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1. Il comportamento del consumatore e la grande distribuzione organizzata

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1. Il comportamento del consumatore e

la grande distribuzione organizzata

Lo scopo principale di questo capitolo è fornire alcuni elementi teorici necessari a introdurre la dual process theory, che sarà trattata nel capitolo due; e a contestualizzare lo studio empirico, oggetto del capitolo tre.

In particolare sarà analizzato il comportamento del consumatore in senso stretto, focalizzando l’attenzione sul consumo negligente e gli acquisti/consumi compulsivi, nonché sui tre approcci principali che lo studiano: approccio cognitivo, comportamentale e lo studio della cultura di consumo. Successivamente, saranno trattati i bisogni che spingono i consumatori ad attivarsi per soddisfarli. L’apprendimento, ossia come i consumatori modificano il proprio comportamento in base all’esperienza. Saranno inoltre discussi gli acquisti di impulso e il problem solving, ovvero come i consumatori realizzano le loro decisioni d’acquisto.

L’ultimo paragrafo è invece relativo alla grande distribuzione organizzata. In questo senso, si è ritenuto opportuno trattare questo argomento dal momento che esso sarà parte integrante del caso di studio.

1.1 Cenni al comportamento del consumatore

Il comportamento del consumatore può essere definito nel seguente modo: “l’insieme dei processi impiegati da individui e gruppi per la valutazione, la scelta, l’utilizzo di prodotti, servizi o altri beni per la soddisfazione di bisogni e desideri” (Dalli, Romani, 2011, p. 5). Possiamo affermare che ogni individuo è un consumatore, che si trova in ogni momento della sua vita a maneggiare con beni e/o servizi, trovandosi abitualmente a dover prendere delle decisioni che possono generare situazioni di conflitto in merito alle proprie scelte d’acquisto e di consumo.

Nonostante alcuni studiosi descrivono il consumatore come un soggetto razionale e ispirato dalla massimizzazione della propria utilità, spesso lo

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troviamo implicato in attività con ricadute potenzialmente o concretamente negative per sé e per la società. Infatti molto spesso ci imbattiamo in termini come consumo negligente e acquisti e consumi compulsivi.

Per consumo negligente si intende un utilizzo improprio di beni e servizi, per esempio guidare l’auto senza allacciare le cinture o parlare al telefonino, nonostante esista una normativa ben precisa che lo vieta (DL 20 giugno 2002, n. 121). Quindi guidare con il telefonino, l’eccesso di velocità, il mancato uso delle cinture e del casco, il consumo di alcolici e di stupefacenti costituiscono comportamenti che, a mente fredda, nessuno di noi considera razionali; eppure le statistiche ci dimostrano quanto sono diffusi (Dalli, Romani, 2011).

O’Guinn e Faber (1989, p. 147) definiscono il consumo compulsivo come “a response to an uncontrollable drive or desire to obtain, use, or experience a

feeling, substance, or activity that leads an individual to repetitively engage in a behavior that will ultimately cause harm to the individual and/or others”. Questi

autori considerano il comportamento compulsivo come un vero e proprio comportamento di dipendenza e le caratteristiche che gli accomunano sono: la presenza di una guida, di un impulso o di uno stimolo che gli coinvolge nel comportamento, la negazione delle conseguenze dannose associate al comportamento e i ripetuti fallimenti nei tentativi di controllarlo o modificarlo (Faber, O’Guinn e Krych 1987). Secondo la Hirschman (1992), i comportamenti compulsivi rientrano in tre grandi categorie: abuso di sostanze (nicotina, alcolici, stimolanti e sedativi, stupefacenti), comportamenti compulsivi in senso stretto (gioco d’azzardo, acquisti compulsivi, cleptomani, abuso di televisione e di internet ecc), disturbi alimentari (anoressia, bulimia, alimentazione scorretta).

Considerando gli approcci teorici in letteratura, secondo MacInnis e Folkes (2010) il tema del comportamento del consumatore va studiato in un’ottica interdisciplinare, permettendo di generare intuizioni che non potrebbero essere ottenute da una qualsiasi disciplina autonoma.

Inizialmente lo studio di tale materia era circoscritta alla psicologia cognitiva e alla microeconomia, dagli anni Settanta in poi si è estesa alla sociologia, antropologia culturale ecc. Ciò è avvenuto sia perché il

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comportamento degli individui è mutato con il trascorrere del tempo e ha richiesto spiegazioni nuove, sia perché l’evoluzione teorica in altri campi ha sviluppato modelli e approcci utili allo studio dei consumi.

I numerosi modelli interpretativi esistenti possono essere ricondotti a tre approcci principali: l’approccio cognitivo, l’approccio comportamentale e lo studio della cultura di consumo.

Analizziamo brevemente questi tre approcci. Il primo approccio (Figura 1.1) prende in considerazione il fatto che nell’ambiente vi è un ampio numero di informazioni alle quali l’individuo è esposto, ma solo un limitato numero di stimoli potrà essere percepito, interpretato e immagazzinato per poi un successivo recupero e utilizzo. Attraverso il processo di attenzione i consumatori fanno una selezione che, in base a caratteristiche individuali, del contesto e dello stimolo, ne fanno entrare solo alcuni nel processo cognitivo per il successivo utilizzo nei processi di comprensione. A tal punto, verranno attribuiti dei significati agli stimoli in base alle conoscenze esistenti. Una volta entrati nella struttura della memoria le conoscenze già presenti potranno essere confermate, modificate o ristrutturate. Durante il processo di integrazione i consumatori prenderanno in esame due o più corsi d’azione in base alle informazioni a disposizione per poi sceglierne una. Quello che otteniamo è una scelta, cioè una previsione di attuare un determinato comportamento.

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Affiancata alla dimensione cognitiva c’è quella affettiva che è stata identificata e considerata fin dall’antichità, ma spesso il suo ruolo è stato sottovalutato e/o trattato come una manifestazione collaterale dei processi cognitivi della quale è stato considerato in particolare l’effetto distorsivo e cioè l’impatto che emozioni e sentimenti hanno nell’impedire agli individui di portare a termine processi cognitivi e tendenzialmente razionali. Per esempio si considerano gli acquisti di impulso (Baumeister, 2002) o di quegli acquisti che, una volta riconsiderati a mente fredda, il consumatore non riesce a giustificare. In definitiva, la dimensione affettiva del comportamento del consumatore costituisce un’area rilevante di per sé e in quanto tale non deve essere considerata come fonte di disturbo per l’attività cognitiva, ma come una dimensione autonoma, parallela e integrata a quella cognitiva (Dalli, Romani, 2011).

Il secondo approccio (Figura 1.2) attribuisce la causa dei comportamenti individuali a influenze esterne, di tipo ambientale, e ritiene irrilevanti gli eventi mentali, considerandoli insondabili (Foxall, 1990, 2003). Si sostiene che gli stimoli provenienti dall’ambiente si presentano all’individuo in associazione tra di loro e ne determinano il comportamento. La progressiva ripetizione delle associazioni tra gli stimoli e tra questi e gli esiti che l’individuo sperimenta costituisce la base per l’accumulazione dell’esperienza e quindi per l’apprendimento spiegabile in termini di condizionamento (Dalli, Romani, 2011).

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Lo studio della cultura di consumo si focalizza principalmente sull’esperienza di consumo e non sull’atto d’acquisto, cosa che invece caratterizza i primi due approcci. L’obiettivo è quello di descrivere e comprendere gli aspetti contestuali, simbolici ed esperienziali del consumatore, oltre che enfatizzare come i consumatori trasformano in modo creativo e personale i significati simbolici codificati nella pubblicità, nei prodotti e nelle marche (Dalli, Romani, 2011). In questo modo consideriamo il consumatore un soggetto creativo che manipola i beni a sua disposizione per dar una miglior rappresentazione di se stesso, della propria identità e del proprio stile di vita in relazione al contesto sociale in cui vive.

E’ necessario specificare che i tre approcci non sono in competizione diretta, anzi possono risultare complementari, e non è possibile sostenere la miglior o minor efficacia di uno rispetto all’altro.

1.2 I bisogni

Il consumatore si attiva verso un atto d’acquisto nel momento in cui percepisce una certa insoddisfazione, cioè un bisogno. In particolar modo i bisogni che i consumatori conoscono sono i bisogni insoddisfatti. Quand’è che si genera un bisogno insoddisfatto? Nel momento in cui il consumatore percepisce una discrepanza tra quello che ha e quello che desidera. Un bisogno insoddisfatto è il motore della motivazione, cioè una vera e propria spinta ad agire finalizzata al perseguimento di un determinato obiettivo che è quello di soddisfare il bisogno in questione. Tanto più la motivazione è forte tanto più aumenta il grado di coinvolgimento, ovvero l’importanza che l’acquirente attribuisce al bene. Va specificato che la motivazione all’acquisto non è esplicabile in modo univoco, perché oltre a variare a seconda del soggetto e dell’intensità può variare anche a seconda del grado di consapevolezza. A questo proposito Trevisani (2002) individua tre gradi di consapevolezza nei moventi d’acquisto: conscio, subconscio e inconscio (Figura 1.3). Nel primo caso l’individuo è mosso da pulsioni del tutto consapevoli e razionali, per esempio la necessità di possedere

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un ombrello se piove molto; nel secondo caso la spinta muove da un livello più profondo e le pulsioni sono poco consapevoli, per esempio la scelta di un capo di abbigliamento da parte di un impiegato di banca, che a priori, inconsapevolmente, esclude dal campo delle proprie scelte soluzioni tipo babbucce orientali; nel terzo caso il soggetto è spinto da motivazioni totalmente istintive, irrazionali, profonde, per esempio un ragazzo maturo decide di recarsi in palestra, spinto da un desiderio di aumentare la propria attrattività riproduttiva ed acquistare maggiori chance di trasmettere i propri geni. Questo movente fisiologico e genetico, di origine animale, può avvenire al di fuori della consapevolezza della persona stessa.

L’inconsapevolezza degli atteggiamenti è un tema che è stato trattato dalla psicanalisi già in tempi passati, a partire dal suo fondatore Sigmund Freud. Per Freud la psiche è per la maggior parte inconscia. Essa assomiglia ad un iceberg, i nove decimi della quale sono nascosti o inconsci, e solo un decimo è in superficie o consapevole. Per questo i 9/10 dei nostri atti sono dettati da motivazioni inconsce. La parte consapevole, poi, si divide tra Io o Ego (la coscienza propriamente detta) e Super io o Super ego, che raccoglie i referenti morali ed educativi. L’Io o Ego media tra motivazioni inconsce e motivazioni morali. La psicoanalisi è pertanto un processo di autoconoscenza, perché aiuta a svelare l’inconscio, e a capire quali sono le motivazioni autentiche dell’individuo rispetto a quelle imposte dai modelli morali o educativi. Questo aspetto sarà approfondito ulteriormente nel capitolo due.

Come afferma Trevisani, il fatto che i movimenti dei consumatori non siano sempre ben chiari, porta ad una riflessione generale: i consumatori e i clienti sono macchine biologiche e sociali il cui funzionamento è lungi dall’essere compreso a pieno.

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Figura 1.3 Analisi dei moventi d'acquisto. (Fonte: Trevisani, 2002)

1.3 Apprendimento

La maggioranza dei comportamenti del consumatore possono essere visti come risultato diretto o indiretto di un processo di apprendimento, il quale può essere definito come: “una modificazione permanente del comportamento dovuta all’esperienza” (Dalli, Romani, 2011, p. 115). Quindi l’acquirente si trova a modificare progressivamente i propri comportamenti a seguito di modifiche dell’ambiente o della propria conoscenza. Riportiamo brevemente le tipologie dell’apprendimento (Figura 1.4).

L’apprendimento diretto presuppone che il consumatore, una volta percepito lo stimolo, elabori una risposta che si rivela in un comportamento diverso rispetto al passato. Tale apprendimento viene spiegato secondo due prospettive:

 L’approccio cognitivo consiste nella capacità dell’individuo di percepire, interpretare ed elaborare le informazioni che riceve dall’ambiente e decidere quale comportamento tenere a tali interpretazioni. Spesso i nuovi significati

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modificano le strutture cognitive presenti in memoria, ma ciò non accade sempre, anche quando sembra palese che la precedente conoscenza è obsoleta o comunque non più adeguata. È infatti essenziale una certa ripetizione di situazioni in cui le strutture consolidate si dimostrano definitivamente superate affinché si sviluppi la necessità di un loro cambiamento.

 L’approccio comportamentale si manifesta nel momento in cui si verifica “un’associazione stabile e non episodica tra stimoli ambientali e risposte individuali, a prescindere dalla considerazione dei relativi mediatori cognitivi o affettivi”. All’interno di questo possono essere distinti il condizionamento classico e il condizionamento attivo. Il primo può essere definito come quel “processo tramite il quale uno stimolo non condizionato che produce effetti noti viene associato a uno stimolo neutro per un numero di volte tale per cui lo stimolo neutro produce effetti simili a quelli dovuti allo stimolo non condizionato”. Il secondo “si manifesta quando viene modificata la probabilità che un individuo metta in pratica un certo comportamento grazie alla modifica degli eventi o delle conseguenze che dipendono da quel comportamento” (Dalli, Romani, 2011, pp. 121 ss.).

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L’apprendimento indiretto si riferisce ai “processi secondo cui gli individui cambiano il proprio comportamento perché osservano il comportamento di altri individui e le relative conseguenze” (Dalli, Romani, 2011, p. 130). L’imitazione si compie se la persona percepisce che attuando quel comportamento ottiene conseguenze positive e, al tempo stesso, evita tali comportamenti, se le conseguenze sono negative. La configurazione più comune dell’apprendimento indiretto è l’imitazione esplicita, ma negli studi troviamo anche il concetto di imitazione implicita e di imitazione verbale.

L’imitazione esplicita riguarda nella messa in pratica da parte del consumatore di un comportamento posto in essere da un modello, che può essere una figura reale, ad esempio un commesso che mostra un prodotto oppure una figura simbolica, come un testimonial presente in uno spot pubblicitario.

Al contrario, nell’imitazione implicita non viene mostrato nessun comportamento o conseguenza, ma viene richiesto di immaginare un modello di riferimento che metta in atto un determinato comportamento e che sperimenta una data conseguenza.

Infine, l’imitazione verbale consiste nel comunicare ai soggetti i comportamenti che i loro simili hanno tenuto nelle stesse circostanze.

1.4 Acquisti d’impulso

Baumeister (2002) considera il comportamento impulsivo come un comportamento non regolamentato e che deriva da un impulso spontaneo, non pianificato. In particolare, l’acquisto d’impulso deriva da un bisogno improvviso di comprare qualcosa, senza nessun anticipo, intenzione o piano e quindi agendo sull’impulso senza porre attenzione o svolgendo un’accurata valutazione se l’acquisto è coerente con i propri obiettivi di lungo termine, ai propositi e ai piani.

Il comportamento impulsivo è più interessante e rilevante quando contraddice alcuni di questi obiettivi di lungo termine come ad esempio il

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risparmio di denaro, perché la persona può rimpiangere di aver ceduto all’impulso.

Perché, allora, le persone non riescono a resistere a questi impulsi? Nel lungo andare, o talvolta anche nello stesso giorno, le persone si augurerebbero di aver resistito all’impulso. Ma resistere ad un impulso dipende dalla capacità della persona di autocontrollarsi. Baumeister (2002) assume che il conflitto tra l’autocontrollo e il desiderio dipende in parte da quanto forte è il desiderio.

L’efficacia di autocontrollarsi dipende da almeno tre principali elementi. Questi sono gli standard, il processo di monitoraggio e la capacità operativa di modificare il comportamento. Se uno qualsiasi di questi non riesce, l’autocontrollo può essere compromesso.

Per quanto riguarda il primo elemento, gli standard si riferiscono agli obiettivi, agli ideali, alle norme e alle altre linee guida che specificano la risposta desiderata. I consumatori che sanno esattamente quello che vogliono hanno meno probabilità a incorrere in acquisti di impulso e in generale sono probabilmente meno vulnerabili alle influenze del personale di vendita, agli inserzionisti e simili. L’incertezza o gli obiettivi contrastanti minano la base per l’autocontrollo e rendono le persone più sensibili. Per esempio, le persone che vanno al centro commerciale senza avere ben chiaro cosa acquistare sono i candidati più promettenti. Cioè, vorrebbero risparmiare, ma vorrebbero anche possedere qualcosa che li renderà felici. Naturalmente, non possono avere la certezza che un particolare acquisto gli conferirà un’elevata felicità, di conseguenza è difficile risolvere il conflitto tra i due obiettivi. Ancora più rilevante, il processo di acquisto può esso stesso renderli felici, almeno nel breve periodo. La ricerca svolta da O’Guinn e Faber (1989) sull’acquisto compulsivo ha concluso che gli acquirenti compulsivi provano più piacere e soddisfazione dal processo di acquisto che dal possedere effettivamente l’articolo. Infatti, Katz (1989) è arrivato alla stessa conclusione in relazione ai taccheggiatori: godevano durante il processo di acquisizione dell'oggetto più di cui godevano nell’avere l’oggetto stesso, e molti degli oggetti rubati sono stati rapidamente dimenticati in un

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cassetto, mentre l’intensa soddisfazione di aver rubato rimase in memoria come una fonte di piacere.

Le persone generalmente vogliono sentirsi bene e quando le persone sono sconvolte l’obiettivo di sentirsi meglio diventa sempre più centrale per le loro azioni. Pertanto, nella misura in cui un consumatore è combattuto tra il risparmio di denaro e la spesa, per il gusto di sentirsi bene, lo stress emotivo può spostare l’equilibrio a favore dell’acquisto.

Baumeister et al. (1994) hanno svolto degli esperimenti di laboratorio per verificare l’ipotesi che un cambiamento di priorità, media il legame tra stress emotivo e la mancanza di autocontrollo.

In particolare, hanno concluso che quando le persone sono sconvolte, l’obiettivo di sentirsi meglio prevale su altri obiettivi di autoregolamentazione (ad esempio, il risparmio di denaro o fare altre cose che porteranno a risultati desiderabili di lungo periodo). In un esperimento, hanno studiato la resistenza della gente a mangiare spuntini sani (Tice, Bratslavsky, e Baumeister 2001). I partecipanti sono stati messi in uno stato d'animo triste e poi gli è stato chiesto di mangiare qualche snack. Le persone tristi, di fatto, hanno mangiato più degli altri. Tuttavia, in una variante di questa procedura, alla metà dei partecipanti gli è stato detto che mangiare non avrebbe migliorato il loro stato d’animo o stato emotivo. Questi partecipanti non hanno mostrato alcun aumento nel mangiare. I loro studi hanno dimostrato che questi comportamenti sono fatti appositamente per il gusto di sentirsi meglio, perché quando viene eliminata la prospettiva di sentirsi meglio, le persone non inducono in questo comportamento.

Il secondo elemento cruciale di autocontrollo è il processo di monitoraggio, che significa tenere traccia del relativo comportamento. Un modo per aiutare a gestire il denaro in modo efficace è scrivere ogni volta che si spende i soldi, anche quanto si è speso e quello che è stato acquistato.

Quando la gente perde traccia del loro comportamento, l’autocontrollo si rompe. Quando le persone tengono traccia in modo accurato del loro denaro e delle spese, gli acquisti impulsivi sono meno probabili.

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Il terzo elemento di autocontrollo è la capacità di cambiare, di alterare il sé. Gli altri due elementi sono inutili senza di esso, la persona potrebbe conoscere che cosa vuole ed essere abbastanza consapevole del proprio comportamento, ma non è in grado di attuare le azioni necessarie per il self perform. Nella specifica situazione di acquisto d’impulso, la questione cruciale è: se la persona può mettere insieme tutto ciò che è necessario per resistere alla tentazione di comprare. Coma fa il sé, in realtà, a produrre questi cambiamenti nelle sue risposte? Come frenare gli impulsi e le risposte che si manifestano? Una revisione delle teorizzazioni passate ha rivelato tre principali tipi di teorie (Baumeister et al. 1994). Una prima teoria coinvolge la volontà e la resistenza. In questa visione, il sé impiega alcuni tipi di risorse di forza e di energia che corrispondono o superano la potenza dell’impulso. Un secondo tipo di teoria coinvolge i processi cognitivi, tra cui la conoscenza del sé e gli imprevisti, come se l’autocontrollo fosse essenzialmente simile a un programma software che può essere caricato in modo da dirigere il comportamento della persona. Il terzo tipo di teoria raffigura l’autocontrollo come abilità.

Queste tre teorie fanno previsioni diverse se le persone devono compiere una sequenza di atti di autocontrollo. Il modello di volontà o di forza suggerisce che parte di questa energia viene spesa per il primo atto, così il secondo atto di autocontrollo sarà meno efficace rispetto a quello che sarebbe normalmente. La teoria cognitiva, al contrario, potrebbe prevedere facilitazioni: il primo atto di autocontrollo sarebbe “caricare il software” o il primo schema rilevante di autocontrollo, e i successivi atti di autocontrollo dovranno essere migliorati perché il sé è già in modalità di autoregolamentazione. La terza teoria, che si basa sull’abilità, prevede un piccolo effetto sugli atti di autocontrollo perché l’abilità rimane essenzialmente la stessa nel corso delle prove consecutive, anche se nel lungo periodo si vede un graduale miglioramento.

Lo stato di ridotta capacità di autocontrollo è chiamato ego depletion perché indica che le risorse cruciali del sé sono state esaurite. Queste risorse operano come energia e forza. Le implicazioni per il comportamento del consumatore sembra chiara, le persone nello stato di ego depletion sono più

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propense a cedere alle tentazioni e a comprare impulsivamente. Le più recenti scoperte di Baumeister hanno esteso il concetto di ego depletion al di là dell’autoregolamentazione. In particolare, facendo scelte e prendendo decisioni sembra di ridurre la stessa risorsa come viene utilizzata per l’autocontrollo (Twenge et al., 2001). Questo può essere particolarmente rilevante per il comportamento dei consumatori, in quanto i consumatori spesso devono effettuare più scelte e può anche provenire da un contesto (ad esempio un lavoro) in cui le decisioni sono obbligatorie. In effetti, alcuni acquisti (come le automobili o la stipulazione di contratti) richiedono al consumatore di effettuare una serie di decisioni. Se ogni decisione, in cui le persone durante una giornata si imbattono, impoverisce leggermente la risorsa, per le decisioni di fine giornata le persone dovrebbero mostrare una tendenza a diventare più impulsivi e avere meno autocontrollo.

Un’altra implicazione di ego depletion è la consapevolezza che l’autocontrollo e il processo decisionale sono costosi ed è per questo che le persone possono tendere a minimizzarli.

Baumeister (2002) parla di autocontrollo come caratteristica, questo perché dal suo articolo si evince che certe persone hanno cronicamente più problemi con l’autocontrollo rispetto ad altre. L’esperienza empirica sostiene che ci sono individuali differenze nell’autocontrollo che formano una aspetto apparentemente stabile di personalità.

La caratteristica della scala dell’autocontrollo è stata mostrata per predire un ampia gamma di risultati desiderabili, coerenti con l’idea che l’autocontrollo ha una più alta capacità adattiva che conferisce una gamma di benefici all’individuo. Le persone con alti livelli di autocontrollo hanno migliori relazioni interpersonali, famiglie più forti e più coese, meno sintomi e problemi psicologici (come somatizzazione, modelli ossessivo-compulsivi, ideazione paranoide), meno problemi emotivi (ansia, rabbia ostile, depressione) e maggiore accettazione di sé e autostima (Tangney e Baumeister 2001). Gli studenti con alto autocontrollo ottengono migliori risultati rispetto ad altri studenti, e dirigenti con

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alto autocontrollo sono valutati dai loro subordinati come più equi e più affidabile di altri leader (Cox, 2000).

C’è anche qualche evidenza che le persone con alto autocontrollo gestiscono i loro soldi meglio di altre persone, risparmiando di più e spendendo meno (Romal, Kaplan, 1995).

Oltre tale differenza, tuttavia, è ulteriormente plausibile che l’autocontrollo intacchi la ricettività delle varie strategie di marketing. La persona con un basso autocontrollo può essere vulnerabili nell’essere sedotta dal momento e un ottimo discorso, sottolineando l’immediata gratificazione, sarebbe attraente e di successo. Al contrario, la persona con alto autocontrollo è più propensa ad acquistare se verrà convinto sul valore e sui benefici che il prodotto potrà dare nel lungo periodo. È probabile che l’acquirente con basso autocontrollo avrà una reazione positiva ad un approccio come: “You will look and feel great in this car”. Al contrario, una persona con alto autocontrollo è più propensa ad acquistare un auto se si sentirà dire: “This car will be reliable and durable and will have a high resale value” (Baumeister 2002).

1.5 Processo decisionale

Il principale approccio per lo studio del processo decisionale reputa le scelte del consumatore come processi articolati e complessi collocabili nel genere schema del problem solving, inteso come una “sequenza coerente e consapevole di azioni volte a risolvere la tensione indotta dalla mancata soddisfazione di un bisogno” (Dalli, Romani, 2011, p. 171).

Secondo Howard (1963) il problem solving è articolato in cinque fasi tra loro strettamente collegate (Tabella 1.1).

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Ricognizione del problema Percezione della diffusione tra la situazione attuale e quella desiderata

Ricerca dell’alternative per la soluzione Ricerca nell’ambiente e nella memoria delle informazioni utili per individuare le alternative adatte a risolvere il problema

Valutazione delle alternative Valutazione delle alternative sulla base di una serie di criteri

Scelta (acquisto) Scelta e acquisto dell’alternativa migliore Consumo e valutazione post acquisto

dell’alternativa scelta

Utilizzo (messa in pratica) dell’alternativa scelta e valutazione in base alla sua funzionalità nella soluzione del problema

Tabella 1.1 Il processo di risoluzione dei problemi (Fonte: Dalli, Romani, 2011)

Le principali assunzioni che stanno alla base di tale approccio, per l’analisi del processo decisionale del consumatore, sono le seguenti: sul mercato ci sono due o più alternative e il consumatore deve necessariamente sceglierne una; i criteri di valutazione rendono più facile la previsione delle conseguenze della scelta di ogni alternativa dati gli obiettivi del consumatore; il consumatore usa regole decisionali e procedure di valutazione per determinare l’alternativa da scegliere; le informazioni usate per le decisioni provengono da fonti esterne così come dalla memoria del consumatore.

Non tutti i processi decisionali presentano tale laboriosità e anche quando tutte le fasi vengono poste in atto, non necessariamente viene rispettata la sequenza lineare.

Dalli e Romani (2011) affermano che i processi decisionali dei consumatori assumono caratteristiche molto diverse e possono essere distinti sulla base del tempo e dell’impegno cognitivo e comportamentale che richiedono. Possiamo trovarci di fronte a processi decisionali rapidi e di facile risoluzione oppure a processi più complessi che richiedono al consumatore uno sforzo mentale maggiore. Sulla base di questi parametri si distinguono i processi decisionali in estensivi, limitati e routinari.

I processi decisionali estensivi comportano una complessa e difficile fase di ricerca delle alternative e di definizione dei criteri di scelta. Richiedono un elevato coinvolgimento di risorse cognitive e comportamentali e hanno una

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durata piuttosto lunga. Solitamente tali processi vengono messi in atto quando il consumatore deve scegliere, per la prima volta, una particolare alternativa nell’ambito di una classe di prodotto importante.

I processi decisionali limitati presentano meno problemi al consumatore, in quanto la ricerca delle informazioni e l’individuazione dei criteri di selezione sono più rapide e superficiali. Generalmente il consumatore ha una discreta conoscenza della classe di prodotto, ma deve raccogliere informazioni precise circa alcune caratteristiche specifiche dell’offerta.

I processi decisionali routinari si attuano in modo automatico senza uno sforzo cognitivo e comportamentale rilevante e con il minimo impegno di tempo. In generale queste decisioni consistono nella replica di schemi cognitivi e comportamentali consolidati e applicati senza la minima variazione da una volta all’altra.

La tipologia di processo posto in essere dal consumatore può essere influenzata da numerosi fattori, tra cui il coinvolgimento, l’esperienza, la frequenza d’acquisto, il rischio percepito e il valore unitario del prodotto.

Prediligere un approccio basato sul problem solving per l’analisi del processo decisionale rappresenta la sostanziale coerenza e razionalità del consumatore. In effetti gli esseri umani possono essere reputati generalmente piuttosto razionali, che basano le proprie decisioni sulle informazioni disponibili. Inoltre tendono a considerare le possibili conseguenze delle proprie azioni prima di decidere se e quali intraprendere. Tuttavia può essere utile specificare l’esistenza e approfondire le caratteristiche di almeno due tipi di comportamento d’acquisto non spiegabili sulla base del modello convenzionale del processo decisionale, ossia la ricerca della varietà e gli acquisti di impulso, quest’ultimo già approfondito precedentemente (§1.4).

Per quanto concerne la ricerca della varietà, essa si esplica nella spontanea tendenza del consumatore a cercare il cambiamento, la varietà, nelle scelte d’acquisto fatte nel tempo in relazione a una data classe di prodotto (McAlister, Pessemier, 1982). L’individuo decide di comprare un prodotto diverso da quello abituale esclusivamente per l’elevata importanza che attribuisce al fatto di

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cambiare: è il cambiamento in se stesso l’elemento fondamentale, indipendentemente dall’esito atteso della scelta. McAlister e Pessemier (1982) affermano che il comportamento varia conseguentemente dalle variazioni del problema di scelta che può essere attribuito a variazioni del set di alternative adeguate, variazioni di gusto o dalla volontà di rompere il routinario comportamento.

Il set di alternative adeguate potrebbe cambiare per molti motivi: nuovi prodotti che vengono lanciati continuamente; un cambiamento nel marketing mix (prodotto, prezzo, promozione o distribuzione) che può essere concettualizzato come l’aggiunta di una nuova alternativa al set e la cancellazione di una vecchia; il trasferimento in un nuovo quartiere, regione o paese.

È ovvio che un cambiamento nel comportamento potrebbe derivare da un cambiamento di gusti. I gusti potrebbero essere cambiati da influenze esterne, come la pubblicità, che rende esplicito il problema e propone la soluzione adeguata, o da influenze interne, come processo di maturazione.

Infine, una modifica dei vincoli di scelta potrebbe portare alla selezione di un diverso comportamento. Per esempio, un improvviso aumento (o diminuzione) della ricchezza, maggior tempo libero o dell’energia potrà influenzare e modificare la scelta che un soggetto avrebbe fatto.

Un importante lavoro è stato fatto per far luce sul processo interno, con cui i cambiamenti nella scelta portano a cambiamenti nel comportamento. Alcuni psicologi (ad esempio, Berlyne 1960; Driver e Streufert 1964; Fiske e Maddi 1961; e Fromkin 1976) suggeriscono che la motivazione per la ricerca della varietà può estendersi al di là di molteplici esigenze e cambiamenti del problema di scelta. “Novità”, “imprevedibilità”, “cambiamento” e “complessità” sono perseguiti perché sono intrinsecamente soddisfacenti (Maddi, 1968). Inoltre, il proprio comportamento è tipicamente influenzato da quello dei propri coetanei (Fromkin, 1976). McAlister e Pessemier (1982) sostengono che gli aspetti intrinsecamente soddisfacenti di cambiamento del comportamento sono causati sia da forze interne (intrapersonali) che esterne ( interpersonali) per l'individuo. Le forze interne sono i desideri per ottenere le alternative non familiari, per

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mettere a confronto tra quelle familiari e per ottenere nuove informazioni. Le forze esterne sono bisogni di affiliazione di gruppo e identità personale.

1.5.1 Ricognizione del problema

L’evento che dà inizio al processo che conduce alla decisione d’acquisto è la ricognizione del problema. In questa fase si formano le basi per la composizione del consideration set in cui sarà compiuta la scelta finale.

La ricognizione del problema si sostanzia in una discrepanza tra lo stato attuale del consumatore e quello desiderato, proprio tale discrepanza, se rilevante, fa attivare l’individuo e lo induce a una decisione d’acquisto.

Esistono molteplici situazioni in grado di attivare la ricognizione del problema da parte del consumatore, verranno esposte quelle più significative.

Le cause di cambiamento dello stato attuale sono rappresentate da: l’estinzione delle scorte disponibili dei beni; l’insoddisfazione generata dai prodotti a disposizione; il cambiamento della situazione economica.

Le cause di cambiamento dello stato desiderato sono invece: il cambiamento nei bisogni e nei desideri; la disponibilità di nuove informazioni, che rende il soggetto consapevole dell’esistenza di soluzioni alternative per bisogni esistenti; l’acquisto di nuovi prodotti.

I fattori dei cambiamenti dello stato attuale e di quello desiderato possono essere anche strettamente interdipendenti e la ricognizione del problema è quindi generata da entrambi.

Infine, è importante specificare che in determinate situazioni i consumatori possono non riconoscere l’esistenza di un problema e il compito delle aziende è proprio quello di “condurre” gli individui a identificare problemi che i loro prodotti sono in grado di soddisfare. Ecco che entra in gioco la pubblicità, il quale ruolo è quello di rendere esplicito il problema e di proporre la soluzione adeguata.

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1.5.2 La ricerca delle informazioni

La fase che segue alla ricognizione del problema è la ricerca delle informazioni relative alle caratteristiche delle alternative adeguate per la soluzione. La ricerca può consistere in un recupero delle conoscenze presenti in memoria, processo interno, oppure nell’acquisizione di informazioni provenienti dall’ambiente, processo esterno.

Il processo interno si innesca automaticamente e immediatamente a seguito della ricognizione del problema e si concretizza in una ricerca nella memoria a lungo termine di informazioni utili per il processo decisionale appena iniziato.

Nel momento in cui l’informazione disponibile non è sufficiente per prendere una decisione il consumatore è spinto a cercare nozioni aggiuntive presso fonti esterne. Si distingue la ricerca preacquisto da quella continuativa, in quanto la prima consiste nell’attivazione della ricerca esterna in seguito alla ricognizione del problema e diretta a ottenere dall’ambiente le informazioni inerenti alla specifica decisione d’acquisto, e la seconda nell’acquisizione di informazioni indipendentemente dall’esistenza di un problema da risolvere. Anche la motivazione che sta alla base delle sue ricerche è diversa: nelle ricerca preacquisto ci sta il desiderio di fare una buona scelta tra le diverse alternative, mentre nella ricerca continuativa l’obiettivo è quello di acquisire nuove conoscenze che saranno impiegate per decisioni d’acquisto future, o più semplicemente dal divertimento e dal piacere che tale attività può dare.

E’ interessante osservare che la ricerca continuativa influenza la ricerca preacquisto, infatti se i consumatori sono attivi nella ricerca continuativa avranno una notevole mole di informazioni in memoria e di conseguenza ridurranno la ricerca preacquisto necessaria per selezionare il miglior prodotto.

Studiando l’attività di ricerca esterna del consumatore sono tre gli aspetti sui quali può essere interessante porre l’attenzione:

 il tipo di informazioni ricercate;  le determinanti dell’attività di ricerca;

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 le fonti di informazione disponibili sul mercato.

Per quanto riguarda il primo aspetto si considerano principalmente tre tipi di informazioni: i criteri di valutazione, cioè l’individuazione delle caratteristiche che il bene dovrebbe possedere per soddisfare i bisogni del consumatore; le alternative disponibili sul mercato, in quanto il consumatore, per motivi cognitivi e di tempo, non possiede la capacità di considerare tutte le alternative disponibili, ma solamente un sotto insieme (consideration set); le caratteristiche di ogni alternativa disponibile in relazione ai criteri di valutazione.

Per quanto concerne il secondo aspetto ci sono molte variabili in grado di influenzare il processo di ricerca esterna e che possono essere ricondotte a quattro categorie concettuali: l’abilità nella ricerca di informazioni, ovvero la capacità individuale di cercare ed elaborare informazioni; la motivazione a ricercare informazioni, cioè il desiderio del consumatore ad impegnarsi in un energica attività di raccolta e di elaborazione; i benefici percepiti della ricerca, definiti come i vantaggi che l’individuo considera di poter ottenere con lo svolgimento di tale attività; i costi percepiti della ricerca che rappresentano, oltre dall’impegno economico richiesto, anche da fattori non monetari come il tempo e lo sforzo cognitivo e comportamentale voluto.

Infine, le fonti di informazioni che il consumatore può adoperare durante il processo di ricerca esterna possono essere classificate nel seguente modo: informazioni fornite dal produttore, attraverso le comunicazioni pubblicitari, le brochure, le etichette informative apposte sui prodotti ecc; informazioni fornite dal rivenditore attraverso le indicazioni del personale addetto alla vendita ecc; informazioni fornite da organizzazioni indipendenti, facciamo riferimento ad agenzie specializzate o da fonti pubbliche; informazioni ottenute tramite contatti interpersonali e, infine, ottenute tramite un esame diretto del prodotto.

Le fonti più credibili e a basso impegno sono quelle interne e personali. Anche la pubblicità e le informazioni di marketing sono abbastanza alla portata del consumatore, ma non risultano particolarmente credibili in quanto parziali. Le fonti pubbliche e la prova diretta del prodotto sono poco usate perché di

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accesso difficile e/o impegnative, anche se sono altamente credibili e utili in quanto imparziali e ispirate alla tutela del consumatore.

1.5.3 La valutazione e la scelta delle alternative

Dalli e Romani (2011, p. 184) definiscono la valutazione e la scelta nel seguente modo: la valutazione (o giudizio) consiste “nell’assegnare valore alle alternative disponibili in base ai criteri prestabiliti” e la scelta “nell’individuazione dell’alternativa preferita che conduce all’acquisto”. Sebbene i due compiti siano interdipendenti, possono essere considerati separatamente sul piano logico e pratico.

Considerando i compiti di valutazione, Rumiati (1990) riscontra due modi per esprimere giudizio: il primo riguarda la stima della probabilità di accadimento di fatti o eventi; la seconda coincide con l’esprimere la preferenza relativa a un fatto o a un evento.

Questi due modi si intersecano nella formazione dei giudizi da parte del consumatore. Solo in unico caso la componente previsionale di esiti ed eventi è assente, cioè nel caso in cui il soggetto conosca con certezza gli attributi delle alternative disponibili e di conseguenza il giudizio si baserà esclusivamente sulla valutazione di tali attributi.

Tversky e Kahneman (1974) affermano che le persone si basano su un numero limitato di principi euristici, i quali riducono compiti complessi di stima della probabilità e di predizione di valore a operazioni valutative più semplici. In generale queste euristiche sono molto più utili, ma a volte portano a gravi e sistematici errori.

Le principali euristiche di giudizio utilizzate dai consumatori per la stima della probabilità sono l’euristica della disponibilità, l’euristica della rappresentatività e l’euristica dell’ancoraggio.

Le prime ricerche sull’euristica della rappresentatività e della disponibilità sono state guidate da una semplice e generale ipotesi: di fronte ad una domanda

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difficile le persone spesso rispondono ad una più facile, solitamente senza rendersi conto della sostituzione (Kahneman e Frederick, 2002).

Secondo l’euristica della disponibilità “gli individui stimano la frequenza oggettiva di determinati eventi sulla base della facilità con la quale è possibile accedere ai processi percettivi, alla memoria o alla ricostruzione mediante immagini, per recuperare elementi informativi su tali eventi” (Dalli, Romani, 2011, p. 186). Quindi il soggetto cerca di ricostruire, basandosi sugli elementi informativi a sua disposizione, una stima verosimile della probabilità da associare a un determinato evento. Ciononostante l’immediata disponibilità di informazioni affidabili su fatti ed eventi non collima necessariamente alla corretta valutazione delle frequenze.

Molto spesso gli individui considerano le informazioni che possiedono in memoria elementi rappresentativi della realtà, invece quello che emerge è una distorsione dalla maggiore o minore facilità di recupero di tali informazioni. Per questa ragione la conoscenza disponibile, anche se di facile utilizzo, non è una fonte affidabile per la stima della probabilità.

Vi sono numerosi studi sperimentali sull’incidenza dell’euristica della disponibilità nella stima della probabilità di fallimento dei prodotti. Gi studi mettono inoltre in primo piano un elemento molto importante collegato a questa euristica definito distinzione. Per distinzione intendiamo i prodotti che possiedono caratteristiche atipiche o distintive e proprio per tale motivo ricevono maggior attenzione rispetto ad altri, vengono codificati in memoria in modo più approfondito e recuperati più facilmente.

Con l’euristica della rappresentatività “si attribuisce a un oggetto la stessa probabilità di accadimento di oggetti o concetti simili” (Dalli, Romani, 2011, p. 187). Nell’elaborare un giudizio l’individuo spesso valuta in che misura le peculiarità di un oggetto sono rappresentative o simili rispetto alle peculiarità che si presume definiscano una data categoria.

Molto spesso alcune imprese minori cercano di ottenere vantaggi da questa euristica conferendo ai loro prodotti nomi simili a quelli adottati da marche famose.

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La stima della probabilità utilizzando questa euristica può condurre a errori sistematici poiché spesso la somiglianza e la rappresentatività fanno in modo di trasferire da un oggetto all’altro alcuni elementi di valutazione assolutamente infondati.

Attraverso l’euristica dell’ancoraggio e aggiustamento “gli individui, partendo da valori iniziali che possono essere suggeriti dal problema o derivare un calcolo parziale, effettuano aggiustamenti per produrre una risposta finale in termini di stima di probabilità di accadimento di un fatto o evento” (Dalli, Romani 2011, p. 188). In pratica, tale euristica si sviluppa in due fasi: nella prima si ha la formazione di un giudizio preliminare o il recupero di un giudizio effettuato in precedenza a partire da un valore ipotizzato o l’uso di informazioni fornite dal contesto (ancora); nella seconda si corregge la stima utilizzando informazioni aggiuntive (aggiustamento).

I consumatori, oltre a stimare la probabilità che un determinato evento si verifichi, dovranno esprimere vere e proprie valutazioni di eventi, oggetti o persone.

Molte teorie psicologiche concordano nel dimostrare che gli individui sviluppano riferimenti interni che successivamente useranno per formulare valutazioni sui differenti stimoli presenti nell’ambiente, applicando opportuni aggiustamenti. Bisogna specificare che tali riferimenti interni sono fortemente soggettivi, per un consumatore un prezzo relativo a un determinato prodotto può essere considerato economico, invece inaccessibile per un altro.

Tra le diverse teorie che hanno preso in esame il problema della valutazione, quella che maggiormente ha avuto un maggior impatto sull’analisi del comportamento del consumatore è la teoria della prospettiva di Kahneman e Tversky. Kahneman e Tversky (1979) criticano la teoria dell’utilità attesa come modello descrittivo per la presa di decisioni in merito alla scelta tra comportamenti alternativi in condizioni di rischio e hanno sviluppato, come alternativa, la teoria della prospettiva, la quale possiede tre proprietà fondamentali: funzione del valore è definita rispetto ai guadagni e alle perdite, piuttosto che ai beni finali dove le probabilità sono sostituite da pesi decisionali;

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è normalmente concava nell’area dei guadagni, favorendo l’avversione al rischio; comunemente convessa per le perdite, favorendo la ricerca al rischio; è generalmente più ripida nell’area delle perdite che nell’area dei guadagni.

Se ipotizziamo che ai comportamenti siano assegnate determinate conseguenze attese il problema può essere posto in termini di valutazione comparativa delle conseguenze di ogni comportamento ponderate con le rispettive probabilità di manifestazione.

Dal punto di vista analitico la teoria della prospettiva può essere formulata nel modo seguente:

La formula descrive il valore complessivo di un comportamento a cui sono associate:

 Una conseguenza con probabilità ;  Una conseguenza con probabilità ;

 E nessun’altra conseguenza (status quo) con probabilità 1- - .

In base a tale teoria, alle conseguenza vengono associati valori ( ) e alle probabilità ( ) vengono associati pesi decisionali , tali che il totale della prospettiva di intraprendere il comportamento risulta essere espresso dalla somma dei prodotti tra valori e probabilità assunto che lo status quo assume valori pari a zero.

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La funzione del valore, che ha una forma a S, possiede particolari proprietà, come accennato poc’anzi.

La prima proprietà sancisce che solitamente i soggetti valutano le conseguenze delle loro azioni come variazioni positive o negative (guadagni o perdite) rispetto a un punto di riferimento, espresso dalla loro situazione attuale. È necessario specificare che il valore zero di questa funzione non rappresenta lo zero aritmetico, ma alla situazione in cui l’individuo si trova nel momento in cui affronta la decisione in questione.

La seconda proprietà esprime l’avversione alle perdite, cioè il valore associato a un esito sfavorevole è generalmente maggiore del valore associato a un esito favorevole dello stesso ammontare.

È interessante specificare che l’avversione alle perdite sta alla base di due particolari tipi di comportamenti di scelta: l’inclinazione per lo status quo e l’effetto di dotazione. Nel primo i consumatori hanno un’elevata attitudine a rimanere legati alla propria situazione iniziale (status quo), questo perché gli svantaggi del cambiamento sembrano più grandi dei possibili vantaggi, a parità di valore assoluto. Invece l’effetto di dotazione fa riferimento al maggior valore assegnato dal consumatore a un prodotto, nel momento in cui tale prodotto è entrato in suo possesso. Le motivazioni che stanno alla base a tale effetto sono legate al fatto che prima di possedere un determinato bene la sua acquisizione è considerata come un guadagno rispetto a una situazione di mancata disponibilità del bene stesso; al contrario, dopo l’acquisizione, il fatto di doverlo cedere viene percepito come una perdita. L’effetto di dotazione si verifica perché i consumatori attribuiscono ai guadagni e alle perdite valori diversi.

La terza proprietà esprime la diminuzione di sensitività, secondo la quale il valore marginale di guadagni e perdite diminuisce all’aumento del valore assoluto. Tale fenomeno riscontra un importante impatto sulla percezione di convenienza delle offerte promozionali.

Dopo aver esaminato i compiti di giudizio passiamo a quelli di scelta. Una situazione usuale di scelta prevede un consumatore che ha a disposizione un determinato numero di opzioni e per ciascuna ha espresso le proprie valutazioni

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sugli attributi rilevanti. Successivamente necessita di uno strumento per svolgere una sintesi di tali valutazioni e scegliere l’alternativa migliore.

La letteratura riconosce due approcci diversi che permettono al consumatore si risolvere il compito di scelta:

 l’approccio classico (o normativo) assume la completa razionalità e informazione del soggetto e la sua capacità di individuare e selezionare l’alternativa in grado di massimizzare l’utilità complessiva;

 l’approccio descrittivo cerca di scoprire come effettivamente vengono prese le decisioni nei diversi contesti. Numerose evidenze empiriche dimostrano che il consumatore non si comporterebbe in base al primo approccio, ma utilizzerebbe azioni decisionali di natura diversa, spesso collegate alle caratteristiche del contesto. Tali pratiche, raramente, conducono a scelte ottimali.

I consumatori, per selezionare l’alternativa migliore, utilizzano due principali tipologie di processi:

 strategie formali d’integrazione: relativa alle conseguenze della teoria normativa e permettono al consumatore di scegliere l’alternativa che massimizza l’utilità attesa;

 procedure semplificate: sono pratiche decisionali che permettono al consumatore di risolvere il compito di scelta, ma che non conducono necessariamente a scelte ottimali, questo perché privilegia la semplicità d’uso rispetto alla precisione dei risultati.

Per quanto riguarda le strategie formali d’integrazione esiste solo la regola additiva o lineare. Essa consiste nell’esprimere, da parte dell’individuo, un peso e una valutazione per ogni attributo rilevante di ogni alternativa. La valutazione complessiva dell’alternativa si ottiene moltiplicando il valore di ogni attributo per il suo peso relativo e sommando i prodotti così ottenuti. La scelta ricadrà sull’alternativa che avrà il punteggio più alto.

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La formula della regola additiva per l’alterativa A è:

dove rappresenta il peso dell’attributo i-esimo in termini di importanza per il decisore, la valutazione dell’attributo i-esimo e n sono gli attributi considerati. Si tenga presente che il peso è caratterizzato dal singolo attributo, indipendentemente dall’alternativa considerata, mentre la valutazione si riferisce al giudizio espresso per l’attributo di una determinata alternativa (Dalli, Romani, 2011, p. 195).

La regola additiva consente di far scegliere al decisore l’opzione che realmente risponde alle sue preferenze, perché prende in esame tutte le informazioni disponibili e le integra secondo un alogica di ottimizzazione lineare. Però è evidente che richiede un elevato impegno in termini di calcolo e di conseguenza il consumatore impiega alcune regole semplificate che consente di facilitare e di rendere più veloce il processo di scelta, a scapito della sua accuratezza. Alcune di queste regole sono di natura compensatoria, cioè permettono al consumatore di valutare e scegliere tra le alternative compensando aspetti negativi e positivi di ciascuna, e altre di natura non compensatoria, cioè che basse valutazioni su un attributo non vengono compensate con alte valutazioni su altri.

Tra le regole semplificate di natura compensatoria troviamo:

 la regola della somma delle differenze, che si basa sul confronto delle alternative a due a due su ogni attributo;

 la regola della maggioranza delle dimensioni positive, anche in questa regola si valutano le alternative a coppie, ma vengono confrontati i valori di ogni attributo e viene scelta l’alternativa che risulta migliore sul maggior numero di attributi. Questa alternativa viene messa a confronto con un’altra e così via fino all’esaurimento delle alternative disponibili;  la regola della frequenza delle caratteristiche buone e cattive consiste che

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positivi e negativi. Il consumatore dovrà definire dei livelli critici in modo da poter definire quali attributi possono essere considerati buoni e quali cattivi;

 la regola del peso omogeneo consiste nell’assegnare un peso omogeneo a tutti gli attributi, trascurando che alcune alternative hanno delle caratteristiche più importanti rispetto ad altre.

Invece tra le regole non compensatorie esistono cinque tipologie di base:

 la regola congiuntiva stabilisce che il consumatore fissi uno standard minimo per ogni attributo e prenda in considerazione per la scelta le alternative che uguagliano o superano tale standard per ogni attributo, mentre le altre verranno rifiutate. Se più alternative superano i valori prefissati, occorrerà alzare gli standard o cambiare regola;

 anche con la regola disgiuntiva si fissa uno standard minimo per ogni attributo, ma vengono prese in considerazione per la scelta le alternative che uguagliano o superano lo standard minimo anche su un solo attributo;  la regola del livello soddisfacente consiste nell’associare ad ogni attributo,

da parte del consumatore, un livello in corrispondenza del quale si ritiene soddisfatto. Successivamente prende in esame le alternative una alla volta e sceglierà la prima alternativa che supera i livelli di soddisfazione per tutti gli attributi;

 la regola lessicografica consiste nell’ordinare gi attributi secondo una scala decrescente d’importanza e scegliere l’alternativa che possiede la valutazione migliore rispetto all’attributo di maggior importanza;

 nella regola dell’eliminazione per aspetti si fissano per ogni attributo degli standard minimi e la contemporanea considerazione del grado d’importanza relativa. Iniziando dall’attributo più importante si rimuovono le alternative che non raggiungono il livello, se rimane più di un’alternativa si passa al secondo criterio e si prosegue alla cancellazione fino a che non ne resta una.

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Le strategie riportate poc’anzi sono quelle che maggiormente vengono trattate dalla ricerca del comportamento del consumatore, ma i soggetti possono usare anche combinazioni di regole o crearne di nuove.

1.5.4 Il consumo e le valutazioni post acquisto

In passato la ricerca sul comportamento del consumatore si focalizzava esclusivamente sul processo d’acquisto, invece più recentemente si è capito l’importanza che l’esperienza di consumo possiede.

Per comprendere cosa fanno i consumatori mentre consumano, ci basiamo sulla concezione di Holt (1995), il quale, per ordinare i diversi aspetti del consumo, ha sviluppato una disposizione basata su due distinzioni concettuali: la struttura del consumo, che si costituisce sia di azioni con oggetto di consumo che di interazioni con altre persone in cui l’oggetto di consumo è la risorsa, e lo scopo del consumo, che può avere l’uso dell’oggetto come fine ultimo (azioni autoteliche) oppure l’oggetto può essere un mezzo per raggiungere altri scopi (azioni strumentali).

Combinando queste due dimensioni si può ottenere una matrice in grado di delineare i principali aspetti del consumo: consumo come esperienza, consumo come integrazione, consumo come gioco e consumo come classificazione.

Il consumatore, a seguito dell’acquisto e del consumo del prodotto, elaborerà una valutazione della sua esperienza per determinare il grado di soddisfazione. L’aspetto della soddisfazione è di forte interesse in relazione al fatto che se il consumatore considera l’esperienza di consumo soddisfacente, esso continuerà a provare interesse nei confronti del prodotto, ripetendo l’acquisto.

Per analizzare come i consumatori passano dall’esperienza con il prodotto alla soddisfazione consideriamo il modello della disconferma delle aspettative, alla base della quale rimane l’ipotesi che i consumatori formino aspettative sul prodotto prima del consumo e, successivamente all’uso, confrontino il risultato ottenuto con le aspettative. Da tale confronto si otterrà: una soddisfazione moderata, quando le aspettative sono confermate; una soddisfazione elevata,

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quando le prestazioni del prodotto sono superiori alle aspettative, un’insoddisfazione, quando le prestazioni sono inferiori alle aspettative.

Le determinanti della soddisfazione finora considerate hanno un elevata natura cognitiva, ma negli ultimi anni sono state prese in considerazione anche aspetti di natura affettiva. Quindi non sono solo rilevanti le valutazioni e i processi a esse collegati, ma anche le emozioni e le sensazioni percepite durante l’esperienza di consumo.

1.6 La Grande Distribuzione Organizzata

La Grande Distribuzione Organizzata (GDO) svolge la gestione di attività commerciali nella forma di vendita al dettaglio di prodotti alimentari e non alimentari di largo consumo, in punti vendita a libero servizio.

La GDO rappresenta l’evoluzione del supermercato singolo, che a sua volta costituiva lo sviluppo del negozio tradizionale.

La caratteristica singolare di questa forma di attività è l’utilizzo di grandi superfici, con una soglia dimensionale minima di superficie di vendita di 200 m2 per i prodotti alimentari e di 400 m2 per quelli non alimentari.

L’elemento che distingue la grande distribuzione è l’esercizio dei luoghi di vendita mediante catene commerciali di più punti vendita caratterizzati da un unico marchio.

A livello centrale di singola catena sono sviluppate infatti sia le politiche commerciali (per esempio promozioni su singoli prodotti) che le relative campagne pubblicitarie.

Sono altresì tipicamente gestite a livello centrale le politiche di approvvigionamento, cioè la scelta dei fornitori e la gestione degli acquisti, con le connesse politiche di pricing (pricing di lungo periodo e di breve periodo). Sotto il profilo della gestione del singolo punto vendita, possono invece essere introdotte distinzioni tra la “Grande Distribuzione” in senso stretto, in cui imprese di dimensioni assolutamente rilevanti (spesso anche a livello internazionale) gestiscono direttamente i punti vendita; e la “Distribuzione

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Organizzata” in senso stretto, in cui operatori commerciali indipendenti, solitamente piccoli e medi dettaglianti, che hanno la piena gestione del singolo punto vendita decidono di aggregarsi. In questo modo ottengono agevolazioni economiche in termini di approvvigionamento, derivanti dal maggior potere contrattuale nei confronti dei fornitori, e alcune funzioni strategiche quali l’insegna standardizzata, l’attività promozionale, i prodotti a marchio privato. La struttura a rete, classica della Distribuzione Organizzata, ha comunque rivelato nel tempo alcuni punti deboli riconducibili alle relazioni con i fornitori. Spesso infatti si verificano casi di sovrapposizione negoziale a causa della crescita dimensionale (e di conseguenza contrattuale ed economica) di singoli membri appartenenti allo stesso gruppo che non tardano a reclamare maggiore indipendenza dalla struttura centrale, anche per le problematiche di carattere strategico e di governance.

Di fatto, la distinzione tra le due modalità gestionali va a sfumare quando le imprese della Grande Distribuzione tendono a concedere maggiore autonomia ai singoli punti vendita (ad es. sulle campagne d’offerta) e i consorzi della Distribuzione Organizzata tendono a mutarsi in forme più capitalistiche.

Pertanto, appare corretta una visione unitaria di questo fenomeno economico sotto la comune dizione di Grande Distribuzione Organizzata.

Si necessita parlare in modo più dettagliato del passaggio tra le centrale d’acquisto alle supercentrali d’acquisto. Come spiega Sbrana e Gandolfo (2007) c’è la tendenza a concentrare la domanda di una molteplicità di punti vendita per l’approvvigionamento dei prodotti, in maniera da avere più forza nei confronti dei produttori. Questo fenomeno si verifica maggiormente per l’acquisto di prodotti di marca industriale più noti e diffusi. Le centrali d’acquisto sono nate intorno agli anni ’60 e fino agli anni ’90 tale fenomeno è stato circoscritto alla stessa impresa o alla stessa organizzazione commerciale.

Tuttavia, la crescente pressione competitiva che ha caratterizzato negli ultimi tempi il mercato italiano ha portato molte imprese della distribuzione a stipulare accordi anche con aziende esterne all’organizzazione, con l’obiettivo di

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aumentare ulteriormente i volume di prodotti richiesti alle imprese industriali e ottenere condizioni di vendita ancora più favorevoli.

In questo modo si sono sviluppate le cosiddette supercentrali d’acquisto. La loro distinzione con le centrali d’acquisto è legato dal fatto che coinvolgono molteplici realtà imprenditoriali autonome.

Le supercentrali d’acquisto si distinguono in: supercentrali integrate e supercentrali associative.

Le prime sono caratterizzate dalla presenza tra le imprese aderenti di un leader riconosciuto, il quale possiede una partecipazione azionaria, anche se di minoranza, sulle altre imprese della centrale.

Le seconde, invece, nascono solamente sulla base del presupposto che la gestione comune degli acquisti possa consentire un incremento della redditività.

Per quanto riguarda il format di vendita, i punti vendita vengono generalmente classificati dalla grande distribuzione per canale in base alla loro dimensione (in metri quadrati) effettivamente adibita ad area di vendita vera e propria, cioè senza calcolare eventuali gallerie commerciali, parcheggi, ecc. ed in base alla profondità dell'assortimento.

Secondo la società Nielsen (2008), i canali di vendita della grande distribuzione sono i seguenti:

 Ipermercato: struttura con un’area di vendita al dettaglio superiore ai 2.500 m²;

 Supermercato: struttura con un’area di vendita al dettaglio che va dai 400 m² ai 2.500 m²;

 Libero Servizio: struttura con un’area di vendita al dettaglio che va dai 100 m² ai 400 m²;

 Discount: struttura in cui l’assortimento non prevede la presenza di prodotti di marca;

 Cash and carry: struttura riservata alla vendita all’ingrosso;

 Tradizionali: negozi che vendono prodotti di largo consumo di superficie inferiore ai 100 m²;

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 Self Service Specialisti Drug: negozi che vendono principalmente prodotti per la cura della casa e della persona.

Nel linguaggio corrente del settore, vi sono anche altre terminologie, che cercano di creare ulteriori segmentazioni:

 Iperstore o mini-iper: struttura con un’area di vendita al dettaglio che va dai 2.500 m² ai 4000 m²;

 Superstore: struttura con un’area di vendita al dettaglio che va dai 1.500 m² ai 3.500 m²;

 Supermercato di prossimità: struttura con un’area di vendita al dettaglio che va dai 500 agli 800 m²;

 Superette (o minimercato) struttura con un’area di vendita al dettaglio che va dai 200 m² ai 400 m².

La classificazione per area di vendita è indicativa, è da considerare anche la politica commerciale che sta alla base del punto vendita.

1.6.1 L’attività promozionale

Tra i principali strumenti per svolgere attività promozionali all’interno dei punti vendita della GDO, se ne possono esporre alcuni che interagiscono direttamente con i clienti, tra cui i volantini promozionali e le carte fedeltà, altri invece come il merchandising, la revisione assortimentale e l’esposizione a scaffale (il cosiddetto “space planning”) possono comunque indirettamente influenzare in maniera anche decisiva le vendite di un negozio. In ogni caso qualsiasi tipo di attività promozionale risulta particolarmente utile: secondo i numerosi studi effettuati dalla società AC-Nielsen, infatti, lo sconto è soltanto uno dei possibili strumenti promozionali. Un buon uso del display e del volantino spesso genera delle vendite incrementali maggiori. Si è infatti rilevato sperimentalmente che uno sconto del 10% mediamente porta ad un 40% di incremento nelle vendite, il display in-store può aggiungere un 65% e il volantino un 20-25% di vendite incrementali rispetto ai valori di base.

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Per quanto riguarda le offerte promozionali, secondo la definizione di AC-Nielsen (2009), le promozioni sono delle attività volte a colpire l’attenzione del consumatore per influenzarne l’acquisto.

In particolare, la promozione può risultare utile per: - incrementare la fedeltà dei consumatori esistenti; - smaltire stock o volumi in surplus;

- persuadere i retailer a supportare il brand in-store; - compensare gli aumenti di prezzo;

- difendersi contro l’attività dei competitor;

- attirare nuovi consumatori e aumentare quindi la penetrazione di mercato.

Consideriamo due tipologie di promozione: le promozioni di prezzo e le promozioni di comunicazione.

Le prime si attivano se il prezzo rilevato è più basso del 10% rispetto al cosiddetto “regular price” ovvero il secondo prezzo più alto registrato da un determinato prodotto nelle ultime quattro settimane.

Si riferiscono alle attività promozionali di comunicazione nel punto di vendita: quantità gratuita, omaggio, coupon display, folder.

Più dettagliatamente le promozioni possono essere classificate nel modo seguente:

 Promozioni di prezzo, le quali includono:

- gli “sconti a scaffale”, in cui lo sconto sul prodotto è promosso dal rivenditore nel punto vendita;

- gli “sconti diretti” in cui lo sconto sul prodotto è indicato direttamente sul package del prodotto;

- il “coupon”, ovvero un buono che dà diritto ad uno sconto sul prezzo del prodotto o maggiori quantità dello stesso;

- il “cross coupon” ovvero un buono sconto su un prodotto redimibile sull’acquisto di un secondo prodotto, solitamente della stessa azienda o Gruppo;

Figura

Figura 1.1 L’approccio cognitivo. (Fonte: Dalli, Romani, 2011)
Figura 1.2 L’approccio comportamentale. (Fonte: Dalli, Romani, 2011)
Figura 1.3 Analisi dei moventi d'acquisto. (Fonte: Trevisani, 2002)
Figura 1.4 Le tipologie di apprendimento. (Fonte: Dalli, Romani, 2011)
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