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PREMIO NAZIONALE DI POESIA IN DIALETTO Vie della Memoria-Vittorio Monaco X Edizione. Intervento di Marcello Teodonio alla cerimonia di premiazione

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PREMIO NAZIONALE DI POESIA IN DIALETTO Vie della Memoria-Vittorio Monaco

X Edizione

Intervento di Marcello Teodonio alla cerimonia di premiazione Sulmona 28 settembre 2019

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Vittorio Monaco

Intellettuale organico d’una nazione in veloce e vorticoso divenire, l’Italia della seconda metà del Novecento, attraversata dai conflitti enormi dell’emigrazione e della trasformazione antropologica dei nostri decenni, Vittorio Monaco (Pettorano sul Gizio, 1 aprile 1941 - Larino, 4 settembre 2009) ha vissuto una vita all’insegna dell’impegno verso la collettività: ha insegnato presso gli istituti di scuola media superiore di Sulmona dal 1965 al 1983; dal 1983 e fino al pensionamento è stato preside dell’Istituto tecnico “A. De Nino” di Sulmona; ha ricoperto la carica di consigliere comunale nel Comune di Pettorano sul Gizio dal 1970 al 1975, quella di assessore con delega di vicesindaco dal 1975 al 1980 e quella di sindaco dal 1980 al 1987; è stato consigliere comunale di Sulmona dal 1988 al 1993, assessore alla cultura del Comune di Sulmona negli anni 2000-2001, consigliere e assessore della Comunità montana peligna dal 1975 al 1993.

All’attività professionale e politica Monaco ha affiancato, durante tutta la sua vita, un’intensa attività culturale, promuovendo e animando associazioni e periodici, e pubblicando monografie. È stato protagonista della riscoperta di numerose tradizioni della cultura tradizionale e ha dedicato una specifica attenzione allo studio dei “Capodanni arcaici” in area Peligna (i Capetiempe, una serie di momenti che si svolgevano tra il 31 ottobre e l’11 novembre: una festa dunque che, come diceva, era in uso

“prima molto prima di quella di Halloween”), nonché al canto popolare di Pettorano: il canto lirico monostrofico, le canzoni di questua. Alla canzone popolare si è dedicato con passione e costanza anche come autore di testi poi messi in musica, coeme stiamo sentendo e sentiremo in questo nostro incontro.

Nel 2010 si è costituito il «Centro studi e ricerche Vittorio Monaco (con sede a Sulmona), che tra gli altri suoi fini intende promuovere la conoscenza e la diffusione dei suoi scritti. Dal 2013 il premio letterario Vie della memoria (e “Vie della memoria” è il titolo di un volume di poesie di Monaco edite nel 2006 dalle edizioni Liberetà dello SPI CGIL) ha assunto il nome attuale “Vie della memoria-Vittorio Monaco”. Dove non si dimentichi la fondamentale considerazione di un sindacato che si fa portavoce e occasione di incontro nel nome di quello che apparentemente è più lontano da un impegno concreto e nella società, quello della

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promozione culturale: e qui vengono in mente le parole di Gramsci: «Non c’è nessun motivo perché un lavoratore debba essere incapace di giungere a gustare un canto di Leopardi più di una chitarrata, una sinfonia di Beethoven più di una canzone di Piedigrotta».

Dal punto di vista culturale, ed è soprattutto per questo che qui oggi lo ricordiamo, l’attività più intensa di Vittorio Monaco è stata quella di poeta, dalla prima raccolta, Castagne pazze (1977) a Nevèlle e altre vie (2009), in dialetto e in italiano: una attività intensa e sorvegliatissima, che Monaco praticava con estrema serietà e severità, tornando negli anni più volte sui suoi testi, che elaborava, variava, riscriveva, alla costante ricerca della soluzione che più si adattasse ai concetti e ai contenuti delle poesie stesse, tanto che a buon diritto è stato definito poeta unius libri, di un solo libro al quale ha lavorato.

E da due sue poesie iniziamo questo breve viaggio dentro la sua scrittura e la sua personalità, una in dialetto e una in italiano.

Quande la malatia Quande la malatia

o, arràssene! la Morte tucculèva alla porta, curreva iù vecenète.

Du’ mèila, na chenèta de pane, nu zenale

de grnadénie o fasciuàle èva tòtte iù riale.

Ma ‘n te sentive sùale…

La mesèria èva forte, èva bròtte le male – ma la pita chiù forte de le male e la Mòrte.

Paese mia conchiglia Paese mia conchiglia

mia riserva sognante mia aria di famiglia mia pastura di ghiande

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mio guscio mio uovo

mia chiusa amara mandorla mia bussola mio bandolo mio cammino a ritroso nel mondo troppo grande

mia radice mio frutto mio dove dappertutto alveare del cuore

dove invecchia e non muore l’ape dei ricordi

che stilla miele e morde.

Eccolo dunque un tema centrale della scrittura e dell’impegno civile di Monaco: quello dell’emigrazione dell’Abruzzo che ha spopolato l’Abruzzo montano (Pettorano) molto di più che le guerre, quello spopolamento che ha significato la perdita dell’identità delle comunità, e che ha lasciato i nostri paesi montani macerie e case vuote, finestre chiuse e vicoli silenziosi, dove vince la ierva sanda (la paretaria). Non si tratta di una nostalgia (e lo vedremo meglio tra un po’) per un mondo - la comunità contadina - che non è e non va idealizzata e che oggi non c’è più, anzi che

“necessariamente” non c’è più, ma si tratta di operare perché quella civiltà anzitutto non sia dimenticata, a segnare il dolore, la fatica, la solitudine degli esseri umani, e perché da quella civiltà si recuperino quegli aspetti che ci sembrano ancora fondamentali, la solidarietà, l’amicizia, la riservatezza, la sobrietà dei consumi e dei modi di vita.

Che peraltro quella civiltà sia ancora oggi presente nel mondo lo sappiamo bene constatando l’enorme sproporzione che oggi esiste tra i vari paesi e che Monaco più volte affronta nei suoi versi, come è in questa poesia che davvero pare scritta oggi quando il tema appare pressante.

Canzone clandestina A chiuse stèlle, sotte iù ciale nire

la vita va pe’ mare còntra viènte.

A na còsta, a nu scojje, a do’ la tira la sòrte – la fortuna o n’accidente

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Cétele spièrte, fémmene e criature sènza na casa che le rassecura.

va la barca de strècce e de delure a chiuse sttelle, sotte iù cìale scure.

Lassa la fame e cerca la speranza,

‘mma fènne i cièjje a fine de stagione, quande a stòrme s’assèmbrane a na pianta e s’àuzane a luntane migrazione.

Cellòcce spièrte, uèmmene e uejjune, uècchie de vrite, carne de nesciune…

Va la barca de strècce e de delure a chiùse stelle, sòtto iù ciale scure.

E davvero qui il pensiero va alla formidabile attualità di questa poesia.

Dunque si tratta di una poesia denuncia, di una poesia civile che cammina in direzione ostinata e contraria rispetto alle coordinate della poesia novecentesca, tutta chiusa dentro le contraddizioni dell’individuo. E in questo senso appare memorabile, e infatti qui la ricordiamo, una sua celebre sfuriata presso i suoi studenti contro il pronome “io”, come racconta un suo allievo, Antonio Carrara: «l’io, io… il più lurido di tutti i pronomi!... I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta con tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie allora… ci ritrova i pronomi, i pronomi di persone».

Ma, si badi: questo paradossale e geniale sfogo non nega l’importanza dell’individuo, anzi ne accentua le responsabilità, perché davvero non ci può essere un io se non c’è un tu, e cioè se non c’è un noi. Quel “noi” che è sempre al centro dell’ispirazione di Monaco, perché il paese è e rimane quella conchiglia, e perciò luogo solido e concreto anche dopo e nonostante trasformazioni e distruzioni, che stilla miele e ricordi, e i due temi, quello lirico dell’io di fronte alla forza della natura e quello narrativo del noi alle prese con le vicende della storia, convivono e si sostengono reciprocamente.

Ora: e perché scrivere in dialetto? Anzi, meglio: perché scrivere sia in dialetto che in lingua? E qui ci viene in aiuto il padre della lingua italiana, Dante, il quale inizia la poesia italiana moderna usando un dialetto, il suo,

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quello di Firenze, destinato poi a diventare lingua italiana. Dante nel suo fondamentale De vulgari eloquentia, il testo che in Italia crea la lingua della poesia moderna, scrive (I, 7):

«Per lingua volgare intendiamo quella lingua che i bambini imparano a usare da chi li circonda quando cominciano ad articolare i suoni. O, come si può dire più in breve, la lingua volgare è quella che riceviamo imitando la nutrice».

E meraviglia vuole che anche uno dei massimi poeti italiani in dialetto, quel Dante in vesti romanesche che è Giuseppe Gioachino Belli, quel Belli che Monaco molto amava e ammirava, dice la medesima cose nel sonetto Le lingue der Monno, che si apre con la memorabile definizione di cos’è lingua: «Sempre ho sentito a dí che li paesi / hanno ognuno una lingua indifferente,/ che da ciuchi l’impareno a l’ammente, / e la parleno poi per èsse intesi». Ogni paese ha una lingua sua, differente dalle altre, e chi la parla la impara “da ciuco”, da bambino, e poi tutti la parlano per essere capiti. Un trattato di linguistica generale in quattro versi.

Ecco: il volgare (e cioè i dialetti) è la lingua-madre, la lingua che si impara con la madre. Anzi: con la “nutrice”, colei che ti dà il latte. È dunque la lingua che ci nutre nel nostro percorso di conoscenza del mondo e delle cose, mondo e cose che noi esseri umani non possiamo conoscere altro che con le parole. È la lingua che talvolta riesce a fare il miracolo di rendere presente chi non c’è.

A Tunine Tunì, se quacche vota me ve’ ’m ménte, capace ca te vènghe a retruà.

Me ’mbile a n’apparècchie e, naumènte, a-quande métte péde au Canada...

Te sóne au campanièjje. Tu ’n sè niènte, e dice a ménte tèjja “chi sarrà?”,

ca pe’ chèll’óra nen aspétte gènte e fórse stive a iérte a culecà.

Épre...e me vide! Strélle, sgrène i uècchie:

“Féjje de Créste... e da ónda sci venute?” –

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e se la dèmme fòrte n’abbracciata,

’mmà se la puènne dà du’ amice viècchie che da tant’ènne s’avane perdute,

e alle ’mprevise s’hènne retruate.

A TONINO. Toni, se qualche volta mi viene in mente, /si dà il caso che venga a ritrovarti /Mi infilo in un aereo e, in un momento, /ecco che metto piede in Canada..// Ti suono al campanello. Tu non sai niente, /e dici tra te e te “chi sarà?’’, /perché per quell’ora non aspetti gente/e forse stavi per andare a letto. //Apri e...mi vedi! Gridi, sgrani gli occhi: / “Figlio di Cristo... e da dove sei venuto?”-/e ce la diamo forte un’abbracciata, //come possono darsela due amici vecchi/che da tanti anni si erano perduti, /e all’improvviso si sono ritrovati.

Una poesia questa, un sonetto classico, che rappresenta immediatamente il senso della scrittura: il ricordo dell’amico carissimo, emigrato in Canada, diventa questo sogno quasi sereno di un ritorno, di un incontro, di un ritrovarsi.

Ma anche l’altra lingua, quella della comunità, l’italiano, è portatrice di visioni e trasmette valori. Giacché la contrapposizione tra i due registri è molto più astratta e generica che non reale. Tutto sta come si usa la lingua che si usa, se cioè volgiamo utilizzarla, per usare una fondamentale intuizione di Pasolini, per riscoprire l’inventum che c’è dentro, la realtà essenziale, la “cosa” insomma, della parola. Ecco allora perché Monaco usa i due registri: ambedue sono capaci di entrare nelle cose e riscoprirne l’essenza fondante.

Talvolta però, e lo sappiamo bene tutti noi quando “non troviamo le parole”, le parole del vocabolario, in dialetto o in lingua, appunto, non bastano, e allora il poeta ne deve inventare (“inventare”: e cioè, ancora una volta, pasolinianamente trovare, o “ritrovare”, la parola dentro le cose) nuove, come è il caso di questa poesia.

Vécule Repòsane le case,

l’una da péde all’àutra

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e mure rase mure – zétte zétte, alle scure.

Nu lume, a nu pertuse, pèrde na lùcia gialla da na fenestra chiusa:

iù Tièmpe ce va a galla

chemmà na frònna mòrta...

Nu cane abbaia abbaia.

Nu ’mbriache se sdraia stracche ’nnènze na pòrta.

Nu murellócce frana

vréccia a vréccia – e se scria.

L’acqua de la funtana va spièrte pe la via.

Luntane le paróle só’ deventate stélle.

Mute, funnute e sóle...

Paróle de nevèlle.

VICOLO. Riposano le case, / l’una dopo l’altra, / muro accostato a muro - /in silenzio, nel buio. // Un lume, da un pertugio, /perde una luce gialla/da una finestra chiusa:/il Tempo vi galleggia//come una foglia morta../Un cana abbaia abbaia. /Un ubriaco si sdraia / sfinito, davanti una porta. //

Un muretto frana/brida a brida, e si discrea. /L’acqua della fontana/si perde lungo la via..//Lontano le parole /sono diventate stelle. /Mute, sprofondate e sole... /Parole di nessun luogo.

Ecco la parola forte, definita, presente solo in dialetto: nevelle. Che è al tempo stesso “ogni luogo” e “nessun luogo”. Quel luogo della memoria, che è al tempo stesso passato e presente. Perché quei vicoli sono si i vicoli di Pettorano, i vicoli di un borgo che non c’è più e al tempo stesso c’è ancora, e viceversa, ma diventano i vicoli di una condizione storica, il

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destino di quei luoghi, ed esistenziale, metaforica, il percorso della nostra esistenza che incontra stelle mute.

Ecco dunque la poesia che si fa, appunto, via della memoria, e non “la”

via, ma “una” via possibile della memoria, in un recupero che appare sempre più fondamentale oggi quando assistiamo a una specie di

“cannibalismo” culturale, in cui “mangiamo” la memoria, viviamo in un eterno presente (che giustifichiamo e accettiamo senza cercare di capirne le motivazioni), non raccontiamo più le nostre storie, e siamo tutti solipsisticamente chiusi nel nostro “particulare”, nel nostro angosciante e nevrotico soggettivismo. Così si costruisce la memoria, che nella mitologia greca è Menomosine, sorella del tempo (Cronos) e madre delle arti; la memoria che fonda la civiltà degli esseri umani, che si differenziano dagli altri esseri viventi proprio e soltanto perché la loro memoria non è solo nel patrimonio genetico (che è collettivo), e dunque non si ripete sostanzialmente identica nelle generazioni (o, meglio, si evolve, ma con trasformazioni che nell’arco della vita di un individuo non si riescono a cogliere), ma appunto cambia, e si trasmette, ed è il fondamento della loro individualità. La memoria non è dunque solo sterile esercitazione, o inutile ingombrante rimpianto, ma lo strumento che dà ordine al caos e fonda il presente, rende consapevoli e reca sollievo, rielabora il passato e costruisce il futuro. E l’espressione verbale dell’arte, la poesia, è appunto la sistemazione formale e definita di questo percorso. Come fanno i nostri poeti. Come ci ha insegnato Vittorio Monaco, seguendo le indicazioni di Gramsci: il quale affermava che la cultura non è nozionismo, erudizione, ma «organizzazione, disciplina del proprio io interiore, presa di possesso della propria personalità, conquista di coscienza superiore»; in questo percorso, ieri rivoluzionario, oggi decisivo se vogliamo che le conquiste della civiltà non siano negate, la poesia può dare una mano fondamentale, perché ci fa conoscere meglio, diversamente, la realtà.

E come diceva il nostro indimenticabile Vittorio Monaco, il quale, con la sua consueta chiarezza scriveva:

«Per sgomberare il terreno dagli equivoci, mi preme dire subito che la memoria non è soltanto ricordo. Come il dio Giano dei latini, essa ha due facce: una rivolta al passato e l’altra al futuro. Con gli occhi della prima indaga su ciò che è stato, lo analizza, ne individua i significati e, rievocandolo, ne salvaguarda i valori che contano; con gli occhi della

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seconda guarda all’oggi e al domani, a cui affida l’eredità di ieri, riannodando i fili della storia della civilizzazione. In breve, memoria non significa solo ricordo, ma anche impegno e speranza. Essa guarda al passato, ma vive proiettandosi nel futuro.

A questo punto, vorrei chiarire un secondo equivoco. In generale, siamo portati ad associare la memoria alla nostalgia. Il verbo ricordare suona come sinonimo di rimpiangere. E qualche volta può essere anche così.

Non nego che vi sia un ricordare flebile, ripiegato su se stesso, incline ai modi dell’elegia. Ma c’è pure un ricordare diverso e più energico, che si configura come memoria attiva, lucida, rigorosa, decisamente impegnata in un percorso penetrante di conoscenza del sé e del mondo. Ad un vecchio saggio, seduto al sole a ricordare, fu domandato perché indugiava tanto sui ricordi. “Non indugio”, rispose il vecchio; “più semplicemente, vado cercando di capire”. Capire che cosa? Non abbiamo dubbi: la cosa più degna di essere cercata – e cioè quella che l’uomo, ogni essere umano capace di pensare, sente il bisogno di individuare e chiarire – è il senso dell’essere e dell’esistere, posto che un senso debba esserci, a salvarci dal niente che ci assedia da ogni parte e ci insidia. L’uomo che ricorda – è la risposta del saggio – non lo fa per rimpiangere, ma per capire. La memoria è innanzitutto un formidabile strumento di conoscenza».

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Ci manchi Vittorio: ci manca la tua libertà di pensiero, la tua gioiosa forza di vivere, la tua irresistibile simpatia, il tuo sguardo al tempo stesso disincantato e partecipe sul presente, il tuo senso del dovere, la tua risata, la tua voce. La tua fiducia nei giovani, la facilità con cui arrivavi sempre alla sostanza delle questioni, la severità paziente dei tuoi giudizi. Ci manca la tua intelligenza, la tua ironia, la tua passione.

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