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A Le conseguenze di una lunga annata piovosa

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Numero 4 - Dicembre 2014

A

nche se il proverbio recita “mal comune mezzo gaudio”, visto quanto sta accadendo nel settore apistico, c’è poco da rallegrarsi: si respira un clima di delusione e di ama- rezza. Alcuni apicoltori hanno già deciso di cessare l’attività mettendo in vendita tutta l’attrezzatura; altri stanno valutando se conviene continuare a investire tempo e denaro in un lavoro che, anche se appassiona e coinvolge, sta diventando sempre più difficile e avaro di anno in anno. I sopralluoghi eseguiti presso gli apiari, al termine di una stagione apistica disastrosa, dal punto di vista produttivo e quindi economico, hanno fatto emergere anche una serie di problemi sanitari che, salve poche eccezioni, si sono resi responsabili di gravi spopolamenti: molte famiglie difficilmente riusciranno a superare l’inverno.

Vediamo in sintesi le cause che hanno portato a questa critica situazione.

Le condizioni climatiche

La prima causa è da ricercare nell’inverno molto mite che ha impedito, in molte famiglie di api, quel blocco naturale di covata che caratterizza gli alveari del Nord Italia. Gli apicol- tori sfruttano quel periodo di blocco per eseguire un efficace trattamento acaricida. Trattamenti eseguiti a dicembre, in presenza di piccole rose di covata, hanno lasciato negli alveari centinaia di varroe. Ma non solo: le regine, favorite da un in- verno molto mite, hanno iniziato a deporre un’abbondante covata già all’inizio di gennaio (foto 1).

A marzo gli alveari si presentavano traboccanti di api facendo pregustare copiosi raccolti. Purtroppo questo anomalo an- damento climatico ha favorito non solo la riproduzione an- ticipata delle api, ma anche quello delle varroe, acari che sono in grado di raddoppiare il loro numero ogni mese. Suc- cessivamente, la primavera ha regalato giornate fredde e pio- vose che hanno ridotto l’allevamento della covata negli al- veari, ma non la riproduzione delle varroe. Il grafico, in figura 1, mostra come poche centinaia di varroe, sopravvissute ai trattamenti invernali e protette nelle cellette opercolate, siano in grado di far collassare un alveare all’inizio di luglio.

La fame

Il poco nettare disponibile e l’importazione di polline di qua- lità scadente hanno portato molti alveari alla “fame”. Le api, non potendo uscire a bottinare, non solo non sono salite a melario, ma hanno consumato le poche scorte di miele. Il problema ha assunto una certa gravità nelle zone collinari e di montagna dove alcuni apicoltori hanno dovuto alimentare le api nel mese di giugno per non perdere le famiglie per fame. Osservando i favi era possibile notare una covata oper- colata disomogenea per la presenza di numerose cellette vuote (foto 2). Eppure i controlli effettuati qualche giorno prima avevano permesso di verificare che la regina aveva deposto le uova in tutte le cellette e che le larve si erano schiuse rego- larmente. Cosa era successo? Le api, per la fame, avevano deciso di sacrificare alcune larve. In pratica si è assistito a una forma di cannibalismo: le api si sono cibate delle larve, della pappa reale, del miele e del polline presenti sul fondo di alcune cellette per poter alimentare correttamente altre larve.

Una situazione che si è ripercossa negativamente sul numero delle api che di solito popolano gli alveari nei mesi di giugno

Le conseguenze di una lunga annata piovosa

APICOLTURA

G

IULIO

L

OGLIO

ASL di Bergamo, veterinario referente provinciale per l'apicoltura

Foto 1. Un favo con covata opercolata normale.

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e luglio: poche erano le famiglie con la “barba”, la maggior parte avevano solo dei “baffi”.

Le malattie

Lo squilibrio verificatosi nelle famiglie ha favorito la com- parsa di alcune malattie latenti: peste america, peste europea, covata calcificata e nosemosi. Ha iniziato a manifestarsi con maggior frequenza la peste americana sostenuta dal genotipo Eric II, quella che alcuni apicoltori, non sapendola ricono- scere, chiamano “parapeste” perché ha sintomi subdoli e di-

versi dalla peste americana classica che è sostenuta dal geno- tipo Eric I. Infatti, nella peste americana da Eric II le larve morte, a volte, presentano lesioni atipiche e alla prova dello stecchino si osservano filamenti scarsamente significativi, ati- pici o anche assenza di filamenti. Questo perché le larve muo- iono prima di essere opercolate e vengono eliminate dalle api che le portano all’esterno dell’alveare.

Come si vede nella foto 3, l’aspetto della covata nelle infezioni da peste americana da Eric II è molto simile a quello che si può riscontrare in alveari con una elevata infestazione da varroa: per poter emettere una diagnosi corretta, in questi casi, è indispensabile far eseguire esami di laboratorio.

I trattamenti acaricidi

Abbiamo detto all’inizio che l’inverno mite ha impedito l’ese- cuzione di efficaci trattamenti acaricidi e che nel corso dell’anno le numerose varroe rimaste negli alveari hanno potuto benefi- ciare di qualche ciclo riproduttivo in più. È per questo che molti apicoltori hanno riscontrato la presenza di un elevato numero di acari sulle api già alla fine di giugno. Purtroppo quest’anno l’efficacia acaricida dei prodotti a base di timolo è stata notevolmente condizionata dalle altalenanti condizioni meteorologiche che hanno impedito una corretta evaporazione del principio attivo. Anche i farmaci contenenti tau-fluvalinate e amitraz non si sono dimostrati risolutivi lasciando sulle api ancora un numero elevato di varroe. Purtroppo la varroa è in grado di sviluppare in poco tempo resistenza e resistenza cro- ciata nei confronti di numerosi acaricidi di sintesi. Resistenza che viene favorita dal comportamento sconsiderato di certi api- coltori che continuano ad utilizzare negli alveari principi attivi contenuti in farmaci per uso zootecnico e in agrofarmaci im- pregnando cartone pressato o stecche di legno.

Secondo alcune voci di settore sembra che prodotti, il cui prin- cipio attivo è l’acido ossalico, abbiano perso di efficacia. Per- sonalmente ho potuto constatare che la presunta riduzione acaricida è da attribuire ad errori di utilizzo e di somministra- zione. Molti apicoltori, prendendo per vere le confidenze “non scientifiche” di qualche loro collega, eseguono i trattamenti acaricidi in modo scorretto. Ad esempio pensano che per tener sotto controllo la varroa sia sufficiente effettuare in estate alcuni trattamenti con acido ossalico sublimato a distanza di una settimana uno dall’altro, oppure, che si possono trattare con acido ossalico gocciolato anche le famiglie di api con covata opercolata perché la sua efficacia dura diversi giorni.

Mai come quest’anno ho visto tanti alveari al collasso a causa della varroa. In alcuni casi mi è sembrato di rivivere l’infe- stazione di 25 anni fa: varroe camminare sui favi, uscire dalle cellette con le api nascenti e aggrapparsi al dorso delle api.

Come se l’apicoltore non avesse fatto alcun trattamento!

Alimentazione integrativa e fecondazione

Fortunatamente non tutti gli apiari hanno problemi: molti, no- nostante la stagione inclemente, hanno una situazione che rien- Figura 1. Tanto più elevato è il numero delle varroe che rimangono

nell’alveare dopo i trattamenti invernali, tanto più precocemente si manifestano i “danni” da varroa.

Foto 2. Covata non compatta.

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53 tra nella norma. Sono gli alveari dove i trattamenti acaricidi

con acido ossalico sono stati effettuati, all’inizio del mese di lu- glio, dopo un blocco di covata (confinando la regina) o adot- tando il “metodo Loglio”: belli sono quegli alveari che hanno ricevuto un’integrazione alimentare con sciroppo e candito;

molto belli sono quelli dove gli apicoltori hanno provveduto a somministrare alle api un’integrazione proteica con polline, fa- rina di castagne o mangimi specifici. Le analisi di laboratorio che ho fatto eseguite su pane d’api, il polline raccolto dalle api e stoccato nelle cellette dei favi, hanno evidenziato una minor quantità di proteine rispetto alla norma.

Molti apicoltori hanno adottato il “metodo Loglio” inserendo nei nuclei orfani celle reali autoprodotte in azienda o acquistate da altri apicoltori. Le regine sono nate regolarmente, ma que- st’anno i voli di fecondazioni sono stati condizionati dalle pes- sime condizioni atmosferiche: si è ottenuto un minor numero di regine feconde. Molti apicoltori, dopo lo sfarfallamento di tutta la covata, hanno trattato i nuclei rimasti ancora orfani con acido ossalico e, alla stregua di pacchi d’api, li hanno uti- lizzati per rinforzare le famiglie che avevano formato un mese prima con api e regine vecchie. Quest’anno questi apicoltori, anche se hanno ottenuto un aumento più contenuto di alveari rispetto alle aspettative, stanno invernando famiglie molto belle.

Reinfestazione

Esiste un’altra causa che spesso viene sottovalutata e che si chiama “reinfestazione da saccheggio”. Purtroppo molti api- coltori non sono riusciti ancora a cogliere un concetto che è l’essenza dell’apicoltura: tutti gli alveari sono interconnessi con quelli che sono dislocati nello stesso territorio. Per questo motivo un apicoltore incompetente e superficiale rappresenta un pericolo costante per tutti quegli apicoltori che operano in modo corretto.

E molta reifestazione quest’anno è dovuta a chi, sottovalutando il problema, non ha effettuato in modo corretto i trattamenti acaricidi: in questo modo ha causato lo spopolamento dei suoi alveari che sono stati saccheggiati da quelli dei suoi vicini.

Sarebbe interessante sapere anche quanti apicoltori hanno fatto verifiche a campione per valutare l’efficacia dei tratta- menti eseguiti.

Conclusioni

I primi a subire consistenti perdite di alveari sono stati so- prattutto quella miriade di apicoltori alle prime armi che in questo periodo di crisi, per integrare il proprio reddito, si sono avvicinati all’apicoltura nella convinzione che sia molto facile allevare api e produrre miele. Imparare a fare l’api- coltore è come imparare a guidare un’automobile: in en- trambe i casi “nessuno nasce imparato”. È necessario che la persona interessata frequenti corsi teorici e pratici che lo mettano nella condizione di saper gestire correttamente un apiario da solo o di guidare un autoveicolo. Una patente necessaria per condurre “le api” in modo da evitare che l’impreparato apicoltore faccia male a sé e agli altri. Al neo- fita apicoltore, durante il suo percorso formativo, è impor- tante che gli venga detto che, in caso di necessità o di dubbio, può sempre contare sull’aiuto di personale compe- tente che non lo lascerà mai solo.

In questi giorni gli apicoltori italiani sono in allarme per l’Aethina tumida, il piccolo coleottero dell’alveare. Preoccupa che sia stato rinvenuto solo in settembre in alveari della Ca- labria appositamente allestiti per un monitoraggio che avrebbe dovuto permettere di cogliere sul nascere l’introdu- zione nel territorio italiano di questo parassita esotico. Si dice che tutte e tre le famiglie fossero molto deboli o morte da tempo: questo fa supporre che i controlli non fossero molto frequenti. Infatti, lo stesso Ministero della Salute ha comunicato che quasi certamente il piccolo coleottero era già presente in Calabria in primavera. In questa fase di allerta, oltre alle maglie di controllo molto larghe, ci si è accorti anche della mancanza di uno strumento essenziale per l’api- coltura: l’anagrafe apistica nazionale. Se ne parla da anni. Se fosse stata attivata a suo tempo sicuramente non avrebbe Foto 3. Peste americana sostenuta dal genotipo Eric II. Foto 4. Danni alla covata dovuti alla varroa. Spesso gli esami di laboratorio sono indispensabili per poter emettere una corretta diagnosi differenziale.

©G. Loglio ©G. Loglio

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evitato l’introduzione dell’Aethina tumida ma avrebbe almeno permesso la rintracciabilità degli apiari sospetti di infezione.

Dovrebbe essere interesse degli apicoltori individuare tempe- stivamente gli apiari infetti per limitare la diffusione del piccolo coleottero. Sicuramente qualcuno, visto l’elevato numero di focolai rinvenuti sino ad oggi in Calabria, già nella tarda pri- mavera e in estate ha avuto modo di vedere vermi brulicanti divorare i favi dei suoi alveari. Dietro le quinte alcuni apicoltori raccontano di aver riscontrato questa situazione anomala, ma se ne sono guardati bene da sporgere denuncia al servizio ve- terinario per evitare la distruzione dei loro apiari dal momento che l’Aethina tumida è un parassita esotico. Sicuramente le bocche si scuciranno se il Ministero della Salute firmerà un decreto per indennizzare gli apiari distrutti. Purtroppo per l’apicoltura la legge attualmente non prevede alcun indennizzo per i danni causati da qualsiasi malattia infettiva e diffusiva. È per questo motivo che gli operatori del settore evitano di fare qualsiasi segnalazione agli organi competenti e cercano di ri- solvere da soli i vari problemi. Rimane l’amarezza per questo voluto silenzio che favorisce nel frattempo la diffusione del coleottero impendendone, di fatto, l’eradicazione.

Personalmente ritengo sia giusto indennizzare chi, senza colpa alcuna, riscontra nei suoi alveari una malattia infet- tiva e diffusiva per la quale è prevista la distruzione di tutto il materiale infetto e sospetto di contaminazione. Tut- tavia sono convinto che l’indennizzo debba essere corri- sposto solo agli apicoltori che hanno provveduto a segna- lare tempestivamente la malattia al servizio veterinario.

Non sono gli apiari calabresi, nomadi e stanziali, a rappre- sentare una minaccia per l’apicoltura se di questi è possibile conoscere l’esatta collocazione o dove hanno effettuato il nomadismo. Il vero rischio è rappresentato da quegli api- coltori che in primavera e in estate, hanno effettuato il commercio di nuclei e pacchi d’api, rigorosamente “in nero”, impedendo di fatto qualsiasi forma di controllo sa- nitario e di rintracciabilità.

Povera apicoltura: non hai ancora risolto i problemi causati dalla varroa che all’orizzonte ti si profila una nuova sventura!

Figura 2. Una sana "autarchia" apistica: è fondamentale che l'apicoltore impari ad allevare i suoi nuclei.

La bibliografia è disponibili presso la redazione:

argomenti@sivemp.it 51_54_loglio_51_54_loglio 17/12/14 11.25 Pagina 54

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