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More than meets the eye

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Academic year: 2021

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1 INTRODUZIONE

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2 ARCHITETTONICA E INTERO

Con il termine Architettonica, Kant fa riferimento all’arte dei sistemi e cioè ad una dottrina in grado di strutturare secondo unità molteplici componenti nell’ottica di un riferimento reciproco. Il sistema della ragione deve attuarne le istanze e gli scopi essenziali secondo l’unità di un’idea posta a fondamento del tutto.

Perché un sistema possa dirsi veramente tale occorre che ogni sua componente abbia una collocazione determinata e sappia instaurare delle connessioni necessarie con ogni altra in modo da articolare il contesto comune secondo una forma ed in riferimento ad un ordine ed un equilibrio tra le parti. La reciprocità del riferimento tra le parti traduce il valore insito nella relazione tra queste ed il tutto: l’intero di un sistema non può prescindere neppure dalla minore delle sue componenti e d’altro canto nessuna parte, fosse anche tra le maggiori, avrebbe lo stesso significato al di là di quel sistema al cui interno si trova e dal quale appunto riceve un senso.

Quella della totalità è in un certo modo l’idea delle idee della ragione, rappresenta l’incessante pretesa di uno sguardo ampio al punto tale da non poter in alcun modo avere dei punti ciechi. Una tale spinta è un fattore fondamentale, nel senso proprio di fondamento, della filosofia trascendentale e del criticismo kantiano. Con queste parole, lontane a loro modo dalle posizioni del 1770, prendiamo atto che, giunti ormai quasi alle fine del testo della Critica della ragion pura, ci limiteremo a

delineare l’architettonica dell’intera conoscenza derivante dalla ragion pura, e cominceremo solo dal punto in cui la radice comune della nostra capacità conoscitiva si scinde biforcandosi in due tronchi, uno dei quali è la ragione. Per

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ragione, qui, io intendo l’intera facoltà superiore della conoscenza, e contrappongo quindi l’abito razionale a quello empirico.1

Inutile negare il fascino che la possibilità di scoprire una tale radice esercita su ogni lettore di un testo che si sforza in ogni sua parola di legittimare i rapporti che intercorrono tra i due tronchi derivati ed altrettanto inutile pensare di poter affidare un tale ruolo ad una tra le molteplici componenti determinate del sistema della ragione. Volendo prestare attenzione alle parole di Kant è molto più utile forse cominciare appunto dalla scissione e non dalla radice.

In un tale quadro sono molteplici gli aspetti che rendono interessante la collocazione, anzi la possibile determinazione di una collocazione, dell’immaginazione come funzione trascendentale. Possiamo scoprire che abbiamo a che fare con una Kraft come il Giudizio e possiamo parimenti prendere atto delle modalità secondo le quali viene distinta dalla sensibilità e dall’intelletto. Possiamo inoltre vedere come abbia una vera e propria propensione a mediare e come ciò possa significare un accesso a spazi teorici che resterebbero altrimenti terra di nessuno.

Potremmo dire che l’immaginazione ha una sistematica incollocabilità in strutture teoriche stabili e determinate una volta per tutte. Il fatto stesso che debba essere distinta, con sforzi per giunta significativi, sia dall’intelletto che dalla sensibilità sulla base di presupposti differenti è sintomatico di quanto questa Kraft non disponga di confini più stabili come quelli assegnati alle suddette facoltà sin dal 1770. D’altro canto la stessa possibilità di una determinazione di confini per l’immaginazione conduce quasi a mettere in questione una tale stabilità ed a mostrare come la

1 Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, trad. it. a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2007, A 835 – B 863, (da qui in poi abbreviata in KrV).

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4 reciprocità dei rimandi tra condizioni sensibili e intellettuali faccia riferimento ad un rapporto che diciamo critico nel senso di una continua tensione tra separazione degli elementi in questione e idea dell’unità nel concetto di ragione. La criticità di questo equilibrio sistematico non ha lo stesso significato della vera e propria Critica eppure è anche in riferimento ad un tale problema che la ragione ha bisogno di affrontare il suo stesso tribunale.

Il §35 della Critica del giudizio ci riferirà di come l’immaginazione sia sorprendentemente responsabile (al posto della sensibilità) di intuizioni ed esibizioni e nel corso del presente lavoro cercheremo anche di capire in che misura questa istanza si traduca in uno sguardo capace di vedere “more than meets the eye”.2

Deve restare chiaro che ci muoviamo su di un percorso interno ad un sistema e quindi nell’impossibilità di coglierne l’intero complesso sulla base di una sua componente. Ci si limita a ricercare quale ruolo questa componente possa svolgere nella costituzione di un simile progetto. Quale che sia ed ammesso che ci sia una radice comune, si tratta pur sempre di una parte di un organismo che cresce: in ciò ogni parte è pur sempre parte di un tutto.

2 J. Michael Young, Kant’s View of Imagination, in Kant-Studien, 79:2, 1988, (140-164), pag. 141.

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5 CAPITOLO I

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6 RAGIONE E SISTEMA

La deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto, nelle due versioni in cui ha visto la luce nel 1781 e nel 1787 è per noi testimonianza di uno sforzo teorico tra i maggiori consegnatici dalla storia del pensiero filosofico. È un testo denso, precisamente strutturato ed orientato: la deduzione ha uno scopo talmente suo, che senza di esso non avrebbe alcun senso lo stesso termine che pure la titola. Ai problemi che affronta e ai risultati che pretende di conseguire sono ancorate le sorti tanto di un’opera come la Critica della ragion pura quanto dell’intero impianto sistematico della filosofia critica nel suo complesso. Ma cosa realmente e pienamente sia la deduzione è una questione che non può propriamente vantare risposte univoche e perentorie per motivi differenti e mai esclusivamente imputabili a cause determinate e ben individuabili.

La possibilità dei giudizi sintetici a priori e l’individuazione delle condizioni per consegnare alla metafisica la sua propria fondazione scientifica sono due importanti questioni che trovano nelle tormentate pagine della deduzione la radice della loro possibile coesistenza e coerenza in un tutto sistematico. La deduzione non si limita ad offrire ad un dato problema quella soluzione che permetterebbe al complesso teorico che la ospita di articolarsi, finalmente, in un tutto sistematico, ma è già, essa stessa, il punto di fuga di tale prospettiva sistematica. Nella deduzione i problemi che tanto coinvolgono quanto determinano la ragione si fronteggiano a distanza ravvicinata, connettendosi unitariamente e convergendo nella direzione della loro stessa, reciproca, possibilità.

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7 Il testo della deduzione orienta i suoi sforzi a comporre un tutto. Le sue stesse pagine inaugurali lo introducono impiegando un punto di partenza ben definito.

I termini impiegati da Kant sono chiari:

Quando i giuristi parlano di poteri legittimi o di poteri usurpati, essi distinguono, in una controversia giuridica, la questione su ciò che è di diritto (quid iuris), dalla questione su ciò che è di fatto (quid facti); e allorché richiedono le prove per entrambe le questioni, chiamano la prima prova – quella che deve dimostrare la legittimità oppure la pretesa del diritto – deduzione.3

Questa pagina è stata pubblicata nel 1781 e rappresenta uno stadio a suo modo avanzato nello sviluppo del pensiero di Kant e di fatto riporta alcuni vocaboli di importanza decisiva per comprendere, quanto meno ad un livello iniziale, cosa una deduzione debba essere: potere, legittimità (die Befugnis), pretesa di diritto (der Rechtsanspruch). Altre testimonianze in merito sono riscontrabili in innumerevoli punti dell’opera di Kant, come ad esempio nel testo della Metaphysik Mrongrovius, risalente agli anni 1782 – 1783, in cui si fa ampio riferimento al problema dell’uso dei concetti.4 Che la deduzione abbia una sua configurazione giuridica è cosa da tenere ben ferma, che la deduzione si esaurisca in questa stessa configurazione, è cosa tuttavia non argomentabile. Quantomeno è necessario riconsiderare in cosa consista le terminologia giuridica per evitare di ridurre a spazi troppo ristretti la prospettiva iniziale che la deduzione offre.

3 KrV, A 84.

4 Immanuel Kant, Metaphysik Mrongovius, Akademie Ausgabe, Kant’s Schriften 29. 1, 2, Vorlesungen 6, 1\2, Walter de Gruyter & co., Berlin 1983. 29:747 – 29:940.

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8 La ragione, nella veste in cui giunge a necessitare della deduzione, è vessata dal bisogno inestinguibile di sondare rotte che potrebbero esulare dalla sua effettiva capacità di navigazione, è una ragione articolata in facoltà che scopriamo impegnate, per legittimarsi reciprocamente, ad operare in maniera organica, è infine una ragione sostanzialmente alla ricerca continua delle sue proprie ragioni. Esplorando quel testo, nelle due versioni di cui disponiamo e che ci raccontano una storia difficile e per nulla lineare, sarà possibile far emergere interamente le istanze portanti del pensiero critico.

Deve esser chiaro che la deduzione affronta la questione della legittimità dell’uso delle categorie per sancirne la validità e realtà oggettiva, con alle spalle il bisogno di dare essenziale pienezza a questo uso per il tramite della sua stessa restrizione e limitazione a date condizioni. Le categorie sorgono come condizioni al contempo condizionanti e condizionate. Dalla legittimità, passando per le restrizione e la limitazione, fino a toccare temi quali l’affinità e l’unitarietà della sintesi a priori, si percorre una traiettoria che copre un arco ben più ampio di quello che la quaestio iuris potrebbe garantire. La posta in gioco è l’unità del sistema critico e non solo dell’opera che ospita il testo della deduzione quale articolazione di tale unità.

Le altre opere critiche seguono anch’esse quella traiettoria fino ad ampliarne l’arco e coprire e ri-coprire territori ben più vasti di quelli che sarebbero inerenti alla fondazione di un sapere valido, all’individuazione di un modo corretto di conoscere la realtà, al raggiungimento di consolanti certezze. Nella deduzione è vivo il richiamo di uno sguardo sistematico orientato al tutto, sconfinato eppure sempre fissato su un orizzonte.

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9 Di fondo c’è che solo una prospettiva capace di farsi unitaria può mirare a cogliere le istanze essenziali (costitutive) e fondamentali (garanti di operatività) proprie di un pensiero che pure si coniuga secondo tali istanze per strutturarsi organicamente. La ragione esige e pretende unità. Senza la disponibilità ad accogliere il fatto che essa possa avere un tale bisogno e che questo spinga la realtà di quella ragione ben oltre i confini di una coerenza strutturale, è inutile, prima ancora che impossibile, tentare di giungere fin dove essa ha saputo spingersi. Sorgono però spontanei quesiti tutt’altro che rassicuranti in merito alle speranze di una tale ricerca:

- è possibile che l’unica chiave che consenta pieno accesso alla realtà del pensiero critico, apra al contempo le porte per abbandonarne l’edificio e superarne le istanze essenziali?

- È possibile che la deduzione raggiunga il suo scopo nella maniera in cui pretende di operare oppure, fallendo in tal senso, apra scenari ben più ampi che potrebbero portare a ben più radicale fondamento degli assunti verso cui ed in ragione dei quali è orientata?

Orientata, decisamente. La ragione di Kant è incline a ricercare continuamente la sua unità e facendo ciò si scopre orientata verso uno scopo, lasciando emergere una vocazione teleologica che opera in maniera continuativa e radicale. Il suo stesso bisogno di unità è il suo orientamento teleologico. Del tutto inutile quindi limitarsi a chiedere cosa sia la ragione quando è necessario capire piuttosto verso dove essa stia andando. Bisogna liberarsi dell’idea che la teleologia (come orientamento generale verso uno scopo) sia affare esclusivo della Critica del giudizio e cercare di comprendere piuttosto perché si configuri in quel modo in quella sede.

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10 Tutto questo è illusorio senza un accesso diretto ad una prospettiva unitaria ed al conseguente, anzi corrispondente, orientamento teleologico. Per capire Kant, si badi bene, non per dare ragione a Kant, non serve limitarsi a dire che, cosa assai possibile, la deduzione abbia fallito. Bisogna salire a bordo.

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11 IMMAGINAZIONE E DEDUZIONE

Nella convinzione che la deduzione rappresenti una postazione privilegiata per accedere alla vocazione unitaria ed all’orientamento teleologico della ragione ci si trova a fare i conti con difficoltà per nulla trascurabili. Il fatto che Kant riveda completamente, fino a riscriverla, la deduzione del 1781, la forti polemiche successive alla prima pubblicazione della Critica della ragion pura, la stesura dei Prolegomeni, sono tutti elementi, e ce ne sono altri, che rendono difficile giungere ad una comprensione univoca delle conquiste dell’opera in questione. Cambiano molte cose, variano tutti gli equilibri, in maniera decisa.

Resta però identico il capitolo sullo schematismo e ciò, lungi dal risolvere qualcosa, complica ulteriormente la situazione. In quelle poche pagine mantiene saldamente il suo posto l’immaginazione trascendentale, la quale però viene profondamente riconfigurata da Kant tra edizione A e B della deduzione. Ampliando un po’il discorso si ritrova l’immaginazione trascendentale a rivestire un’importante funzione nel testo della Critica del giudizio, quella cioè di schematizzare (come nella prima Critica) ma senza concetto5 (cosa impossibile nella prima Critica), e ciò a garanzia della sua libertà e con decisive conseguenze sull’intera capacità di giudizio, che significa, sull’unità della ragione. L’immaginazione, non sempre nella medesima veste, è tutt’altro che fuori gioco anche nella Critica della ragion pratica6 e nelle pagine dell’Antropologia pragmatica, e siamo al 1798 – 1800.

5 Immanuel Kant, Critica della Capacità di Giudizio ed. it. a cura di Leonardo Amoroso, BUR, Milano, 2007, §35, pag. 375, (da qui in poi abbreviata in KU).

6 Si veda il testo di Alfredo Ferrarin, Saggezza, Immaginazione, Giudizio pratico, studio su Aristotele e Kant, ETS, Pisa, 2004.

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12 A rendere particolarmente interessante questa “funzione cieca, sebbene indispensabile, dell’anima”7 non è però soltanto il fatto che accompagni, insieme ad altri temi, il pensiero di Kant quasi fino alla sua morte. L’immaginazione, nella deduzione A si trova a svolgere differenti funzioni ed ha delle varianti nel suo operare: è produttiva, riproduttiva, trascendentale. Alla sua attività viene, in quella sede, interamente imputata un’intera delle tre sintesi che vi compaiono. L’immaginazione raramente è sempre la stessa eppure altrettanto raramente rinuncia a comparire nell’insieme delle opere critiche. Ci si chiede:

- quale ruolo svolge nella deduzione?

- Qual è la sua funzione più propria?

- Quali sono i suoi prodotti?

-È una facoltà? Lo è allora anche la Urteilskraft?

In sintesi, la peculiarità dell’immaginazione consiste proprio nei problemi che pone, prima ancora che nelle operazioni che compie. Lo sforzo di comprensione di questi problemi, al di là delle possibilità di individuazione di una determinata soluzione, non è sindacabile. I vantaggi che possono derivare dallo studio dell’immaginazione trascendentale e della sua importanza per Kant sono irrinunciabili se ci si vuole addentrare senza riserve nelle pagine del criticismo più difficili e tuttavia enormemente fertili nella storia del pensiero filosofico. Le due edizioni della deduzione vanno confrontate a fondo, ed il ruolo dell’immaginazione deve essere quanto più possibile minuziosamente discusso e descritto, per comprendere cosa sia

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13 lo schematismo e come questo sia possibile senza concetto. Ci si trova ad un livello in cui le questioni sono le più decisive e coinvolgono i punti cardine del sistema della ragione: non solo quindi la validità dei concetti puri dell’intelletto, non solo la loro realtà, ma anche il ruolo delle idee, i termini di una loro esibizione, la possibilità di una conoscenza sintetica diversa dall’unica che Kant avrebbe prospettato, il problema di limitare un infinito destino, la teleologia, l’unità di natura e libertà, i temi portanti e la tenuta d’insieme del sistema critico.

L’immaginazione non è però la quadratura del cerchio. Bisogna resistere alla tentazione di farne il santo Graal della filosofia critica, come se fosse depositaria di una sua originaria essenza o potesse in un colpo solo risolverne ogni problema e investirne il pieno senso8. Quella di “ricondurre l’intuizione pura e il pensiero puro all’immaginazione trascendentale”9è una forzatura che per quanto suggestiva non può sperare in alcun modo di trovare un riscontro reale nell’opera critica.

Lo studio del comportamento dell’immaginazione trascendentale in contesti differenti all’interno di configurazioni anch’esse differenti della ragione è necessario perché offre percorsi capaci di giungere ai nuclei di senso più propri del pensiero di Kant e le sue risorse sono pertanto indispensabili, ma senza dubbio non sufficienti. L’immaginazione da sola non basta per cogliere i termini in cui si articola l’unità della ragione: per comprendere questa, naturalmente, bisogna ri-comprendere tutto.

8 Cfr. Martin Heidegger, Kant e il problema della metafisica, introduzione di Valerio Verra, Editori Laterza, Roma – Bari, 1981 pag. 123 e seguenti.

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14 DEDUZIONE A: 1781

Questo testo verrà interamente estromesso dallo stesso Kant nel 1787 all’interno della seconda edizione, la quale però mantiene del tutto invariato il capitolo sullo schematismo risalente al 1781. I Prolegomeni sono testimoni sufficientemente credibili, ma non gli unici, della mole di problemi che questo testo ha sollevato e delle conseguenti reazioni all’opera di Kant, il quale sceglierà di intervenire radicalmente anche in altre parti della sua opera, a cominciare proprio dalla Prefazione. Cogliere la struttura di questa deduzione e il ruolo svoltovi dall’immaginazione trascendentale deve fornire gli elementi essenziali per operare il confronto con la deduzione B e aiutare a capire come e perché gli equilibri cambino e lo facciano in quella determinata modalità che ci è possibile vagliare. La questione di preferenza di un’edizione rispetto ad un’altra non può fare a meno di tenere presente il fatto che Kant abbia pubblicato come definitiva l’edizione B e che lo stesso Kant abbia riscritto la deduzione A partorendo il testo del 1787, mutando prospettiva, cambiando idea. Un’idea che cambia è cosa assai preziosa.

Nella seconda parte della dottrina trascendentale degli elementi, la logica trascendentale, testo che va da A 50 – B 74 a B 129, Kant prepara la strada alla deduzione affrontando tematiche che possono vantare una lunga gestazione. Basti pensare che la Dissertatio10 inaugurale del 1770 contiene in forma embrionale una porzione significativa della materia oggetto d’esame nelle pagine citate.

10 Immanuel Kant, La forma e i principi del mondo sensibile e del mondo intelligibile (dissertazione del 1770), traduzione, introduzione e commento di Ada Lamacchia, Liviana Editrice in Padova, 1967.

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15 La deduzione non si limita a seguire nel testo, come porzione successiva del discorso, ma consegue direttamente dalle riflessioni che immediatamente la precedono: essa consegue cioè sistematicamente, in riferimento alla distinzione tra logica generale e logica trascendentale. Ciò che di proprio vi è nella logica trascendentale conduce di necessità alla deduzione. Non si tratta di una partizione disciplinare dovuta semplicemente alla costruzione di un discorso coerente ed ordinato quanto piuttosto di una differenza sostanziale che pone un problema ineliminabile ed al contempo un solido nesso sistematico, vale a dire l’uso dei concetti puri dell’intelletto. Queste le parole introduttive di Kant:

La logica generale astrae – come abbiamo mostrato – da ogni contenuto della conoscenza, cioè da ogni rapporto di quest’ultima all’oggetto, e considera soltanto la forma logica nel rapporto delle conoscenze fra di loro, cioè la forma del pensiero in generale. Ma poiché si danno intuizioni pure, così come intuizioni empiriche (secondo quanto dimostra l’Estetica trascendentale), potrebbe darsi che si trovi anche una distinzione fra il pensiero puro e il pensiero empirico degli oggetti. In questo caso si darebbe una logica in cui non si astrarrebbe da ogni contenuto della conoscenza, laddove invece una logica che contenesse semplicemente le regole del pensiero puro di un oggetto escluderebbe tutte quante le conoscenze con un contenuto empirico. Quella logica prenderebbe in considerazione anche l’origine delle nostre conoscenze degli oggetti, dal momento che tale origine non può essere attribuita agli oggetti; mentre la logica generale non ha niente a che fare con questa origine della conoscenza, e considera invece le rappresentazioni – siano esse originariamente presenti in noi stessi a priori, o siano date soltanto in modo empirico – semplicemente secondo le leggi con cui l’intelletto, quando pensa, adopera quelle rappresentazioni nei loro vicendevoli rapporti. La logica

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generale, dunque, tratta soltanto della forma intellettuale che si può conferire alle rappresentazioni, quale che sia poi la loro scaturigine.11

Assistiamo qui all’istituzione di un legame tra una logica ed un problema, quello dell’origine della conoscenza, che porta Kant a proseguire in questo modo il discorso:

E così, in attesa di vedere se possano mai darsi dei concetti che si riferiscano a priori agli oggetti, non come intuizioni pure o sensibili, ma semplicemente come operazioni del pensiero puro, e dunque come concetti, la cui origine non sia però né empirica né estetica, noi ci formiamo preventivamente l’idea di una scienza che tratti della conoscenza pura dell’intelletto e della ragione, conoscenza mediante la quale pensiamo degli oggetti totalmente a priori. Una scienza siffatta, che determinasse l’origine, l’estensione e l’oggettiva validità di tali conoscenze, dovrebbe chiamarsi logica trascendentale, poiché essa avrebbe a che fare semplicemente con le leggi dell’intelletto e della ragione, ma solo in quanto si riferirebbe a priori agli oggetti, e non indifferentemente – come fa invece la logica generale – tanto alle conoscenze razionali empiriche che a quelle pure.12

La posizione del problema dell’origine conduce alla ricerca dell’estensione (dei confini) e dell’oggettiva validità della conoscenza a priori. Kant è inoltre straordinariamente chiaro, in questo caso, nell’utilizzo del termine trascendentale relativamente alla logica. Trascendentale può dirsi propriamente non la conoscenza a priori in toto, ma precisamente la possibilità di questa e del suo uso a priori; trascendentale è la critica di questa conoscenza e non il rapporto che questa fa valere con i suoi oggetti.

11 KrV, da A 55 a B 81. 12 Ivi, da A 57 a B 82.

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17 La trama del testo fa emergere un sistema fitto di rimandi e connessioni sistematiche. Il concetto di critica si trova qui splendidamente intrecciato con quello di possibilità e con quello di trascendentale, garantendo all’idea kantiana di questo termine un valido e concreto riferimento dimostrativo, cioè un esempio.

Il fatto che la logica trascendentale sia distinta dalla logica generale per le sue prerogative e per le sue possibilità è un pensiero che connette i capisaldi teorici della deduzione. Non a caso questa logica si compone di analitica e dialettica sul fondamento della possibilità di usi diversi dei concetti puri dell’intelletto. A dover essere legittimata è una pretesa in relazione ad uno scopo, il quale a sua volta è la possibilità stessa che le nostre rappresentazioni siano valide per gli oggetti che esperiamo. La pretesa di legittimità comporta alternative di validità13. Si può tuttavia già a questo punto tutelarsi dal cadere nel grave errore di pensare che alla dialettica spetti soltanto la competenza dell’uso sbagliato: persino la possibilità che non sia possibile alcun uso dei concetti puri dell’intelletto fuori da determinate condizioni significa tutto il contrario di un strada chiusa. La ragione ha un suo orientamento e la deduzione serve esattamente a tracciare una rotta verso una precisa destinazione. Che la logica trascendentale non punti alla forma logica della conoscenza ma sorga dal problema, che al contempo essa stessa pone, dell’origine, dell’estensione e della sua validità stabilisce chiaramente che:

- la determinazione dell’origine è decisiva per la legittimità dell’uso;

- la legittimità dell’uso comporta alternative di validità;

13 Cfr. Pietro Chiodi, La deduzione nell’opera di Kant, Taylor Torino Editore, Torino 1961, pag. 53.

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18 - la legittimità dell’uso configura estensioni diverse;

- la legittimità dell’uso è sancita da determinate condizioni.

Quali condizioni? La prima e primaria tra esse è proprio quella dell’origine a priori dei concetti da usare. Il circolo si smarca dall’accusa di viziosità solo a patto che quella apriorità venga provata e che gli esiti della prova siano tali da comportare senza alcuna deroga il progresso o l’arresto completo dell’intera indagine. Il problema della deduzione, il suo stesso avvio è sancito, anche se non del tutto, già da queste considerazioni:

In una logica trascendentale noi isoliamo l’intelletto (così come abbiamo fatto in precedenza, nell’Estetica trascendentale, con la sensibilità) ed enucleiamo dalla nostra conoscenza soltanto quella parte del pensiero che ha la sua origine unicamente nell’intelletto. L’uso di questa conoscenza pura si basa però su di una condizione: quella cioè che nell’intuizione ci siano dati degli oggetti a cui la conoscenza pura possa essere applicata.14

Chiedersi dove cominci la deduzione dovrebbe equivalere a chiedersi da quale punto del testo prenda avvio la legittimazione dell’uso sintetico a priori dei concetti puri dell’intelletto. La presenza stessa di una logica trascendentale dovrebbe dipanare da sola una mole consistente di dubbi. Come se innescasse una reazione a catena, il problema della deduzione è un accesso straordinariamente fecondo per addentrarsi nella filosofia critica. Ovviamente non è l’unico. La prerogativa dei sistemi di una connessione operativa degli elementi che li compongono dovrebbe garantire la possibilità di muoversi al loro interno passando di necessità da uno a qualunque altro di questi e concedere dunque ampia scelta tra i possibili punti di accesso.

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19 Misurarsi con la filosofia critica partendo da una qualunque delle sue questioni, le quali tuttavia, è necessario ammetterlo, non rivestono tutte eguale importanza, non sarebbe in linea di principio passibile di giudizi di valore. La deduzione però è deliberatamente un banco di prova15: lo è stato per Kant stesso, lo è per ogni lettore, lo è per le sorti del criticismo. Le pagine più critiche del pensiero critico hanno un valore inestimabile anche a prescindere dalla considerazione dell’effettivo successo delle indagini di cui sono veicolo. La possibilità che la deduzione abbia fallito non toglie nulla in termini di importanza a chiunque abbia la priorità di comprendere la filosofia critica. Capire come Kant abbia proceduto, comprendere a fondo, fino a sperare di poterli raggiungere, gli scopi che orientavano la sua ricerca, addentrarsi nella ricchezza di tali sforzi è un proposito che resterebbe di grande valore anche qualora ci si trovasse a fronteggiare le ragioni di un errore.

15 Cfr. Dieter Henrich, The Proof Structure of Kant’s Transcendental Deduction, in The Review of Metaphtsics, 22, 1969, (640-659), pag. 1.

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20 IL TESTO

LE PAROLE

In tutta la logica trascendentale, da A 50 – B 74 fino a B 129 l’immaginazione compare in tre sole occasioni, la prima ad A 53 con il termine Einbildung e le restanti, ben più significative, ad A 78 e A 79 come Einbildungskraft. Nella prima citazione, il gioco dell’immaginazione si trova inserito nel vasto insieme delle condizioni empiriche da cui fa astrazione la logica generale, nella sua veste pura, in riferimento all’esercizio dell’intelletto. Ad A 78 invece l’immaginazione riceve il suo primo incarico nel contesto, qui non ancora precisamente delimitato, della deduzione:

La sintesi in generale – come vedremo in seguito – è il semplice effetto della facoltà di immaginazione, di quella funzione cieca, sebbene indispensabile, dell’anima, senza la quale non avremmo in assoluto alcuna conoscenza, ma della quale solo raramente siamo coscienti.16

Il concetto, anzi l’operazione, di sintesi è introdotto ad A 77 come procedimento di attraversamento, raccolta e connessione del molteplice consegnato all’intelletto nelle forme pure dell’intuizione sensibile. Sarà pura nella misura in cui sia dato a priori quel molteplice. Dietro le quinte di queste riflessioni giace la tavola dei giudizi ed all’orizzonte si profila la tavola delle categorie. La sintesi, pura a priori, lavora per l’unità del molteplice nelle funzioni logiche dei giudizi, è l’uso dei concetti puri dell’intelletto, è la loro applicazione alle forme pure della sensibilità, è il nostro punto di contatto con il mondo.

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21 In generale però è prima di tutto un effetto (Wirkung) della facoltà di immaginazione. Si potrebbe argomentare pertanto che senza di essa non si avrebbe in assoluto alcuna conoscenza e che il risultato sarebbe esattamente lo stesso quando si avesse a che fare soltanto con essa. La sintesi necessita di una riconduzione a concetti che è affare esclusivo dell’intelletto, il quale “ci procura, per la prima volta, la conoscenza, nel senso proprio di questo termine”.17 Senza immaginazione o con essa soltanto sarebbe impossibile qualunque conoscenza. Al contrario, l’orientamento della sua sintesi nella direzione unitaria delle funzioni logiche del giudizio, cioè la riconduzione a concetti, è l’unico modo possibile per una conoscenza in senso proprio. Si delinea un quadro in cui all’immaginazione spetta una non meglio precisata capacità di sintesi in generale, la quale tuttavia non conduce a nessuna conoscenza in assoluto, mentre all’intelletto compete una sintesi pura che “si basa sul fondamento dell’unità sintetica a priori”18 e che conduce invece alla conoscenza in senso proprio. Ad A 79 questo quadro è ulteriormente rafforzato dalla considerazione che il lavoro dell’immaginazione sia tanto indispensabile quanto insufficiente per giungere alla conoscenza di un oggetto.

Èperò possibile una conoscenza in un senso meno proprio di quello sancito dalla riconduzione a concetti dell’intelletto? L’immaginazione potrebbe mai, senza intelletto, produrre conoscenza di diverso genere? Per azzardare una risposta è forse utile porsi un’ulteriore domanda e chiedersi se all’immaginazione debba spettare soltanto la configurazione fin qui assunta o se anche essa sia indagabile tanto in generale quanto secondo più propri e vari significati.

17 Ibidem. 18 Ivi, B 104.

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22 La purezza della sintesi è da Kant fatta dipendere, a distanza di una pagina tra B 103 e B 104, da due apparentemente diverse condizioni: l’apriorità del molteplice dato e il fatto che si basi sul fondamento dell’unità sintetica a priori. Il primo requisito manterrebbe una sintesi pura tra le possibilità dell’immaginazione? Il secondo requisito sembrerebbe escluderlo in maniera certa, salvo il caso in cui dovesse darsi attività sintetica, già con un molteplice a priori ma non ancora in riferimento all’unità dei concetti. Il risultato sarebbe la presenza di momenti sintetici differenti. La deduzione nel testo non è ancora cominciata e si ha subito a che fare con chiare indicazioni in merito. Una sintesi pura ha bisogno di forme pure dell’intuizione e unità dei concetti: è come se l’immaginazione mostrasse un enorme potere di mettere insieme, di sintetizzare appunto, rivelando al contempo la propria insufficienza a comporre un tutto unitario. All’immaginazione manca uno scopo.

Se le rappresentazioni vengono messe insieme secondo sintesi, mediante cioè l’istituzione di un accordo legittimo tra esse e gli oggetti passibili di essere esperiti, in riferimento alla condizione dell’apriorità del molteplice, non può che derivarne che qualcosa come un oggetto sia in ultima analisi possibile esclusivamente per mezzo delle sue rappresentazioni. La sintesi dell’intelletto può condurre a conoscere qualcosa come un oggetto perché impone e presuppone unità. L’unità è la sua legge.

La scelta è quindi obbligata quando siano possibili:

soltanto due casi in cui la rappresentazione sintetica ed i suoi oggetti possono trovarsi insieme, possono riferirsi necessariamente a vicenda, e in un certo qual modo possono incontrarsi tra di loro: o quando è soltanto l’oggetto che rende

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possibile la rappresentazione, o quando è soltanto la rappresentazione che rende possibile l’oggetto.19

Kant punta senza riserve a mettere fuori gioco concezioni che unilateralmente si affidino a procedimenti di astrazione o analisi di per sé già impossibilitate a far altro che non sia semplicemente constatare dei presunti fatti.

La presenza alla nostra coscienza di forme concettuali è un problema, non un ovvietà20. Queste forme devono essere interrogate secondo il criterio della compossibilità sistematica delle eventuali risposte che potrebbero fornire. L’origine dei concetti deve essere pura a priori perché la loro necessità, per risultare veramente tale, non può essere tratta che da essi stessi. Il loro uso deve derivare da quella medesima necessità per ambire a potersi dire legittimo. Mettere insieme quanto ci è possibile percepire sensibilmente, trasformare i nostri sguardi sulla realtà in una conoscenza deve significare l’accesso a quell’inestinguibile bisogno del tutto che ha spinto Kant a contro – direzionare verso la ragione le sue stesse pretese. La ragione deve potersi cogliere come quel tutto verso cui si scopre, già sempre, orientata.

Il quadro dovrebbe essere sufficientemente chiaro per procedere con la lettura delle pagine vere e proprie della deduzione A. La posta in gioco risulta essere la legittimazione di una pretesa di diritto, nello specifico la pretesa dei concetti che diremmo nostri di riferirsi effettivamente alla realtà degli oggetti nel mondo. Una tale legittimazione, per dirsi veramente valida, coinvolge talmente in pieno questi

19 Ivi, B 125.

20 Cfr. Edmund Husserl, La Crisi delle Scienze Europee e la Fenomenologia

Trascendentale, trad. it. di E. Filippini, Prefazione di E. Paci, Il Saggiatore, Milano 2008,

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24 concetti, al punto da imporre la ricerca della loro stessa prima origine. In altri termini, per avallare le loro pretese, i nostri concetti devono:

- avere un’origine legittima;

- avere un uso la cui legittimità sia direttamente riferibile alla legittimità della propria origine.

Nessun uso è legittimo per concetti privi di legittima origine. Cosa sia poi questa legittimità, quali alternative comporti e quali prospettive offra è una questione di bilancio finale. Per quanto concerne il problema dell’origine le tavole dei giudizi e delle categorie possono dirsi tutt’altro che esaustive. Che i concetti derivino dai giudizi, i quali a loro volta si troverebbero propriamente né a derivare da qualcosa d’altro né a scoprirsi già sempre dati e strutturalmente insiti nella nostra naturale costituzione, è solo una considerazione che allarga i margini del problema: non si tratta solo di capire da dove i concetti provengano prima di essere impiegati ma piuttosto di riconoscere che, dovunque essi giungano, li scopriamo fatti per essere usati. Il problema dell’origine e quello dell’uso quindi non si limitano così a riferirsi reciprocamente secondo una determinata successione temporale. I due problemi non hanno soluzione che l’uno nell’altro, si compongono soltanto l’uno in relazione all’altro. L’origine dei concetti implica la questione di un loro possibile uso.

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25 TRE SINTESI

Prendere atto che i concetti debbano poter essere usati e che questa possibilità sia vincolante per la determinazione della loro origine non significa però che senza uso quei concetti non avrebbero senso in toto. Quei concetti, senza un uso, non avrebbero senso solo come concetti. La possibilità di un uso non legittimo resta viva nell’analisi di tale questione: un uso illegittimo non può essere escluso in linea di principio e senza diritto ad una considerazione delle sue istanze ma è una necessità per determinare condizioni di legittimità. Non esiste pagina dell’opera critica in cui svanisca questa sorta di tensione dialettica. La prosa stessa di Kant, largamente sviluppata secondo dicotomie, riflette spesso questa specie di minaccia che incombe. I concetti in quanto tali hanno un uso, senza il quale tuttavia possono mantenersi in vita, ma non in quanto concetti. La deduzione A si innesca con un tale scenario alle spalle:

Il fatto che un concetto venga prodotto del tutto a priori e debba riferirsi ad un oggetto, seppure esso stesso non appartenga al concetto dell’esperienza possibile e neppure consista di elementi di una possibile esperienza, è del tutto contraddittorio ed impossibile. In tal caso, infatti, il concetto non avrebbe alcun contenuto, dal momento che non gli corrisponderebbe alcuna intuizione, in quanto le intuizioni in generale – tramite cui ci possono essere dati gli oggetti – costituiscono il campo (das Feld) ossia l’intero oggetto dell’esperienza possibile. Un concetto a priori che non si riferisca a quest’ultima sarebbe soltanto la forma logica per un concetto, ma non il concetto stesso mediante il quale qualcosa sarebbe pensato.21

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26 Indicazioni chiare esprimono la determinazione, per quanto preliminare, di una conoscenza in senso proprio: gli oggetti in quanto tali possono essere soltanto esperiti. I concetti sono degli oggetti in entrambi i sensi del genitivo poiché in una certa misura appartengono agli oggetti. Il molteplice dell’intuizione fa valere una sorta di diritto di proprietà nei confronti dei concetti che ne costituirebbero a loro volta, da un'altra prospettiva, la forma unitaria. Che sensibilità, intelletto ed esperienza abbiano senso in termini di conoscenza determinata di oggetti solo in riferimento ad una reciproca coesistenza e connessione è un punto d’appoggio estremamente importante per la deduzione. Che tuttavia altri termini di conoscenza siano a loro volta sempre presenti, configurando altri equilibri tra facoltà, suggerendo altre esperienze, è un monito da mantenere sempre vivo. La deduzione sta già sempre cercando di tracciare una rotta verso una precisa destinazione e le alternative di validità non sono il materiale di scarto di questo lavoro ma a loro volta lo definiscono e lo determinano.

La questione fondamentale è adesso la possibilità per le forme di pensiero che possediamo di fornirci una relazione feconda e vera con quanto a noi di esterno percepiamo. Queste e non altre forme di pensiero sono i concetti puri dell’intelletto e la relazione in questione è quella dell’esperienza. Il peso delle forme logiche del giudizio grava su questa configurazione teorica e graverebbe anche senza l’elenco casellario già fornitoci da Kant. Avendo a disposizione un campo, la strategia in fase di elaborazione prevede così l’istituzione di un dominio. A questo punto dell’indagine nel 1781 Kant non ha ancora in mente una teoria completa tale da generare il testo della Critica del giudizio ma l’impiego del termine Feld ed il

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27 problema dell’uso dei concetti come è stato fin qui configurato costituiscono tracce preziose (per quanto ridotte) in riferimento alla terza Critica.

Quanto Kant ci riferisce nel secondo capitolo dell’Introduzione (la seconda pubblicata) della Critica di giudizio, si pone sulla stessa linea dell’impostazione iniziale della deduzione del 1781:

I concetti, in quanto vengono riferiti ad oggetti, senza considerare se una loro conoscenza sia possibile o no, hanno il loro campo, che viene determinato solo in base al rapporto che il loro oggetto ha con la nostra facoltà conoscitiva in generale. – La parte di questo campo nella quale la conoscenza ci è possibile, è un territorio (territorium) per questi concetti e per la facoltà conoscitiva richiesta per tale scopo. La parte del territorio sulla quale essi sono legislatori è il dominio (ditio) di questi concetti e delle facoltà conoscitive loro corrispondenti. I concetti dell’esperienza hanno dunque si il loro territorio nella natura, come insieme di tutti gli oggetti dei sensi, ma non un dominio (bensì solo un domicilio,

domicilium), perché essi vengono si prodotti secondo leggi, però non sono

legislatori, ma invece le regole che su di essi si fondano sono empiriche e quindi contingenti22.

Sarebbe privo di senso sancire perentoriamente un legame diretto tra le queste parole e la prima pagina della deduzione A, dato che il pensiero di Kant nel decennio intercorso si è sviluppato ed ampliato in molteplici direzioni. L’interesse legittimo deve limitarsi ai margini per l’istituzione di una configurazione teorica analoga. Sono analoghi i termini del problema, non lo sono i suoi confini, non lo sono gli scopi. È ormai chiaro che ai concetti spetta un campo d’applicazione sul quale operare e determinare al contempo questo stesso operare nella forma di individuazione di

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28 condizioni. I rapporti e i significati di conoscenza ed esperienza sono decifrabili solo alla luce delle condizioni che rendono legittimo l’uso dei concetti. La prima tra queste, come primariamente presente, è il molteplice dell’intuizione. Assistiamo pertanto al pieno e diretto coinvolgimento delle analisi e dei risultati dell’estetica trascendentale per quanto riguarda la sensibilità e le forme pure dell’intuizione. Lo scenario che Kant configura si articola in spazi teorici in cui gli elementi essenziali in esame, cioè concetti e intuizioni, sorgono e operano. Kant ci ha già segnalato che il molteplice deve essere attraversato, raccolto e connesso (durchgegangen, aufgenommen, verbunden)23 in maniera sintetica, pertanto il primo passo della deduzione prende in considerazione tre momenti, secondo le fonti soggettive e le operazioni da compiere. La deduzione si innesca esattamente su quanto sinora non ha mai smesso di mantenersi in prima linea nelle indagini mirate, tra le altre cose, alla ricerca di un contatto della ragione con il mondo: il molteplice dell’intuizione.

Il passaggio attraverso (das Durchlaufen) il molteplice, perché non sia un errare senza meta, si fonda sull’unità garantita all’intuizione dalle sue forme pure di spazio e tempo ed è possibile in riferimento ad esse soltanto. Passare attraverso il molteplice vuol dire unificarlo ad un primo livello in uno spazio e in un tempo. Disponiamo così di uno sguardo d’insieme, una sinossi del molteplice dell’intuizione, che vuol dire percepire qualcosa in maniera unitaria, in uno scenario comune all’interno del quale è stato imposto un orientamento. Il termine sinossi (Synopsis) presente anche ad A 97 fa parte di una porzione di testo esclusa dalla deduzione B che fa riferimento a:

tre sorgenti originarie (capacità o facoltà dell’anima), che contengono le condizioni di possibilità di ogni esperienza, e non possono a loro volta essere

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derivate da nessun altra facoltà dell’animo, vale a dire: senso, facoltà di immaginazione e appercezione. Su di esse si fondano 1) la sinossi a priori del molteplice mediante il senso; 2) la sintesi di questo molteplice mediante la facoltà di immaginazione; infine 3) l’unità di questa sintesi mediante l’appercezione originaria. Tutte queste facoltà hanno, oltre a un uso empirico, anche un uso trascendentale, che riguarda unicamente la forma ed è possibile a priori.24

Da questa prospettiva sembrerebbe essere sparito l’intelletto come è stato possibile conoscerlo secondo quanto richiesto dalla logica trascendentale. Se la sintesi compete all’immaginazione e la sua unità è affare dell’appercezione trascendentale, che cosa è l’intelletto? Sappiamo perfettamente che le funzioni di unità dei concetti dell’intelletto fanno riferimento all’unità dell’appercezione, ma allora perché escluderlo in quanto tale come facoltà dei concetti? Se l’immaginazione e l’appercezione fossero sufficienti a completare il processo sintetico avviato dalle forme pure dell’intuizione non è ben chiaro quale debba essere il posto dei concetti dell’intelletto. Probabilmente questi tradurrebbero in forme specifiche un’unità che però dovrebbe poi essere da sola incapace di raggiungere direttamente il molteplice e la sintesi dell’immaginazione. La mediazione dell’intelletto aprirebbe uno scenario del tutto inedito, dato che quello in esame ha preso avvio proprio dai concetti puri di un determinato e specifico modo di essere dell’intelletto. Che questo testo sia stato da Kant estromesso è indice di scelte in rotta di collisione. Il passaggio attraverso (durch) il molteplice assume la forma di un’apprensione del medesimo per il tramite di spazio e tempo e fornisce una preziosa indicazione sul merito della questione della presunta passività della sensibilità rispetto all’intelletto.

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30 L’attività della sensibilità è la sua ricettività e ricevere il molteplice in forme pure è qualcosa di completamente altro rispetto al meccanico impiego di un contenitore: l’apprensione è una sintesi pura nell’intuizione. Tra A 97 e A 98 ci viene presentata in linea di massima la struttura dei paragrafi in cui la deduzione si articola ed è presente inoltre la prima ricorrenza del termine immaginazione come Einbildung. L’immaginazione farà la sua comparsa nel testo molte altre volte fino ad A 130 compreso. La seconda di queste compare ad A 100, nel titolo del paragrafo che introduce la sintesi della riproduzione in der Einbildung. Spazio e tempo hanno consegnato al molteplice empirico l’unità di una rappresentazione intuitiva, la forma di una singolarità. Il problema si sposta quindi ad un altro livello, quello dell’unità di rappresentazioni in una successione.

L’incipit kantiano ancora una volta si innesta sulla constatazione empirica che ci è possibile associare rappresentazioni diverse e mantenerle insieme in una successione nel tempo. Questa o quella rappresentazione, l’una differente dall’altra, possono seguire l’una dopo l’altra, in connessione regolare. Questa regolarità è da Kant imputata appunto all’azione di una regola che sottopone a sé quelle rappresentazioni, componendole in una serie determinata. Se dunque ci è possibile avanzare un’aspettativa su una rappresentazione per pensare in anticipo alla successiva e mantenere la precedente nel passaggio dall’una all’altra, ciò accade perché una regola permette di riconoscere una rappresentazione come affine ad ogni altra. Nella peggiore delle ipotesi, qualora non si riuscisse a determinare tale regola, ogni rappresentazione sarebbe quantomeno sempre ordinata in uno spazio e in un tempo. Di fatto quindi le forme pure dell’intuizione si scoprono come la prima cornice di affinità di ogni rappresentazione con ogni altra.

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31 La sintesi dell’apprensione è già a questo punto indissolubilmente connessa alla riproduzione dell’immaginazione. Quest’ultima, nella veste di empirische Einbildungskraft ha pertanto qualcosa su cui operare secondo la sua attività: può ri-produrre rappresentazioni e mantenerle in una serie regolata perché queste si sono prodotte tutte secondo una medesima regola: spazio e tempo, ma non solo. L’immaginazione resta empirica fino ad A 101 compreso, ribadendo la sua vocazione ad avanzare aspettative nei confronti delle rappresentazioni e giustificando tale istanza sulla necessità di una regola che garantisca coerenza e stabilità. Ma ogni empirico ha a monte un a priori, un puro, un trascendentale, e Kant non ci delude nemmeno in questo caso: è una lezione della filosofia trascendentale.

Deve esserci dunque qualcosa che renda possibile a sua volta questa riproduzione dei fenomeni, per il fatto di essere il fondamento a priori di una necessaria unità sintetica di essi.25

L’immaginazione non sfugge, come il fondamento su cui si basa la sua attività, a questo accorgimento e la sua sintesi non può far altro che scoprirsi di conseguenza pura e trascendentale, alla base della possibilità dell’esperienza: fenomeni connessi in un tutto unitario e regolato. L’operare puro dell’immaginazione ci viene presentato come un ri-produrre a priori, senza cioè la presenza materiale dell’oggetto empirico, una rappresentazione in una successione che deve poter risultare coerente, quindi regolata, per restare presente come tale alla nostra coscienza. Dopo aver attraversato il molteplice, lo si può quindi cogliere (fassen) nel pensiero, ovvero raccogliere, consegnandogli un ordine (cfr. Zusammennehmung ad A 99).

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32 Sia chiaro che questi momenti non sono realmente successivi nel tempo ma si trovano logicamente in progressione unitaria. Senza dubbio questa configurazione potrebbe, e di fatto ha potuto, portare a vedere il mero esplicarsi di un processo psicologico impossibilitato in quanto tale a fondare in altra maniera, non psicologica, quanto pretendeva realmente di fare. La stessa esistenza di facoltà e fonti soggettive deve far pensare a quale punto sia la ragione nel cammino verso la sua propria unità. Si deve restare vigili. Apprensione e riproduzione non possono che stare in unità poiché entrambe garantiscono il medesimo percorso e risparmiano alla coscienza un pericoloso smarrimento: apprendere per riprodurre e proseguire mantenendo la rotta. La conclusione del paragrafo non lascia trasparire alcuna esitazione a riguardo:

la sintesi riproduttiva dell’immaginazione rientra fra le operazioni trascendentali dell’animo, e con riguardo a queste chiameremo tale facoltà anche facoltà trascendentale dell’immaginazione.26

L’impiego del termine rappresentazione (Vorstellung) impone una considerazione di ampio raggio del quadro finora strutturatosi. Il peso della deduzione grava sul concetto di rappresentazione in maniera decisiva: Kant sta affidando la legittimità delle nostre rappresentazioni alla legittimità dei concetti che sono chiamati ad unificarle. La rappresentazione si sviluppa in coordinate spazio – temporali ed è passibile di riproduzione a priori all’interno del tracciato che conduce alla sua unità in un concetto di un oggetto. La pretesa di circoscrivere questo termine ad un nucleo di significato univoco e ben stabilito è tuttavia destinata a restare vana in queste pagine.

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33 Una definizione chiara e distinta di rappresentazione si riscontra invece ad A 320 – B 377, alla fine della prima sezione della dialettica trascendentale:

Il genere è la rappresentazione in generale (repraesentatio). Sotto di esso sta la rappresentazione accompagnata da coscienza (perceptio). Una percezione che si riferisca unicamente al soggetto, come la modificazione del suo stato, è sensazione (sensatio); una percezione oggettiva è conoscenza (cognitio). Quest’ultima o è intuizione o concetto (intuitus vel conceptus). La prima si riferisce immediatamente all’oggetto ed è singola; il secondo vi si riferisce mediatamente, per mezzo di una nota caratteristica che può essere comune a più cose. Il concetto o è empirico o è puro; e il concetto puro, nella misura in cui ha la sua origine unicamente nell’intelletto (non nell’immagine pura della sensibilità) si chiama notio. Un concetto composto di nozioni, che oltrepassa la possibilità dell’esperienza è l’idea, ossia il concetto della ragione. Una volta che questa differenziazione sia divenuta abituale, deve risultare insopportabile sentir chiamare idea la rappresentazione del colore rosso. Questa rappresentazione non può essere chiamata nemmeno nozione (concetto dell’intelletto).27

Teniamo presenti due fattori: 1) tra le rappresentazioni esiste una differenziazione di tipo gerarchico; 2) lo schema è del tutto assente da questo quadro e questa pagina rappresenta un indizio prezioso riguardo la comprensione della sua natura.

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34 Volendo ampliare un po’lo sguardo possiamo fare alcune considerazioni circa l’emergere sullo sfondo delle argomentazioni esaminate di alcune importanti istanze del pensiero di Kant. La Critica della ragion pura sorge dal bisogno del tutto della ragione ed anche dall’inadeguatezza della metafisica a lei precedente di offrirne compiuta soddisfazione. Quale valore dare alle conquiste ultime della ragione se non si possiede la sicura certezza che vi si è pervenuti su fondamenti altrettanto ultimi? Questa domanda agisce senza sosta e senza soluzione di continuità in tutta l’opera come una prospettiva originaria. Dare fondazione scientifica alla metafisica sta significando per Kant appropriarsi delle condizioni che permettono a quelle indagini di non risolversi in evanescenze prive di valore con l’effetto per nulla collaterale di imporre ad ogni nostro impiego della parola verità e con esso ad ogni nostro pensiero connesso con la coscienza della nostra presenza su qualcosa come un mondo, la più radicale messa in discussione. La ragione nella Critica è inquieta, quasi divisa dal bisogno di sapersi tutto e dal terrore di scoprirsi nulla. La possibilità di articolare i pensieri in linguaggio e la relativa sicurezza di utilizzare quest’ultimo in maniera reale è destinata ad un banco di prova talmente formidabile da coinvolgere persino il senso più proprio della parola realtà. Tutto ciò va ben oltre la limitata prospettiva di una deduzione chiamata semplicemente a fondare un sapere stabile.

Ci muoviamo così nell’ottica di rappresentazioni valide di oggetti:

E qui allora, è necessario aver chiaro che cosa si intenda con l’espressione: oggetto delle rappresentazioni. Abbiamo detto in precedenza che i fenomeni stessi non sono che rappresentazioni sensibili, le quali allo stesso modo non devono essere considerate in se stesse come oggetti (fuori della facoltà

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rappresentativa). Che cosa si intende allora quando si parla di un oggetto corrispondente alla conoscenza, e quindi da essa distinto? Èfacile riconoscere che tale oggetto deve essere pensato soltanto come qualcosa in generale = x, poiché non abbiamo nulla al di fuori della nostra conoscenza da poter contrapporre a tale conoscenza come corrispondente. Noi troviamo però che il nostro pensiero della relazione di ogni conoscenza con il suo oggetto comporta qualcosa di necessario, dal momento che l’oggetto viene considerato come ciò che si oppone al fatto che le nostre conoscenze siano determinate a casaccio o arbitrariamente, e fa sì che esse invece siano determinate in un certo modo a priori: infatti, nella misura in cui tali conoscenze possono riferirsi ad un oggetto, esse devono anche accordarsi necessariamente l’una con l’altra in relazione all’oggetto, cioè devono possedere quell’unità che costituisce il concetto di un oggetto.28

Se i fenomeni sensibili, quanto cioè di molteplice acquisiamo per intuizione, non possono essere considerati oggetti in se stessi prescindendo dalla facoltà rappresentativa (Vorstellungskraft), consegue allora che la rappresentazione garantisce a quel molteplice la possibilità di essere un oggetto. Le rappresentazioni a questo stadio della deduzione sono state spazio – temporalmente ordinate e riprodotte a priori ma non potrebbero ancora dirsi conoscenza in quel senso che Kant ci ha prospettato come proprio: manca qualcosa. Un oggetto tale da corrispondere ad una conoscenza mantenendo comunque uno statuto distinto da questa è qui pensato come una variabile incognita. Ciò che conta è la necessità che debba poterci essere un’uguaglianza nel rapporto, pertanto l’oggetto = x deve poter essere in grado di corrispondere a qualsivoglia sua determinazione. Solo una forma universale può sperare di compiere tale impresa.

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36 Quale che sia la conoscenza in causa, la necessaria possibilità della sua corrispondenza con una conoscenza = x ci segnala che tale corrispondenza è decisiva per entrambe. Non vi è nulla al di fuori di quanto possiamo conoscere da contrapporre a questa variabile incognita: ogni nostra conoscenza, sensibile, intuitiva è messa in rapporto necessario con una conoscenza altra, tale da non dover essere nessuna cosa, perché chiamata ad essere qualunque cosa. Il problema dell’universalità della condizione e quello della insindacabile omogeneità tra elementi eterogenei ricevono con questo passaggio pieno diritto di cittadinanza in questa indagine, ne rappresentano lo sviluppo obbligato. Il pensiero della corrispondenza è la forma in cui si declina l’istanza di unità. Ogni conoscenza, per dirsi tale in senso proprio, coerentemente con quanto già indicatoci da Kant in precedenza, deve corrispondere ad unità. È chiaro quindi che quella variabile, per quanto incognita, è sempre unità e il pensiero di questa unità ce la restituisce un po’meno incognita ed anche meno variabile per quanto sia variabile ogni elemento a sinistra dell’equazione:

Diciamo quindi di conoscere l’oggetto se abbiamo prodotto un’unità sintetica del molteplice delle rappresentazioni.29

La conoscenza in senso proprio è determinazione sintetica unitaria, è connessione del molteplice nell’unità di un concetto, funzione unitaria del giudizio. La ricognizione nel concetto sembrerebbe chiudere la disamina intorno all’operare mai chiaramente espresso di quella regola capace di dare un senso alle percezioni del molteplice intuito ed alla loro riproduzione nell’immaginazione. Determinare un oggetto, conoscerlo, significa quindi renderlo uno.

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37 Come giustificare però l’inespresso presupposto che l’unità in questione sia in nostro possesso? Senza dubbio siamo in grado di osservare come- l’origine dei concetti in quanto concetti non sia slegata dalla necessità di un loro uso possibile e come questo uso faccia a sua volta riferimento ad una funzione di unità.

Da una prospettiva più ampia rispetto a quella riguardante la determinazione di oggetti, l’uso dei concetti in quanto funzioni di unità non ha ancora provato sino in fondo la sua legittimità. La soluzione che Kant si accinge a presentare è un punto di massima connessione sistematica per la ragione. Il modo di essere di questa legittimità da solo ci permette di allargare il raggio della prospettiva della deduzione fino a coglierne i legami essenziali. L’unità dei concetti è tale per rappresentazioni sorte dal molteplice dell’intuizione. I concetti puri dell’intelletto hanno la legittimità di un uso quali condizioni necessarie, tuttavia solo a date condizioni.

La necessità in questione è ricondotta all’unità della coscienza al cui interno le rappresentazioni sorgono e si connettono. Essere coscienti della propria unità significa offrire ad ogni eventuale rappresentazione la garanzia di appartenenza alla medesima cornice. Percepire a monte di questa cornice la percezione stessa come possibile solo perché una pone l’appercezione originaria dell’identità della propria coscienza a fondamento dell’unità dei concetti puri dell’intelletto.

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38 Solo uno scenario fautore di stabilità unitaria può permettere alle rappresentazioni di muoversi sul suo sfondo e renderle oggetti di conoscenza proprio in relazione alla possibilità che su questo sfondo soltanto si trovano ad essere comprese. L’appercezione trascendentale chiude il terzo paragrafo della deduzione A ponendosi a fondamento della possibilità della sintesi unitaria delle intuizioni in concetti. Sull’identità della sua operazione di sintesi l’uso dei concetti, dare cioè unità alle intuizioni, si connette con la loro origine: sorgono per connettere in unità. Così Kant:

la coscienza originaria e necessaria dell’identità di se stessi è allo stesso tempo coscienza di un’unità altrettanto necessaria della sintesi di tutti i fenomeni secondo concetti, cioè secondo regole che non soltanto li rendono necessariamente riproducibili, ma con ciò determinano anche un oggetto per la loro intuizione, cioè il concetto di qualcosa in cui essi necessariamente si congiungono: infatti l’animo non potrebbe giammai pensare, e per giunta a priori, l’identità di se stesso nella molteplicità delle sue rappresentazioni, se non avesse davanti agli occhi l’identità della sua operazione, che sottopone ogni sintesi dell’apprensione (che è empirica) ad una unità trascendentale e rende innanzitutto possibile a priori la connessione delle rappresentazioni secondo regole.30

La sintesi dell’apprensione in realtà non è propriamente solo empirica, riguardando forme pure, ma potrebbe dirsi tale, come però le altre sintesi, in relazione al suo materiale. Senza dubbio è l’operazione più prossima al molteplice empirico ma la scelta del termine empirica non è esattamente una buona idea. L’oggetto trascendentale = x procura relazione ad un oggetto, cioè realtà oggettiva in tutti i

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39 concetti empirici, vale a dire nel molteplice intuito perché esprime il pensiero della corrispondenza tra qualsivoglia intuizione e l’unità dell’appercezione.

L’incognita variabile è l’unità stabile dell’appercezione. Pertanto i concetti puri esprimono il pensiero della corrispondenza necessaria tra questa e qualsivoglia intuizione:

i fenomeni, cioè, devono sottostare nell’esperienza alle condizioni dell’unità necessaria dell’appercezione, come pure nella semplice intuizione devono sottostare alle condizioni formali dello spazio e del tempo: insomma, è solo a tali condizioni che ogni conoscenza diviene possibile.31

Gli elementi per comprendere quali contorni assuma la questione della legittimità dei concetti puri dell’intelletto non possono certo dirsi pochi al punto in cui si chiude il terzo paragrafo, ma Kant ci introduce al paragrafo successivo prospettandoci una spiegazione preliminare della possibilità delle categorie come conoscenze a priori. La presunta preliminarietà di questa spiegazione è introdotta dalla definizione di forma dell’esperienza quale unità sintetica completa delle percezioni, quindi, unità sintetica dei fenomeni secondo concetti. L’arco delle tre sintesi è interamente coperto da questa formulazione che consegna all’esperienza il titolo di conoscenza in senso proprio in quanto sede dell’unità richiesta e imposta dall’unità dell’appercezione.

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40 Kant ci sta mostrando che “the recognition of representations under a concept is possible only if the activities described in the first two steps were always already oriented toward this goal.”32

Le prerogative dell’esperienza riguardano prima di tutto criteri di necessità e connessione regolare. La legittimità tanto cercata assume il significato di condizione. L’intelletto dispone di una funzionalità che può dirsi valida e reale perché rende possibile quella realtà con cui siamo già sempre in contatto e che solo in relazione a questo contatto diciamo esperienza. Il senso della parola realtà viene a trovarsi profondamente ri-compreso. La possibilità di quella realtà che chiamiamo esperienza traduce la realtà oggettiva dei concetti che fondano quella possibilità: la conoscenza di oggetti è l’operare sintetico di funzioni unitarie che possono dirsi valide per quegli oggetti proprio perché li rendono possibili e possono renderli tali solo a condizione di avere la possibilità di operare quella sintesi, vale a dire solo in rapporto necessario all’intuizione:

la possibilità, e persino la necessità di queste categorie, si fonda sulla relazione che l’intera sensibilità, e con essa anche tutti i possibili fenomeni, hanno con l’appercezione originaria, nella quale tutto deve essere conforme alle condizioni dell’unità completa dell’autocoscienza, cioè deve sottostare alle funzioni universali della sintesi – più precisamente la sintesi secondo concetti, l’unica in cui l’appercezione può dimostrare a priori la sua identità completa e necessaria.33

32 Béatrice Longuenesse, Kant and the Capacity to Judge. Sensibility and Discursivity in the

Transcendental Analitic of the Crique of Pure Reason, translated by Charles T. Wolfe,

Princeton University Press, Princeton and Oxford, 1998, pag. 51. 33 KrV, A 111 – A 112.

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41 La relazione tra sensibilità e appercezione fonda la possibilità e necessità delle categorie perché sancisce che sorgono per operare come devono. Il fatto che tale relazione sia una condizione di possibilità (e necessità) significa che questa istituisce un campo d’azione, vale a dire che offre un fondamento trascendentale al concetto di affinità. La condizione in questione è fondante nella misura in cui esprime l’origine, l’uso e la legittimità delle categorie quali:

- funzioni la cui operazione di sintesi dimostra a priori l’identità completa e necessaria dell’appercezione;

- concetti che sorgono per connettere in unità e che possono fare ciò che devono solo a patto di averne concretamente la possibilità, quindi il molteplice dell’intuizione.

Le categorie trovano il loro limite nella necessità stessa del loro uso: sorgono per unificare; esistono, hanno un senso, come categorie, finché e solo nella misura in cui unificano. La relazione tra sensibilità e appercezione fonda la possibilità e necessità delle categorie quali formulazioni attuative di quella stessa relazione. In questione, insieme alla legittimità di cui si è fatta carico la deduzione, c’è la tenuta d’insieme di un’intera indagine.

Scoprire che la coscienza dell’unità dell’appercezione ha uno stretto legame con l’intera (gesamte) sensibilità significa stabilire un certo ordine di idee. Chiamare in causa l’esperienza come fonte per quei concetti che invece la rendono possibile non è ammissibile all’interno dell’equilibrio fin qui costruito dal momento che si romperebbe il legame tra questi concetti e l’unità di quella coscienza al cui interno soltanto l’esperienza può dirsi tale. La derivabilità di un concetto non dovrebbe mai

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