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Parasite di Bong Joon-ho. Come la guerra fra le due Coree.

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Cine forum — Via Pignolo, 123 / 24121 Ber gamo — Anno 59 - N. 10 D ic embr e 2019 — S pedizione in abbonament o post ale DL 353/2003 (c on v.in L.27 /2/2004 n. 46) art . 1, comma 1 - DCB Post e Italiane S.p.a. / € 10 ,00

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dicembre 2019

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dic embr e 2019 9 770009 703004 04590 Parasite Grazie a Dio

Il Sindaco del Rione Sanità La famosa invasione degli orsi in Sicilia

Le Mans '66 – La grande sfida L'età giovane

Sole Miserere Panama Papers Downton Abbey The Bra. Il reggipetto L'uomo senza gravità

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Rivista

mensile

di cultura

cinematografica

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The Irishman

Martin Scorsese

Palinsesti: Le amiche tra Antonioni e Pavese Ida Lupino Filmaker 2

PREMIO ADELIO FERRERO 2019 Il cinema di Alice Rohrwacher Santiago, Italia

Pratolini trascurato: una nota su La costanza della ragione

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Festival Internacional de Cine de San Sebastián

Pordenone 2019

Ravenna Nightmare International Film Fest

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Sull’utilità e il danno

dei B-movies per la vita

Edizioni di Cineforum presenta il nuovo e-book

dedicato al B-movie a cura di Bruno Fornara.

I testi, i due imprescindibili dizionari dei registi

(La A della B e La B della B) e quello dedicato alle

case di produzione, originariamente pubblicati su

«Cineforum» in uno speciale in quattro parti (dal

n. 303 al n. 306) tra aprile e agosto 1991, vengono

oggi riproposti in una nuova edizione integralmente

rivista, con la prefazione di Bruno Fornara e un

contributo originale firmato da Giuseppe Previtali.

Cinema, quello di “serie B”, trasversale rispetto ai

generi, spesso etichettato come buon artigianato

e per lungo tempo negletto ma che oggi, ancor più

che negli anni Novanta, torna a rivendicare status

critico e attualità (necessità?) cinefila: un’operazione

di ricerca e rivalutazione sempre in progress.

The B-generations vuole essere un punto di

ri-partenza per la riscoperta del B-movie.

«Vuoi dire che qualcuno là fuori sta

davvero aspettando questa roba?»

— William “One Shot” Beaudine

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in

si

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editoriale primopiano i film

le lune del cinema

Adriano Piccardi

Paradossi della menzogna The Irishman di Martin Scorsese

Giampiero Frasca

Lo sguardo dallo spiraglio

Anton Giulio Mancino

Cupio dissolvi

Dario Tomasi

Parasite di Bong Joon-Ho Roberto Chiesi

Grazie a Dio di François Ozon Tullio Masoni

Il Sindaco del Rione Sanità di Mario Martone Matteo Mazza e Simone Soranna

La famosa invasione degli orsi in Sicilia di Lorenzo Mattotti Alberto Morsiani

Le Mans '66 – La grande sfida di James Mangold Tina Porcelli

L'età giovane di Jean-Pierre e Luc Dardenne Edoardo Zaccagnini

Sole di Carlo Sironi Alessandro Lanfranchi

Miserere di Babis Makridis Alberto Morsiani

Panama Papers di Steven Soderbergh Claudio Gaetani

Downton Abbey di Michael Engler Katia Dell'Eva, Elisa Baldini

The Bra. Il reggipetto – L'uomo senza gravità Gianni Olla

Palinsesti Antonioni e Pavese.

Le amiche: Prime prove di un'epica della scomparsa o della fuga dal mondo

Juri Saitta

Ida Lupino Filmaker. L'altro volto dell'American Way of Life

Premio Adelio Ferrero 2019 Ilaria Puliti

L'adolescenza femminile nel cinema di Alice Rohrwacher

Desirée Massaroni

Recensione Santiago, Italia di Nanni Moretti

Tullio Masoni

Pratolini trascurato. Una nota su La costanza della ragione

Chiara Boffelli / Festival Internacional de Cine de San Sebastián Paolo Vecchi / Pordenone 2019. Hart, De Mille, Protazanov Mariangela Sansone / Ravenna Nightmare International Film Fest a cura di Barbara Rossi

festival percorsi 03 04 06 10 17 20 23 26 29 32 35 38 41 44 48 50 58 68 79 80 85 87 89 92

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Rivista realizzata con il contributo di La FIC Federazione Italiana

Cineforum, è un’associazione

di cultura cinematografica riconosciuta dal MiBAC. Fondata nei primi anni ’50, la FIC opera ed è presente, attraverso una cospicua rete di circoli attivi sul territorio nazionale, sia nelle piccole che nelle grandi città. La promozione dell’attività cinematografica è la sua mission principale. Con questo obiettivo, la FIC organizza corsi, convegni e seminari, distribuisce film classici e inediti, fornisce consulenza specializzata, cura la pubblicazione della rivista «Cineforum» e di altri prodotti editoriali di cultura cinematografica.

Organi Direttivi / Comitato Centrale della FIC – Federazione Italiana Cineforum in carica per il triennio 2018-2020

Consiglio di Presidenza

Angelo Signorelli (Presidente e Tesoriere) Enrico Zaninetti, Chiara Boffelli (Vicepresidenti)

Daniela Vincenzi (Segretario) Sergio Zampogna

(Presidente per il Collegio dei Revisori dei Conti)

Dario Catozzo

(Presidente per il Collegio dei Sindaci Probiviri)

Membri del Consiglio Direttivo

Gianluigi Bozza, Bruno Fornara, Sergio Grega, Alessandro Pedretti, Adriano Piccardi, Walter Pigato, Paolo Rizzi (cooptato), Barbara Rossi, Fabrizio Tassi

Membri dei Collegi

(Sindaci Probiviri e Revisori dei Conti) Alessandro Frezza, Tonino Turchi, Giuseppe Puglisi (supplente); Roberto Marchiori, Leo Rossi, Pierpaolo Loffreda (supplente), Claudio Scarpelli (supplente)

Redazione Cineforum Segreteria FIC

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cineforum

rivista mensile di

cultura cinematografica

edita da FIC — Federazione Italiana Cineforum Iscritta nel registro del Tribunale di Venezia al n. 307 del 25.5.1961

anno 59 — n. 10 — dicembre 2019

Direttore responsabile

Adriano Piccardi — direttore@cineforum.it

Vice direttore

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Direttore editoriale

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Comitato di redazione

Chiara Borroni, Roberto Chiesi, Bruno Fornara, Luca Malavasi, Roberto Manassero, Emanuela Martini, Lorenzo Rossi, Angelo Signorelli, Fabrizio Tassi

Segreteria di redazione

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Redazione web | cineforum.it

Roberto Manassero (capo redattore), Chiara Borroni, Lorenzo Rossi, Fabrizio Tassi

Collaboratori

Sergio Arecco, Elisa Baldini, Alberto Barbera, Pietro Bianchi, Pier Maria Bocchi, Paola Brunetta, Giacomo Calzoni, Francesco Cattaneo, Massimo Causo, Rinaldo Censi, Carlo Chatrian, Andrea Chimento, Pasquale Cicchetti, Katia Dell'Eva, Simone Emiliani, Davide Ferrario, Giampiero Frasca, Claudio Gaetani, Leonardo Gandini, Giuseppe Ghigi, Federico Gironi, Alessandro Lanfranchi, Roberto Lasagna, Fabrizio Liberti, Nuccio Lodato, Pierpaolo Loffreda, Giancarlo Mancini, Anton Giulio Mancino, Giacomo Manzoli, Francesco Saverio Marzaduri, Tullio Masoni, Emiliano Morreale, Alberto Morsiani, Federico Pedroni, Edoardo Peretti, Alberto Pezzotta, Tina Porcelli, Giuseppe Previtali, Nicola Rossello, Barbara Rossi, Francesco Rossini, Stefano Santoli, Simone Soranna, Antonio Termenini, Dario Tomasi, Alessandro Uccelli, Paolo Vecchi, Rinaldo Vignati, Edoardo Zaccagnini, Gloria Zerbinati

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FIC – Federazione Italiana Cineforum distribuzione@cineforum.it Spazi pubblicitari adv@cineforum.it Progetto grafico Sūqrepubliq Stampa

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Adriano Pic

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di

Paradossi

della menzogna

C

on i suoi ultimi film Martin Scorsese sembra aver optato in maniera definitiva per l’approvazione radicale del principio del falso come cifra di compren-sione e/o movente originario del suo lavoro di cineasta. Intendiamoci: non è che il tema della menzogna, del non detto e dell’indicibile capace di palesarsi all’improvviso nel conflitto, nell’atto violento (tanto più violento quanto più imprevedibile, nascosto dietro l’apparenza ingan-nevole dell’intesa) fosse assente nella sua filmografia precedente. Anzi. Ma il finale ri/velatore di Silence, con la ricomparsa del piccolo crocefisso nascosto tra le mani dell’apostata Rodrigues; le falsità che costellano la strut-tura narrativa di Rolling Thunder Revue (A Bob Dylan Story By Martin Scorsese, non a caso); la scelta consa-pevole e dichiarata di realizzare The Irishman sulla base di un libro che raccoglie anche dichiarazioni inattendibili, o apertamente inficiate da legittimi dubbi di veridicità, da parte di un protagonista spinto da cause sulle quali è possibile fare soltanto supposizioni. Ebbene, questo vero e proprio crescendo non può non essere messo in colle-gamento con una strategia di autosmascheramento, un desiderio di confessione, quasi a voler aprirsi al pubblico e a se stesso in una ricerca di sincerità (di perdono?).

P

osizione paradossale, certo, soprattutto se si pensa che la categoria della menzogna, della falsificazio-ne, da sempre si accompagna all’atto del narrare. E questo vale non soltanto a proposito della narrazione cinematografica, anche se nel caso di quest’ultima si aggiungono elementi che spingono in maniera ancora più decisa ed estrema in tale direzione. Narrare i fatti significa automaticamente travisarli: semplicemente in-ventarli o selezionarli, riportarli in modo inevitabilmente soggettivo, tacendo magari dettagli decisivi in nome delle aspettative e del bisogno di sicurezze da parte dei destinatari del racconto (dobbiamo ancora ricordare una delle battute più famose della storia del cinema sul rapporto tra i fatti e la leggenda?). Ma forse l’operazione di falsificazione più radicale sta proprio nella necessità di dare, attraverso la narrazione, un significato al mon-do, a quella rete di relazioni e di azioni e di reazioni che altrimenti davvero non sarebbero che un’accozzaglia di strepiti e furore senza costrutto. Del resto, già la celebre battuta di Macbeth altro non è che una disperata ricerca di senso nel riconoscimento del nonsenso dell’esistenza.

M

i sembra interessante, infine, confrontare la scelta di Scorsese (il falso come cuore nero della narra-zione/rappresentazione cinematografica) con il propo-sito “redentore” che invece Tarantino affida al cinema il compito di mostrare come necessaria la distorsione dei fatti storici (tanto della microstoria quanto della Storia in maiuscolo): due approcci apparentemente differenti alla materia narrabile ma in fondo convergenti nello spi-rito di irriducibilità che ci trasmettono, circa la posizione e la funzione dei film nell’instancabile revisione degli orizzonti del nostro immaginario.

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Ormai anziano, Frank Sheeran, veterano di guerra,

truffatore, sicario ed ex dirigente di sezione del

Sindacato degli autotrasportatori, racconta gli

eventi di cui è stato protagonista nel corso della

sua carriera, iniziata dopo il Secondo conflitto

mondiale, e succedutisi parallelamente alla storia

ufficiale degli Stati Uniti. Frank illustra il segreto

universo della malavita organizzata, le azioni

compiute, la sua collaborazione con i boss della

mafia italiana, i rapporti con la politica, la sua

amicizia con Russell Bufalino e quella con il celebre

sindacalista Jimmy Hoffa, il cui omicidio è rimasto

avvolto da fitto mistero. Parallelamente, Frank

narra anche le sue vicende familiari, le quali, a

causa dell’opacità del suo operato, lo porteranno

alla sofferta rottura dei rapporti con l’adorata

figlia Peggy.

Titolo originale —id.

Regia —Martin Scorsese

Soggetto —dal libro I Heard You Paint Houses di Charles Brandt (tit. ed. it.: L’irlandese – Ho ucciso Jimmy Hoffa)

Sceneggiatura — Steven Zaillian

Fotografia —Rodrigo Prieto

Montaggio —Thelma Schoonmaker

Musica —Robbie Robertson (supervisione musiche: Randall Poster)

Scenografia —Bob Shaw

Costumi —Sandy Powell, Christopher Peterson

Interpreti — Robert De Niro (Frank “the Irishman” Sheeran), Al Pacino (Jimmy Hoffa), Joe Pesci (Russell Bufalino), Harvey Keitel (Angelo Bruno), Ray Romano (Bill Bufalino), Bobby Cannavale (Felix “Skinny Razor” DiTullio), Stephen Graham (Anthony “Tony Pro” Provenzano), Anna Paquin (Peggy Sheeran), Lucy Gallina (Peggy Sheeran bambina), Domenick Lombardozzi (Anthony “Fat Tony” Salerno), Stephanie Kurtzuba (Irene Sheeran), Kathrine Narducci (Carrie Bufalino), Jesse Plemons (Chuckie O’Brien), Welker White (Josephine Hoffa), Jack Huston (Robert F. Kennedy), Gary Basaraba (Frank “Fitz” Fitzsimmons), Steven Van Zandt (Jerry Vale), Aleksa Palladino (Mary Sheeran), Marin Ireland (Dolores Sheeran), Kate Arrington (Connie Sheeran), Jennifer Mudge (Maryanne Sheeran), Sebastian Maniscalco (Joseph “Crazy Joe” Gallo), Dascha Polanco (l’infermiera), Louis Vanaria (David Ferry), Billy Smith, David Wenzel (gli agenti dell’FBI)

Produzione —Martin Scorsese, Robert De Niro, Troy Allen, Jane Rosenthal, Emma Tillinger Koskoff, Irwin Winkler, Gerald Chamales, Gastón Pavlovich, Randall Emmett, David Webb per TriBeCa Productions/Sikelia Productions/Fábrica de Cine/STX Entertainment

Distribuzione —Netflix Durata —209’ Origine —USA, 2019

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— Martin Scorsese

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er chiunque pensi che Taxi Driver (id., 1976) sia uno dei film americani più importanti degli ultimi cinquant’anni, potrà sembrare impossibile che nessuno studio hollywoodiano fosse interessato a sobbarcarsi i centosessanta milioni di dollari previsti dal budget per un nuo-vo film che unisse Martin Scorsese a Robert De Niro. Eppure è andata proprio così. Neanche la Paramount, inizialmente impegnata nel pro-getto, ha pensato che l’investimento potesse valere la pena, liberando lo spazio in cui si è poi affacciata Netflix; non senza difficoltà, tra l’altro, dovute al necessario compromesso tra distribuzione televisiva e quella, per lo meno parziale, cinematografica, considerata da Scorsese la conditio sine qua non per la part-nership.

E

videntemente, i mitici anni Settanta (ma per Scorsese e De Niro anche gli Ottanta e parte dei Novanta) sono rimasti leggendari solo per i vecchi nostalgici del passato, non certo per il pragmatismo degli Studios, la cui visione è molto spesso riferita alla storia del cinema solo nei termini di convenienti sequel, garantiti remake o fiduciosi reboot. È come se per quegli stessi vecchi nostalgici, in un impeto di blasfemia, la trap prendesse il posto dei Led Zeppelin. Perché il cinema di Scorsese ha sem-pre avuto le cadenze ipnotiche e incalzanti del

rock’n’roll, anche adesso che si manifesta sotto forma di ballata, pronta a trasformarsi a sua volta nell’elegia di un mondo di cui s’intravedo-no solo lontani spettri.

T

he Irishman è anche questo, un film che si

pone in qualità di degno compendio arti-stico di tutta una filmografia (non solo quindi relativamente ai gangsters italian-style) ed è capace di raccontare contemporaneamente uno spaccato unofficial della storia americana, utilizzando il tempo come motore della narra-zione e soffermandosi sull’etica dello sguardo come principio della relazione tra i vari perso-naggi. Tutt’altro che un testamento spirituale, vista la mole di progetti preannunciati o in preproduzione, ma sicuramente un punto fer-mo di approdo, quasi di non ritorno, in virtù di tutti i significati simbolici veicolati dal film. The Irishman, infatti, si pone sulla scia di Quei bravi ragazzi (Goodfellas, 1990) e Casinò (Casino, 1995), rendendosi perfettamente riconoscibile come prodotto dell’autore, non solo per la pre-senza dei feticci del suo cinema, come appunto De Niro, un laconico quanto mai in passato Harvey Keitel e un Joe Pesci sottratto alla pen-sione dopo lunghissimo corteggiamento (la vulgata parla di almeno cinquanta rifiuti prima di accettare la scrittura). Ci si aspetta che da un momento all’altro dietro un angolo di un locale

Lo sguardo dallo spiraglio

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Martin Scorsese

compaiano anche Ray Liotta, forse ancora alle prese con la sua paranoia in uei bravi ragazzi, e Frank Vincent, scomparso invece due anni fa, proprio per il fatto che l’impressione istintiva è di logica continuazione, se non proprio di rim-patriata.

L

’impressione è poi confermata dalle costanti che attraversano da sempre tutto il cinema di Scorsese, dalla loquacità del narratore (un De Niro giunto molto anziano a ripercorrere la sua amicizia con il sindacalista Jimmy Hoffa, cui Al Pacino fornisce la debita convulsa energia), al ritmo di una musica che si fa guaina espres-siva di ogni singola sequenza. Eppure qualche segnale di diversità di questo film rispetto a tutti quelli che lo hanno preceduto è evidente sin dalle prime immagini, con la macchina da presa che s’inocula in un ambiente nuovo per esplorarlo, lungo il corridoio di un ospizio in cui si ravvisa la consueta iconografia cattolica cara al regista e la cui fluidità della ripresa conduce direttamente alle cucine dei ristoranti di Quei bravi ragazzi o alla stanza in cui si opera il con-teggio dei soldi in Casinò, per un ribaltamento tutto gangsteristico tra ascesa e caduta che tra-valica i singoli film per fare riferimento all’intera filmografia di Scorsese.

È

sempre la stessa materia ma vista con un filtro differente, con una morale degli ultimi giorni che finalmente conduce a un compimento salvifico quel cattolicesimo da sempre presente. E questo aspetto si riflette anche nell’estetica, complice il target essenzialmente televisivo cui The Irishman è destinato e che lo priva di quella consueta aggressività espressiva che solitamente caratterizza le storie di malavita del regista. Niente movimenti di macchina a incon-trare i personaggi, nessun vorticoso whip pan nelle conversazioni, solo placidi campi e contro-campi, leggibili da qualunque tipo di pubblico e in qualche modo confortanti; neanche l’ombra delle solite lunghe e tachicardiche introduzioni, che suonano come uno smisurato e frenetico videoclip teso a prendere di peso lo spettato-re e a gettarlo, intontito, nella proliferazione magnetica delle immagini. Anche i colori della fotografia di Rodrigo Prieto paiono meno ioniz-zati al neon, meno squillanti di quelli di Robert Richardson in Casinò, più vicini alle tinte pastello di una pacata iconografia presettantesca, così come parte dell’ambientazione richiede. È sem-pre Scorsese ma attenuato.

U

n rock’n’roll declinato sulle note di una de-licata elegia degli ultimi giorni, come si di-ceva in apertura. Irishman è soprattutto, infatti, un’ossessiva riflessione sul tempo, travestita per

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tre ore da epos gangsteristico per poi conver-tirsi nell’ultima mezz’ora, dall’uccisione di Hoffa in avanti (in quel totale di tre ore e ventinove minuti che fa di The Irishman il lavoro più lungo del regista), in un racconto obitoriale, in cui lo sviluppo del tempo, in precedenza orchestrato anche strutturalmente in un andirivieni di fla-shback, diventa semplice attesa che giunga la Fine. Con la lettera maiuscola. Una fine attesa tra tentativi vani di Sheeran di riconquistare il rapporto con la figlia Peggy e il conforto della religione intesa come semplice presenza, non come pentimento e remissione dei peccati, per lo meno apparentemente. Una fine, per di più, in qualche modo anticipata anche dalla pratica effettistica digitale del de-aging, con cui la Industrial Light & Magic della Lucasfilm rende lisci, perfettamente levigati, i volti dei perso-naggi altrimenti solcati dalle profonde rughe degli attori, sottraendo dalle spire del tempo le espressioni dei primi ma conservando ine-vitabilmente tutta la pesantezza fisiologica da ultrasettantenni presente nei corpi dei secondi.

I

l tempo di Irishman, tuttavia, non è sviluppo, ma è un tempo indotto, sempre forzato nella sua attuazione. La storia è interamente pun-teggiata di esecuzioni, di personaggi presentati dall’istanza narrante con una didascalia che, mentre blocca la continuità delle immagini con uno stop frame, cita nome e cognome e ne spie-ga le violente cause del decesso, imponendo per un attimo il proprio tempo – espressivo – sullo scorrere inesorabile delle miserie umane. L’unico stop frame su un personaggio morto di

vecchiaia è un’apprezzabile trovata ironica che sfrutta proprio l’enormità dei caduti precedenti. Così come ironica appare, allo stesso modo, l’impulsiva risposta di un De Niro/Frank Sheeran ormai anziano («Chi è stato?») quando due de-tective dell’FBI lo informano della morte del suo avvocato, anche se l’immediatezza umoristica si trasforma subito nell’ennesima spia di una concezione del tempo deformata dal continuo susseguirsi di rapporti interpersonali basati sulla sopraffazione.

T

ali rapporti, inoltre, sono regolati da una dialettica volta a generare un’autentica morale dello sguardo. Le relazioni, i sospetti, i confronti a distanza, i riscontri e le verifiche, tutto si lega attraverso le direttrici degli sguardi dei personaggi, i cui piani ravvicinati osservano, scrutano, cercano di comprendere ciò che so-spettano in virtù di un’impressione precedente. The Irishman si anima grazie alle traiettorie di occhi che entrano in contatto o si fissano sull’og-getto cercando di carpirne la reale natura, generando una metafora che si allarga fino a comprendere gli strumenti di visione, come gli occhiali, in relazione ai quali basterebbe pen-sare alla parentesi in cui Sheeran è invitato a consegnare i suoi occhiali da sole a Joe Pesci/ Russell Bufalino prima di partire per uccidere Jimmy Hoffa, salvo poi tornare laddove li aveva consegnati e riottenerli per poter continuare a osservare il mondo attraverso un filtro protet-tivo.

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I

l portato morale di questa ossessione si situa invece nella natura dello sguardo del perso-naggio di Peggy, capace di scrutare il padre attraverso gli interstizi di quel poco che Sheeran lascia trasparire, anche attraverso lo spiraglio di una porta, ennesimo simbolo del film, e di ri-uscire a intuirne la natura brutale e impassibile. Non è un caso che una volta diventata adulta (e interpretata da Anna Paquin), il già introverso personaggio dica soltanto una e una sola frase, chiedendo al padre perché non abbia chiamato la moglie di Hoffa alla scomparsa del marito, limitandosi a esaminarne attentamente le rea-zioni, indovinando la sua colpa e interrompen-do ogni futura comunicazione con lui.

L

o sguardo dallo spiraglio, si diceva. Nelle mani di Scorsese diventa un ponte tra il tentativo di comprensione di una realtà altrimenti nascosta (non solo Peggy; anche Hoffa quando Sheeran è ospite in casa sua) e l’allusione a una possibile resipiscenza da parte di De Niro/Sheeran, che tuttavia la narrazione non esplicita. Nell’ultima inquadratura del film, l’anziano Sheeran si raccomanda con il prete che gli ha dato il consueto conforto religioso di lasciare aperto uno spiraglio della porta della sua stanza ed è dall’esterno di essa che la macchina da presa

lo osserva per l’ultima volta, prima della fine. «Voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore» dice la Prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi, invitando a non farsi cogliere di sorpresa, vigilando per essere pronti e non concludere la propria vita nel peccato. Ancora una volta lo sguardo come elemento fondamentale; ancora una volta, l’attenta os-servazione è necessaria per non essere colti in fallo, neanche nel momento del trapasso.

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di

Ant

on Giulio M

ancino

«S’ammucchiava fittamente

sulle croci contorte e

sulle pietre, sulle punte

del cancelletto, sulle siepi

desolate. La sua anima

lentamente svanì mentre

udiva la neve cadere lieve su

tutto l’universo, e lieve cadere,

come la discesa della loro

ultima fine, su tutti i vivi e i

morti».

(James Joyce, I morti)

I

l problema che pone The Irishman è quello dell’evidenza. Tragica, senile, funebre evi-denza. Martin Scorsese, quasi ottuagenario, ha ben chiaro che la posta in gioco di questo suo monumentale film transitato dal grande al pic-colo schermo per ragioni produttive ma anche di logica intrinseca dell’esposizione è ciò che i

mafiosi, in gergo, sottintendono a proposito di una situazione irrimediabile e segnata. Dichiarano semplicemente «Come stanno le cose». E l’originale «It is what it is», che ricorda molto – chissà come – il titolo del film-show con cui Elvis Presley sancisce il suo ritorno sulle scene (nei casinò di Las Vegas): That’s the Way It Is, rende meglio l’impossibilità di provvedere diversamente. Quando la condanna è stata già decisa. Donde l’enunciazione pragmatica e tautologica di qualcosa non più di competenza delle parole o di un qualsiasi ordine discorsivo civile.

L

a morte di Jimmy Hoffa, effetto collaterale di quella di John Fitzgerald Kennedy, rientra appunto nella categoria del «Come stanno le cose»/«It is what it is», di cui si fa portavoce Frank Sheeran detto “L’Irlandese”. The Irishman, che è un film sui morti e i morituri, attraversato da altrettanti morituri e morti, trasferisce in ambito storico le ossessioni visionarie e mistiche di Al di là della vita, di cui ancora una volta il titolo originale Bringing Out the Dead (1999) rendeva meglio la sostanza cimiteriale. Scorsese sta procedendo esattamente così: “tirando fuori” la “morte” o i “morti” giocando di sponda. Lui

Cupio dissolvi

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che di biliardo se ne intende, come insegna (in) Il colore dei soldi (The Color of Money, 1986), si rende ben conto di poter raggiungere meglio il bersaglio sfruttando l’effetto di rimbalzo di un evento collaterale e proporzionalmente analogo. Un omicidio clamoroso rimbalza e ne determina un altro. Seguendo una catena mortale infinita, dove tutti prima o poi scom-paiono dalla scena, con in cima alla lista i primi due uomini più “potenti” d’America, il presidente e il sindacalista, Kennedy e Hoffa, The Irish-man conferma nel suo lento, impegnativo e indolente decorrere che un morto tira l’altro. L’autore che non ha più nulla da dimostrare o da perdere, può concedersi quindi di applicare e ingigantire il meccanismo che sorreggeva Quei bravi ragazzi (Goodfellas, 1990), già rep-licato in Casinò (Casino, 1995), per visualizzare in The Irishman paratatticamente le ammissioni precise, ondivaghe e reticenti, elusive e allusive dell’ultimo gangster ancora in vita all’inizio del Nuovo secolo, mentre tutti i capi e i comprimari del cruento dramma americano collaterale si preparano progressivamente per infittire il coro dei defunti.

E

che la loro sia stata una morte violenta o naturale, non fa differenza. Importa piuttosto ciò che in definitiva Frank Sheeran, il soprav-vissuto, solitario e infermo, sa o dice di sapere riguardo alla coppia di delitti più grave e di

vertice. Senza capire cosa sia successo ad Hoffa nel lontano 1975 non si viene a capo dell’altro complotto criminale che ha avuto come bersa-glio dodici anni prima Kennedy. E per colmare le distanze, riandare indietro nel tempo, occor-rono interlocutori, interpreti e attanti attempati.

T

he Irishman funziona così, prendere o

las-ciare. Ai piani alti della gerarchia mafiosa, compreso Sheeran, membro della “compagnia dell’anello” istituita dal suo boss protettore, Rus-sell Bufalino, non sfugge come al dialogo e alla cordiale o ragionevole persuasione dell’altro, in tali frangenti, sia già subentrata l’azione omicida, l’eliminazione fisica dell’elemento umano ingombrante e riottoso, nonostante se ne continui per inerzia a parlare chiosandone l’insostenibilità. Il messaggio recapitato diret-tamente al più “potente” e controverso sinda-calista americano da parte degli “amici” tramite Bufalino in persona lega indissolubilmente il suo destino imminente a quello del presidente as-sassinato, anche lui di origini irlandesi: «Ci sono persone più in alto di me che pensano che ti stai comportando da ingrato, per Dallas». Sempre Bufalino ribadisce più tardi a Sheeran che cerca forse uno spiraglio per salvare la vita a Hoffa, convinto invece di essere intoccabile: «Se sono riusciti a colpire il presidente, che problema può rappresentare il presidente dei Teamsters?». Il che, tradotto in coerenza e logica

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ziale mafiosa, si riassume nel proverbiale «It is what it is». Grosso modo: «Come stanno le cose». Attingendo a piene mani dal repertorio testimoniale di Sheeran, tenendo in campo ciò che gli serve, Scorsese nella “sua” ennesima variazione sul tema delle concatenazioni por-tate alla luce da comprimari e gregari di rango della criminalità organizzata realizza, piaccia o no, il suo film più ambizioso. Sotto questo as-petto, prendendo lo spettatore per sfinimento intenzionale e manifesto, su questo versante delle concomitanze mafioso-istituzionali e del raddoppiamento dell’atto estremo politico-criminale The Irishman non fa una piega.

A

lla dimensione ostentata di morti che parlano di morti e si apprestano a morire (con Jerry Vale che da “crooner” si trasforma in “coroner”, e l’anagramma ci sta tutto, cantando Al di la), a un immondo irlandese come Sheeran spetterebbe di diritto come epitaffio il finale del racconto I morti di un illustre predecessore irlandese, che abbiamo voluto appositamente citare in esergo. Ma non c’è opera letteraria che possa restituire a parole la pregnanza in-terlocutoria e laconica di frasi tombali tipo «It is what it is». Su The Irishman incombe una cappa lugubre, non c’è dubbio. Da «Come stanno le cose». La rapida e indolente sequenza lessi-cale adoperata per esporre in estrema sintesi il concetto implica quindi l’ovvietà di (non) dire ciò che ormai resta soltanto da fare. Si sancisce

così quanto inutile sia insistere nel prospettare una via d’uscita alternativa. Quando si è arrivati allo stadio avanzato del «Come stanno le cose», meglio: dell’«It is what it is», vuol dire che la “cosa”, quella “cosa” ha preso un’altra direzione. Non serve più ripetersi, meno che mai tentare di spiegarsi. Le articolazioni verbali che Scorsese segue orizzontalmente non hanno più senso se non quello puramente sonoro e allusivo. Ruota-no intorRuota-no a se stesse. The Irishman nella sua durata eccezionale gira ugualmente attorno a se stesso e alle “evidenze” storicamente inelud-ibili connesse all’ondata delittuosa che unisce livelli alti, bassi e intermedi. E nel girare attorno, si consuma come si consumano i protagonisti i quali per eccesso di trasparenza si offrono allo sguardo impietoso da subito vecchi, terribil-mente decrepiti, sempre vegliardi a dispetto del make-up digitale che semmai accentua l’insostenibilità al giorno d’oggi di sofisticate strategie di ringiovanimento.

Q

uando le “cose” della seconda metà del Secolo scorso, di Cosa Nostra in particolare e degli Stati Uniti in generale, sono arrivate a un certo punto, di non ritorno, non rimane che farle recitare agli unici attori possibili, fisiologi-camente anziani, la cui maschera elettronica sottolinea semmai l’obsolescenza dei gravi fatti rievocati. Le star di Scorsese in questa elegia atroce della terza età che investe ogni età rappresentata e rappresentabile, senza

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soluzi-op

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Martin Scorsese

oni di continuità tra segmenti presenti e passati saldati dalla prassi del flashback, consentono allo spettatore di apprendere alcune di queste “cose”, collegarle ad “altre”. E di riconoscerne contestualmente la loro decadenza a un livello fisico, esplicitamente contraffatto, che rimanda a quello conoscitivo. Sapere pertanto chi ha ucciso Jimmy Hoffa – secondo il procuratore, fratello del presidente e candidato presidente e perciò morituro Robert Kennedy «l’uomo più potente degli Stati Uniti dopo il presidente» – e quindi capire da questo delitto eccellente le dinamiche dell’altro delitto eccellente, quello di John Fitzgerald Kennedy, equivale a viaggiare a ritroso, per ritrovarsi in compagnia di individui marcatamente logorati dal tempo inclemente. The Irishman è un film che si fa carico della sensazione di essere arrivati a una svolta pro-prio quando a nessuno più interessa sapere. Scorsese (si) confessa come il suo protagonista. Ammette di raccontare vecchie storie, di gente vecchia, con attori vecchi. Adotta la vecchiaia, che è anche intelligentemente la sua, associ-andovi un religioso, esistenziale, etico cupio dissolvi, come chiave di lettura autoironica e straniante degli avvenimenti. E lo fa per siglare l’impossibilità, nell’epoca della riproducibilità digitale dei supereroi e delle meganarra-zioni seriali, di rivolgersi a un interlocutore o uno spettatore contemporaneo, aduso per motivi generazionali o culturali alla semplificazione se non addirittura alla rimozione di snodi storici remoti.

L

a scandalosa “evidenza” della vecchiaia che contraddice le virtù giovanili dell’effetto spe-ciale e della modellazione ex novo dei volti è la spia di una linea politica e da politica degli autori coerente, irriverente, antagonista. Il ringiovani-mento posticcio dei personaggi e dei fatti, gli uni incarnazione incartapecorita e cadente degli altri, rimanda a un senso generalizzato di morte conoscitiva, ignoranza della realtà, incapacità di leggere in chiave complessa e strutturale i delitti politici di mafia. I protagonisti di The Irishman sono insomma quanto di più prossimo Scorsese abbia immaginato alle mummie nella cripta che inaugurano Cadaveri eccellenti (1976) di Fran-cesco Rosi, alle vecchie glorie che non si fingono affatto giovani, rinunciando all’occorrenza al trucco, di L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962), Le balene d’agosto (The Whales of August, 1987) e The Mule – Il corriere (The Mule, 2018), lungo un asse che congiuge John Ford, Lindsay Anderson e Clint Eastwood, o per restare nel territorio della sua filmografia ai Rolling Stones molto in là con gli anni che si agitano sul palcoscenico di Shine a Light (id., 2007). La microstoria di Frank Sheeran, squarciando definitivamente il velo sul caso Hoffa, porta alla luce quella macrostorica del caso Kennedy, generando un sistema di vasi comunicanti, rapporti di causa ed effetto, con-nessioni a largo spettro. Poiché “largo” è anche il tessuto lungo il quale si sviluppa il film.

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F

acendo propria per una serie di motivi l’espressione chiave in uso nel codice crimi-nale Scorsese ne sviluppa in pratica la portata semantica lungo tutto l’asse orizzontale del suo interminabile film terminale. Procede seguendo peraltro la traccia del libro-intervista di Charles Brandt dal titolo ugualmente fluviale, non a caso alla Lina Wertmüller, I Heard You Paint Houses. Frank “The Irishman” Sheeran and the Inside Story of the Mafia, the Teamsters, and the Last Ride of Jimmy Hoffa, più volte ripubblicato dal 2004, fino a includere nel racconto il medesimo progetto cinematografico giunto frattanto a compimento. Non a caso la nuova edizione itali-ana del libro di Brandt, datata ottobre 2019, al-lineando le parole alle cose e le cose alle parole e alle immagini scorsesiane, non si limita alla notizia nel testo del film “imminente”, ma chiude il cerchio delle “evidenze” concomitanti optando definitivamente per l’omonimo e conciso titolo The Irishman. Va da sé, riprodotto in copertina come parte integrante del manifesto.

T

he Irishman è un film “di riporto”. Riflettere su

come far arrivare a compimento un percorso di conoscenza giunto alla “prova” definitiva dei fatti. Il suo approccio conoscitivo alla storia degli Stati Uniti continua insomma a coincidere o a intrecciarsi con le dinamiche interne alla (s) compagine mafiosa, come hanno a più riprese dimostrato Toro scatenato (Raging Bull, 1980), Quei bravi ragazzi, Casinò. Il testimone, in tutti i sensi, passa ora a The Irishman. Che a Quei

bravi ragazzi e Casinò in particolare fornisce un giro di vite. Di concerto compongono in pratica un’ideale trilogia fondata sulla ripetizione e la differenza di un paradigma narrativo che procede sulla scorta di un invecchiamento impi-etoso di personaggi che fanno sempre le stesse cose, in contesti analoghi o sovrapponibili. Sem-bra di assistere daccapo all’unica operazione analoga all’interno della storia del cinema, e che porta la firma di Howard Hawks, il cui ultimo Rio Lobo (id., 1970) declinava El Dorado (id., 1966) che declinava a sua volta Un dollaro d’onore (Rio Bravo, 1959). Ebbene, per Scorsese The Irishman sta a Rio Lobo come Casinò sta a El Dorado e Quei bravi ragazzi a Un dollaro d’onore. Sono film che finiscono per somigli-arsi, non foss’altro perché a interpretarli sono i medesimi attori che riprendono o si scambiano al massimo i ruoli, come si confà ai membri di una compagnia di giro. Tutto ciò in nome di un richiamo costante alla più tremenda “evidenza” concepibile, storica e cinematografica.

E

d “evidenza” mai come in questo caso che assembla il caso Hoffa al caso Kennedy, sotto l’egida della mafia (come con meritorio anticipo fece Gianni Bisiach nel suo impressionante e inveterato I due Kennedy [1969]), è sinonimo in ambito anglofono tanto di “prova” quanto di “testimone”. Ancora una questione di lin-guaggio, stavolta giuridico e investigativo. The Irishman è in definitiva la “prova” (evidence), di “Come stanno le cose” o «It is what it is». Del

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Martin Scorsese

ché dentro vi sia anche il personaggio di David Ferry, non più interpretato da Joe Pesci come in JFK – Un caso ancora aperto (JFK, 1991) di Oliver Stone, essendo ora Pesci, nella vita persona vicina all’ambiente che spesso rappresenta nei film (si veda il suo personaggio in Jersey Boys [id., 2014]), impegnato a dare il volto rugoso al pacato e irremovibile Bufalino. Mentre sempre in The Irishman Robert De Niro si concede il ruolo di un altro irlandese mafioso (per dirla alla John Ford, quello dell’Uomo-che-uccise-Jimmy-Hoffa), sull’esempio del Jimmy Conway di Quei bravi ragazzi, dove a sua volta sempre l’amico Pesci, nei panni di Tommy DeVito, faceva la stessa fine di Hoffa, poi replicata in Casinò con il personaggio di Nicky Santoro. Senza contare che Jimmy Conway è stato lo stesso nome scelto da Sergio Leone per un personaggio in tutto e per tutto conforme a Jimmy Hoffa in C’era una volta in America (Once Upon a Time in America, 1984), dove a Pesci è affidato il ruolo del temi-bile padrino Frank Monaldi.

E

non finisce qui. La vocazione e l’apprendistato criminale di Sheeran prendono le mosse – per sua ammissione riportata nel libro di Brandt da cui Scorsese deve aver ricavato e anche messo a profitto la coincidenza significativa autoreferenziale – dal capolavoro di Elia Kazan

che coniugava mafia e sindacato e di cui De Niro nelle vesti sfatte di Jake LaMotta in Toro scatenato, ugualmente in conflitto con il fratello Joey (ancora Pesci, come è noto), entrambi a stretto contatto con i mafiosi, recita nel suo camerino un breve, celebre brano di dialogo: «Tu eri mio fratello maggiore, avresti dovuto pensare a questo. Avresti dovuto capire che non valeva la pena di sacrificarmi così per quattro soldi. È questione di classe! Potevo diventare un campione. Potevo essere qualcuno, invece di niente, come sono adesso. Diciamolo… è colpa tua». Anche Charley, il fratello di Terry Malloy, il Marlon Brando antieroe del film ingiustamente più inviso al Roland Bathes di Miti d’oggi, farà la fine di Jimmy Hoffa. Perché così è stato de-ciso. Sheeran forse il cortocircuito tra il sostrato filmico e la superficie autobiografica l’avrà elaborato nel corso del tempo, superando la veneranda soglia degli ottant’anni. «Avevo visto Fronte del porto al cinema», racconta infatti «e giudicai di non essere meno duro del personag-gio di Marlon Brando. Dissi a Russ[ell Bufalino] che volevo cominciare a lavorare per il sinda-cato». Comunque sia, cinematograficamente parlando, così è «Come stanno le cose». Detto altrimenti: «It is what it is».

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Parasite —

Bong Joon-Ho

Grazie a Dio —

François Ozon

Il Sindaco del Rione Sanità —

Mario Martone

La famosa invasione degli orsi in Sicilia —

L. Mattotti

Le Mans ‘66 - La grande sfida —

James Mangold

L’età giovane —

Jean-Pierre e Luc Dardenne

Sole —

Carlo Sironi

Miserere —

Babis Makridis

Panama Papers —

Steven Soderbergh

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C

ol suo settimo film, Bong Joon-ho si conferma un regista in grado di concentrare su di sé l’attenzione della critica e del pubblico, sia a livello nazionale sia a quello internazionale. Dopo Barking Dogs Never Bite (2000), Memories of Murder (2003), The Host (2006), Mother (2009), Snowpiercer (2013), Okja (2017), con la Palma d’oro a Cannes di Parasite (2019), Bong sembra essere entrato a far parte di quel novero di registi di cui il cinema con-temporaneo non può fare a meno, confermando l’importanza di una cinematografia, quella della Corea del Sud, che oggi, grazie in particolare al lavoro suo, di Kim Ki-duk, di Lee Chang-dong, di Hong Sang-soo, e di Park Chan-wook, per non citare che le punte emergenti, si dimostra fra le più vitali al mondo.

B

ong Joon-ho è un regista squisitamente contemporaneo, come testimonia il suo stile postmoderno, fondato sull’uso di immagini-attrazione ed effetti flamboyant, teso a coinvolgere, colpire e sorprendere lo spettatore, sia sul piano audiovisivo sia su quello narrativo, insieme all’evidente propensione per una ludica ironia (che non lesina effetti slapstick o manga) e per l’improvviso rovesciamento dei toni, che nel volgere di un’inqua-dratura possono passare repentinamente da modalità dramma-tiche ad altre, all’opposto, comiche, spesso con effetti grotteschi (si veda al riguardo l’associazione tra omicidio e torta in faccia nella scena in cui il signor Gook accoltella la figlia dei Kim). Nello stesso tempo, Bong Joon-ho è un “autore” nel senso classico del termine, che nella sua opera complessiva si contrassegna per una continuità di temi e motivi che vanno dall’attenzione per il mondo dei diseredati, osservati senza il benché minimo pateti-smo, alle ingiustizie sociali, sino all’evidenziazione dei contrasti di classe, e dei conflitti all’interno delle stesse classi.

Tit olo originale Gisaengchung Regia e soggett o Bong J oon-ho Sc eneggiatur a Bong J oon-ho, H an Jin-w on Fo togr afia H ong K yung-p yo M ont aggio Y ang Jin-mo Music a Jun J ae-il Sc enogr afia L ee H a-jun Costumi Choi Se-yeon Int erpr eti Son K

ang-ho (Kim

Ki-taek ), J ang H ye-jin (Kim Chung-sook ), Choi W

oo-sik (Kim

Ki-w

oo

), P

ark

So-dam (Kim Ki-jung

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ee S

un-K

yun (il signor

P ark ), Cho Yeo-jeong (P ark Yeon-ky

o), Jung Ji-so (P

ark Da-hy e), J eong H yun-jun (P ark Da-song ), L ee Jung-eun (Gook M oon-gw ang ), P ark K eun-r ok ( Gook Geun-sae ), P ark M yeong-hoon ( Geun-se ), P ark Seo-joon (Min ), L ee Ji-h ye (la c ant ant e), Ahn Seong-Bong (l’uomo che pr ov oc a la rissa ), Jung Ik -han (il vicino ), Echae K ang, P ak H yo-shin (

gli ospiti speciali)

Pr oduzione Jang Young-Hw an, Bong J oon-ho, Kw ak S in-ae, M oon Yang-kw on, L ee J oo-H yun per Barunsun E&A/ CJ E nt ert ainment/T MS E nt ert ainment D istribuzione A cadem y Tw o D ur at a 132’ O rigine Cor ea del S ud, 2019 cast&cr edits La famiglia Kim viv e in miseria in un vic olo di Seoul.

Quando il figlio

Ki-w oo tr ov a lav or o c ome insegnant e priv at o d’inglese pr

esso una ric

ca

famiglia, quella dei

Park, l’ oc casione per miglior ar e le pr oprie c ondizioni di vit a tent a i Kim. A uno a uno, gr azie a div ersi so tterfugi, questi si fanno assumer e in diff er enti ruoli, pr esso quest a st essa famiglia, tr ov

ando modo di allont

anar e chi già ci lav or av a c ome autist a o c ome domestic a. Tutt avia, all’insaput a di tutti, nella c antina dei P ark si nasc onde da anni, per sfuggir e ai suoi cr edit ori, il marit o della domestic a c ac ciat a, Gook Geun-sae. F ra la c oppia dei Gook e la

famiglia dei Kim si sc

at

ena una guerr

a apert a, che finir à c ol c oin volger e gli st essi P ark, lasciando a terr a più di un c adut o. sinossi

Parasite

— Bong Joon-Ho

di

D

ario T

omasi

Come la guerra

fra le due Coree

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Q

uello di Bong è anche un cinema geometrico: se in Snowpiercer lo scontro assumeva un andamento orizzontale, lungo i vagoni dell’omonimo treno, in avanti o indietro, a seconda dell’andamento della “lotta”, in Parasi-te, esso ha una direzione verticale, in su o in giù, in partico-lare, ma non solo, attraverso la salita e la discesa di scale. Come esempio del movimento ascendente, si potrebbe citare l’avviarsi dell’infiltrazione dei Kim in casa Park che avviene con tre e vere proprie salite del giovane Ki-woo: quella sulle scale davanti al seminterrato suo e della sua famiglia, quella in strada sul pendio che porta alla villa dei “ricchi”, e quella, di nuovo sulle scale, all’interno dell’a-bitazione di questi ultimi, che passa da un ambiente più pubblico, il living, a uno più privato, le camere personali. Per quel che riguarda invece il movimento discendente, un valore particolare assume l’inquadratura di Kim Ki-tae (interpretato, va ricordato, da quello che è l’attore oggi più rappresentativo del cinema coreano, Song Kang-ho), che, dopo il massacro, lo mostra scendere le scale che finiran-no col portarlo (dopo una breve sosta) in quell’interrato, senz’aria né luce naturale, dove finirà per nascondersi e rinchiudersi, finendo con l’occupare quello stesso posto che era stato di Gook Geun-sae, il marito della domestica, lì rifugiatosi per sfuggire ai creditori: come se per entram-bi, e per tutti coloro che essi rappresentano, non ci fosse altro possibile destino.

I

l film si chiude così con un evidente processo di peggio-ramento – dal semi-interrato iniziale all’interrato finale – che colora di toni pessimistici, per quel che riguarda le speranze di scalata sociale, l’intero lavoro. Un’ascesa impossibile che è testimoniata anche dalla coincidenza

dell’incipit e della chiusa del film, che si ripetono pari pari attraverso un movimento di macchina a scendere che passa dall’immagine della finestra dei Kim ad altezza selciato a quella del figlio Ki-woo, che all’inizio cerca il wi-fi con il suo cellulare e alla fine legge la lettera che il padre gli ha “inviato” via segnali Morse. Il parallelo appe-na tracciato tra Kim Ki-taek e Gook Geun-sae, per ciò che riguarda la loro reclusione nell’interrato di casa Park, ci porta a fare un’importante considerazione. Il conflitto che pervade Parasite non è solo un conflitto fra le classi “alte” e quelle “basse” – l’uso degli aggettivi “alto” e “basso”, pur sgradevole, è tuttavia particolarmente appropriato per il film e la sua complessiva organizzazione spaziale – ma anche, e per certi versi ancor più, all’interno delle stesse classi “basse”.

P

artiamo, però, dal contrasto che disegna la prima metà del film, quello fra le famiglie dei Park e dei Kim (facen-do notare la scelta di attribuire loro quelli che sono i più diffusi, insieme a “Lee”, cognomi coreani, quasi a volerli così rendere emblematici di una certa realtà). La contrapposi-zione si disegna a partire dal rapporto speculare delle due famiglie – padre, madre e due figli, l’uno maschio e l’altra femmina – e dalla collocazione che questi hanno nella scala sociale: le scatole della pizza, per altro fatte male, dei Kim, di contro ai riconoscimenti pubblici, con tanto di certificati e articoli su una prestigiosa rivista internazio-nale, all’attività svolta da Park. In particolare, il contrasto fra le due realtà sociali si disegna anche grazie al lavoro dello scenografo Lee Ha-jun (già collaboratore di Bong per Okja, ma soprattutto di Im Sang-soo per Housemaid, 2010). Al film di Bong e di Im sono comuni la definizione

Bong Joon-ho è un “autore”

nel senso classico del

termine, che nella sua

opera complessiva si

contrassegna per una

continuità di temi e motivi

che vanno dall’attenzione

per il mondo dei diseredati,

osservati senza il benché

minimo patetismo, alle

ingiustizie sociali, sino

all’evidenziazione dei

contrasti di classe, e dei

conflitti all’interno delle

stesse classi.

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del mondo e dell’ambiente ove vivono i “ricchi” attraverso il gioco degli ampi ed eleganti spazi, della presenza di vuoti, della loro razionalità e del rifarsi a linee essenziali che comunicano un senso di freddezza, distacco e alterigia, che la luce tendenzialmente algida accentua.

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i contro, la casa dei Park si configura come uno spazio caotico, confuso, una vera e propria accozzaglia di oggetti, dove ogni cosa sembra essere fuori posto (a partire da quel wc rialzato, come se si trattasse di un trono). A ulteriore conferma dell’importanza del lavoro scenografico nella contrapposizione fra i due mondi c’è l’evidenziata dimensione antitetica delle finestre delle rispettive dimore: quella del seminterrato dei Kim che, come già detto, è a li-vello selciato, e dà su un vicolo dove gli ubriachi si fermano a pisciare o a vomitare, e da cui en-trerà abbondantemente l’acqua che allagherà l’abitazione; e quella, ben più ampia, dei Park, che invece dà sul curato ed elegante giardino all’inglese che circonda la villa separandola dal resto del mondo, e in mezzo al quale troneggia a lungo la tenda indiana del piccolo Da-song, che non è lì, come si vedrà fra poco, per caso.

U

na sequenza, in particolare, sembra bene rappresentare la contrapposizione fra i due mondi, quella che segue il citato allagamento della casa dei Kim, e in cui Ki-taek accompagna la signora Park a fare spese per soddisfare l’ulti-mo suo capriccio: l’improvvisata festa di comple-anno per il figlio. Quando i due sono in macchi-na, Bong insiste nell’inquadrare il volto in primo piano dell’autista, che guida apparentemente impassibile, rivelando però con l’espressione del volto tutta la sua sofferenza e umiliazione, mentre la signora alle sue spalle, appoggiando incurante i piedi nudi sul poggiatesta del sedile affianco dell’uomo, benedice al telefono la piog-gia del giorno prima, quella che ha allagato la casa dei Kim costringendoli a dormire con altri sfollati in palestra, grazie alla quale il tempo si è fatto più terso, poco prima di stringersi il naso, per non “sentire” la puzza dei poveri.

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uttavia, come si è detto, questo gioco di evidenti contrasti, sopiti rancori e lancinanti umiliazioni è poco o nulla rispetto a quello che viene a crearsi fra le due famiglie appartenenti alle classi “basse”: i Kim e i Gook, la cui esemplare guerra fra poveri finirà col portare al massacro in giardino. Di là dalle evidenti conclusioni per ciò che riguarda la rappresentazione della società che da tutto ciò si possono trarre, è interessante notare come Bong internazionalizzi il conflitto triangolare, quello fra i Park, i Kim e i Gook, attraverso evidenti associazioni. I Park, infatti,

sono l’America, come testimoniano l’articolo in inglese che rende merito alla professione del capofamiglia, l’arco, le frecce e la tenda indiana del piccolo Da-song, che la madre più volte si premura di dire che sono stati acquistati negli USA, e l’abitudine da parte della stessa signora Park di attribuire ai suoi dipendenti dei nomi in inglese, per cui Ki-woo diventa Kevin e Ki-jun, Jessica. Dall’altro lato, per ben due volte, i Gook – “gook” è anche un termine dispregiativo con cui i soldati americani indicavano i “locali” durante la Guerra di Corea – sono associati alla Corea del Nord, la prima quando la domestica dice che è comune che nelle ville dei ricchi ci siano dei bunker nascosti in cui rifugiarsi nel caso di un’in-vasione da parte dell’esercito di Kim Jong-un, e poi, in modo più evidente e ostentato, quando la stessa signora Gook imita a lungo un’annuncia-trice nordcoreana, suscitando l’ammirazione del marito. Per esclusione ai Kim non rimane che il ruolo della Corea del Sud. In alto gli USA, in bas-so le due Coree a fare a botte, sino a che, come già accaduto negli anni Cinquanta del Secolo scorso, il massacro non coinvolgerà tutte le parti in gioco.

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I

l motivo della fragilità maschile traspariva da alcuni film di François Ozon (Gocce d’acqua su pietre roventi, CinquePerDue, Nella casa, Doppio amore eccetera) ma quasi sempre in funzione accessoria rispetto a quella femminile. Quando ha cercato un soggetto che offrisse la materia per renderlo il tema centrale di un film, Ozon ha scoperto l’esistenza di un’associazione, “La Parole Libérée”, fondata nel 2015 per riunire le testimonianze di coloro che hanno subìto molestie sessuali, in particolare di quei ragazzi che, quando erano scout, furono vittime di un sacerdote, padre Bernard Preynat, responsabile di oltre settanta casi accer-tati (ma in realtà sarebbero oltre ottanta) di pedofilia. Fin dal 1978 Preynat aveva confessato alle gerarchie ecclesiastiche la pro-pria perversione ma nessun superiore ritenne opportuno dover prendere adeguati provvedimenti. Anzi il sacerdote continuava ancora a svolgere attività con i bambini fino alla denuncia che lo ha raggiunto nel 2014 e che ha indotto il Tribunale ecclesiastico di Lione – soltanto nel luglio 2019 – a dimetterlo dallo stato clericale. Nel frattempo, il 18 marzo 2019, il tribunale laico di Lione aveva condannato a sei mesi di carcere con la condizionale il cardinale Philippe Barbarin, colpevole di avere coperto gli abusi sessuali di padre Preynat avvenuti nella sua diocesi. L’anno precedente, tenendo nascosto il soggetto e il titolo, Ozon aveva effettuato le riprese di Grâce à Dieu in Belgio, Lussemburgo e nella regione parigina, con soltanto qualche giorno di esterni a Lione. Diventato un film di finzione dopo un iniziale progetto di documentario, Gra-zie a Dio si basa sulle denunce di tre vittime di Preynat, denunce che in Francia avevano sollevato enorme scalpore e originato, fra l’altro, la pubblicazione di un libro dal titolo simile a quello del film, Grâce à Dieu, c’est prescrit. L’affaire Barbarin, di Marie-Christine Tabet (Laffont, 2017) (1). Tit olo originale — Gr âc e à D ieu Regia e sc eneggiatur a F ranç ois O zon Fo togr afia M anu Dac osse M ont aggio L aur e Gar dett e Music a E

vgueni e Sacha Galperine

Sc enogr afia E mmanuelle Duplay Costumi P asc aline Chav anne Int erpr eti M elvil P oupaud ( Ale xandr e Guérin ), Denis M énochet (F ranç ois Debor d), Sw ann Arlaud (E mmanuel Thomassin ), É ric Car av ac a ( Gilles P err et ), F ranç ois M arthour et (il c ar

dinale Philippe Barbarin

), Bernar d Verle y (Bernar d P re ynat ), M artine E rhel (R égine M air e), J osiane Balask o (Ir ène ), H élène Vinc ent (Odile Debor d), F ranç ois Chatt ot (Pierr e Debor d), F rédéric Pierr ot (il c apit ano Court eau ), Aur élia P etit (M arie Guérin ), Julie Duclos ( Aline Debor d), J eanne R osa (Dominique P err et ), Amélie Daur e ( Jennif er ) Pr oduzione E ric Altmay er , Nic olas Altmay er per M andarin Cinéma/Sc ope Pictur es/F O Z/ M ars Films/Playtime/F ranc e 2 Cinéma D istribuzione A cadem y Tw o D ur at a 137’ O rigine F rancia/Belgio, 2019 cast&cr edits Ale xandr e Guérin, un quar ant

enne della buona bor

ghesia c att olic a di Lione, sposat o e padr e di cinque figli, sc opr

e che nella sua citt

à eser cit a anc or a impunement e le pr oprie funzioni padr e Bernar d P re ynat , un r eligioso che lo av ev a r eso oggett o di molestie quando er a bambino. Il c ar dinale Barbarin, ar civ esc ov o di Lione, ac coglie c on appar ent e sollecitudine la sua

segnalazione ma non agisc

e in modo c oncr et o nei c on fronti di P re ynat . Dopo altri tent ativi riv

elatisi inutili di riv

olgersi alla Chiesa, Guérin denuncia

legalment e P re ynat e inizia un ’inchiest a che c oin volge F ranç ois Debor d, anch ’egli molest at o da bambino dallo st esso pr et e. Debor d, c on il support o di Gilles P err et e di Guérin, c ostituisc e l’ associazione “L a P ar ole Libér ée ” per dar e voc e a chi ha subìt

o abusi sessuali nell’in

fanzia. M a i r eati c ommessi da P re ynat nei lor o c on

fronti sono ormai c

aduti in pr escrizione. Finalment e Debor d e P err et riesc ono a entr ar e in c ont att o c on un ’altr a e x vittima del sac er do te, E mmanuel Thomassin, che in vec e ne ha subìt o le molestie meno di v ent’ anni prima. sinossi

di

R

obert

o Chiesi

Il silenzio intorno al male

Grazie a Dio

— François Ozon

(1) Ricordiamo, su un soggetto simile, i recenti film Il caso Spotlight (Spotlight, 2015) di Tom McCarthy, Les chatouilles (2018) di Andréa Bescond ed Eric Métayer e M (2019) di Yolande Zauberman.

(23)

A

ppena appresa l’esistenza del film, Preynat e Régine Maire, una psicologa ex membra del-la diocesi di Lione, entrambi menzionati, come il cardinale Barbarin, con il loro vero nome nel film (a differenza delle vittime, i cui nomi invece sono stati modificati), hanno tentato di farlo bloccare, con la motivazione che avrebbe potuto influen-zare la giuria. Ma il 19 febbraio di quest’anno, un giorno prima che il film venisse distribuito nelle sale francesi e due giorni dopo che aveva ricevuto il Premio della giuria al Festival di Berli-no, il giudice, fortunatamente, ha dato loro torto, ritenendo, anzi, che Grazie a Dio sia un’opera di “pubblica utilità”. Il clamore che ha finito per investire direttamente il film, ha però giovato alle sue sorti, tanto che ha attirato quasi un milione di spettatori francesi, ripagando l’autore e i produt-tori delle non poche difficoltà iniziali (Canal+, che ha coprodotto numerosi film del regista, aveva rifiutato di contribuire ai finanziamenti). In Italia, invece, Grazie a Dio è stato distribuito in sordina e recensito talvolta in modo frettoloso e superficia-le. Fra le critiche nostrane e francesi più riduttive, ricorre spesso la definizione di “film-dossier”, nel senso di televisivo e impersonale. Nulla di più falso: misurandosi per la prima volta con un sog-getto tratto dalla cronaca, Ozon, come vedremo, non rinuncia certo al proprio stile sottile e denso di ambiguità; inoltre inanella tre registri diversi che corrispondono a tre storie che si susseguono mentre si passa da un personaggio all’altro.

Tre storie

L

a storia di Alexandre Guérin (interpretato da Melvil Poupaud, già diretto da Ozon nel Tempo che resta e Il rifugio), cattolico e benestante, ha un avvio che può ricordare i film d’inchiesta, i pro-cedural: la sua voce over riferisce esplicitamente i suoi pensieri, il suo turbamento quando scopre la presenza di Preynat a Lione nelle stesse fun-zioni di quando egli era ragazzo. Basandosi sulle autentiche e-mail che il vero Alexandre scambiò con il cardinale Barbarin – tramite la mediazione della signora Régine Maire, gentile e delicata ma non priva di una certa freddezza di fondo e non sempre sollecita nel rispondere all’interlocutore – Ozon evoca una sorta di romanzo epistolare che si confa perfettamente all’estrazione borghese del personaggio. In quella dialettica, la regia sug-gerisce la sostanziale indifferenza del cardinale, che gli si rivolge con un linguaggio formale, tutto compreso nella solenne dignità del proprio ruolo ma, al di là delle parole e delle pose, non com-pie un solo atto concreto per rimuovere Preynat dal ruolo che occupa fra i minori. Emblematica della sua condotta, è l’inquietante sequenza del prologo quando Barbarin, coi paramenti cardi-nalizi, si staglia di spalle brandendo il crocefisso sul panorama di Lione vista dall’alto della basilica di Notre-Dame de Fourvière. È un’immagine che condensa l’influsso del suo potere sulla città men-tre è con malizia ironica che Ozon lo riprende nella

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