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Sommario 1 INTRODUZIONE ............................................................................................................................................... 2

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Sommario

1 INTRODUZIONE ... 2

1.1 AMEBE A VITA LIBERA: GENERALITÀ ... 2

1.2 ACANTHAMOEBA SPP. ... 4

1.2.1 INQUADRAMENTO GENERALE... 4

1.2.2 CICLO VITALE DEL PARASSITA ... 7

1.2.3 CHERATITE DA ACANTHAMOEBA (Acanthamoeba keratitis, AK) ... 8

1.2.4 DIAGNOSTICA NELLE AK ... 12

1.2.5 TERAPIA DELLE AK ... 17

2 SCOPO DELLA TESI ... 20

3 MATERIALI E METODI ... 22

3.1 TAMPONI FLOCCATI E PRELIEVO AMBULATORIALE ... 22

3.2 ANALISI COLTURALE PER ACANTHAMOEBA SPP. ... 25

3.3 ANALISI MOLECOLARE PER LA RICERCA DEL GENOMA DI ACANTHAMOEBA SPP. ... 25

4 RISULTATI ... 28 4.1 CASISTICA ... 28 4.2 TERAPIA ... 30 4.3. CRITICITA’ ... 30 5 CONCLUSIONI ... 35 6 BIBLIOGRAFIA ... 38

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1 INTRODUZIONE

1.1 AMEBE A VITA LIBERA: GENERALITÀ

Le amebe a vita libera (Free-living Amoebae, FLA) capaci di infettare l’essere umano appartengono a quattro generi distinti (Acanthamoeba, Balamuthia, Naegleria, Sappinia) e sono responsabili di infezioni opportunistiche e non sia nell'uomo che in altri animali (1, 32). Il raggruppamento sotto questa denominazione si deve al fatto che tali microrganismi hanno in comune la caratteristica di non essere parassiti obbligati; possono completare il loro ciclo vitale sia nell’ambiente, sia parassitando un organismo ospite; per questo motivo sono parassiti anfizoici. Le infezioni da FLA hanno una bassa morbidità, che si accompagna però a una alta mortalità (32). Questi microrganismi sono distribuiti in tutto il mondo e sono stati isolati dal suolo, dalla polvere, dall'aria, dall'acqua di mare, piscine, fognature, centri di trattamento dentale, unità di dialisi, stazioni di lavaggio oculare e da lenti a contatto (1).

In un primo momento le FLA sono state riconosciute come patogeni a livello del sistema nervoso centrale (SNC), nel 1970 (meningoencefaliti) (28). Ad oggi si conoscono diverse entità cliniche associate a infezione da FLA. Tutti e quattro i generi possono causare infezioni del SNC spesso fatali; un caso particolare è quello di Naegleria fowleri, che è agente eziologico di una sindrome clinicamente e istologicamente ben definita, l’encefalite amebica primaria (Primary Amoebic Encephalitis, PAM). Alcune specie di Acanthamoeba e Balamuthia mandrillaris sono agenti eziologici di un’infezione opportunistica rara, l’encefalite granulomatosa amebica (Granulomatous Amebic Encephalitis, GAE). Alcune FLA sono invece responsabili di infezioni localizzate ai tegumenti, occhio, seni paranasali, polmoni e

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reni (tab. 1). Non vi è differenza nella suscettibilità a tali infezioni nei pazienti immunocompetenti e immunodepressi (33).

Malattia

Infezioni SNC Infezioni localizzate

PAM GAE Infez. Occhio Infez. tegumenti

Agente eziologico N. fowleri Acanthamoeba spp., B. mandrillaris Acanthamoeba spp. Acanthamoeba spp., B. mandrillaris Fattori di rischio Acque calde infestate Immunodepressione, alcolismo, droghe ev, acque

contaminate, viaggi in penisola iberica Lesioni corneali, uso di lenti a contatto Lesioni cutanee, trapianto di organo solido, trami, interventi

chirurgici

Via di ingresso

Epitelio

olfattorio Lesioni cutanee, vie aeree Cornea

Lesioni cutanee, disseminazioni da

tessuti viciniori

Incubazione 5-7 giorni Settimane/mesi Non nota Non nota

Segni e sintomi Cefalea, febbre, rigidità nucale, nausea, confusione mentale, convulsioni, alterazioni stato di coscienza e personalità Febbre, convulsioni, fotofobia, alterazioni stato di

coscienza e personalità Lacrimazione, iperemia, dolore, fotofobia Noduli, pustole, papule, ulcere

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4 Istopatologia Aree emorragiche e colliquative, lesioni nodulari del SNC con edema vasogenico

Edema cerebrale, aree colliquative nuclei della base

e corteccia, aree necrotico-emorragiche diffuse, aree

ischemiche del tronco encefalico Ulcerazione e perforazione corneale, infiltrato granulomatoso stromale

Granulomi multipli con infiltrato linfocitario, cellule giganti e plasmacellule, necrosi dermo-ipodermica Diagnostica Microscopia, TC, RM, PCR, Ricerca anticorpi CT, RM, microscopia, immunofluorescenza, PCR Microscopia, coltura, PCR Istologia, immunofluorescenza, coltura, PCR

Prognosi Sfavorevole Sfavorevole Favorevole Varia

Numero di casi nel mondo

300 150 (Acanthamoeba spp.),

200 (B. mandrillaris) >3000 Non noti

Tasso di

mortalità >95% 90-94%

20% (fallimento

terapeutico) Non nota

Tabella 1. caratteristica delle principali infezioni da FLA. Modificato da Katarzyna et al. (33)

1.2 ACANTHAMOEBA SPP.

1.2.1 INQUADRAMENTO GENERALE

Il microrganismo fu isolato per la prima volta nel 1913 da Puschkarew e denominato Amoeba poliphagus; succesivamente, nel 1930, fu ridenominato come Acanthamoeba castellani, dopo gli studi effettuati da un ceppo contaminante di una coltura fungina (34). Al momento sono note 34 specie appartenenti al genere Acanthamoeba, identificate su base morfologica e molecolare.

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5 Regno Protista Sottoregno Sarcomastigota Phylum Amoebozoa Classe Lobosea Ordine Amoebida Famiglia Acanthamoebidae Genere Acanthamoeba

Tabella 2 Inquadramento tassonomico di Acanthamoeba spp.

Acanthamoeba presenta un ciclo vitale diviso in due fasi (fig. 1). Una forma vegetativa di trofozoita, mobile, metabolicamente attiva e capace di riprodursi e una fase dormiente di cisti, che rappresenta una forma di resistenza e la cui formazione è innescata da condizioni ambientali avverse alla sopravvivenza del parassita (2,3). Il trofozoita è metabolicamente molto attivo, si nutre di batteri e materiale organico; la temperatura di crescita ottimale è di 30°C, in condizioni di pH neutro, ad un’osmolarità compresa tra 50 e 80 mosmol. La riproduzione avviene per fissione binaria. I trofozoiti di Acanthamoeba hanno una dimensione generalmente compresa tra 20 e 40 µm, anche se tali valori possono variare in modo significativo tra isolati di diverse specie/genotipi. Questi tipi di parassiti presentano sottili pseudopodi sulla loro superficie chiamati acanthopodia; tali strutture risultano molto importanti sia per l'alimentazione che per il movimento cellulare. A differenza di altre specie di FLA, Acanthamoeba non ha una forma di vita flagellata. Nel citoplasma sono presenti numerosi ribosomi, mitocondri e due tipi di vacuoli: un ampio vacuolo contrattile, legato alla regolazione osmotica e deputato principalmente all’espulsione di acqua e tanti piccoli vacuoli con funzione digestiva (2-5).

Lo stadio di cisti conferisce resistenza a condizioni ambientali sfavorevoli, quali l'essiccazione, temperature estreme, raggi ultravioletti e numerose sostanze chimiche (tra cui la maggior parte degli antisettici contenuti nelle soluzioni di

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lavaggio e mantenimento per lenti a contatto, disinfettanti e antimicrobici) (2-6). Le cisti hanno una dimensione compresa tra 5 e 20 µm e presentano morfologie diverse a seconda del tipo di isolato (sferica, poligonale, stellata, ovalare) (6,7, 34). La differenza di dimensioni tra trofozoita e cisti è dovuta a una significativa riduzione del volume cellulare, principalmente a causa della perdita di acqua tra uno stadio e l’altro. Le cisti presentano una doppia parete, costituita da una esocisti (esterna) e da una endocisti (interna). L’esocisti è costituita da polisaccaridi e proteine, l’endocisti da cellulosa PAS-positiva; tra le due pareti è presente uno spazio, fatta ecezione per alcuni punti di giunzione, detti ostioli, attorno ai quali le due lamine si riuniscono. Lo spessore di esocisti ed endocisti a questo livello si riduce notevolmente, divenendo estremamente sottile. All’interno di tale formazione si ha un’apertura, l’opercolo, che il parassita utilizza per uscire, come trofozoita, quando le condizioni ambientali sono nuovamente favorevoli.

Acanthamoeba è considerato un parassita con una distribuzione cosmopolita. Sono stati isolati ceppi da acque dolci (fiumi, sorgenti, laghi, acquedotti e piscine pubbliche) (3-8) e anche da acqua di mare (6 -10), sistemi di irrigazione agricoli (11), sistemi di riscaldamento e ventilazione, suolo, aria, centri termali, acquari, piante, fanghi di depurazione, unità di dialisi, stazioni di lavaggio oculare (per il primo soccorso sui luoghi di lavoro), colture cellulari e batteriche, lenti a contatto (astucci e soluzioni di lavaggio e mantenimento), finanche in dispositivi intrauterini (10-14). Negli animali sono stati segnalati casi nei cani, scimmie, bovini, canguri, uccelli, pesci, rettili ed echinodermi (15-19). Questa ampia distribuzione indica la natura cosmopolita di questi organismi, e risulta perciò comprensibile il riscontro di anticorpi anti-Acanthamoeba in individui sani, i quali indicano l’esposizione a questi patogeni opportunisti (20-22).

La prima evidenza che Acanthamoeba potesse essere agente eziologico di malattia nell'uomo si è avuta nel 1958, durante la sperimentazione sul vaccino anti-Polio. Fu segnalata la comparsa di “placche” all’interno di colture cellulari allestite per preparare il vaccino; tali formazioni furono ricondotte alla presenza di virus, dal momento che i topi e le scimmie, inoculati con tali colture, morirono di encefalite. In seguito, tuttavia, tali “placche” sono state messe in relazione alla presenza di amebe

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7

(26) e furono visti al loro interno sia i trofozoiti che le cisti; entrambe le forme furono identificate come appartenenti al genere Acanthamoeba. Il fatto che le cavie fossero morte in seguito all’insorgenza di encefalite, portò a considerare il ruolo delle FLA come agenti eziologici di malattia umana (27). Sebbene Acanthamoeba non sia un patogeno classico per l’essere umano, lo si può trovare come un organismo che causa infezioni opportunistiche. Ad esempio, è stata isolata dal naso e dalla trachea di pazienti con infezioni delle vie respiratorie, da secrezioni bronchiali, da essudati timpanici, biopsie renali e feci di pazienti con diarrea acuta (23-25). Si sono avuti isolamenti di Acanthamoeba anche da faringe e cavità nasali di soggetti sani, suggerendo un suo possibile coinvolgimento quale costituente del microbiota residente in questi distretti corporei (17, 34).

1.2.2 CICLO VITALE DEL PARASSITA

Acanthamoeba, come detto, presenta due stadi (trofozoita e cisti) ed è capace di vivere sia libero nell’ambiente sia come vero parassita di diverse tipologie di ospiti. In fig.1 ne viene schemattizato il ciclo vitale.

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Figura 1 - 1. Cisti; 2 Trofozoita; 3 Mitosi; 4 Sia cisti che trofozoiti entrano in contatto con l'essere umano; solo il trofozoita è forma infettante; 5-9 Vie di ingresso e patologie correlate.

Il trofozoita è la forma infettante del parassita; va però precisato che anche le cisti possono entrare in contatto con l’organismo umano, non determinando patologia. Le porte di ingresso sono rappresentate da epitelio corneale (sviluppo di cheratite da Acanthamoeba), alte vie respiratorie (insorgenza di GAE o di malattia disseminata), lesioni cutanee (sviluppo di GAE o di malattia disseminata). (35)

1.2.3 CHERATITE DA ACANTHAMOEBA (Acanthamoeba keratitis, AK)

La AK è un’entità clinica grave localizzata all’epitelio corneale (32). A differenza di GAE, tale patologia insorge negli individui immunocompetenti, a seguito di un trauma corneale in soggetti portatori di lenti a contatto (LAC) (tab.1). Le specie

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generalmente coinvolte sono A. castellani, A. poliphaga, A rhysodes, A. culbertsoni, A. hatchetti (33). Nello specifico i fattori di rischio associati allo sviluppo di AK sono (32):

• Soluzioni per LAC non sterili (contaminate); • Utilizzo di LAC per periodi di tempo prolungati;

• Utilizzo di soluzione unica (all-in-one) per manutenzione delle LAC; • Utilizzo di LAC durante la doccia, bagni in piscina, terme etc; • Scarsa attenzione alle norme igieniche nella gestione delle LAC.

A questi fattori di rischio risulta spesso associato il dato in anamnesi della lesione corneale, dall’abrasione al trauma conclamato. L’aumento nel mondo di persone che usufruiscono di LAC ha causato anche un aumento dei casi di AK (32, 34).

Clinicamente si ha l’insorgenza repentina di una sintomatologia che prevede dapprima lacrimazione, poi fotofobia, iperemia congiuntivale, dolore, sensazione di corpo estraneo, epifora, ptosi palpebrale; tipicamente le manifestazioni sono unilaterali. Se l’infezione non viene prontamente sospettata, diagnosticata e trattata, può portare a ulcerazione corneale, perdita del visus fino, nei casi più gravi, all’enucleazione (2, 32).

A livello istologico, Acanthamoeba riesce ad ancorarsi allo strato più esterno dell’epitelio corneale (fig. 2) attraverso specifici recettori per il mannosio adiuvati da ioni calcio; si ha così una prima invasione interlamellare da parte del trofozoita. In concomitanza con tali eventi, si ha la formazione di un primo infiltrato di polimorfonucleati. Successivamente, si ha la formazione dell’ulcera corneale, lisi della membrana limitante interna di Descemet e, eventualmente, perforazione corneale (2). A livello stromale compaiono infiltrati nummulari e cheratoneurite radiale; quest’ultima è caratterizzata dalla presenza di un infiltrato radiale (ma anche lineare o ramificato) parassitario, che segue il decorso dei nervi sensitivi corneali. In conseguenza di ciò si arriva ad una reazione infiammatoria in camera anteriore (ipopion) (32). Un tipico segno di infezione conclamata è la presenza di infiltrato ad anello dello stroma corneale.

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Figura 2 Struttura della cornea

I fattori di virulenza di Acanthamoeba sono stati solo parzialmente chiariti. Un primo elemento è costituito dalla capacità di legare i residui al mannosio di glicoproteine di superficie dell’epitelio corneale; una volta stabilito il legame, il parassita distrugge le cellule epiteliali mediante meccanismo attivo di fagocitosi. La capacità di aderire all’epitelio appare vincolata al numero di acanthopodia presenti sul trofozoita. I ceppi patogeni per l’uomo presentano un numero di formazioni >100/cellula (i non patogeni ne hanno circa 20/cellula). (43) Il secondo gruppo di fattori di virulenza è la produzione di enzimi litici che vanno ad accrescere il danno nei tessuti. Il parassita produce serina-proteasi, cisteina-proteasi e metalloproteasi che degradano il collagene di tipo I, la laminina, la fibronectina, le IgA secretorie; in aggiunta vi è il rilascio di elastasi e fosfolipasi A. Tali enzimi sono i principali responsabili del danno stromale (28). Oltre al meccansimo diretto di fagocitosi, il parassita dà un danno

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indiretto, mediante la stimolazione dell’apoptosi delle cellule costitutive dell’epitelio corneale. Non è ancora chiara la modalità di induzione di tale fenomeno (43)

La clinica è facilmente confondibile con quella di altri tipi di cheratiti, tipicamente con cheratite dendritica da herpes simplex virus e cheratite fungina; nondimeno, in molti casi si ha una sovrainfezione batterica. Va precisato che Acanthamoeba gioca un ruolo predominante nella sovrainfezione, essendo batteriofaga. Presenta una predisposizione per batteri non produttori di pigmenti o enzimi particolari; alcuni stipiti batterici, poi, sono capaci di sopravvivere all’interno del fagosoma di Acanthamoeba, che agisce così da reservoir di questi microrganismi. E’ il caso, ad esempio, di Legionella pneumophila, con la quale il parassita condivide l’habitat (43) o di Pseudomonas aeruginosa (fig. 3) (28).

In molti frangenti il sospetto di una AK viene posto nei casi di ulcera corneale che non mostra segni di miglioramento dopo terapia. Tale fattore causa un ritardo diagnostico che si ripercuote altresì sulla terapia e la guarigione. Anche le conseguenti chemioterapie antibatteriche, antivirali e immunosoppressive possono allontanare dal corretto iter diagnostico, dal momento che portano ad un iniziale miglioramento della sintomatologia, seguito dopo pochi giorni da un netto peggioramento (28).

Figura 3 Cisti di Acanthamoeba con Pseudomonas aeruginosa al suo interno. Foto effettuata da microscopio elettronico dopo aver messo in coltura i due microrganismi per 72 h

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1.2.4 DIAGNOSTICA NELLE AK

Punto critico nella gestione delle AK è la tempestività nella diagnosi e, quindi, nel trattamento adeguato. Come detto, il primo sospetto arriva solo dopo l’evidenza di ulcera corneale non responsiva ad alcuna terapia antibatterica, antifungina antivirale o corticosteroidea. Il primo problema che si presenta è quello della sovrapposizione del quadro clinico con quello di cheratiti da altri microrganismi: herpes simplex virus, P. aeruginosa, miceti. Il secondo problema è rappresentato dalla scelta del campione idoneo da mandare al laboratorio di microbiologia; il tampone congiuntivale e il tampone corneale superficiale non sono adeguati allo scopo, a causa della localizzazione spesso profonda delle cisti. (36). I materiali idonei per la ricerca di Acanthamoeba sono lo scraping corneale e la biopsia corneale, che risultano campioni più difficili da ottenere, sia per la difficoltà tecnica e l’esperienza richiesta al medico prelevatore, sia per la collaborazione necessaria da parte del paziente. L’invio al laboratorio del liquido di consevazione delle LAC e del loro astuccio contenitivo può essere di supporto, ma tali materiali non possono da soli confermare una diagnosi di AK; al contrario, si rivelano spesso tipi di campioni fuorvianti data la frequente positività per batteri e miceti (37-39).

La diagnosi a livello di specie di Acanthamoeba spp. risulta piuttosto difficile basandosi esclusivamente sui criteri morfologici. In principio era stata proposta una classificazione in tre gruppi, sulla base della morfologia e dimensione delle cisti; col tempo tale schema ha mostrato evidenti limiti, dovuti al fatto che i caratteri morfologici potevano variare in relazione alle condizioni di incubazione delle colture e alla composizione del terreno (28). Anche il tentativo di identificare a livello di specie tali parassiti attraverso un approccio immunologico con Western Blot non ha mostrato risultati affidabili (28).

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13 COLTURA

L’analisi colturale per Acanthamoeba può essere allestita su diversi tipi di terreni. • Buffered Charcoal Yeast Agar (Estratto di lievito, carbone attivo, buffer ACES, α

chetoglutarato-monopotassico);

• Triptycase soy agar (Estratto di caseina, estratto di farina di soia, cloruro di sodio) addizionato con sangue di cavallo al 5%;

• Peptone Yeast Glucose Agar (peptoni, estratto di lievito e glucosio);

• Agar non nutriente 1,5% inoculato con Escherichia coli (di cui Acanthamoeba si nutre attivamente).

Le condizioni di crescita ottimali sono una temperatura compresa tra 28°C e 35°C, in aria ambiente e per un periodo di tempo di almeno 10 giorni; temperature superiori ai 35°C non garantiscono la crescita di alcune specie di Acanthamoeba (40).

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Figura 5. Trofozoite di Acanthamoeba in coltura, con acanthopodia in evidenza (35)

La coltura è il metodo meno dispendioso e più semplice da portare avanti, ma oggigiorno non può essere l’unico strumento per la diagnostica di AK. (34)

MICROSCOPIA

Una prima analisi microscopica di grande importanza può essere fatta già in sede di visita oculistica, mediante l’osservazione diretta della superficie corneale con microscopia confocale. In tale sede possono essere viste le formazioni cistiche compatibili con AK. SI tratta di un’indagine molto sensibile, sebbene non permetta di fare diagnosi certa; sono necessari approfondimenti a livello laboratoristico (43). Sono state individuate più colorazioni in immunofluorescenza per evidenziare Acanthamoeba in campioni corneali. Nell’immunofluorescenza indiretta gli anticorpi vengono marcati con bianco calcofluoro come colorante; quest’ultimo si lega alla parete delle cisti, conferendo una fluorescenza verde. L’effetto può essere potenziato prolungando i tempi di contatto tra colorante e vetrino. Come colorante differenziale viene usato il blu di Evans, che va a colorare il lo sfondo di blu e va a fare da contrasto al colorante primario. Tale metodica si applica anche ai prelievi bioptici fissati in paraffina. Alternativamente può essere allestito un vetrino colorato con arancio di acridina, che conferisce alle cisti una colorazione giallo-arancione

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intensa (41, 42). Colorazioni, più specifiche per le cisti, sono quella con Acido Periodico di Schiff (Periodic Acid Schiff, PAS), ematossilina-eosina (H&E) e la colorazione di Gomori, tutte eseguite presso i laboratori di anatomia patologica. (34).

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Figura 7 Trofozoita di Acanthamoeba (freccia verde) colorato con H&E (35)

Merita un cenno anche la possibilità di osservare scraping e biopsie corneali con l’utilizzo della microscopia elettronica, nonostante sia un procedimento applicabile solo a pochi laboratori di riferimento.

METODICHE MOLECOLARI

Ad oggi risulta di valido ausilio diagnostico la ricerca di Acanthamoeba in campioni clinici mediante Polymerase Chain Reaction (PCR). La PCR risulta altamente specifica e permette di ottenere risultati in tempi relativamente brevi. Vengono generalmente utilizzate sonde che identificano Acanthamoeba a livello di genere; non è infatti mandatorio identificare la specie, nell’iter diagnostico-terapeutico di AK. Le sonde più comunemente utilizzate rilevano regioni genomiche comuni a tutte le specie di Acanthamoeba. Per aumentare la sensibilità della metodica, il campione clinico va trattato con idrossido di potassio (KOH), per agevolare la rottura delle pareti cistiche nella fase di estrazione del genoma parassitario.

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Altra metodica molecolare è la Loop Mediated Isothermal Amplification (LAMP), che ha come target l’RNA ribosomiale nucleare (18s rDNA); la metodica è assai sensibile (10 copie/DNA per reazione) e presenta elevata specificità per Acanthamoeba. Non permette l’identificazione di tutte le specie, ma rileva i genotipi più frequentemente associati a AK.

Ad oggi è possibile giungere a una corretta diagnosi di specie, utile ai fini epidemiologici, attraverso il sequenziamento del 18s rDNA; mediante tale approccio si possono classificare i vari isolati di Acanthamoeba spp. in venti cluster o sequence type, da T1 a T20 (44, 54,55). Gli studi in cui gli isolati clinici sono stati identificati con questa metodica hanno mostrato che i ceppi responsabili dell’insorgenza di cheratiti appartenevano più spesso al sequence type T4. (28, 29, 30, 31). In Italia recentemente si sono osservati cluster epidemici nel centro-sud Italia (Lazio e Puglia) di AK da Acanthamoeba appartenenti ai sequence type T4 e T15; sono stati rilevati in tale occasione, seppur sporadicamente, anche i sequence type T3 e T11 (45).

1.2.5 TERAPIA DELLE AK

Non esiste una terapia univoca per le AK. Da un lato perchè l’interazione ospite-parassita è di natura complessa, con numerosi fattori di virulenza (non ancora del tutto chiariti), dall’altro per la capacità di formare cisti a livello tissutale; le cisti, come precedentemente detto, rappresentano una forma di resistenza; in tale stadio si ha la resistenza all’essiccamento, alte/basse temperature, raggi UV, sostanze chimiche (dalle soluzioni di mantenimento della LAC a disinfettanti e chemioterapici) (43). Nelle fasi iniziali di infezione, è sufficiente il debridement dell’epitelio corneale superficiale; tale manovra permette sia di eliminare fisicamente il parassita, sia di utilizzare il materiale risultante per analisi microbiologiche (vedi sopra). E’ piuttosto difficile, però, individuare i casi precoci, come già detto. Quando il parassita è già in una fase di invasione stromale e della sclera, vi è la necessità di terapia farmacologica. La terapia per AK risulta spesso fallimentare; i fattori alla base di tale evento sono la difficoltà dei farmaci di penetrare a livello tissutale, la relativa

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insensibilità delle cisti ai farmaci, la tossicità di questi ultimi verso le cellule corneali e la necessità di trattamento prolungata (fino a un anno) (28).

Le terapie proposte sono di seguito indicate (28, 36, 39, 47, 48):

• Propamidina isethionato 0,1% o Hexamidina 0,1% associato a dibromopropamidina 0,15%. Questa associazione ha mostrato efficacia in particolare nei casi infezioni precoce e superficiale. Entrambe le molecole mostrano citotossicità.

• Propamidina isethionato 0,1% o Hexamidina 0,1% associato a clorexidina 0,02%. Tale schema è risultato efficace, ma sul lungo periodo si sono registrati casi di danno strutturale alla cornea; l’evento suggerisce l non utilizzo di questa associazione in pazienti predisposti (vedi cheratocono);

• Imidazoli (miconazolo, itraconazolo, ketoconazolo), seppur con efficacia limitata hanno mostrato un possibile utilizzo sistemico come adiuvanti nella terapia delle AK. • Poliexametilene biguanide (PHMB) riveste un importante ruolo nella terapia di AK;

la molecola viene attualmente prodotta come disinfettante, ma presenta tanto in vitro quanto in vivo, attività sia sui trofozoiti che sulle cisti. L’attività cisticida rappresenta il punto chiave nella terapia di AK. Al momento è un presidio off-label. I protocolli attualmente suggeriti prevedono sempre l’utilizzo di PHMB associato a Hexamidina o Propamidina

• Terapia chirurgica mediante cheratoplastica o cheratectomia lamellare. La terapia chirurgica rappresenta l’ultima opzione terapeutica nei casi più gravi e di lunga durata; il loro utilizzo rimane comunque dibattuto, dal momento che in letteratura si evidenzia un successo terapeutico associato ad una preventiva riduzione dell’infiammazione tissutale (46, 47).

• Resta aperto il quesito sull’utilizzo dei corticosteroidi, sebbene in genere la loro somministrazione precoce venga sconsigliata (46, 49). I corticosteroidi possono essere utilizzati in seguito ad una chemioterapia efficace per ridurre la reazione stromale e l’infiammazione cronica (34, 49).

La resistenza delle cisti ai farmaci proposti dipende da due elementi: la difficoltà a penetrare all’interno della doppia parete e la quiescenza metabolica delle stesse. A tal proposito è stato proposto un saggio di attività amebicida in vitro (50): il ceppo

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da testare viene fatto crescere per 7 giorni su una piastra di agar non nutriente inoculata con uno strato di E. coli, fino alla formazione delle cisti amebiche; successivamente queste vengono prelevate dalla piastra, lavate e messe in incubazione per 48 ore in terreni contenenti varie concentrazioni dei farmaci da testare (PHMB, clorexidina); trascorso tale periodo, si effettua una nuova semina delle cisti su agar non nutriente, e gli inoculi così ottenuti vengono osservati per altri 7 giorni. La piastra corrispondente alla minima concentrazione di farmaco che al settimo giorno non presenta formazioni cistiche, dà il valore di minima concentrazione cisticida. Appare evidente come questa metodica si applichi difficilmente in contesti routinari e mostri anche la limitazione dei lunghi tempi di esecuzione e attesa. Rimane di più facile gestione in laboratori di riferimento, in caso di fallimenti terapeutici (28, 34).

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2 SCOPO DELLA TESI

Le AK rappresentano una sfida interessante tanto per il clinico quanto per il microbiologo.

La difficoltà clinica sta nel sospettare la patologia e nel riuscire a coglierne gli aspetti caratterizzanti. Ciò non è sempre facile, dato che nelle fasi iniziali la AK ha una clinica sovrapponibile a quella di altri tipi di cheratite, con comparsa dapprima di lacrimazione, seguita da fotofobia, iperemia congiuntivale, dolore, sensazione di corpo estraneo, epifora e ptosi palpebrale. Tale corteo sintomatologico è in comune particolarmente con la cheratite dendritica da herpes simplex virus e con le cheratiti fungine (2, 32). Data la peculiarità di Acanthamoeba di seguire il decorso dei nervi sensitivi corneali, l’iperestesia corneale è caratteristica fondamentale delle AK; al contrario, le altre forme, hanno la tendenza all’anestesia corneale (47).

La difficoltà per il microbiologo risiede nella gestione del campione, e nell’allestimento dei test diagnostici. Infatti tali test (microscopici, colturali, molecolari) presentano le seguenti difficoltà:

• Le colorazioni idonee per osservazione microscopica sono appannaggio dei laboratori di patologia e anatomia patologica, più che di quelli di microbiologia. In più, nel caso della microscopia elettronica, sono richieste una strumentazione e un’esperienza di alto livello.

• Il tempo è fattore cruciale. Il microbiologo deve trovare strategie di gestione atte a velocizzare il processo diagnostico e a ottenere risultati clinicamente validi, data la gravità della AK e dato che, spesso, il quesito diagnostico viene posto in fasi già avanzate di malattia.

• I campioni idonei per la ricerca di Acanthamoeba sono campioni difficili da ottenere e, una volta prelevati, sono spesso in quantità esigua; è compito del microbiologo

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scegliere le giuste analisi da eseguire senza spreco di materiale, data la non ripetibilità dei prelievi.

• Le procedure per la diagnostica di AK sono moto spesso slegate dai processi di routine dei laboratori di microbiologia e richiedono quindi personale e strumentazioni dedicate; il tutto in un momento storico in cui viene richiesto, in modo sempre più cogente, al microbiologo di rispettare i criteri di appropriatezza, di adeguarsi alla spending review e di gestire il laboratorio con un numero di risorse umane ed economiche sempre più ristretto rispetto al passato.

Lo scopo di questo lavoro è quello di illustrare il percorso della diagnostica delle AK nella SOD microbiologia e virologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi. Tale percorso è nato dall’esigenza clinica di arrivare in tempi adeguati alla diagnosi definitiva di AK.

Fino al mese di novembre 2015 i campioni con richiesta per AK non venivano trattati presso il nostro laboratorio. Potevano essere processati solo i prelievi con richiesta per:

• Esame microscopico con colorazione di Gram • Colturale per germi comuni e miceti

• Ricerche virologiche in biologia molecolare

A partire da novembre 2015 è iniziata una stretta collaborazione tra il laboratorio di microbiologia e la clinica oculistica dell’AOU Careggi, con sede presso il Centro Traumatologico Ortopedico (CTO). Si è instaurato così un “filo diretto” tra microbiologo, che partecipa all’attività di prelievo ambulatoriale e al trasporto del campione fresco, e oculista, che tiene costantemente aggiornato con dettagli clinico-strumentali il laboratorista, al fine di indirizzare l’iter diagnostico correttamente, evitando analisi ridondanti e sprechi di materiale.

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3 MATERIALI E METODI

3.1 TAMPONI FLOCCATI E PRELIEVO AMBULATORIALE

Il laboratorio di microbiologia dell’AOU Careggi utilizza, dal 2009, un sistema di tamponi basato sulla Liquid Based Microbiology (LBM). Tale sistema prevede l’utilizzo di tamponi (detti anche sonde) floccate, con un’organizzazione spaziale e strutturale delle fibre diversa da quella dei tamponi di nylon di largo utilizzo, associate a terreni di trasporto e conservazione (Fig. 7).

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Figura 9 Confronto della performance di tampone in nylon (a sinistra) e tampone floccato (a destra). Il primo trattiene più materiale sul tampone e ne rilascia meno nel liquido, al contrario del secondo.

I due principali vantaggi dell’utilizzo delle sonde floccate, in alternativa ai tamponi classici, sono legati al fatto che:

• Il rilascio del campione nella fase liquida è immediato e senza intervento alcuno dell’operatore.

• La quantità del campione rilasciato dalle sonde floccate è così elevata da compensare completamente l’effetto legato all’eluizione del campione in fase liquida, garantendo la massima accuratezza dell’indagine anche nel caso di campioni a bassa carica (Fig. 2).

Per l’utilizzo del tampone in fase liquida, procedere come di seguito illustrato: • Aprire la bustina contenente la sonda floccata e la provetta;

• Scrivere i dati del paziente sull’etichetta della provetta o applicare un’etichetta di identificazione del paziente;

• Svitare il tappo in maniera seguendo le norme di asepsi e toglierlo dalla provetta; • Eseguire il prelievo corneale, raccogliendo più materiale possibile dalla zona di

cornea interessata, procurando di non eseguire un mero tampone corneale, ma andando a scarificare le sottili lamelle dell’epitelio corneale;

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• Introdurre la sonda floccata con il campione, appena raccolto, nella provetta e rompere l'applicatore nel punto indicato dalla linea colorata;

• Smaltire la parte rotta dello stelo in un apposito contenitore per rifiuti medicali; • Riavvitare il tappo sulla provetta chiudendolo con forza;

Esistono più tipologie di tamponi floccati, a seconda del distretto o materiale sul quale si lavora e dei microrganismi da ricercare. Per il nostro flusso di lavoro è stato concordato l’utilizzo di tamponi E-swab, che già rientrano nella routine diagnostica e che sono di facile reperibilità per gli ambulatori oculistici e di facile gestione per il nostro laboratorio (fig. 9).

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Il sistema è esclusivo per la raccolta e la processazione (in manuale o automatico), e, come da indicazioni dell’azienda, è idoneo per le indagini in diagnostica molecolare. Il tampone è adatto al prelievo da più sedi: vie respiratorie, materiali genitali, ferite chirurgiche, ulcere. Il Sistema di raccolta e trasporto E-Swab è in grado di mantenere il DNA, l’RNA e gli antigeni di batteri, virus e parassiti per 5 giorni se la conservazione avviene a temperatura ambiente (20-25°C), 7 giorni se avviene a 4°C e fino a 6 mesi in caso di refrigerazione a –20°C. E-Swab non è contaminato da enzimi DNasi e RNasi, fattore che lo rende un ottimo strumento per la diagnosi molecolare.

Il dispositivo contiene 1 ml di terreno di trasporto e conservazione di Amies modificato con l’aggiunta di proteine vegetali, che aumentano la capacità, già intrinseca del terreno, di creare un ambiente riducente, che minimizza i processi degenerativi innescati dall’ossigeno verso i microrganismi anaerobi.

3.2 ANALISI COLTURALE PER ACANTHAMOEBA SPP.

Su tutti i campioni sui quali è stata ricercata la presenza di Acanthamoeba spp. è stato allestito l’esame colturale.

Sono stati prelevati 100 µl di ogni campione clinico e sono stati messi in coltura su piastre di agar non nutriente; su ognuna di queste veniva contestualmente seminata una sospensione di 1 ml di E. coli ATCC 8739, partendo da un inoculo con una torbidità 3 McFarland (51, 55).

Le piastre venivano osservate dopo 7-10 giorni di incubazione a temperatura ambiente.

3.3 ANALISI MOLECOLARE PER LA RICERCA DEL GENOMA DI

ACANTHAMOEBA SPP.

Per l'analisi molecolare, il DNA parassitario è stato estratto con lo strumento NucliSens® EasyMag® (bioMérieux, Marcy l'Étoile, Francia).

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Sono stati utilizzati tre diversi tipi di protocolli di amplificazione:

• L'identificazione del genotipo è stata effettuata mediante PCR end point usando i primer specifici JDP1 e JDP2 (52), e la successiva analisi della sequenza di gene rRNA 18S. L'identificazione del genotipo di Acanthamoeba è stata basata su più allineamenti di sequenze eseguiti da ClustalW2 e modificati con il software FinchTV 1.4 (Geospiza, Inc, Seattle, WA). L'albero fenetico è stato quindi costruito confrontando le sequenze con quelle di ceppi di riferimento usando il metodo del Neighbour Joining (NJ) (bootstrap test 1500 replicates) con MEGA versione 6 (53). Le distanze evolutive sono state calcolate utilizzando il metodo Tamura 3. Il miglior modello di costruzione dell'albero filogenetico è stato selezionato utilizzando JModelTest con criterio di informazione Akaike (AIC) (54).

• Gli stessi primer usati per la genotipizzazione (52) sono stati adattati per l’allestimento di una PCR real time (RT-PCR), che è stata montata sullo strumento RotorGene Q (QIAGEN, Venlo, Paesi Bassi), utilizzando Gotaq qPCRMaster Mix (Promega, USA), contenente BRYT Green® come colorante.

Il protocollo di amplificazione prevede: • 5’ a 95 ° C;

• 45 cicli di

▪ 30 '' a 95 ° C, ▪ 20 '' a 60 ° C; ▪ 30 '' a 72 ° C

L’analisi della curva di melting finale è stata eseguita in un intervallo da 70 ° C a 95 ° C, con un aumento di 0,5 ° C per step, ogni 5 '. La temperatura della curva di melting dei campioni positivi è stata di 84,3 ± 0,2 ° C.

• La metodica è stata successivamente modificata utilizzando la coppia di primer

AcantF900 (5′-CCC AGA TCG TTT ACC GTG AA-3′) e AcantR1100 (5′-TAA ATA TTA ATG

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sonda TaqMan utilizzata è Cy5-labeled AcantP1000 (5′-Cy5-CT GCC ACC GAA TAC ATT AGC ATG G-BHQ3-3′).

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4 RISULTATI

4.1 CASISTICA

L’attività congiunta tra microbiologia e oculistica si ouò idealmente dividere in due fasi operative. La prima è quella di inizio delle attività, caratterizzata dall’analisi di 13 campioni, provenienti da altrettanti pazienti, in un periodo di tempo relativamente ristretto. Tali pazienti venivano da una storia, generalmente di lungo corso, di cheratite refrattaria alle terapie; si trattava di pazienti che avevano già consultato più di uno specialista in oculistica e che avevano già intentato più cicli di antibatterici, antivirali e/o antifungini. Questo primo gruppo di pazienti è stato testato per la ricerca del DNA di Acanthamoeba spp. in scraping corneale e si è proceduto con l’indagine filogenetica per studiare la clonalità dei cappi responsabili di infezione.

Nella prima mandata di pazienti sono stati inviati al nostro laboratorio 13 campioni di scraping corneale da altrettanti pazienti con cheratiti di lungo corso refrattarie a tutte le terapie effettuate. Di questi 13, 7 sono stati i casi positivi per Acanthamoeba spp.; La positività è stata rilevata sempre all’analisi molecolare in PCR end-point e real-time, mentre l’esame colturale ha dato esito concordante in 6 casi su 7.

Sui restanti 6 casi, risultati negativi per la ricerca di DNA di Acanthamoeba spp. sono state effettuate le analisi in batteriologia e micologia (esame colturale comprensivo di arricchimento in brodo) e/o virologia (PCR real-time per virus erpetici e adenovirus), in base al giudizio clinico dell’oculista. Ogni test ha dato sempre esito negativo; la situazione può essere spiegata dal fatto che si trattava di soggetti che avevano già ricevuto trattamenti ad ampio spettro per più microrganismi e, come è

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ben noto, questo è uno dei primi fattori a rendere la diagnosi microbiologica molto ardua.

Per quanto riguarda l’analisi filogenetica effettuata sui primi 7 casi positivi, la situazione ha mostrato una generale concordanza con i dati riportati in letteratura nazionale e mondiale; la genotipizzazione è stata fatta andando a sequenziare la regione DF3 del genoma di Acanthamoeba. Il genotipo più frequente si è confermato, come da dati riportati in letteratura, il T4 (45, 51, 56). Il genotipo T4 è il più frequentemente implicato nella patogenesi delle AK sia in Italia che a livello mondiale. Solo un ceppo (paziente numero 7a) è risultato appartenere al genotipo T3, di cui esistono pochi isolamenti in Italia (51, 56).

I pazienti risultati positivi provenivano tutti dalla Toscana; 4, in particolare dalla zona nord-ovest, nella provincial di Massa-Carrara. L’età media era di 41 anni. In anamnesi, tutti i pazienti erano utilizzatori di LAC; I sintomi rientravano in uno spettro da dolore moderato fino al dolore intenso accompagnato da segni quali edema palpebrale, iperemia congiuntivale e fotofobia.

All’osservazione con lampada a fessura, tutti i pazienti mostravano la presenza di un’ulcera corneale, a vari stadi di evoluzione e gravità, sia per quanto riguarda l’estensione della stessa (da piccola a estesa) che la sede (periferica, paracentrale, centrale) che la profondità (da superficiale a profonda, fino all’assottigliamento della cornea in un caso). In particolare 2 casi erano accompagnati anche da ipopion.

La seconda fase operativa mostra un cambiamento generale nel gruppo di pazienti che ha avuto accesso al servizio. I quadri clinici associati a questi pazienti erano generalmente migliori di quelli del primo gruppo; si è trattato di soggetti che sono stati indirizzati più precocemente e meglio verso il centro di riferimento per le cheratiti; da qui poi il sospetto e la gestione di una possibile AK aveva assunto un corso più rapido e maggiormente inserito all’interno di una routine clinico-diagnostica. Si tratta quindi di pazienti che hanno avuto un inquadramento diagnostico più rapido e che hanno ricevuto meno trattamenti ad ampio spettro empirici; la terapia antiamebica è stata instaurata più in fretta, e questo ha avuto un decisivo risvolto nell’outcome clinico. I pazienti testati sono stati 15; quelli risultati positivi per la ricerca di DNA di Acanthamoeba spp. sono stati 6. Tutti i casi sono stati

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analizzati sia con metodica molecolare (PCR real time) che colturale, e le due metodiche hanno dato esito sempre concordante. Sui casi risultati negativi, sono state anche in questo caso portate avanti le indagini in batteriologia e micologia. Tutti i pazienti del secondo gruppo provenivano dalla Toscana, tranne un extra-regionale e l’età media era di 48 anni. Tutti hanno dichiarato l’utilizzo di LAC. Come anticipato, la clinica di questi pazienti è stata leggermente più favorevole già dal momento del prelievo dello scraping. Il sintomo cardine è stato il dolore oculare con iperemia; all’osservazione con lampada a fessura tutti mostravano la presenza di ulcera corneale, generalmente superficiale e poco estesa. Nessun paziente è giunto all’osservazione clinica con ipopion.

4.2 TERAPIA

Tutti i pazienti positivi per Acanthamoeba sono stati trattati con PHMB allo 0,02 %; in base alla gravità del quadro clinico e corneale, la terapia è stata modificata con l’aggiunta di Hexamidina 0,1% e/o Clorexidina 0,02%. I pazienti sono stati rivalutati ogni 48 ore per la prima settimana, il follow up è stato poi programmato a seconda della sintomatologia e della variazione della stessa. La risposta terapeutica è stata generalmente buona, sebbene il trattamento non sia stato mai sospeso prima dei 6 mesi. Nonostante la risoluzione dell’infezione attiva, in molti casi l’esito cicatriziale a livello corneale ha comunque dato una compromissione del visus, con ricorso alla terapia chirurgica con cheratoplastica o trapianto corneale.

4.3. CRITICITA’

E’ di particolare interesse il fatto che la diagnosi definitiva di AK è stata ottenuta in un tempo assai variabile, che va da 2 settimane a 2 mesi dall’inizio dei sintomi. I fattori che hanno portato ad un ritardo così evidente sono stati l’assenza di una sintomatologia tipica (con presenza di segni del tutto aspecifici e riconducibili a più

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forme di cheratiti) e la conseguente “migrazione” da un medico all’altro, con inizio di più tipi di terapie (antibatterica, antifungina, antivirale); data la biologia di Acanthamoeba, l’instaurazione di terapie non idonee ha comunque in taluni casi portato ad un leggero miglioramento clinico, interpretato erroneamente come inizio della risoluzione del quadro (allungando ulteriormente i tempi).

Un solo caso, afferente al primo gruppo, si è tradotto in un fallimento terapeutico totale, testimoniato sia dalla cheratite non risolta sia dalla persistente positività della PCR e della coltura per Acanthamoeba dopo 8 mesi ininterrotti di terapia. Sono stati aumentati i dosaggi farmacologici sia di PHMB che di clorexidina. Ad un anno dalla diagnosi si è avuta la perdita dell’occhio, con enucleazione.

I pazienti del primo gruppo che hanno avuto una risoluzione dell’infezione da Acanthamoeba, hanno comunque subito degli esiti da reazione stromale per infiammazione cronica, come di seguito schematizzato:

• Esito cicatriziale a livello della cornea, che ha causato una perdita parziale del visus. La qualità e quantità di tale perdita dipende anche dalla zona corneale inizialmente colpita e opacizzata;

• Necessità di cheratoplastica o trapianto corneale;

In questo gruppo, solo un caso ha avuto un outcome nettamente favorevole rispetto agli altri, come si può vedere in tab. 3.

Nel secondo gruppo non ci sono stati casi di enucleazione; gli esiti cicatriziali, quando presenti, sono stati trattati con cheratoplastica e nessun caso è giunto al trapianto di cornea. Un solo paziente ha effettivamente avuto un andamento clinico non soddisfacente e ha scelto, dopo 6 mesi, di rivolgersi a un altro centro specialistico. Il soggetto ha mostrato una progressione verso l’assottigliamento corneale, con un aumentato rischio di perforazione, e la lenta insorgenza di un’infiammazione a carico dell’umor vitreo, nonostante la terapia instaurata in tempi brevi dall’arrivo all’osservazione dell’oculista. Il quadro clinico era insorto all’incirca 5 mesi prima,

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come da dati anamnestici in cartella, il che può spiegare il tipo di decorso clinico. Come detto, al momento si tratta di un follow up perso.

Appare evidente come da un punto di vista strettamente clinico si osserva una estrema variabilità sia nel quadro infettivo che nella prognosi, suggerendo che i fattori endogeni giochino un ruolo predominante nella suscettibilità e nell’evoluzione delle AK. E’ però indubbio che la tempestività nella diagnosi e nel trattamento consecutivo vadano a controbilanciare la suscettibilità endogena, e a garantire una maggiore possibilità di successo terapeutico.

Va sottolineato anche un altro aspetto legato alla terapia da instaurare. Non solo questa deve essere corretta per motivi di tossicità e di non induzione di farmacoresistenze, ma anche per un motivo di ordine pratico. Il PHMB è farmaco non reperibile sul territorio nazionale; lo specialista in malattie dell’apparato visivo può prescriverlo e il paziente deve procurarselo, a proprie spese, presso la farmacia vaticana o le farmacie della Confederazione Elvetica, con dispendio notevole sia da un punto di vista economico che di organizzazione individuale. Per quanto riguarda la clorexidina, questa è molecola ampiamente reperibile sul territorio nazionale, ma l’utilizzo nella terapia delle cheratiti è considerato ancora off-label, con un’assunzione di una responsabilità medica notevole nella sua prescrizione; perciò è piuttosto difficile iniziare un percorso terapautico con farmaci per la cura dell’AK senza aver avuto una conferma diagnostica probante.

In tab. 3 e 4 sono riportate le caratteristiche salienti dei due gruppi di pazienti, per un confronto più agevole.

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Paziente Età Sesso Origine Clinica Terapia Durata

trattamento Outcome 1a 40 F Arezzo Ulcera profonda centrale con ipopion PHMB, HEX 6 mesi Favorevole con cicatrice

2a 32 M Carrara Ulcera profonda ed estesa

PHMB,

HEX 10 mesi

Riduzione visus

3a 49 M Carrara Ulcera estesa PHMB, HEX Follow up perso 4a 22 M Carrara Ulcera estesa con assottigliament o PHMB, HEX 7 mesi Perforazione. Trapianto cornea 5a 29 M Reggello Ulcera periferica PHMB, HEX Follow up perso 6a 69 F Firenze Ulcera paracentrale con assottigliament o e ipopion PHMB,

HEX, CHL 12 mesi Enucleazione

7a 41 M Carrara Ulcera centrale PHMB,

HEX 7 mesi Cicatrice

Tabella 3 Caratteristiche primo gruppo di pazienti. HEX: hexamidina 0,1 %, CHL: clorexidina 0,02 %, PHMB: poliexametilene biguanide

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Paziente Età Sesso Origine Clinica Terapia Durata

trattamento Outcome

1b 71 F Carrara Ulcera centrale PHMB,

HEX 1 anno Riduzione visus 2b 38 F Firenze Ulcera estesa con assottigliament o corneale. PHMB, HEX, CRL 6 mesi Follow up perso

3b 29 F Prato Ulcera centrale PHMB

6 mesi (interruzione per gravidanza) Favorevole (verso risoluzione) 4b 50 F Firenze Lieve opacità corneale diffusa, abrasione PHMB,

HEX (in corso) Risoluzione

5b 59 F Prato Ulcera dendritica PHMB, HEX In corso Riduzione visus 6b 41 M Napoli Ulcera dendritica PHMB, HEX 1 mese Follow up perso

Tabella 4-Caratteristiche secondo gruppo di pazienti. Caratteristiche primo gruppo di pazienti. HEX: hexamidina 0,1 %, CHL: Clorexidina 0,02 %, PHMB: poliexametilene biguanide

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5 CONCLUSIONI

La AK è una patologia che pone davanti al paziente, al clinico e al laboratortista più tipi di criticità. Le criticità riscontrate durante la nostra attività specifica rientrano tra quelle note in letteratura. In particolare:

• Quadro clinico aspecifico

• Ottimizzazione delle analisi da eseguire • Tempi di gestione e refertazione • Ricaduta terapeutica

Il primo gruppo di pazienti ha mostrato dei quadri clinici generalmente più gravi, in considerazione del lungo periodo di attesa tra i primi sintomi e la diagnosi; si trattava di pazienti con quadri clinici conclamati, senza alcuna risoluzione dopo numerose terapie. Il sospetto di AK è stato quindi posto col solo criterio della “diagnosi per esclusione”. La corretta diagnosi e impostazione terapeutica non ha comunque garantito una guarigione; ciò è dovuto al fatto che la reazione infiammatoria cronica stromale è andata a compromettere la funzionalità d’organo.

Nel secondo gruppo il fattore temporale è stato molto più favorevole; già dall’accesso in pronto soccorso i pazienti con cheratite infettiva venivano indirizzati verso lo specialista, che provvedeva ad allertare la nostra struttura per l’impostazione di un corretto iter diagnostico. Questo gruppo ha generalmente avuto esiti migliori; ciò va a supporto del fatto che il fattore temporale gioca un ruolo cruciale nelle AK.

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Il coinvolgimento della SOD Microbiologia e Virologia ha altresì aiutato nel corretto inquadramento; infatti il filo diretto che si è venuto a creare con i clinici ha permesso di non generare richieste incongrue (che normalmente causerebbero uno spreco di materiale) e di vigilare sulla corretta manipolazione degli scraping. In più la collaborazione ha permesso di accorciare ulteriormente il tempo di gestione e refertazione dei campioni; questo è stato possibile perché i campioni per sospetta AK non venivano processati insieme a tutti quelli della routine del laboratorio (con, ad esempio, lo spostamento della processazione dal pomeriggio inoltrato alla mattina successiva), ma gestiti direttamente dal personale preposto allo scopo. All’interno del laboratorio, poi, i campioni per la diagnostica di AK hanno avuto la precedenza per la processazione e la refertazione. E’ necessario specificare che, perché tale sistema potesse rimanere all’impiedi, il personale dedicato è stato reperito tra quello non strutturato (dottorandi, specializzandi, borsisti e assegnisti di ricerca, sotto la supervisione di un dirigente ospedaliero). Purtroppo, a causa delle risorse disponibili, non è stato ancora possibile inserire questo tipo di attività all’interno di una routine ben avviata; va da sé che questo è uno dei prossimi obiettivi da raggiungere, data l’importanza delle AK emersa in questo primo periodo di osservazione.

Il tempo è quindi un punto estremamente critico nella clinica (prima si sospetta la patologia meglio è), nel prelievo del campione e nella sua processazione (i risultati mediamente si ottengono in mezza giornata).

Questo lavoro mostra come un accorciamento dei tempi nella gestione delle AK sia possibile, a patto di mettere in gioco più forza lavorative all’interno del laboratorio di microbiologia e come la conoscenza diretta del paziente e del tipo di patologia sia utile nel poter essere di vero ausilio nella clinica. La conoscenza, inoltre, delle tecniche analitiche permette di saper valutare meglio come eseguire lo scraping corneale e quanto materiale sia effettivamente necessario (evitando di ripetere i prelievi più volte). E’ stato di sicuro aiuto anche l’utilizzo dei tamponi in fase liquida, che possono ovviare alle difficoltà legate al materiale da analizzare grazie alle loro caratteristiche intrinseche di recupero delle basse cariche di partenza del campione. Infine, la ricaduta terapeutica appare strettamente vincolata e dipendente dalle fasi precedenti di riconoscimento e diagnosi; la cura dell’infezione attiva è stata sempre

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ottenuta, ma l’aver ritardato la stessa si è sempre ripercosso sullo sviluppo di cicatrici più o meno estese e sulla necessità di intervenire chirurgicamente. Se da un lato la chirurgia si rivela quasi sempre necessaria, la cheratoplastica è sicuramente un intervento meno invasivo e con recupero più rapido rispetto al trapianto di cornea dei casi più gravi.

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