PRIMA PARTE
PROFESSIONALITÀ STUDIATE
Capitolo 1
La capacità di sapersi arrangiare: il commercio ambulante e i suoi
legami con l’artigianato
1.1 Genesi e sviluppo dell’attività dei venditori ambulanti
Dalla metà del XIX secolo le trasformazioni del lavoro agricolo avvenute nella
pianura Padana spinsero la popolazione di alcune località della montagna massese a rinunciare all’occupazione di bracciante, per dedicarsi a professioni che consentivano maggiori opportunità di guadagno spostandosi per un breve periodo dal luogo di origine. Questi contadini si trasformarono in parte considerevole in commercianti ambulanti, dedicandosi a un’attività già praticata dalla popolazione di altre aree della Toscana, che dalla fine del XIX secolo con gli esodi di massa rappresentò un caso specifico rispetto alla maggioranza dei mestieri svolti dai migranti. Infatti questi ultimi, una volta giunti nel luogo di destinazione, essendo spesso privi di particolari abilità si rendevano disponibili a fare qualsiasi tipo di lavoro pur di conseguire benefici economici. Il Ministero degli Affari Esteri dal 1901 al 1908 menzionava ventitré occupazioni per gli italiani residenti negli Stati Uniti tra loro radicalmente diverse,60 mentre in merito agli agricoltori che all’estero si prestavano come manodopera non qualificata in vari settori produttivi Ercole Sori parla “.... del puro erogatore di forza muscolare”.61
Al contrario l’occupazione nel commercio girovago di frequente si tramandava di generazione in generazione,62 processo che permise con il passare del tempo un progressivo ampliamento di questa attività; ma anche quando il mestiere non veniva ereditato, prevedeva sempre un periodo di apprendistato compiuto tra i
60 Ministero degli Affari Esteri e Commissariato dell’Emigrazione, Emigrazione e colonie: raccolta dei regi
agenti diplomatici e consolari, cit., vol. III, pp. 50-51.
61 Vedere E. SORI, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1979,
in particolare p. 32.
62 Tale affermazione è assolutamente valida per i librai della Lunigiana e i figurinai della Media Valle del
dieci e i sedici anni come garzone, con il compito di affiancare i commercianti più esperti nella vendita, sia nei centri urbani che nelle aree rurali.63
All’inizio del XIX secolo dalle campagne della provincia di Brescia (con il termine generico di Bresciana era indicata l’area della pianura Padana posta tra le città di Parma, Cremona, Mantova e la stessa Brescia64) gli emigranti originari della Lunigiana si spostavano verso ovest fino a Cuneo e Novara, verso est in direzione di Verona e a nord fino alle località limitrofe alla città di Milano, diramandosi su una vasta area geografica che presentava sistemi di coltivazione avanzati, dove cresceva la richiesta di manodopera a basso costo nei momenti dell’anno in cui la produzione agricola prevedeva l’impegno maggiore.
I dati statistici del periodo ricavati dai passaporti per gli spostamenti all’estero confermano il percorso migratorio descritto. La Sottoprefettura di Pontremoli per il 1812 e alcuni mesi del 1813 registrò 1205 documenti (una cifra significativa per il periodo anteriore al fenomeno degli esodi di massa) di cui 105 dal territorio di Bagnone e, di questi, 100 presentavano la richiesta di espatrio per il Nord Italia, mentre manifestavano l’intenzione di dirigersi a Siena (compreso il Dipartimento dell’Ombrone) e in Corsica rispettivamente soltanto 3 e 2 partenti.65 In questo periodo Bagnone, con 2933 abitanti, era uno dei paesi della Toscana settentrionale con il flusso di emigrazione più abbondante, calcolato al 4,3% della popolazione totale, una percentuale vicinissima alla media di tutto il territorio del Dipartimento degli Appenini del 4,4%.
Le mete degli esodi da Bagnone rimasero all’incirca invariate nel periodo compreso tra il 1849 e il 1856, quando ormai le partenze interne avevano preso un trend nettamente in salita rispetto ai decenni precedenti e la loro percentuale aveva raggiunto la quota di un quinto sulla popolazione totale. Per l’anno 1855 il “Registro delle vidimazioni dei passaporti” indica 787 migranti indirizzati verso
63 Ne sono un esempio i garzoni dei librai di cui parla G. B. MARTINELLI, Origine e sviluppo dell’attività dei
librai pontremolesi, Pontremoli, Tip. Artigianelli, 1973, pp. 73-92. Nelle pagine citate è riporta una serie di
documenti del XIX secolo che testimoniano come di frequente gli ambulanti, sia che fossero genitori dei giovani garzoni, sia che ne avessero solo la tutela, non si curavano della loro incolumità e spesso li abbandonavano nei luoghi in cui si trasferivano.
64 C. B. BRUNELLI, I barsan, Pontremoli, Tip. Artigianelli, 1984, pp. 45-46.
l’Italia settentrionale, 212 verso la Corsica (che in seguito alle precedenti partenze dei lucchesi adesso aveva assunto maggiore interesse anche per l’emigrazione dalla Lunigiana) e solo in 130 documenti era stato riportato il termine generico “altre località”66.
Gli spostamenti stagionali nella pianura Padana per il bracciantato agricolo erano finalizzati all’impiego in attività da svolgere solo nel periodo primaverile ed estivo, tra cui la raccolta delle foglie del gelso per nutrire i bachi da seta. I contadini della Lunigiana per consuetudine ormai secolare partivano per l’Italia Settentrionale nelle prime settimane di maggio, una volta che avevano concluso il lavoro agricolo invernale nei propri terreni o al ritorno dalle migrazioni stagionali in Maremma, dove mettevano a disposizione la loro manodopera anche gli abitanti della montagna lucchese.67
Vivendo ogni anno per alcuni mesi a contatto con le comunità della pianura Padana, questi contadini ebbero l’occasione di conoscere le abitudini di vita della popolazione che li ospitava. Il bracciante di solito raggiungeva un buon livello di integrazione, malgrado si trovasse in condizioni più difficili rispetto agli autoctoni, perché ritenuto esclusivamente un lavoratore da sfruttare. Era un attento ma discreto osservatore, che si limitò a impiegare le informazioni raccolte solo per relazionare con la popolazione padana fino a quando rimase legato al settore agricolo, ma in seguito seppe fare tesoro delle conoscenze acquisite per intraprendere attività commerciali di vario genere, spingendosi anche nelle aree più isolate, nel momento in cui i proprietari delle aziende iniziarono ad abbassare la richiesta di manodopera.68
In comunità rurali costrette a dirigersi raramente nei centri urbani a causa delle difficoltà di spostamento dalle campagne alle città, dove di solito la popolazione attendeva a lungo prima che potesse essere allestito un nuovo mercato, il
66 Archivio Comunale di Bagnone, Registro delle vidimazioni dei passaporti del periodo che va dal marzo 1854
al maggio 1856.
67 A. SALVESTRINI (a cura di), Pietro Leopoldo D’Asburgo Lorena. Relazioni sul governo della Toscana,
Firenze, Olschki, 1969: in particolare vedere vol. I p. 30 (dove l’autore accenna ai vizi che gli emigranti prendevano vivendo nel sud della Toscana) e vol. III p. 159 (dove si parla della crisi demografica che colpì la Maremma a fine Settecento).
venditore toscano che viaggiava a piedi o per mezzo di carri era spesso l’unico contatto con l’esterno.69 Da lui le famiglie contadine acquistavano oggetti indispensabili per il lavoro nei campi o per il mantenimento delle abitazioni, oltre a raccogliere informazioni sulla vita che si conduceva nelle località attraversate dall’ambulante per raggiungere le aree dove offriva la sua merce. La crisi per l’emigrazione agricola verso la pianura Padana raggiunse l’acme a metà del XIX secolo, con il compimento del processo di trasformazione del sistema produttivo: Adriana Dadà parla di un profondo mutamento che consentì di diffondere nell’area studiata un moderno capitalismo agrario, dove l’impiego della manodopera stagionale era divenuto irrilevante. Sul medesimo argomento, ma per il periodo anteriore di inizio Ottocento e in merito alla gelsicoltura, Gian Battista Martinelli sostiene che la produzione subì una forte riduzione seguita da un’epidemia di tifo, che impedì l’occupazione dei braccianti agricoli emigrati dalle montagne dell’Appennino.70 Il fenomeno si inseriva nella più vasta crisi agricola nazionale, causata da alcuni parassiti ed insetti che danneggiavano le colture prevalenti (per la gelsicoltura si manifestò la pebrina, malattia del baco da seta), che fu superata nella seconda metà del secolo, quando iniziò lo sviluppo delle aziende della pianura Padana di cui parla la Dadà.
Si tratta di due momenti distinti, fondamentali per ricostruire la storia dei movimenti migratori dalla Lunigiana nell’Italia Settentrionale, che avevano due origini: una prima area di partenza da Montereggio e Parana e, in generale, dagli attuali comuni di Pontremoli e Mulazzo, e una seconda zona compresa tra Bagnone, Villafranca e Filattiera, da cui provenivano i commercianti che si dirigevano nella Barsana71 (per tale motivo chiamati barsan), specializzati nella vendita di prodotti di maglieria e chincaglieria. Dal primo territorio, invece,
69 B. CAIZZI, Il commercio, in Storia della società italiana dall’Unità a oggi, vol. III, Torino, Utet, 1975, pp.
55-56: si tratta di una delle poche opere dove vengono ricostruiti in breve i caratteri del commercio ambulante. L’autore sottolinea che nelle città i girovaghi erano motivo di malcontento perché sottraevano clienti ai negozi e riuscivano a evitare il pagamento dei dazi, mentre nelle campagne erano benvoluti dalla popolazione che aveva accesso solo a poche altre forme di esercizi commerciali.
70 Per la genesi del commercio ambulante A. DADÀ, Le Barsane, cit., pp. 9-10 e G.B. MARTINELLI, Origine e
sviluppo dell’attività dei librai pontremolesi, cit., pp. 25-34.
71 C. B. BRUNELLI, “I barsan”, cit., p. 31, dove si spiega che la Barsana per i pontremolesi era il territorio
partivano i braccianti agricoli che si dedicarono al commercio dei libri, i cosiddetti librai progenitori dei fondatori del premio Bancarella, che si impiegarono nella vendita ambulante con alcuni anni di anticipo rispetto ai bagnonesi, mossi proprio dalla crisi della gelsicoltura.
I primi girovaghi con libri e selci (pietre per affilare le lame) comparirono alla fine degli anni trenta dell’Ottocento e, nello specifico, la prima richiesta di espatrio di un ambulante di questo tipo, presentata da Andrea Bardotti di Parana che emigrò in Piemonte, è datata 1837 72 (si deve però considerare che prima di questo anno non esistono documenti sugli spostamenti della popolazione presso l’Archivio Comunale di Mulazzo), mentre i venditori di chincaglieria e maglieria apparvero fra gli anni quaranta e cinquanta dello stesso secolo, anche se poi svilupparono la loro attività solo alcuni decenni dopo.73
Rari sono, invece, i documenti che permettono di ricostruire i movimenti
interni alla penisola dei venditori ambulanti nel periodo compreso tra gli ultimi trent’anni dell’Ottocento e il sorgere del Novecento, poiché mancano i passaporti per calcolare l’aspetto quantitativo del fenomeno nel momento in cui raggiunse la sua maggiore ampiezza. Infatti con l’istituzione del Regno d’Italia gli ambulanti non erano più costretti a chiedere il permesso per allontanarsi dal comune di origine. La crescita fu dimostrata successivamente dai dati resi noti dal regime fascista e rilevati attraverso un’analisi del fenomeno ampiamente più efficiente rispetto ai dati per gli anni compresi tra 1876 e 1914 raccolti dal Ministero dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio, dal Commissariato Generale dell’Emigrazione e dall’Istat. Il 1923 fu l’anno in cui le migrazioni interne manifestarono la prima crescita dovuta al superamento della crisi postbellica, fino a raggiungere un 1.500.000 di spostamenti a livello nazionale nel 1937, partendo dalla media di inizio Novecento calcolata in 600.000 iscrizioni annue a nuovi comuni. Tale incremento avvenuto tra 1923 e 1939,
all’area compresa tra la provincia di Parma (in particolare dalla località di Rigoso) e il territorio posto a nord-ovest di quest’ultima.
72 Carteggio datato 1837 dell’Archivio Comunale di Mulazzo, dall’inventario del 1968.
73 A. DADÀ, Dalla Lunigiana alla “Barsana”. Il processo di trasformazione da lavoratori agricoli stagionali
anche se con fasi alterne, fu quantificato in 18.000.000 spostamenti su territorio nazionale almeno per quanto riguardava i partenti non clandestini e si manifestò malgrado la crisi economica avvenuta negli anni trenta, a causa del perdurare delle consuetudini migratorie della popolazione rurale.74
L’aumento degli esodi dei commercianti ambulanti nella prima metà del XX secolo si verificò anche nei movimenti diretti oltralpe e negli Stati Uniti e in Sud America, malgrado i limiti imposti dal regime di Mussolini agli esodi di massa che non interessarono gli spostamenti interni alla penisola.75 Fino al secondo conflitto mondiale questi migranti si diressero in prevalenza in Francia, Paese raggiunto attraverso il passaggio durante i decenni precedenti dalla Corsica (sull’isola il venditore di stoffe era stato denominato “baulino”) e in minor numero in California;76 le altre mete, tra cui la Svizzera e la Germania, furono prese in considerazione solo dalla metà del Novecento, quando furono aperte le frontiere commerciali nell’Europa centrale. Tra il 1921 e il 1924 i dati sulle destinazioni estere da Bagnone confermano quanto detto: 649 partenze, pari al 67,82% dei passaporti, erano indirizzate in Francia, a cui seguivano 227 richieste di espatrio per l’America pari al 23,72% e in generale per le altre destinazioni solo l’8,1%. La situazione nel periodo compreso tra il 1931 e il 1936 appariva simile, a dimostrazione dell’esistenza di una consuetudine migratoria: 134 emigranti si erano spostati in Francia, 102 erano partiti per il Nord America e solo 19 e 24 persone avevano scelto di dirigersi rispettivamente in America Latina e verso altre destinazioni.77 Nel totale degli esodi, sia interni che esteri, la Francia era seconda solo alla Barsana. Questi dati sono stati presi
74 Per i dati statistici di inizio Novecento A. MORI, L’emigrazione dalla Toscana e in particolare dal Casentino,
cit., che fornisce informazioni valide per gli anni 1904-07 alle pp. 10-13 e 25-37. Sull’emigrazione in età fascista, invece, vedere il contributo di A. TREVES, Le migrazioni interne in età fascista. Politica e realtà
demografica, cit., pp. 16-32.
75 Per un’immagine del commercio italiano negli Stati Uniti vedere il codice 56 (MEGT). Si tratta di una foto del
quartiere di Little Italy a New York, dove al margine della strada compaiono alcuni carri con sopra della merce in esposizione.
76 A. DADÀ, La Merica: Bagnone, Toscana-California, U.S.A.: donne e uomini che vanno e che restano,
Firenze, Morgana, 2006, p. 12.
77 I dati sono stati raccolti nell’Archivio Comunale di Bagnone, dove possono essere consultati il registro di
emigrazione del 1920-24, il registro delle pratiche di emigrazione del 1924-45 e il registro di emigrazione del 1931-39.
da un campione limitato, ma che appare significativo viste le piccole dimensioni dell’area geografica studiata.
Le condizioni del commercio ambulante continuarono a migliorare a metà del XX secolo, quando lo sviluppo economico, che con il trascorrere del tempo interessò anche le famiglie rurali, fece aumentare la richiesta di generi di ogni tipo, consentendo il passaggio a proprietari di esercizi al minuto e all’ingrosso.78 L’avanzamento fu reso possibile dai costi, minori rispetto a una struttura fissa, sostenuti dai venditori migranti, che nelle città riuscivano quasi sempre a evitare il pagamento dei dazi e disponevano di un’organizzazione commerciale estremamente semplice, vantaggi che permettevano alle bancarelle di offrire la merce a prezzi contenuti. Si deve poi considerare che questi commercianti andavano a posizionarsi nelle aree cittadine poco popolate o abitate da famiglie povere, dove i proprietari degli esercizi legati al commercio al minuto evitavano di aprire i loro negozi perché i costi che ne sarebbero conseguiti erano troppo elevati per i guadagni che potevano essere raggiunti, concedendo agli ambulanti l’opportunità di colmare una mancanza nella distribuzione delle strutture commerciali, un ruolo molto simile a quello da loro già svolto a livello rurale.79 Attraverso vendite elevate fu così possibile ai lunigianesi risparmiare il denaro necessario ad acquistare un’abitazione dove erano soliti spostarsi, fino ad ampliare la loro attività attraverso l’apertura di sedi permanenti.
Alcune categorie ebbero altri fattori a loro vantaggio, come per il caso dei
venditori di Bagnone a cui era concesso dai gestori dei magazzini, specialmente se originari della Lunigiana, di disporre di notevoli possibilità di credito, pagando la marce in parte alla consegna, per poi saldare il debito solo dopo aver venduto parte del materiale.80 La loro attività portò notevole beneficio allo sviluppo dell’industria tessile, che almeno fino al pieno Novecento era
78 C. B. BRUNELLI, I barsan, cit., pp. 175-78.
79 B. CAIZZI, Il commercio, cit., p. 340, in cui si riprende il tema già citato in precedenza alle pp. 55-56 sui
contrasti tra i commercianti girovaghi e i proprietari degli esercizi fissi, condizione che verrà superata solo quando gli ambulanti passeranno al commercio al minuto, aprendo negozi in tutte le aree urbane e rurali del Nord Italia dove erano soliti emigrare.
80 Sul tema si veda l’intervista a Renzo Della Fiora, discendente del magazziniere all’ingrosso Igino Della Fiora,
sprovvista di canali ufficiali di diffusione della produzione; la mancanza fu colmata dall’impegno di questi ambulanti specializzati nella vendita deiprodotti
di maglieria, che rappresentarono un mezzo per una distribuzione capillare non ufficiale, ma efficiente e gratuita.81
Attraverso i documenti iconografici si possono comprendere le strategie che consentirono ai commercianti emigranti di migliorare la loro condizione. Una fotografia degli ultimi anni dell’Ottocento82 ritrae due famiglie originarie del comune di Mulazzo, i Giovannacci e i Maucci insediati presso Hautes Alpes in Provenza, che avevano scelto una delle strade principali di Gullestres, dove erano soliti collocare il banco con la merce, per testimoniare la buona organizzazione dei loro affari. Gli ambulanti sfoggiavano una larga varietà di oggetti e altrettanto varia era la composizione del loro gruppo, tra garzoni incaricati di spostarsi a piedi per vendere nelle piazze e adulti responsabili della loro tutela. Sullo sfondo dell’immagine compare un carro trainato da un mulo, che prova come questi emigranti, anche trasportando una considerevole quantità di merce, avessero una certa capacità di spostamento, seppure limitata rispetto alle possibilità offerte dai mezzi che saranno impiagati successivamente.
Il commercio girovago in questi anni si trovava nella prima fase di espansione e, a causa delle scarse capacità di spostamento, viaggiare risultava difficoltoso, poiché non si poteva fare affidamento sulle automobili e sui camion di piccola portata, troppo costosi per le scarse finanze degli ambulanti. Il caso di Romeo Ghironi, nato nel paese di Mulazzo ed emigrato da giovane in Francia,83 rappresenta una chiara dimostrazione dell’importanza che assunsero i mezzi di trasporto per potersi muovere liberamente all’estero.
Il lunigianese si era aggregato ad un gruppo di amici con cui aveva iniziato a lavorare nel dipartimento di Ardèche, dove si recava a vendere anche a piedi con grosse valige a tracolla, avvalendosi però per gli spostamenti a lunga distanza di
81 A. DADÀ, Uomini e strade dell’emigrazione dall’Appennino Toscano, cit., p.157. 82 L’immagine è catalogata con il codice 114 (MEGT).
83 Tutte le fonti di Romeo Ghironi, comprese le foto con i codici 262 e 264 (MEGT), sono state messe a
un’automobile. Che negli anni trenta del XX secolo la famiglia Ghironi fosse emigrata in questa area geografica (dai documenti, però, non si capisce se in modo temporaneo o definitivo) lo attesta una fonte iconografica84 sempre datata anni trenta in cui Attilio Ghironi, (forse uno zio di Romeo, poiché appare di un’età superiore alla sua) è in compagnia della moglie Erminia Mori e dei figli Malou e Raymound, nel suo camioncino parcheggiato in una strada di Ardèche. Fu l’automobile a consentire a Ghironi e ai suoi compagni, tra cui sono citati nelle fonti Carlo Lazzarelli, Aldo Marchi e Guido Bestazzoni, di attraversare una considerevole parte dello stato francese, fino a giungere nel dipartimento centrale di Indre, presso la località di Chateauroux.85
Era un momento di rivoluzione per il commercio ambulante, ma ancora alcuni venditori continuavano ad avere grossi limiti di spostamento e a volte erano costretti a muoversi per lunghi tragitti a piedi. Le fonti della famiglia Vannini, che dal comune di Tresana in questo periodo era emigrata in Alta Savoia a Larousse, rappresentano una condizione ancora caratterizzata da difficoltà nel percorrere lunghe distanze. All’immagine di Ottavio con la sua cassetta colma di abiti, tanto da dover legare la merce per non perderla, si aggiunge quella di Enrico con il suo carretto carico di oggetti di basso valore, come la stoffa usata dalla popolazione rurale per cucire gli abiti e la chincaglieria: quest’ultimo, non potendo attaccare la sua struttura nemmeno a una bestia da soma, poteva affidarsi solamente alla resistenza delle proprie gambe.86
I documenti iconografici citati rivelano come nel commercio ambulante all’iniziativa individuale prevalesse l’attività di una famiglia o di più famiglie tra loro unite, che decidevano di stabilirsi in una specifica area geografica per trarre il beneficio maggiore dal proprio lavoro; alla base di questo comportamento c’era il fenomeno delle catene migratorie, che consentivano alla popolazione di una località di montagna posta sulle Alpi o sull’Appennino di concentrarsi in
84 La fonte è catalogata con il codice 265 (MEGT).
85 Nel codice 263 (MEGT) Ghironi è a Chateauroux, nel dipartimento di Indre, e insieme ai suoi compagni
mostra la merce davanti alla sua automobile: si tratta di prodotti di biancheria.
86 Le fonti che ritraggono Ottavio ed Enrico Vannini sono archiviate rispettivamente con i codici 268 e 269
una città o in una zona extraurbana all’estero. I venditori lunigianesi assunsero una strategia di insediamento simile in alcuni altri stati europei.
Sono ancora degli anni trenta le immagini del camioncino di Enrico Mutti, che fu tra i primi commercianti di origine italiana a Ecaussines in Belgio, e del dipendente sul triciclo per la vendita dei gelati della pasticceria di Pietro Marioni e Teresa Musetti a Fraserburgh in Scozia (in questo caso compare un’attività ambulante legata a un esercizio con sede fissa).87 Sono testimonianze storiche di come nel momento di transizione il commercio ambulante si manifestasse ovunque in forme estremamente varie a seconda delle condizioni in cui veniva praticato, una eterogeneità che in parte continuò anche dopo il secondo conflitto mondiale, quando si presentarono le maggiori possibilità per aprire esercizi finalizzati alla vendita al minuto e all’ingrosso. In realtà il passaggio fu favorito proprio dalla versatilità degli stessi migranti (dote fondamentale per conseguire benefici economici, specialmente nei primi periodi di vita all’estero), come dimostra la fotografia di Ciro Ducci, emigrato nel 1930 nei Paesi Bassi, che d’estate si spostava indossando la classica divisa di color bianco con il carretto dei gelati (con cui appare anche nella fonte presa in esame) e d’inverno si piegava al ruolo meno gratificante di venditore di statuine.88 Probabilmente l’ambulante non era in grado di lavorare il gesso, in caso contrario difficilmente avrebbe accettato di interrompere nei mesi più caldi la sua attività di figurinaio. Ottavio Federici, originario di Mulazzo, nel 1954 si spostava ancora in bicicletta per i suoi commerci.89 La famiglia Federici era emigrata negli anni del secondo dopoguerra presso Candelo in provincia di Biella, partendo da Pieve di Castevoli; la presenza di tutti i componenti nel luogo di arrivo è attestata da una foto sempre del 1954, dove Federici compare insieme alla consorte Isolina
87 Le fonti citate sono reperibili ai codici 481 e 781 (MEGT); si tratta rispettivamente del camion di Enrico Mutti
fotografato nel 1925 e di un gelataio della ditta Marioni-Musetti in un’immagine degli anni trenta. La prima fonte è stata messa a disposizione dall’Associazione Lucchesi nel Mondo di Ecaussines.
88 La foto di Ducci, originario di Calamecca, è contrassegnata dal codice 160 (MEGT): della sua doppia attività
si parla nell’intestazione del documento.
89 L’immagine è catalogata con il codice 247 (MEGT). Marino Federici ha messo a disposizione tutte le fonti che
Luchini e ai figli Marino, Mario e Vito. Nell’intestazione della fonte si specifica che tutti i membri del gruppo familiare si dedicavano al commercio ambulante.90 Al persistere delle difficoltà di spostamento si contrapponevano le opportunità di Salvatore Manteghetti emigrato nella regione della Loir-et-Cher nel 1955, dove svolgeva il servizio di vendita di articoli di maglieria avvalendosi di un camioncino; è possibile dedurre che la sua attività commerciale fosse ben avviata da una foto del mezzo accanto all’ingresso di un negozio, ma nella fonte non viene specificato se l’esercizio era proprietà di Manteghetti.91
1.2 I librai, inconsapevoli attori del processo di diffusione della lettura
I venditori ambulanti di libri in maggioranza erano originari del comune di Mulazzo e, in particolare, risiedevano nelle frazioni di Montereggio e Parana, poste nella zona nord-ovest della Lunigiana, anche se per consuetudine sono ricordati con il nome di librai pontremolesi con un riferimento al comune posto a nord dei paesi citati. Tale contraddizione è dovuta alle conoscenze geografiche delle comunità dei luoghi di destinazione. Emigrando in varie città dell’Italia Settentrionale, infatti, questi ambulanti non dicevano mai di risiedere nella sconosciuta località di Mulazzo, preferendo menzionare il più noto centro di Pontremoli, sede dagli anni che seguirono l’Unificazione della Sottoprefettura, nella speranza che i loro clienti potessero capire meglio da quale area della penisola provenivano.
Come in precedenza è stato detto, verso la metà dell’Ottocento la crisi agricola che investì la produzione nazionale colpì anche la gelsicoltura diffusa nella pianura Padana, messa in grave difficoltà dalla pebrina, la malattia diffusa negli allevamenti di bachi da seta: chiamata anche atrofia del filugello oppure, con un termine più popolare, mal delle petecchie, la patologia si trasmette attraverso gli esemplari femminili, che presentano sul corpo macchioline simili a granelli di
90 Si fa riferimento alla fonte archiviata con il codice 248 (MEGT).
91 Si cita il codice 257 (MEGT): l’immagine è stata messa a disposizione dalla discendente Odette Manteghetti.
pepe.92 Il bracciantato, nel momento in cui le aziende agricole furono costrette a ridurre la richiesta di manodopera stagionale, iniziò a sfruttare la necessità delle famiglie contadine per l’acquisto di alcuni generi di utilizzo quotidiano; tra questi ultimi c’erano le pietre per affilare le lame, utili agli agricoltori bresciani per mantenere in efficienza i loro attrezzi agricoli, a cui si aggiungevano altri articoli commerciali, dai lunari, per sapere in quale momento seminare le varie colture, a pochi altri oggetti utili alla famiglia rurale.
Durante la seconda metà dell’Ottocento la quantità di carta stampata tra la merce di questi emigranti iniziò ad aumentare, cambiamento che consentì, con il passare del tempo, a buona parte di loro di specializzarsi nella vendita di libri. Fu un’ulteriore evoluzione del mestiere che per compiersi ebbe bisogno di tempi lunghi: sul tramontare del XIX secolo, infatti, viaggiavano ancora nell’Italia nord-occidentale commercianti lunigianesi che, oltre ai volumi, presentavano sulle loro bancarelle oggettistica varia e stampe, anche se ormai le pietre per affilare le lame erano quasi del tutto scomparse.93 Trascorse circa un secolo dal primo documento burocratico del 1837 citato in precedenza dove un ambulante si dichiarava venditore di libri all’inizio del Novecento, quando il commercio girovago della carta stampata era consolidato attraverso la consuetudine di tramandare l’attività di generazione in generazione. Da questo momento in poi i librai cessarono di spostarsi all’interno di vaste aree poste tra località urbane e rurali, per trovare sistemazione fissa prima con bancarelle e poi con negozi nelle città, un’ulteriore evoluzione della professione che portò con il trascorrere di alcuni anni ai primi trasferimenti definitivi, proseguiti in modo interrotto durante tutta la prima metà del XX secolo.94
Furono le esigenze delle popolazioni residenti nei centri in cui questi emigranti erano soliti recarsi a determinare il loro passaggio alla vendita del libro, una scelta non certo dettata dalla consapevolezza di partecipare alla diffusione della
92 Cfr. Storia di Brescia, vol. IV, Brescia, Morcelliana Editrice, 1964, in particolare le pagine 554-560.
93 Sulla storia dei librai nella seconda metà dell’Ottocento vedere l’Archivio comunale di Mulazzo nel fondo
“Sicurezza pubblica” in merito agli anni 1871, 1873-75, 1877, 1878, 1880 e 1883, a cui si può aggiungere il Registro dei rivenditori ambulanti del 1890 n. II, in particolare le iscrizioni che vanno dal 19 febbraio al 6 marzo.
lettura e dell’editoria (effetti che si manifestarono solo in modo indiretto), anche perché si deve considerare che la maggior parte di loro era analfabeta. Tutti i librai che nella seconda metà del Novecento divennero proprietari di negozi e magazzini in Italia e all’estero non si facevano scrupoli nel confessare lo scarso livello di istruzione dei propri genitori e nonni, che riuscivano a riconoscere i volumi solo dal colore della copertina, una condizione che rimase immutata a lungo, fino almeno ai primi decenni del secolo scorso.
La libreria Dante Alighieri di Torino, di proprietà di G. B. Fogola e figli (le fonti non riportano per intero il nome del fondatore), fu tra i maggiori esercizi aperti dai lunigianesi nel nord Italia. Si trattava di un grosso punto vendita situato nei pressi della stazione ferroviaria di Porta Nuova, in una strada ad alta frequenza di passanti, con una vetrina95 attraverso cui era possibile vedere la consistente quantità e varietà dei volumi in vendita nel negozio; in una fonte96 si nota come alcune persone a passeggio si fermino ad ammirare incuriosite le pubblicazioni esposte. In un altro documento l’ampiezza della Dante Alighieri emerge in modo persino superiore attraverso una veduta dall’interno del pianterreno della libreria, dove appaiono alti scaffali occupati dai volumi, fotografati dalla scala che conduce al piano superiore.97
Oltre al commercio, i librai iniziarono a svolgere dal primo Novecento attività tipografica, proponendo ai lettori pubblicazioni tra loro diverse sia a livello dei contenuti, sia per le caratteristiche grafiche; in tale contesto risulta di maggiore interesse la storia delle famiglie che realizzarono una produzione costante e abbondante.98 Alcune fonti iconografiche portano i nomi di Lorenzo Rinfreschi, libraio e tipografo di Montereggio che a inizio Novecento aveva fondato l’Arte Bodoniana a Piacenza, di cui ci resta un’edizione del 1914 del romanzo Miranda
95 La vetrina della libreria con l’insegna dei proprietari è visibile nella fonte catalogata con il codice 255
(MEGT). Tutte le immagini della Dante Alighieri sono state messe a disposizione dal discendente Carlo Fogola.
96 Si tratta del codice 610 (MEGT), in realtà una versione in bianco e nero della foto precedentemente citata. 97 L’immagine riporta il codice 253 (MEGT), mentre nella fotografia successiva con il codice 254 (MEGT)
compaiono tre librai della Dante Alighieri: anche se nella scheda del documento non si specificano le generalità dei soggetti, probabilmente si tratta di esponenti della famiglia Fogola.
98 Sull’argomento vedere l’articolo di G. B. MARTINELLI, I librai pontremolesi, in AA. VV., Quaderni
di Antonio Fogazzaro, e di Costantino Galleri, che nel 1936 stampò a Bologna il libro di Luigi Bagolini Eroismo e pace nella concezione fascista; queste opere, per gli argomenti che trattano, sono già una dimostrazione di come fossero vasti i cataloghi dei tipografi di origine lunigianese.99
Tale varietà emerge in modo particolare nei documenti visivi della famiglia Tarantola, i cui esponenti, partiti da Montereggio, aprirono esercizi commerciali in alcune città del nord Italia, come Monza, Piacenza e Modena. In quest’ultimo centro Giuseppe Costantino Tarantola fondò la GI.TA.MO. (Giuseppe Tarantola Modena) una tipografia che curò testi adatti a soddisfare i lettori di qualunque età e interesse culturale, dai libri per bambini con le storie illustrate a opere narrative e saggistiche indirizzate ai lettori adulti.
Un esempio di queste ultime pubblicazioni fu Il tedesco parlato di Renzo Vanzini,100 di cui rimane l’edizione del 1940, di considerevole utilità in seguito agli accordi presi tra Hitler e Mussolini per il trasferimento degli operai italiani disoccupati nelle fabbriche tedesche.101 Il libro doveva far parte di una collana relativa alle lingue parlate negli stati dove era solita emigrare la popolazione, a giudicare dalla copertina su cui compaiono le coste dell’America Latina con intorno bandiere di varie nazionalità. A tale pubblicazione si contrapponevano ancora una volta le opere per bambini con immagini, raccolte nella collana “Farfalle”, di cui rimane una copertina della prima serie, dove appaiono dei ragazzi che giocano a prendere le farfalle con la classica retina e tre brevi storie intitolate Il consiglio degli animali, I rondinotti disubbidienti e Il leone ammalato, con illustrazioni che raffigurano i personaggi principali.102
Tra i librai lunigianesi, furono i Maucci gli unici a concepire l’editoria come un investimento di capitali di portata internazionale, sviluppando la loro attività
99 Sono rispettivamente i codici 597 e 607 (MEGT).
100 La copertina dell’opera è catalogata con il codice 611 (MEGT).
101 Sulla possibilità dei lavoratori italiani di impiegarsi nelle fabbriche tedesche in un manifesto del 1944
custodito presso l’Archivio Cresci con il codice 23 si avvertiva i disoccupati che: “Mentre le gloriose forze armate tedesche stanno difendendo il suolo italiano dall’invasione nemica, voi non potete rimanere inoperosi. L’esercito tedesco ha bisogno di armi e di munizioni. Voi potete notevolmente contribuire alla vittoria delle Armi dell’Asse, recandovi a lavorare in Germania.”
102 Si fa riferimento ai documenti catalogati con i codici che vanno dal 612 al 618 (MEGT); questi libri dovevano
durante la prima metà del Novecento.103 Il pioniere della famiglia fu Emanuele, che si trasferì in Argentina nel 1872 allo scopo di lavorare nel commercio ambulante del libro, una professione che svolse con una continuità tale da riuscire a fondare a Buenos Aires una grande tipografia.
Come è provato dalle statistiche citate nella parte introduttiva, la presenza dei venditori girovaghi nel Sud America era limitata nel XIX secolo e rimase minore rispetto ad altre categorie professionali fino al Novecento inoltrato, ma alcuni di questi emigranti seppero sfruttare al massimo le opportunità offerte dalla crescita economica; fu il caso di Emanuele Maucci, che in circa venti anni divenne uno degli editori più produttivi legati al mondo di cultura spagnola. Nel 1892, dopo varie iniziative imprenditoriali, riuscì a tornare in Europa per trasferirsi a Barcellona, la città dove aprì un’altra casa editrice di considerevoli dimensioni, in grado di stampare 25 mila volumi alla settimana per un totale di un milione e 300 mila libri all’anno.
A inizio Novecento alcuni componenti della famiglia Maucci decisero di seguire le orme di Emanuele, rimasto nel capoluogo catalano mentre il fratello Luigi e i cognati Alessandro e Paolo fondavano nuove attività editoriali a Città del Messico, Luigi, Carlo, Giovan Battista e Giacomo104 si impegnavano a portare avanti l’esercizio commerciale di Buenos Aires e altri congiunti del capostipite riuscivano a impiantare tipografie a l’Avana e a Caracas.
In una fonte del 1911 appare il palazzo di Buenos Aires sede della grande libreria e tipografia (spesso accadeva che le due attività venissero ubicate nel medesimo edificio), dove campeggiava scolpita a lettere cubitali nella parte più elevata l’insegna “Maucci Hermanos”. L’edificio era il simbolo del consistente potere economico che la famiglia lunigianese aveva raggiunto nel Sud America. Si trattava di una struttura articolata su tre piani, arricchita da varie decorazioni
103 La storia dei fratelli Maucci viene riportata sul sito http://museogenteditoscana.it/
104 Nell’immagine con il codice 787 (MEGT) appaiono, in un ritratto di inizio Novecento, i prosecutori della
tipografia di Buenos Aires: Luigi e Carlo sono in piedi, mentre i gemelli Giovan Battista e Giacomo sono seduti. Di quest’ultimo resta anche un curioso ritratto con il codice 788 (MEGT), dove attraverso un abile gioco di specchi la figura del libraio viene riflessa cinque volte intorno a un tavolo. Infine nella foto datata anni venti del codice 790 (MEGT) appare ormai anziano Emanuele Maucci con Luigi e Domenico.
architettoniche, dove la libreria si trovava al pianterreno, mentre la casa editrice e gli uffici amministrativi erano collocati sugli altri due piani (attraverso grandi vetrate era possibile dal fuori vedere buona parte delle stanze interne);105 a questi locali si aggiungevano due piani interrati utilizzati come magazzini, con alti scaffali e lunghi tavoli su cui erano accumulati i libri che non potevano essere esposti al pubblico per motivi di spazio.106
Di dimensioni assai più ridotte era il punto vendita di Città del Messico, a cui
era stato dato il suggestivo nome di “El Parnaso Americano”, la cui sede si trovava al pianterreno di un palazzo cittadino situato in una strada ad alta frequenza di passanti, caratteristiche che si notano in una foto del 1891. La libreria107 era stata fondata sempre da Emanuele Maucci e successivamente fu gestita prima dal fratello Luigi e poi dal cognato Carlo; era un negozio di discreto livello, simile nell’ubicazione e nelle dimensioni alla Dante Alighieri di Torino, ma non raggiunse mai l’imponenza della sede di Buenos Aires, che restò tra i maggiori risultati raggiunti in generale dai librai pontremolesi.
L’ultimo gruppo di documenti legati alla famiglia Maucci riguarda le foto di alcuni volumi, che furono pubblicati tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento nelle tipografie ubicate a Barcellona e a Buenos Aires;108 in alcuni casi venivano indicati ambedue i luoghi di stampa (come avviene nel “Juan de Dios Peza” di Manuel Acuna del 1906)109, anche se le intestazioni delle fonti non specificano se queste edizioni fossero realizzate contemporaneamente in Argentina e in Spagna. L’opera citata era scritta con un linguaggio semplice e, per facilitare una diffusione più ampia possibile, l’autore aveva aggiunto al testo delle illustrazioni, come nella pagina dove appare il ritratto dello stesso Acuna mentre riceve da un angelo una corona di alloro, un riconoscimento simbolico alle sue qualità di uomo di studio.
105 L’immagine, che risale al 1910, è contrassegnata con il codice 88 (MEGT). La libreria Maucci fu indicata da
Borges come uno dei maggiori punti di riferimento per la diffusione della cultura europea in Argentina.
106 Le foto dei magazzini sotterranei della libreria Maucci sono archiviate ai codici 791 e 792 (MEGT). 107 La fotografia de “El parnaso americano” è catalogata con il codice 784 (MEGT).
108 Le altre immagini della famiglia Maucci vanno dal codice 619 al codice 632 (MEGT), a cui si aggiungono le
fonti iconografiche con i codici 785, 786 e 789 (MEGT).
La possibilità di commerciare il libro in modo talmente vasto da coinvolgere tutto il mondo di lingua spagnola fu il risultato del costante impegno dei fratelli Maucci nella diffusione della lettura presso la popolazione colta, processo culturale a cui parteciparono in modo pienamente consapevole a differenza della maggior parte dei librai ancora analfabeti.110 I tipografi avevano compreso non solo l’elevata importanza economica che l’editoria stava assumendo negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, ma anche il ruolo della lettura come strumento per consentire un innalzamento del livello sociale e culturale della popolazione e, di conseguenza, del suo grado di civiltà.
In un’immagine datata 1927 del catalogo della casa editrice di Barcellona appaiono i ritratti di vari autori della tradizione letteraria italiana ed europea di cui i tipografi emigranti stampavano le opere, per la diffusione di testi classici da affiancare alle pubblicazioni di autori viventi.111 A seguito di poeti come Dante, Carducci e D’Annunzio si pongono Hugo, Goethe, Cervantes e Rosseau, in una collana di prosa e poesia pensata per soddisfare le esigenze dei lettori colti, mentre per i ragazzi era stata ideata la “Biblioteca del nino argentino”, di cui rimane la copertina del libro “Un viaje memorabile”, dove sono citate le tipografie di Buenos Aires e di Città del Messico.112
Malgrado l’internazionalismo che caratterizzò la loro attività, i fratelli Maucci, allo stesso modo di gran parte degli emigranti di ogni livello sociale, vollero lasciare nel proprio luogo di origine segni del potere economico conseguito all’estero; fu a questo scopo che Giacomo Maucci fece erigere villa “La Tobìa” a Parana.113 Dell’imponente edificio, in cui hanno abitato i discendenti del suo costruttore, rimane un’immagine durante la fase conclusiva di realizzazione da cui emergono non solo la grande mole, ma anche i caratteri architettonici, come l’alto volume a forma di torre che si innalza a lato della struttura.
che è descritta nel testo.
110 Tra le opere di alto livello culturale edite dai Maucci di cui sono state conservate le foto delle copertine, si
ricordano i testi dell’Hamlet di Shakespeare archiviato con il codice 619 (MEGT) e dell’Idilio de amor di Schiller con il codice 620 (MEGT).
111 La fonte è catalogata con il codice 785 (MEGT).
112 Il documento, di inizio Novecento, è contrassegnato dal codice 629 (MEGT). 113 La fotografia di villa “La Tobìa” è archiviata con il codice 789 (MEGT).
La morte di Emanuele Maucci determinò l’inizio della lenta, ma inesorabile dissoluzione del patrimonio da lui accumulato in seguito a molti anni di attenta amministrazione della sua attività, a causa della scarsa capacità dei discendenti nel gestire un’azienda commerciale ed editoriale che prevedeva sostenuti ritmi di lavoro e difficili contatti a livello internazionale.114
1.3 Aspetti socio-economici dell’emigrazione dei figurinai
Provenienti dalla Media Valle del Serchio nell’area compresa tra le frazioni di
Barga, Bagni di Lucca e Coreglia, i figurinai per originalità e durata nel tempo dell’attività praticata all’estero non risultano di minore interesse rispetto ai librai pontremolesi e dimostrano che il commercio ambulante sulla montagna toscana non era una professione esclusiva del territorio della Lunigiana. Considerevole fu la loro capacità di offrire a popolazioni di varie località poste tra America, Europa e in alcuni casi estremi fino all’Asia e all’Oceania,115 una produzione singolare nei soggetti e ricercata nelle tecniche di fabbricazione: la statuina in gesso, scultura quasi sempre di piccole dimensioni utilizzata anche come souvenir o oggetto sacro se raffigurante personaggi della religione cattolica, apprezzata perché realizzata con precisione nei particolari anatomici.116
Oltre al tema religioso questi emigranti ampliavano il loro repertorio con i personaggi storici, dagli eroi del Risorgimento come Carlo Alberto, Pio IX, Garibaldi, Mazzini, Cavour e Napoleone III, ai grandi uomini del passato realizzati a figura intera o come piccoli busti romani, tra cui Socrate, Pericle, Alessandro Magno, Cesare, Dante e Tetrarca; presenti con minore frequenza nei loro cataloghi erano invece le statuine di animali domestici.
Per quanto riguarda la durata nel tempo, l’emigrazione dei figurinai (chiamati in alcuni contesti con il nome più specifico di figurinisti) ebbe inizio dai primi
114 Vedere G. B. MARTINELLI, Origine e sviluppo dell’attività…, cit., p. 161.
115 La capacità dei figurinai di emigrare già dal XIX secolo in tutti i continenti si contrapponeva ai limitati
spostamenti all’estero degli ambulanti lunigianesi, che come è stato specificato nelle pagine precedenti fino al pieno Novecento si diressero in prevalenza nelle località francesi.
116 M. PIEROTTI, Nella metropoli dei figurinai, in «Il secolo XX», anno II, n. 2, codice 1984 dell’Archivio
secoli dell’età moderna e si prolungò fino alla metà dell’Ottocento, quando anche tali artigiani divennero più numerosi con l’incremento demografico e poterono usufruire dei miglioramenti conseguiti nel campo della navigazione oceanica.117 Di conseguenza negli anni delle partenze di massa alcuni di loro poterono raggiungere gli angoli estremi del globo terrestre, fino alla Siberia, da cui poi si spinsero all’interno del continente asiatico. Fu il caso di Emilio Equi, originario di Coreglia, che riuscì a stabilirsi nella città di Singapore dove ebbe occasione di conquistare un discreto tenore di vita facendo conoscere la sua arte alle popolazioni orientali, o tanto meno lo voleva far credere nella fonte scattata in uno studio fotografico dove vestito con eleganza fingeva di viaggiare su un risciò. L’immagine consentiva di mostrare ai destinatari il particolare mezzo di trasporto, una curiosità perché sconosciuto sulle montagne della Garfagnana e nella Media Valle del Serchio.118 Quando Equi decise di rimpatriare in modo definitivo, la sua esperienza di vita condotta in Estremo Oriente fu apprezzata dai suoi compaesani fino a tal punto, che vollero premiarlo di comune accordo con l’elezione a sindaco.
I primi figurinai erano i diretti discendenti degli stucchinai che già dal XIV secolo lavoravano per i monasteri femminili e in particolare per le suore di San Domenico le quali, su commissione dei mercanti lucchesi, facevano modellare le statuine del bambin Gesù importate nell’occidente europeo.119 Tali figurine, diffuse dai coloni in Corsica e in Africa, dai setaioli che andavano all’estero per far conoscere la loro arte e dai missionari, venivano realizzate attraverso lavorazioni artigiane che furono tramandate agli abitanti dell’attuale comune di Coreglia Antelminelli e, in particolare, del paese di Tereglio, i quali allo stucco
costantemente, raggiunsero varie località del mondo: “Ma un mi amio di Lucca che fa gatti / Li fa cor gesso, creda, da sbagliassi / Lui, vorsi dì, ch’è stato fra’ Mulatti, / Ch’ha visitato anch’e’ Paesi Bassi, / M’ha detto che neppure in der Pehino, / Luminare di Pisa ‘un se ne vede.”
117 Vedere B. SERENI, I figurinai, in «Storia di Barga», Notiziario Filatelico Numismatico, anno XXV, n. 3,
ottobre 1985, codice 3948 (AC).
118 La fonte è catalogata con il codice 658 (MEGT); che si tratti di una foto realizzata in uno studio è dimostrato
dallo sfondo dipinto dietro i soggetti e dal nome del fotografo posto a lato in verticale.
119 In P. TAGLIASACCHI, Coreglia Antelminelli patria del figurinaio, Firenze, Grafiche Gelli, 2008, alle
pp.18-19 l’autore cita alcuni testi di Eugenio Lazzareschi in cui si parla dell’attività delle suore domenicane nella produzione della statuina.
sostituirono il gesso, un materiale molto più economico.120 Già nel Settecento gli artigiani di questa frazione dirigendosi all’estero avevano acquisito familiarità con le popolazioni di molte città della Germania, della Francia e dell’Inghilterra, ma a Tereglio, il cui primato è sostenuto da Eugenio Lazzareschi, gli studi più recenti di Guglielmo Lera sostituiscono Coreglia, che sarebbe stato il vero luogo di origine dell’arte di lavorare la figurina.121
Successivamente, tra Ottocento e Novecento, il persistere degli artigiani del gesso nel visitare varie località poste in ogni continente portò una parte sempre più considerevole della popolazione della Media Valle ad apprendere alcune parole in varie lingue. Si pensava che tali emigranti conoscessero l’“Esperanto” (dal nome dell’idioma internazionale ideato dal polacco L. L. Zamenhof nel 1887 su basi linguistiche neolatine, germaniche e slave), poiché erano in grado di farsi capire dagli abitanti dei luoghi dove si spostavano con un miscuglio linguistico di termini presi da varie lingue europee, avvalendosi, però, nelle situazioni più difficili della gesticolazione.122
Le campagne dei figurinai (era questo il modo in cui venivano chiamate le prolungate permanenze all’estero) erano organizzate dagli artigiani esperti del gruppo, a cui facevano seguito alcuni garzoni di giovane età che svolgevano ruoli di diversa importanza: dai ragazzi il cui unico compito era spostarsi nelle città o nelle campagne per commerciare le statuine, ai loro coetanei che cercavano anche di imparare almeno le mansioni più semplici della produzione in laboratorio. Fare la stampa (procedimento per cui il modello realizzato dallo scultore veniva ricoperto di caucciù che, una volta vulcanizzato, ne riprendeva le forme) era il compito di maggiore complessità, mentre la fase successiva, che consisteva nel gettare il gesso dentro la stampa stessa, era più facile da
120 Vedere E. LAZZARESCHI, I figurinai della Lucchesia, in «Rassegna mensile del Comune di Lucca», anno
II, n. 7-8, luglio-agosto 1934.
121 Ibidem, a cui si può aggiungere G. LERA, Le figurine, una singolare forma di arte, in «La Provincia di
Lucca», anno I, n. 2, aprile-giugno 1961.
122 Si parla dell’esperanto per il paese di Montefegatesi in CIOPO, La culla dei figurinai di Lucca, in «La
Domenica del Corriere», anno IX, n. 20, del 13 luglio 1902, codice 3150 (AC) e in Piccoli racconti sulla vita dei
figurinai della valle del Camaione, Bagni di Lucca, Centro di Documentazione sulla Storia dell’Emigrazione
Lucchese, edito in occasione della mostra sull’emigrazione che si tenne a Bagni di Lucca tra il 9 e il 17 agosto del 1995, codice 8032 (AC).
apprendere. Il signor Giuliano Bosi, vissuto negli Stati Uniti nella prima metà del Novecento, racconta che dopo alcune settimane si presentò presso il proprietario del laboratorio dove era impiegato, chiedendo di cambiare occupazione perché addetto unicamente a gettare, un lavoro che definì “da miccetti”,123 e il signor Paladini, apprezzando la buona volontà dimostrata dal suo garzone nel voler apprendere anche le mansioni di maggiore complessità come la decorazione, decise di accontentarlo, riscontrando dopo poco tempo notevoli miglioramenti nelle sue prestazioni.
La carriera del figurinaio prevedeva alcuni essenziali avanzamenti: dopo l’apprendistato, durante il quale se il giovane dipendente rivelava capacità soddisfacenti apprendeva il lavoro di laboratorio, alcuni tentavano di allestire una propria attività, assumendo dei garzoni e provando una campagna diretta verso una località non troppo distante dal luogo di origine (inizialmente di solito non si oltrepassavano i confini nazionali). Anno dopo anno, se si proseguiva nel mestiere, si cercava di raggiungere mete più distanti allo scopo di diffondere il commercio della figurina in modo sempre più capillare in tutte le città dove questi artigiani erano soliti dirigersi.
Le campagne potevano avere durata di alcune settimane ma anche di mesi o anni a seconda dell’ubicazione geografica della località di arrivo (nella vita se ne compivano in media otto) e non erano finalizzate solo alla vendita delle statuine, ma anche alla loro produzione, resa possibile dagli strumenti necessari per allestire i laboratori che gli emigranti si portavano quasi sempre appresso. Di conseguenza i gruppi potevano essere numerosi124 e, malgrado al momento della partenza prevalesse nella maggior parte dei figurinai l’interesse di fare ritorno ai paesi di origine per investire in patria il denaro guadagnato nel luogo di
123 Il signor Giuliano Bosi, giunto negli Stati Uniti per ricongiungersi al padre, lavorò per nove anni nel
laboratorio di Mister Paladini come decoratore di statue religiose. Il figurinaio racconta la sua storia in un’intervista riportata nel dvd E ci toccò partire, realizzato dalla Comunità Montana della Lunigiana e dalla Regione Toscana, Uovoquadrato-Gruppo Eliogabalo, 2005.
124 Per capire quale poteva essere la consistenza numerica delle compagnie di figurinai si può fare riferimento
alla fonte del codice 640 (MEGT), dove si ritrae un gruppo composto da una decina di artigiani di Casabasciana, nel comune di Bagni di Lucca, che viaggiarono in molti paesi europei. La fonte è datata inizio 900.
destinazione, l’efficiente organizzazione favoriva permanenze prolungate e, in diversi casi, la decisione di effettuare trasferimenti definitivi.
Tra Ottocento e Novecento sorsero laboratori della statuina in gesso nelle maggiori città del mondo, da Parigi, Roma e Berlino a New York, fino alle aree più distanti da raggiungere partendo dall’Italia di Melburne, Ceylon, Calcutta e Singapore, che permisero ai figurinai non solo di far conoscere ovunque la loro arte, ma anche di radunare discreti patrimoni. Tali migranti, infatti, non si contraddistinsero dalla massa di origine contadina unicamente per la particolare professionalità, ma anche per le ricchezze che in alcuni casi sembra fosse possibile accumulare durante le loro campagne all’estero.125
Saverio Pellegrini, decano della categoria ad inizio Novecento a Coreglia, raccontava126 che prima di importare l’arte della statuina in tutto il mondo i suoi compaesani erano estremamente poveri. Era la seconda metà dell’Ottocento e l’anziano artigiano, ricordando l’infanzia trascorsa nel luogo di origine, descriveva case completamente prive di intonaco e persone costrette ad alimentarsi di castagne, che possedevano un solo abito di velluto ruvido, una difficile condizione che i patrimoni dei figurinai, a volte persino del valore di ventimila lire, permisero di superare, consentendo ai coreglini di vestire bene, di mangiare la carne ogni giorno e di ricostruire le loro abitazioni.
C’era senza dubbio un fondo di verità in quanto affermava Saverio Pellegrini,
forse spinto dall’orgoglio campanilistico ad accrescere i risultati conseguiti nel suo settore nel momento in cui, ormai giunto alla terza età, raccontava una vita da emigrante. Si comprende che la sua testimonianza deve essere ritenuta di parte da come smentisce ogni possibilità di sfruttamento dei garzoni, una tendenza in realtà diffusa presso i commercianti ambulanti; già in precedenza si era contrastato il fenomeno con la legge del 21 dicembre 1873, n. 1.733,127 che
125 Vedere P. TAGLIASACCHI, Coreglia Antelminelli patria del figurinaio, cit., in particolare pp. 92-98 in cui
l’autore prende in esame le conseguenze economiche e culturali dell’emigrazione dei figurinai.
126 M. PIEROTTI, Nella metropoli dei figurinai, cit.
127 Si parla di questa disposizione legislativa in N. FRANCHI, I figurinai: una professione girovaga? I riflessi
impediva l’affidamento dei minori ai girovaghi dietro un compenso pattuito con i loro genitori alla partenza di una nuova campagna.
Tornando ai primi laboratori dei figurinai, Francesco Dinucci, originario di Corsagna (frazione nei pressi di Borgo a Mozzano), già a metà Ottocento aveva raggiunto il livello di imprenditore, impiantando una grossa attività a Parigi. L’emigrante, che appare con la sua numerosa famiglia in una foto del 1854, non si era limitato alla produzione della statuina ma, rivelando fin da giovane spiccate attitudini artistiche, aveva iniziato a realizzare nella sua azienda opere di decorazione, che gli erano valse varie commissioni dall’amministrazione cittadina per alcuni palazzi della capitale, tra cui l’Hotel De Ville e l’Operà.128 Oltre cinquant’anni dopo in Australia la famiglia Porta, originaria di Fabbriche di Valico, aveva le sue imprese nelle città di Sidney, Melburne e Adelaide, fondate dal capostipite Nello Porta, che in un’immagine della prima metà del Novecento appare nel suo laboratorio mentre osserva con soddisfazione la statuina di una ballerina. In Nuova Zelanda, invece, lavoravano, sempre nel primo Novecento, Giuseppe e Guido Antonini originari della Garfagnana e Omero Cortopassi e Giuseppe Bonuccelli nati a Camaiore, di cui rimane un ritratto del 1915 in cui gli artigiani sono al tavolo da lavoro con alcune loro produzioni: si tratta di personaggi storici, tra i quali appare la figurina di Napoleone.129 Dalle fonti citate si deduce che il gruppo emigrato in terra neozelandese aveva una condizione economica peggiore rispetto alla famiglia Porta, considerazione che prova come la qualità di vita e il livello sociale dei figurinai all’estero mutassero a seconda delle circostanze.
A metà Ottocento partì da Barga Raffaello Da Prato che emigrò a Chicago, dove aprì un laboratorio in cui dopo breve tempo si impiegarono anche due fratelli del fondatore, una prova di come tutta la famiglia riponesse notevoli
e studi», n. 14-15, 1994, pp. 257-292. Per un approfondimento vedere anche J. E. ZUCCHI, I piccoli schiavi
dell’arpa, Genova, Editrice Marietti, 1999, in particolare le pp. 222-250, dove si parla della legislazione italiana
sulla sfruttamento minorile tra il 1868 e il 1873. Nelle altre pagine l’opera riporta numerose testimonianze di bambini impiegati da musicisti ambulanti nelle città di Parigi, Londra e New York.
128 L’immagine è catalogata con il codice 113 (MEGT); vi compaiono il Dinucci e i suoi familiari (circa venti
persone tra donne, uomini e bambini) nella sala sontuosa di uno dei palazzi da lui decorati.
aspettative in questa impresa. In un primo momento la struttura fu collocata in un sottoscala e aveva una limitata attività artigianale incentrata nelle statuine a carattere religioso, a cui Da Prato affiancava il servizio dei garzoni che venivano inviati come consuetudine in varie aree cittadine nella speranza che fossero in grado non solo di portare una crescita delle vendite, ma anche di far conoscere alla popolazione il laboratorio presso cui erano impiegati.
In breve tempo il giro di affari della “Da Prato Statuary Co.” divenne più ampio e permise ai proprietari di trasferire la sede dell’azienda in un palazzo di grosse dimensioni, in Van Buren & Canal Sts.130 Tra la fine del XIX secolo (quando Raffaele Da Prato cedette la sua quota azionaria per fare ritorno a Barga) e gli inizi del Novecento l’azienda raggiunse le dimensioni di uno stabilimento industriale per il grande numero di dipendenti, che appaiono riuniti in una delle classiche foto di gruppo scattate per mandare un ricordo in patria.131 La “Da Prato Statuary e Co.” esportava figurine in tutte le città degli Stati Uniti, accollandosi le spese di spedizione e di riparazione dei pezzi nel caso in cui durante il trasporto la merce subisse danneggiamenti, con una produzione ancora in prevalenza legata ai soggetti religiosi, in particolare santi e Madonne come si scrive in un volantino pubblicitario132, in cui però si specifica che se era necessario il laboratorio poteva produrre statue di ogni genere.
In altre immagini, invece, si mostrano gli ambienti o le condizioni di lavoro dei figurinai e non solo per quanto riguardava i laboratori, ma anche i luoghi in cui i garzoni si recavano a vendere. A volte persino attraverso una foto realizzata nello studio di un fotografo era possibile rappresentare il livello professionale raggiunto in emigrazione. Sono fonti da cui emerge la necessità di inviare nel luogo di origine ritratti adatti a dare prova di aver conseguito una buona
130 Della ditta “Da Prato Statuary Company” rimane una fonte del periodo poco successivo alla partenza del
fondatore per Chicago con il codice 59 (MEGT), un’illustrazione in cui si riporta la data 1860 senza specificare se fu in quell’anno che il laboratorio venne trasferito nella nuova sede o se si trattava della data di fondazione dell’azienda, ma quest’ultima ipotesi sembra più logica. Sui lati del palazzo era messo in evidenza il nome della ditta, che occupava tutto il grande spazio della struttura.
131 Per la fonte, datata 1903, vedere P. CRESCI, Il pane dalle sette croste, cit., pp. 50-51, mentre alla pp. 48-49
l’autore ricostruisce la storia dell’azienda e pone in basso un’immagine di alcuni operai mentre lavorano nel laboratorio.
sistemazione all’estero o, tanto meno, un’occupazione accettabile nel proprio settore lavorativo, interesse che avvicinava questi emigranti ai numerosi partenti di origine rurale impiegati spesso in mestieri per la manodopera generica che non avevano mai praticato nel luogo di origine.
In una foto, di cui non si conosce la datazione, appare un garzone di circa venti anni ritratto con la una cesta colma di busti; dallo sfondo a tema naturalistico dipinto alle sue spalle si intuisce che si trova presso lo studio di un fotografo, a cui si è affidato per avere un’immagine accattivante con cui possa testimoniare la sua condizione di lavoro. Lo stesso intento si deduce dalla fotografia, sempre priva di datazione, di un altro giovane venditore di statuine, che preferiva farsi ritrarre nella piazza dove era solito recarsi a esporre la merce per mostrare ai destinatari la gente interessata al suo passaggio.133
Altrettanto significative sono le foto di gruppo che, più dei ritratti dei singoli emigranti, possono accertare una condizione di vita soddisfacente, favorita dalla presenza di amici e parenti con i quali era possibile intraprendere un’attività produttiva. Su tale aspetto si può fare riferimento a una fonte in cui cinque figurinai si raccolgono nello studio di un fotografo; disposti in cerchio intorno a un elegante tavolo, pongono al centro una statuina da loro realizzata, che mostrano ai destinatari sfoggiando un atteggiamento di fiero orgoglio. Erano lucchesi trasferiti in Svizzera (ancora una volta non è stata riportata la data in cui è stato prodotto il documento), come dimostra la scritta posizionata in basso, dove si indica la città di St. Gallen.134
I quattro fratelli Mattei originari di Gromignana (paese nel comune di Coreglia Antelminelli) ed emigrati a Fitzroy in Australia negli anni venti si facevano, invece, immortalare intorno a un tavolo su cui avevano posto alcune bottiglie di birra. Essere passati dall’abitudine di bere vino alla birra, bevanda largamente
133 Si fa riferimento rispettivamente ai codici 643 e 642 (MEGT). Questi documenti, come altre fonti citate nel
capitolo sulla vita dei figurinai all’estero, possono essere consultati anche presso il “Museo della figurina di gesso e dell’emigrazione” di Coreglia, dove oltre al materiale fotografico sono conservate statuine di diverse dimensioni. Nel piano interrato del museo esiste un laboratorio per la lavorazione del gesso tuttora funzionante, affidato a un maestro artigiano che ha ereditato le tecniche degli emigranti coreglini.
diffusa nelle città australiane, consentiva di dare prova di un buon livello di integrazione nella comunità ospitante. In questo modo all’interesse per la propria professione si affiancavano aspetti culturali legati alle esperienze compiute dai soggetti del ritratto, ma per ricordare che lo scopo principale rimaneva conseguire un incremento della produttività nella lavorazione del gesso i Mattei avevano posto tra le bottiglie di birra le statuine di due ballerini, un campione del livello qualitativo da loro raggiunto in quegli anni.135
Il materiale iconografico citato fino a questo momento prova come i figurinai fossero conosciuti nelle aree geografiche interessate dai movimenti migratori di massa, notorietà attestata anche da illustrazioni che li ritraggono pubblicate su riviste o manifesti di larga diffusione, in cui alcune volte emerge in modo più o meno palese la disapprovazione degli autoctoni, che si estendeva nei confronti di tutti i girovaghi, ritenuti motivo di disturbo. L’intolleranza per le abitudini di lavoro di questi emigranti appare in modo chiaro in un’immagine tratta da «La domenica del Corriere»136 dove un garzone viene preso a calci a Parigi dai passanti; erano i bambini a subire maggiormente le conseguenze del disprezzo della popolazione, specialmente nelle metropoli.
Sullo stesso tema si veda un’illustrazione pubblicata dal quotidiano tedesco «Simplicissimus» del 18 giugno 1906, dove all’uscita di un tunnel compaiono alcune figure di ambulanti italiani all’estero, tra cui si nota nella parte iniziale del gruppo un figurinaio, messo alla stregua degli altri venditori e musicanti che popolavano le piazze imponendo la loro presenza.137
Non sempre, però, il commerciante di statuine rappresentava un fattore di disturbo; lo si deduce da alcune fonti dove viene rappresentato negli aspetti specifici che lo contraddistinguevano, o con oggetti tipici del suo mestiere come le ceste colme di merce o le galere (grossi vassoi da trasportare sulla testa,
135 Vedere il codice 647 (MEGT): il documento è datato 1928. Poiché nell’immagine i fratelli Mattei sono vestiti
in modo elegante e non si trovano nel loro laboratorio artigiano, si deduce che volevano dare una testimonianza di come erano soliti trascorrere il tempo libero.
136 Vedere «La domenica del Corriere», n. 14, anno V, del 5 aprile 1903, codice 3179 (AC). Sotto l’immagine di
Beltrame si legge “Angosce e dolori ignorati: il dramma del piccolo figurinaio italiano Aristide Borelli”.