risulta è ancora molto distaccata, asettica, offrendo uno sguardo dall’alto di cartine, tattiche e strategie: solo con la seconda metà del secolo molti storici cominceranno a guardare onestamente – lontani cioè il più possibile da ogni forma di idealizzazione e di strumentalizzazione politica – dal

181 Audoin-Rouzeau 2002, p. 161. 182

È solo con la Grande Guerra che la società occidentale viene nuovamente messa a confronto con la morte, fenomeno del tutto umano e naturale ma che era stato allontanato sempre più dall’orizzonte di vita dell’uomo occidentale (Freud 1915).

183 Audoin-Rouzeau 2002, pp. 170-186. 184

Cornish 2011; in particolare da segnalare il fatto che anche i veterani entrano a far parte degli oggetti esposti, chiamati a ricordare e rievocare (quando non anche mimare) l’esperienza di trincea (ivi, p. 272).

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basso186 anche la guerra mondiale, affrontando la questione della violenza che lascia intravedere, molto più di quanto non sembri, gli uomini con tutta la complessità di cui sono portatori187. È a partire dal fante nel fango fetido della trincea che la storiografia oggi può finalmente approfondire lo sguardo sull’umanità della Grande Guerra.

Occasioni d’archeologia

Gettando uno sguardo sugli studi riguardanti il primo conflitto mondiale, è curioso constatare un fenomeno singolare: al diminuire delle fonti di informazioni di prima mano, alla scomparsa cioè delle generazioni che hanno vissuto il conflitto, si ha un aumento, non certo vertiginoso ma sicuramente degno di nota, di studi volti a comprendere nuovamente gli eventi storici e gli uomini ivi coinvolti188. Sempre più spesso tra questi studi, principalmente di carattere storico, si inseriscono metodologie d’indagine mai usate prima e attente ad aspetti in precedenza tralasciati e che forniscono nuove informazioni per poter ricostruire l’umanità. Tra queste l’archeologia.

Un’archeologia della Grande Guerra?189

Alcuni estremisti della materia storceranno il naso al sentire che l’archeologia può studiare anche la Grande Guerra: a rigor di logica, l’archeologia non ha alcun limite temporale, si occupa di studiare l’uomo attraverso le sue tracce materiali, qualunque uomo di qualunque contesto cronologico. Il rischio è però di fare del manierismo, giustificando ogni ricerca per il puro gusto della ricerca. Anche affermare che, occupandosi di resti materiali, l’archeologia può occuparsi anche dei resti della Grande Guerra, pare un po’ riduttivo: i collezionisti si interessano di resti materiali,

186 L’idea di “storia dal basso”, a partire dagli ultimi tralasciati da una storiografia troppo ufficiale è

quella nata in seno alla scuola francese degli Annales.

187 Audoin-Rouzeau 2002, p. 5. 188 Saunders 2005, p. 159.

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pur guardando solamente ai cimeli190, come pure i recuperanti immediatamente dopo il conflitto. Nemmeno si può giustificare questo studio sulla base dell’esiguità delle fonti a nostra disposizione riguardanti quel determinato periodo: oltre a interi archivi di documenti ufficiali, abbiamo carte, disegni, fotografie addirittura immagini cinematografiche e testimoni diretti che ricoprono egregiamente il ruolo di fonte storica per la guerra sotto esame. In sostanza, perché aggiungere a questi il dato archeologico? Solo come ulteriore prova di validità delle altre fonti? Per di più la Grande Guerra dimora ancora nell’immaginario europeo come un evento troppo recente, quasi vivo, per essere sottoposto allo sguardo di quei “tecnici” che di solito si occupano di civiltà perdute nel tempo191.

Tutto il grande bagaglio di documenti usati finora per studiare la Grande Guerra sono stati e rimangono fondamentali e utili alla comprensione storica di questo tempo, ma non per questo esauriscono tutta una serie di domande e questioni che rimangono aperte: molti aspetti della quotidianità della guerra mancano di dati nelle fonti, limitando moltissimo studi approfonditi. Un altro grande limite dei documenti a nostra disposizione – ricordiamolo stando attenti a non banalizzare il discorso – è l’inevitabile parzialità: ricostruire l’umanità in conflitto esclusivamente basandosi sulla documentazione lasciata dalla umanità stessa sotto esame, corre il rischio di offrire riflessioni di carattere superficiale e facilmente asservibili ad alimentare una mitologia del conflitto. Uno sguardo tarato anche dallo studio archeo-antropologico dei resti materiali dell’umanità in guerra (resti che offrono una linea indipendente di evidenza della realtà storica), può concorrere al complesso e lento processo di smitizzazione del conflitto e a una comprensione più onesta dell’evento storico192. Non per questo, releghiamo l’archeologia nel ruolo marginale di disciplina ausiliaria chiamata in causa solo per smentire o confermare questa o quell’altra teoria storica: uno studio su qualsiasi evento storico, ma ben di più su un evento di tale portata come la guerra del ’14 – ’18, non può che essere oggi multi-disciplinare, dove cioè diverse metodologie indagano alla pari il medesimo evento193. Negli ultimi anni, in parte per fattori ambientali (come lo scioglimento dei ghiacci in alta quota) in parte per lo sviluppo di nuove aree pesantemente antropizzate, sono tornati alla luce molti resti umani relativi al periodo del conflitto: l’archeologia è una tra le poche discipline

190 “Cimeli” è qui da intendersi etimologicamente, cioè come oggetto mobile prezioso perché antico e

unico (Ravenna 2001, p. 80).

191 Saunders 2005, p. 161. Rimando al successivo paragrafo per l’archeologia del passato recente. 192 Scott & McFeaters 2011, p. 121.

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che riesce a gestire correttamente i ritrovamenti, evitandone il danneggiamento e l’abbandono. Accanto ai resti umani c’è anche l’immensa mole dei resti materiali: non è forse questa una guerra di materiale, una Materialschlacht in cui giocano ruolo fondamentale proprio le “cose”? Quasi del tutto assente dal panorama degli studi, la cultura materiale necessita di adeguata attenzione per poter comprendere l’evento bellico e anche al fine di una corretta valorizzazione e conservazione delle testimonianze di questo194: tutto ciò lo può offrire l’archeologia. Resta da valutare una proposta proveniente proprio dall’Italia, che appena si affaccia in questo ambito: si tratta davvero di una archeologia “autonoma” o, quella che diciamo “archeologia della Grande Guerra”, è solamente un insieme di più archeologie (industriale, storica, simbolica, sociale, antropologica, contemporanea, forense, d’identità … )?195

Tutte queste ragioni d’esistere sono sicuramente valide, ma – per concludere – non c’è migliore giustificazione per l’esistenza e l’esigenza di una archeologia che approfondisca la Grande Guerra della necessità di uno studio attento di ogni aspetto possibile delle radici del nostro contemporaneo: riconoscendo il presente come conseguenza anche della Grande Guerra, lo sguardo archeologico non solo è da non escludersi ma anzi è il benvenuto per una comprensione più profonda del nostro passato e per la creazione della memoria, categoria fondamentale dell’antropologico196.

I dati materiali

Osserviamo ora alcune caratteristiche generali del dato archeologico, anche mostrarne l’apporto specifico. Innanzitutto, anche se non è il caso di fare degli allarmismi, i dati materiali di questa archeologia possono risultare ancora pericolosi per la salute dell’operatore: oltre ai comuni rischi del lavoro a contatto con il terreno (tetano e altre infezioni, crolli, etc.) l’archeologo si trova ad avere a che fare con armi potenzialmente ancora letali. Avere l’accortezza di distinguere una scheggia relativamente innocua (ma ancora tagliente) da un proiettile integro è più che mai

194 Saunders 2000, p. 44.

195 Nicolis 2011, pp. 329-330. La proposta a dire il vero, personalmente, convince poco, pur

riconoscendo che è un buon tentativo per salvare uno studio archeologico del primo conflitto mondiale di fronte a troppo facili scandali accademici.

196 Saunders 2001, p. 107; Saunders 2005, p. 169; Wilson 2011, p. 9. L’archeologia, in quest’ottica,

non solo rientra a pieno titolo nelle discipline antropologiche ma diventa anche disciplina mnemo-genetica (neologismo per rendere l’inglese memory-making di Saunders 2001, p. 107).

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necessario; in alcuni casi è possibile una vera e propria formazione da effettuarsi con specialisti (in genere militari)197. Nel caso di rinvenimento di proiettili intatti è comunque bene far intervenire addetti preparati alla gestione di esplosivi. Al di là di resti ancora pericolosi, l’archeologo ha a che fare con una cultura materiale (inseriamo qui anche le strutture oltre a veri e propri oggetti) prevalentemente standardizzata e di tipo industriale, caratterizzata dalla produzione di “manufatti” in un elevato numero di esemplari tutti uguali: ciò è evidente segno della caratteristica di questa nuova guerra, una guerra industriale. Se interpretazioni su base tipologica di questi “manufatti” rischiano di essere a volte banali e inutili (non necessariamente: anche su prodotti industriali si possono notare tipologie e leggeri processi evolutivi utili per datazioni e letture sociologiche198), è invece interessante la possibilità di distinguere immediatamente reperti particolari comunque presenti: questi sono gli oggetti personali e anche tutto quell’universo legato alla produzione dell’artigianato di trincea. Il fenomeno è ben studiabile e studiato in alcuni “fortunati” casi (citati in seguito): l’artigianato produce, a partire da oggetti già esistenti in abbondanza nel contesto trincea, attraverso la rifunzionalizzazione o l’uso come fonte di materia prima, nuovi manufatti alcuni solo funzionali alla vita di trincea, altri dotati anche di un certo gusto estetico. Questi ultimi rientrano in quella categoria (ancora in fase di studio e di definizione) detta Trench Art: molto diffusi tra veterani e famiglie di partecipanti al conflitto (intesi spesso come souvenir del campo di battaglia), questi oggetti d’arte sono prodotti sia durante il conflitto stesso, sia in fasi immediatamente successive; oggi sono presi di mira anche da un mercato antiquario poco attento, che rischia di perdere ogni legame tra oggetto e contesto199.

Una archeologia recente200

È solamente da una trentina d’anni che nell’orizzonte archeologico si è cominciato a parlare della possibilità di studio con il metodo archeologico della porzione più recente del passato: il cosiddetto passato recente o contemporaneo201 è indagabile archeologicamente esattamente come quello arcaico e ancestrale, non solamente

197 De Meyer & Pype 2009, p. 366.

198 Vedi ad esempio il lavoro su alcuni contenitori di liquidi e semiliquidi (confetture e marmellate)

ritrovati su un tratto del fronte tedesco in Landolt & Lesjean 2009 e Landolt & Decker 2009.

199 Price 2011, p. 104; in particolare Saunders 2000.

200 Mi riferisco qui principalmente a Harrison, 2009; Klausmeier & Purbrick2006. 201 Mutuo sull’inglese recent past e contemporary past.

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pensandolo come banco di prova di metodologie nuove da usare poi altrove, ma come vero e proprio campo di indagine. Questo passo in avanti della ricerca ha avuto inizio nel Nord America nell’ambito della New Archaeology per poi sbarcare nel vecchio continente ed essere affinato nella corrente post-processuale. La vicinanza cronologica del contesto sotto indagine al soggetto indagante influenza non poco la situazione, rendendo la archeologia del passato recente (in ambiente anglosassone chiamata anche Historical Archaeology) diversa da altre specializzazioni: ha a che fare, già detto più volte, con un periodo di cui è ancora viva la memoria e in cui indagare, per tanto, significa andare a toccare (quando non a infastidire) molte realtà che vanno ben al di là dell’accademico; la cultura materiale del passato più recente certo è molto più ricca (sia a livello di migliore conservazione sia a livello quantitativo) e ciò, se da un lato provoca non pochi problemi a una gestione dei dati, rimane comunque una benedizione; l’incrocio dei dati archeologici con i dati provenienti da altre fonti è decisamente più semplice e fornisce risultati del tipo modelli comportamentali202 utili non solo sul piano archeologico ma anche sociologico, forense e dei diritti umani203.

Dato lo scarso lasso di tempo intercorso tra l’evento sotto esame e l’occhio archeologico, non c’è da stupirsi che questa archeologia in particolare lavori spesso in stratigrafie del tutto sconvolte o decisamente impercettibili: solo con determinate condizioni del terreno (compatto a matrice argillo-sabbiosa) un’osservazione quasi micro-stratigrafica può essere utile per distinguere ad esempio i detriti da piccola esplosione.

Dato ragione, a livello di spunti teorici, della possibilità di un’archeologia della Grande Guerra, passiamo ad osservarne le modalità d’esistenza: alcuni tratti sono già stati citati nel primo capitolo in quanto parte dello sviluppo di una più generale archeologia dei conflitti.

Archeologia della Grande Guerra: l’esperienza estera

Le nazioni che per prime si confrontano con una archeologia per il primo conflitto mondiale sono soprattutto quelle maggiormente interessate dal medesimo, sia a livello territoriale sia a livello di perdite umane: in Francia, Belgio e Germania i resti

202 Price 2011, p. 104.

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materiali del conflitto hanno una visibilità anche non mediata dallo strumento archeologico, da sempre sono oggetto di interesse da parte del grande pubblico e di una cerchia di dilettanti-appassionati204; dagli ultimi trent’anni anche l’ambiente più professionale e scientifico si interessa all’argomento. Non escludiamo l’area anglosassone che fornisce numerose opportunità ai suoi studiosi di confrontarsi con questa archeologia sul continente.

Bisogna sottolineare alcuni aspetti che favoriscono gli studi: il fronte copre aree molto ristrette con una concentrazione di attività umane (in questo caso principalmente bellica) elevatissima per un periodo relativamente ristretto. Ciò ha fatto sì che le tracce lasciate siano decisamente profonde arrivando ad alterare lo stesso paesaggio in alcuni casi (figg. 18 e 19); inoltre la continuità di vita post-bellica è stata relativamente bassa con ampie aree coltivate e una scarsa espansione urbana. Le condizioni di conservazione e di visibilità dei resti sono decisamente molto buone: i terreni, per lo più a matrice argillo-sabbiosa, facilitano enormemente i lavori di ricognizione, di scavo e l’osservazione anche di numerose realtà stratigrafiche. Accanto a questi fattori non dimentichiamo lo “slancio” dato dall’archeologia preventiva: legata a grandi lavori pubblici per vie di trasporto ad alta velocità (il TGV per la Francia della fine degli anni ‘80205, l’ampliamento autostradale per il Belgio più recente206) questa archeologia ha offerto a numerosissime équipe multidisciplinari la possibilità di confrontarsi con svariate situazioni d’archeologia tra cui anche con i siti della Grande Guerra207. Dal momento che non esisteva alcuna figura professionale di ambito archeologico con specializzazione sulla Grande Guerra, in stretta collaborazione con storici208 e vari enti museo-memoriali dedicati al conflitto si è potuta aprire una ricca stagione di riflessioni e lavori209.

Sono del 1991 gli scavi per l’individuazione della sepoltura di Alain-Fournier: la ricerca, largamente mediatizzata, portò all’identificazione dei resti dello scrittore francese e alla chiarificazione delle circostanze della morte210. Fu anche tra le prime occasioni in cui funzionari statali e archeologi di enti governativi poterono 204 Saunders 2005, p. 164. 205 Desfossés 2008, pp. 25-28. 206 Dewilde 2011, p. 57. 207 Desfossés 2011, pp. 288-289.

208 Non sono pochi gli storici francesi che auspicavano alla nascita di una archeologia per la Grande

guerra (Saunders 2005, p. 161).

209 Ricordiamo di seguito solo un paio di lavori, giusto per stuzzicare la riflessione. Un rapidissimo

sunto dei lavori francesi si può trovare in Landolt & Lesjean 2009, p. 139 nota 1.

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confrontarsi con la ricchezza offerta dal lavoro archeologico su resti della Grande Guerra: infatti si poté osservare con cura la pratica funeraria della disposizione gerarchica dei corpi, nonché escludere tra le cause della morte la fucilazione (cosa che alcuni frangenti sospettavano per lo scrittore)211. Tra il 1997 e il 1999, con i lavori per la costruzione di un tratto autostradale tra Amiens e Saint-Quentin si perfezionano le ricerche sulle trincee: confrontati i ritrovamenti con i dati di cartografia e fotografie aeree dell’epoca si ha una sorprendente correlazione212. Un caso di rara curiosità è il ritrovamento di un carro armato nelle campagne di Flesquières: localizzato grazie a testimonianze documentarie e orali, dopo alcune valutazioni circa lo stato di conservazione del mezzo, è stato riportato alla luce e spostato nei laboratori per l’adeguato studio e trattamento conservativo. Si tratta di un carro inglese Mark IV female (si precisa, secondo documenti d’archivio, che si tratta del D. 51 “Deborah”, raffigurato anche in una foto d’epoca) usato nel tardo autunno del 1917 per rompere la linea Hindenburg: danneggiato da un’esplosione nella parte anteriore, era stato abbandonato e poi riutilizzato per poco tempo, interrato, come rifugio; perciò le condizioni di conservazione sono risultate ottime e dopo il restauro è stato classificato monumento storico (figg. 20 e 21)213.

Da segnalare gli studi nei dintorni della cittadina francese di Arras214. Il caso di quest’area è interessante perché presenta svariati esempi di contesti archeologici: la città (che subì numerosi danni a edifici storici, le piazze e le strade furono tagliate da trinceramenti), le trincee pochi chilometri a ovest del centro urbano, i “rifugi” sotterranei scavati sotto la città, alcune sepolture. In particolare i lavori si sono concentrati nella vasta area (300 ettari circa) denominata “Actiparc” dove era situata la prima linea: in questa occasione è stato più volte richiesto l’intervento del Centre de déminage al fine di gestire gli ordigni inesplosi trovati in grande quantità e per dare una formazione di base agli operatori215; inoltre è stato analizzato con cura un vero e proprio laboratorio artigianale di trincea che ha fornito importanti dati per ricostruire aspetti inediti di vita quotidiana216.

211 Balbi 2011 (a), pp. 222-223. 212 Desfossés 2008, pp. 30-34. 213 Ivi, pp. 106-110. 214 Desfossés 2008; Desfossés 2011; 215 Desfossés 2008, pp. 35-40.

216 Ivi, pp. 52-59: oltre a identificare numerose categorie di strumenti da lavoro e di oggetti prodotti in

trincea, si è ricostruito il processo produttivo di alcuni di questi, dal materiale “grezzo” (cioè principalmente bossoli o proiettili) passando per oggetti semilavorati fino al prodotto finito.

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Da non dimenticare il ricchissimo apporto degli studi dei depositi di materiali presenti nelle trincee. Nel sud dell’Alsazia (nelle vicinanze di Aspach-Carspach), precedendo dei lavori di ampliamento stradale, è stato possibile esplorare un buon tratto di trincee tedesche, sempre accompagnati – per ragioni di sicurezza – da specialisti della Sécurité Civile: il rinvenimento di un deposito/immondezzaio (fig.22) ha fornito l’occasione per uno studio dei materiali più dettagliato, con particolare attenzione ai contenitori per alimenti, bevande e altro (cfr. fig.11). I risultati, tutt’altro che banali conferme dei racconti della vita di trincea, hanno fornito per la prima volta un chiaro spaccato sulla alimentazione delle truppe tedesche in trincea217. Nel 2007, come già detto altrove, una tavola rotonda, a cui partecipano anche esperti stranieri, mette in chiaro tematiche, problematiche e metodologie della nuova archeologia218.

La riflessione teorica avviene in due occasioni già ricordate: il workshop di Vimy219 e colloquio di Suippes220; da notare l’apertura internazionale di entrambi i momenti. I lavori archeologici sulla Grande Guerra in Belgio iniziano col nuovo millennio: nel 2002 il Ministro fiammingo degli affari interni, della cultura, dei giovani e dell’amministrazione pubblica incaricò l’allora Istituto dei Beni Archeologici221 di valutare lo stato di conservazione dei resti del primo conflitto nell’area di Ypres al fine di poter procedere con l’estensione dell’autostrada A 19. Non esistendo nell’ambiente scientifico belga alcuno specialista nel settore in grado di portare a termine il compito assegnato, si fece ricorso – idea illuminata – a esperti esteri, in particolare anglosassoni: così da un lato ebbe inizio una nuova archeologia per i belgi, dall’altro i ricercatori inglesi ebbero l’opportunità di lavorare sul continente. Questi primi cantieri (preceduti da intense campagne di ricognizione) furono interessanti per quello che riguarda la comprensione di aspetti costruttivi e di vita della “struttura” trincea, senza dimenticare l’incrocio del dato archeologico con fotografie aeree dell’epoca e attuali e con le testimonianze di abitanti locali. Inoltre il ritrovamento di alcuni resti umani provocò una riflessione a livello etico e legislativo. Quasi in

217 Landolt 2009; Landolt & Decker 2009; Landolt & Lesjean 2009; Desfossés 2008, pp. 45-49. 218

Cazals & Prouillet 2007.

219 Bull & Panton 2001.

220 Si veda il rendiconto disponibile in rete (Cazals & Prouillet). 221 Oggi Vlaams Instituut voor het Onroerend Erfgoed.

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contemporanea, queste ricerche furono rese pubbliche attraverso mezzi di comunicazione e apertura di musei, mostre e percorsi legati ai temi della guerra222. Gli studiosi di ambito americano o anglosassone sono decisamente più avvezzi a questa archeologia nuova pur non giocando in casa in quanto a siti: ciò non crea problemi, per di più entra in gioco anche un fattore “patriottico” da non sottovalutare, dal momento che i ricercatori anglo-americani hanno la possibilità di andare a studiare le tracce dei compatrioti che vissero (e morirono) lontano da casa223. La ricerca, oltre agli ambiti “classici” che servono da esempio ai colleghi europei, è molto più variegata e multidisciplinare con apporti di numerose altre scienze allo studio del contesto archeologico del campo di battaglia: contribuiti più strettamente geologici, biologici, ingegneristici e della medicina legale e riflessioni di carattere etnografico, antropologico e metodologico.

È nel 1997 che, per conto del National Army Museum di Londra, un team multidisciplinare (soprannominati No man’s Land224 o Khaki Chums225) comincia gli scavi a Auchonvillers nel dipartimento della Somme con l’Ocean Villas Project (cfr. fig.23)226: lo scopo era quello di esplorare alcune trincee di comunicazione a partire da una cantina usata anch’essa all’epoca della guerra come riparo e di ricostruire e presentare al pubblico un tratto delle strutture ritrovate227. Un lungo lavoro, chiuso solo nel 2004, ha permesso di riconoscere ben sette fasi di vita, compresa la fase di bonifica del dopoguerra, rivelando una pavimentazione in mattoni, canaline di drenaggio e per cavi telefonici e il primo esempio di artigiano di trincea documentato archeologicamente, oltre a numerosi proiettili, alcune rotoli di filo spinato e un pericolosissimo proiettile di fosgene da 77 mm inesploso228.

Il 1998 vede invece l’inizio dei lavori di un team franco-canadese sul sito di Beaumont-Hamel, ceduto formalmente dal governo francese allo stato del Canada come Canadian National Heritage site: questo sito e la vicina cresta di Vimy furono infatti parte del settore dove operò, distinguendosi particolarmente, il corpo di spedizione canadese. Interessanti i lavori che si concentrarono non solo sullo scavo

222 Dewilde 2011; Doyle 2005; De Meyer & Pype 2009 ; Intervento di M. Dewilde in Cazals &

Prouillet 2007.

223

Questo comporta un’attenzione al rinvenimento di resti umani e la conseguente collaborazione con la Commonwealth War Graves Commission.

224 Price 2011, p. 104. 225 Saunders 2002, p. 105. 226

Si rimanda al sito internet, anche se non più aggiornato, per maggiori informazioni (http://www.timetrav.force9.co.uk/Ocean/Ocean.htm).

227 ivi, p. 106.

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mirato di piccole porzioni di “campo di battaglia”, ma anche, allargando lo sguardo, alla comprensione del paesaggio bellico, realtà ben più complessa sia da studiare sia da valorizzare e tutelare229. Proprio legato a questi studi, è stato proposto nel marzo 2000 il workshop internazionale dal titolo “Preserving Meaning and Emotion through Battlefield Terrain”, al termine del quale si redasse la Vimy Charter for Conservation of Battlefield Terrain230: pur non avendo alcun carattere normativo internazionale fornisce un utilissimo strumento di confronto e orientamento per l’ambito archeologico che stiamo esaminando.

L’area di azione di questa archeologia anglosassone e americana non si limita solamente al fronte occidentale, ma arriva a lavorare anche sul meno noto fronte mediorientale: un esempio, i lavori circa l’influenza della geologia nelle scelte strategiche e tattiche negli scontri sulla penisola di Gallipoli231.

Altre grandi nazioni europee, pur coinvolte nella Grande Guerra, non hanno sviluppato ancora, per svariate ragioni, un’attenzione archeologica a quel conflitto: mi riferisco alla Russia, in cui il conflitto si espresse con aspetti in parte diversi (fu meno forte la caratteristica di guerra di trincea) e pur provocò quell’enorme frattura per la storia internazionale e nazionale che è stata la Rivoluzione del 1917, agli stati dell’Europa centro-orientale e alla Turchia (anche se, per quest’ultima, alcuni studi sono stati effettuati da parte di equipe straniere, in particolare anglosassoni).

Il caso dell’Austria è diverso232: il grande entusiasmo da parte di alcuni storici, di giovani laureandi e di gruppi di appassionati porta solo in anni recenti a iniziare la riflessione circa il patrimonio di resti materiali della Grande Guerra, riflessione che necessita però di un appoggio legislativo per il momento non sufficiente. Pur agli albori, l’Austria si sta dedicando particolarmente al fronte alpino (in particolare la zona del fronte carnico), dietro la spinta e la collaborazione anche dell’archeologia dei ghiacciai che si occupa di ritrovamenti – spesso casuali – di resti materiali e resti umani in contesti di alta quota soggetti a un cambiamento termico.

Nel 2003 una decina di sondaggi segnalano la presenza di un accampamento base per una compagnia di fanteria risalente al primo conflitto nei pressi di Seitzersdorf Wolfpassing; seguiranno poi le indagini di alcune sue caratteristiche. Nell’estate dello stesso anno due alpinisti portano all’Istituto di Pre- e Protostoria, Archeologia

229

Saunders 2002, p. 106.

230 Bull & Panton 2001. 231 Doyle 2001.

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Medievale e dell’Età Moderna dell’Università di Innsbruck233 un soprascarpa (fig.24) in paglia recuperato poco sotto la Cima di Solda (Gruppo dell’Ortles): le analisi e i confronti datano il reperto alla Grande Guerra; in seguito alcuni ricercatori visitano il sito di rinvenimento e decidono – vista l’elevata quantità di materiale in discreto stato di conservazione afferibile al contesto bellico – di costruire un database che gestisca i dati e sulla base del quale si possa cominciare a riflettere insieme agli storici di aspetti tecnologici e tattici. L’anno successivo, sempre sulle medesime alture, i ghiacci restituiscono tre salme mummificate dal gelo di Kaiserschützen (fig.25): la gestione dei resti è problematica234 e, dopo una parziale documentazione, i corpi vennero sepolti nel cimitero di guerra di Pejo. Il 2006, sempre all’Università di Innsbruck, vede l’attivazione di un vasto progetto di ricognizione archeologica e censimento tramite GIS delle realtà insediative di una parte delle Alpi Carniche dal mesolitico alla Prima Guerra Mondiale inclusa: a causa di una riduzione di tempo e fondi a disposizione (una volta tanto), le ricerche si sono concentrate in un’unica area guardando nello specifico al periodo bellico. Sono stati classificati circa 26 siti e si sono registrate ottime condizioni di conservazione legate all’alta quota che permettono di osservare e documentare materiale normalmente deperibile come legno, cuoio, cordame, carta; inoltre, vista la scarsa continuità di vita, moltissimi resti sono praticamente tutt’ora in superficie e alcuni ancora in buono stato: tutto questo porta a segnalare l’urgenza innanzitutto di uno studio serio di questi resti prima che i cambiamenti climatici repentini ne alterino la conservazione o che collezionisti senza scrupoli danneggino l’integrità dei siti, inoltre si segnala il forte bisogno di una legislazione adatta alla tutela di tali siti. Nonostante alcuni interventi e alcune intuizioni qui riportate, in Austria una archeologia della Grande Guerra è di là da venire235.

233

Non è da sottovalutare il “coraggio” intellettuale dell’istituto come quello che ha preso in esame il reperto, istituto che formalmente non ha nulla a che fare con l’ambito di studio più proprio a cui il reperto fa riferimento.

234 Più che altro le cause furono l’inadeguatezza di una legislazione mirata allo studio scientifico di

questi resti e alla pesante intromissione di associazioni tradizionaliste venute a conoscenza del ritrovamento attraverso l’ampio risalto dato dai media austriaci.

235 Mi rendo conto di aver dedicato, in quanto a numero di righe, molto più spazio alla situazione

austriaca che non a quella di altri paesi per i quali ho affermato il vasto uso dell’archeologia di cui ci stiamo occupando. Non tragga in inganno, c’è davvero l’imbarazzo della scelta per quel che riguarda i lavori, gli studi e le intuizioni di archeologia della Grande Guerra nelle precedenti nazioni: mi è sembrato opportuno, vista anche la situazione italiana in qualche modo simile, focalizzare un po’ di più l’attenzione sul caso austriaco.

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Archeologia della Grande Guerra: la situazione italiana

La Grande Guerra – che una storiografia un po’ viziata ha visto come ultima guerra d’indipendenza per l’Italia (dopo la quale, sicuramente, il paese trovò grossomodo una configurazione che rimase fino ai nostri giorni) – ha lasciato anche sul suolo italiano numerose tracce. Il fronte si è sviluppato nel nord-est della penisola per circa 600 chilometri, dal golfo di Trieste alla neutrale Svizzera; si tratta di territori prevalentemente montuosi – ad eccezione del tratto meridionale del fronte tra la pianura e i bassi rilievi del Carso – con ambienti tipicamente alpini e altitudini anche elevate. C’è da segnalare che, dopo Caporetto (autunno 1917), il fronte subì un forte e repentino cambiamento: una rotta generale dell’esercito italiano portò gran parte dei combattimenti dalle montagne nord-orientali fino alla pianura veneta, dove si stabilizzarono lungo il fiume Piave.

La linea del fronte sfruttò numerose fortificazioni alpine preesistenti il conflitto e restaurate secondo i nuovi standard; accanto a questo, la guerra di posizione si caratterizzò con lo sfruttamento di contesti ambientali facilmente difendibili (colli, cime, …), di ostacoli e ripari naturali (corsi d’acqua, versanti, anfratti, grotte, doline, …) e con la costruzione di vie di comunicazione montane tutt’oggi esistenti (le cosiddette strade militari). I sistemi di trincee molto spesso sono in parte scavati e in parte costruiti in alzato con materiale rinvenuto in loco oppure trasportato dalle retrovie. La conservazione di contesti in alta quota molto spesso è decisamente buona, salvo incursioni di spericolati appassionati o degradazioni di carattere naturale tipici dell’ambiente montano. La situazione può essere diversa scendendo a quote decisamente più antropizzate che creano un disturbo non indifferente per i resti materiali. Il contesto per uno studio archeologico si presenta non facile: per operare in quota è necessario tener conto delle condizioni climatiche e della difficoltà di accesso che frammentano nel tempo e nello spazio qualsiasi studio. Le zone di guerra a quote più basse sono state invece interessate dall’attività dei cosiddetti “recuperanti”: nell’immediato dopoguerra parte delle popolazioni dei territori colpiti dal conflitto trovò, come (solo) mezzo di sostentamento, il recupero e la rivendita del metallo abbandonato sul terreno sotto forma di armi o materiale da costruzione; “lavoro” non di certo sicuro, senza mezzi termini ha sventrato numerose strutture e alterato altrettanti contesti. A questa attività umana post bellica si aggiungono le opere di memorializzazione di alcune porzioni di paesaggio bellico, soprattutto in

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