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Un assunzione di responsabilità di Robert Aitken

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Academic year: 2022

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Un’assunzione di responsabilità – di Robert Aitken

Tradotto da Lokanātha

Un discorso1 tenuto da Robert Aitken Roshi al raduno dei membri della Buddhist Peace Fellowship il 23 giugno 2006.

Salve a tutti. Sono lieto di potervi tenere questo discorso e avere così un ruolo nel vostro raduno. Sarebbe appropriato che ci incontrassimo, anzi, sarebbe proprio ora. Siamo in un punto della nostra storia religiosa, anzi della nostra storia secolare, che dobbiamo comprendere, afferrare e interiorizzare per farlo nostro.

A scanso di equivoci, i neo-con hanno il potere, e stanno tradendo noi e la nostra eredità politica. In breve tempo gli ideali, le fondamenta e i bastioni della giustizia sociale posti in essere settant'anni fa da Franklin Delano Roosevelt e dai suoi

sostenitori sono stati spazzati via così che persino la nostra Costituzione è messa in questione. Persino gli alberi e i cervi, protetti da un altro Roosevelt una generazione prima, sono in pericolo. Al contempo la nostra nazione è lanciata su una spietata traiettoria di imperialismo omicida.

Siamo a un punto importante anche della nostra storia religiosa.

La Chiesa Cattolica è scossa dagli scandali; le chiese protestanti sono popolari a volte per ragioni apparentemente superficiali, altre per ragioni apparentemente retrive. I fondatori del

Buddhismo in Occidente sono morti o sul punto di morire, e i loro successori danno l'idea di stare cercando sé stessi, e dire questo di alcuni è ancora generoso. Musulmani ed ebrei sono impantanati in una guerra sanguinosa.

Spengler chiamò "epoche" i punti della storia simili a quello che abbiamo raggiunto, dando un peso appropriato a svolte che

altrimenti passerebbero forse per una mera parte dello sfondo. Io vedo l'attuale crisi politica e religiosa nei termini del

Mahayana, ma noi della Buddhist Peace Fellowship siamo fatti di molti generi di Buddhismo. Quelli tra voi che hanno la propria casa nelle tradizioni Theravada o Vajrayana dovranno trovare un analogo: ora avete a che fare con una persona cresciuta nella tradizione Zen del Mahayana, e confido che saprete applicare le mie parole a corrispondenze per voi più familiari, e realizzare che il momento presente e davvero un'epoca per tutti noi.

1 Tramite TV a circuito chiuso.

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Si può osservare come nel corso della storia, le epoche abbiano segnato il Mahayana come un costante rivolgimento della religione verso le profondità interiori. A partire dall'esperienza del

Buddha sotto all'albero della Bodhi, questo movimento ha permesso agli studenti di cogliere sempre più in profondità il bagliore della Stella del Mattino e l'universo delle sue implicazioni. Né voi né io saremmo qui senza il sangue versato da alcuni grandi lavoratori del passato che si sforzarono di compiere i passi necessari, ad esempio, a rendere questa riunione possibile e confacente.

Esaminando il nostro albero genealogico, spiccano alcuni nomi importanti. A spiccare per me è quello di Baizhang Huaihai: nato appena sette anni dopo la morte di Huineng, il Sesto Patriarca ed erede di Dharma di Mazu Daoyi, faceva perciò parte della grande fioritura del Ch'an primitivo, favorita tra l'altro da figure illustri come Yunyan Tansheng e Nanquan Puyuan.

Il Buddhismo classico si è evoluto parallelamente all'insegnamento di queste prime personalità. I discepoli del Buddha, e i loro successori lungo molti secoli, hanno mantenuto l'insegnamento del fondatore come un sistema chiuso, coi seguaci laici che attendono di rinascere come monaci che dispongano delle vere parole —

sostenendo nel mentre gli sforzi dei fortunati monaci del loro tempo occupandosi del loro mantenimento. In questo campo gli insegnanti occidentali del Theravada stanno introducendo importanti novità, e vorrei che ne parlassero.

Quando era attivo Baizhang, tra la fine dell'VIII e l'inizio del IX secolo, c'erano ancora dei monaci Mahayana che applicavano gli antichi precetti fino al loro limite estremo:

Un monaco chiese: “Tagliando le piante, facendo legna e scavando la terra, si commette un'infrazione con una propria pena?”

Baizhang disse: “Non si può dire una volta per sempre che ci sia infrazione. E come si può dire una volta per sempre che non ci sia infrazione?”2

Infrazioni e malefatte non sono una cosa che stia là fuori di noi.

Stanno nella nostra intenzione, quando pure ce ne sia una.

Dev'esserci qualcuno a estirpare le erbacce e fare la legna. La tua domanda è un vero classico. È tempo di aprire il sistema. Non sei una persona speciale che possa starsene al di sopra del

cattivo karma lasciando il lavoro sporco ad altri.

2 Thomas Cleary (traduttore), Saying and Doings of Pai-Chang: Ch’an Master of Great Wisdom (Los Angeles:

Center Publications, 1978), p. 42. [Le rese italiane, qui e in seguito, sono nostre. NdT]

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Baizhang chiarisce questo punto in un dialogo con Yunyan, che sarebbe poi diventato un antesignano della scuola Soto:

Yunyan chiese: “Tutti i giorni abbiamo del lavoro da fare.

Per chi lo facciamo?”

Baizhang disse: “C'è qualcuno che ne ha bisogno.”

Yunyan disse: “Perché non lasciarlo fare a lui?”

Baizhang disse: “Non ha strumenti.”3

Chi è questo “lui”? A seconda di chi chiede potrebbe essere una

“lei”, naturalmente. Il Mahayana sorge con questa domanda. Questa persona è già inclusa naturalmente, ma non riconosciuta. È solo quando viene riconosciuta, una volta per tutte, che può mostrarsi il Dharma. È solo quando comprende che può mostrarsi il Ch'an, il Dharma del Buddha.

Alcuni tra i contemporanei di Baizhang si limitavano a occupare qualche ala di un monastero esoterico o Tientai. Secondo la tradizione, fu Baizhang a formulare il primo codice monastico destinato a un monastero Chan indipendente, quel codice che ancora oggi custodusce le regole e gli statuti della vita monastica Zen.

Quando Baizhang aveva circa ottant'anni, i suoi monaci sentirono che egli doveva riposare ed evitare di unirsi a loro durante il samu. Nascosero i suoi attrezzi da giardino, per permettergli di sollevarsi dal suo più celebre motto. Al pasto successivo egli si chiuse dentro e rifiutò il cibo, ripetendo che “Un giorno senza lavoro è un giorno senza cibo”. Ciò avrebbe portato

all'espressione connessa al samu: “Sono tutti invitati”. Tutti partecipano.

Ciò mette la responsabilità del Dharma nelle mani di ogni singolo studente, dove deve stare. C'è voluto un processo lungo millenni per porre in essere questo cambiamento, ed è ben lungi dall'essere concluso. Si tratta del processo di laicizzazione. Mi ricordo di quando visitai i sangha Zen di Los Angeles e San Francisco, una trentina di anni fa. Nei momenti dedicati alle domande, mi veniva chiesto della pratica laica. Era un po' come chiedere a un pesce come si sta nel mare. La domanda, semplicemente, non è mai sorta nel Diamond Sangha, che è esclusivamente laico.

Era tuttavia del tutto naturale, nel San Francisco Zen Center (SFZC) e nello Zen Center of Los Angeles (ZCLA) che ci fosse una formazione binaria, laica e clericale. Il ramo laico era inferiore

3 Ibid., p. 26.

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a quello clericale, e allo stesso tempo, il sentiero in salita a volte escludeva la realizzazione. Ricordo le timide rimostranze di una nuova direttrice dello SFZC che diceva di non aver visto un barlume della Grande Questione: ovvero, non aveva visto un barlume di quel che aveva visto il Buddha, sedendo là, tanto tempo fa, sotto l'Albero della Bodhi. L'intero Mahayana si è evoluto a partire da quel barlume, il vuoto di ogni cosa, l'inclusione di ogni cosa in ogni essere, e la natura preziosa di ogni essere in sé — un libro del tutto chiuso alla nuova direttrice, i cui

successi stavano nel suo essere una persona molto gentile con doti amministrative, affinate lugo una vita di esperienza di

interazioni nel sangha.

Qui sto correndo il rischio di suonare arrogante. Sebbene sia importante che il nostro Mahasangha sia insaporito da persone realizzate, taluni sanno cogliere le battute di Hakuin e Dogen, che non si sentivano a loro agio a starsene legati a uno scranno da insegnante. Si tratta dei luminari a cui, per esempio, il Dalai Lama si rivolge quando ha un dilemma. Per la soddisfazione nel Dharma non occorre una posizione sociale specifica.

Inoltre è importante non farsi imbrigliare in una falsa tradizione. Ricostruendo la nostra storia fin dall'Estremo Oriente, è chiaro che abbiamo ereditato il presupposto che chi studia il Dharma non si lascia coinvolgere nell'azione politica.

Sono convinto che si tratti di un retaggio arcaico, al pari del sessismo, che non è essenziale al Dharma. Chiaramente, il

movimento Mahayana ci ha permesso di toccare le questioni

dell'Iraq e del Darfur e a farle nostre, e una preoccupazione per tali parti di noi stessi è certamente condivisa all'interno della Buddhist Peace Fellowship. È necessario per noi continuare a

leggere Robert Fisk e Antonia Juhasz, e parlare e agire di conseguenza.

Coloro che sentono che dobbiamo continuare a cercare connessioni non solo dovrebbero farlo, ma anche completare tale ricerca con la lettura e le conversazioni con gli amici e col loro insegnante.

Gli indecisi devono riconoscere che, se pretendono che la Buddhist Peace Fellowship rallenti e serva da mezzo per la loro ricerca, finiranno per diluirne la funzione. Il processo che stiamo

compiendo è già abbastanza lento ed equivoco così com'è.

Come gli Stati Uniti cercano ancora di vivere secondo i proclami di Abraham Lincoln, così il Buddhismo Mahayana e i suoi seguaci cercano ancora di vivere secondo le visioni del genio buddhista dell'VIII secolo, che si poggiava a propria volta sui proclami del Buddha. Quegli antichi voti, per noi, non sono che profondo senso

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comune. Il fatto che gli iracheni sono mie sorelle e fratelli non ha bisogno di venire avvolto in tonache color zafferano.

La Buddhist Peace Fellowship è il nostro veicolo, così come sono veicoli le varie forme di Buddhismo. Usiamolo come veicolo per il senso più comune che possiamo concepire. Possiamo prendere a

modello i Doukhobor, che bruciano le loro case e marciano nudi per manifestare il loro senso comune. Non disdegnateli. Sono fratelli e sorelle, coi loro peni e seni nudi e tutto il resto. Sono il loro proprio veicolo e ci possono insegnare qualcosa.

I “tre corpi del Buddha”, il trikaya, possono apparire nella

dimensione di peni e seni nudi; oppure, se non è così, che stiamo facendo qui? Stiamo marciando dietro a uno stendardo suonando dei tamburelli? Namu Myoho Renge Kyo! Lo abbiamo fatto tutti, ed è stato divertente. Ma ora che la cultura umana sta andando giù per lo sciacquone, con Sessho, Bach e Shakespeare che annaspano, è il momento di toglierci le tonache color zafferano e opporre la

nostra nuda e veemente resistenza.

Ok, il trikaya. Tanto per cominciare, non c'è un sé essenziale, un'anima. Il Dharmakaya non è fatto di angeli che recitano l'Ave Maria, il Nembutsu o qualsiasi altra cosa. Ora siamo di fronte ai problemi della religione comparata. È difficile raggiungere

un'armonia coi musulmani attraverso lo studio del Corano e la sua forma di giustizia sociale da età del bronzo. I musulmani stessi hanno raggiunto un'armonia con l'uso giudizioso di accomodoamenti e metafore durante il movimento della Saggezza Perenne; riuscendo anche a guidare tale movimento. Si tratta di un grande

raggruppamento che si estende dalla Teosofia per includere

luminari come Mircea Eliade e Ananda K. Coomaraswami. È un gruppo impressionante, e non sempre del tutto convincente.

Molto più semplice trovare un'armonia nel letto, mormorandosi parole all'orecchio. Chiedete alle molte coppie miste in

Thailandia, di coniugi musulmani e buddhisti: non vi parleranno di che cosa si dicono a letto, ma i loro sorrisi e quelli dei loro figli bastano a rendere l'idea.

Poi c'è il Sambhogakaya. Volete un'“anima”? La si trova solo in un posto; dov'è condivisa, e non solo con altre persone. L'ipotesi della biologia progressiva è che ogni foglia di ogni albero contiene della memoria universale. Il bambino è pronto a venire rassicurato sul fatto che la lucertola cornuta e il serpente a sonagli sono delle buone madri, fino a che gli adulti non lo persuadono del contrario. L'intero universo si getta su un amplesso, in un affascinante collage di unioni. Lo fanno gli

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uccelli, lo fanno le api — perché l'unione è già lì, incitata a venire confermata sempre di nuovo, con ogni occasionale contatto che è un'altra conferma della visione del Buddha sull'origine delle cose.

Infine il Nirmanakaya. Si tratta del punto — non il punto del vuoto, né quello onnicomprensivo — ma il punto stesso:

Un giorno Baizhang e Mazu passeggiavano. All'improvviso un'anatra selvatica spiccò il volo.

Mazu disse: “Cos'era quello?”

Baizhang disse: “Un'anatra selvatica.”

Mazu disse: “Dov'è andata?”

Baizhang disse: “Se n'è volata via.”

Mazu strinse il naso di Baizhang e lo torse con forza.

Baizhang gridò di dolore. Mazu disse: “Perché? Perché mai se n'è volata via?”4

Questa è la storia del kensho di Baizhang, ma come per la maggior parte degli studenti, il kensho per Baizhang fu solo l'inizio.

Rivolgetevi alla vostra esperienza. Non c'è alcun principio né fine ultimo nel kensho, e chi suggerisce il contrario non sa di che parla. Sorge un punto dopo l'altro là fuori, e fa lo stesso nella mente. Che fortuna essere umani!

La maggior parte delle persone ha imparato a considerare tali punti come un continuum. Essi elidono gli spazi tra i punti e si ritrovano una linea che macchia sia i punti che gli spazi. Che peccato! È questo punto! Ahia! Ding!

Certi punti possono essere punti di svolta, e vorrei pensare che lo sia questa convocazione. È tutto sul tavolo. Ci è stato messo per noi. Come nazione abbiamo preso una china discendente,

invadendo il mondo, come dice Antonia Juhasz, un'economia alla volta.5 Ci troviamo in un luogo in cui possiamo far sentire la nostra voce?

Se siamo un'organizzazione esentasse, allora no. Restiamo sempre in guardia per proteggere il nostro status, e quindi non diciamo né facciamo quel che vogliamo; e dopo un po' finiamo per dire o fare davvero quel che vogliamo, ed è un qualcosa di ottenebrato,

4 Nelson Foster e Jack Shoemaker, The Roaring Stream: A New Zen Reader (Hopewell, NJ: The Ecco Press, 1996), p. 59.

5 Antonia Juhaz, The Bush Agenda: Invading the World One Economy at a time (NewYork: Regan Books, 2006). È un saggio scritto concisamente e con note meticolose, che chiede a gran voce di essere letto e assimilato per agire.

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che non pone problemi ai cospiratori al comando. Le comunità

anarchiche, per esempio, diventano centri tesi a insegnare a delle persone a diventare volontari in organizzazioni esentasse. Che fare?

Mentre preparavo questo discorso mi chiedevo: che cosa farebbe Emma Goldman? Che cosa farebbe Dorothy Day? Che farebbe Kathy Kelly? Che farebbe Baizhang Huaihai? Semplice: su Baizhang non posso fare naturalmente congetture, ma gli altri, per cominciare, non vorrebbero essere esentati dalle tasse fin dal principio. Ma se lo fossero (come siamo noi), allora che farebbero? Mi feci un piano in testa che consisteva nel dividere la proprietà di

Berkeley, ad Alcatraz Avenue, con alcuni di noi che contribuivano a comprarne un pezzetto; dopodiché lo avremmo affittato a delle persone che non volessero essere esentati dalle tasse.

No, sarebbe un espediente subdolo e convoluto, che desterebbe probabilmente sospetti da parte del fisco. È meglio che alcuni di noi dentro la Fellowship si definiscano "il Convegno degli

Anarchici Buddhisti" o roba simile e si riuniscano per un caffè a casa di qualcuno. Perché "anarchici"? Perché siamo buddhisti.

Dopotutto il Buddhismo è anarchia, dal momento che l'anarchia è amore, fiducia, altruismo e tutte quelle belle virtù buddhiste, compresa una mancanza totale di imposizione sugli altri. Tra il XIX e il primo XX secolo, gli anarchici prima europei e poi

americani occuparono dei podi rispettati per tenere conferenze da Boston a New York e per tutto il continente fino a Seattle, San Francisco e Los Angeles. Nel lungo termine questi distinti

conferenzieri inclusero l'anarchicho Har Dayal, autore di The Bodhisattva Doctrine in Sanskrit Literature, un testo importante che sta in tutte le nostre librerie, che raggiunse i circoli americani dall'India passando per Londra, per l'edificazione dei miei nonni e dei loro genitori.

Oggi siamo alle prese con la maschera di ferro di un'opinione pubblica accuratamente costruita. Dalla tragedia di Haymarket del 1886 ai processi a Sacco e Vanzetti nel 1921, negli Stati Uniti abbiamo avuto quasi cinquant'anni di sforzi concertati,

sanguinosi, e in definitiva di successo, di eliminare l'anarchia e i suoi aderenti dal discorso pubblico. A tutt'oggi e persino in un incontro come questo, la stessa parola "anarchico" evoca l'idea di uno straniero trasandato con dietro una bomba pronta a esplodere.

Sembrerebbe meglio tenere le due parole in due scatole separate.

Ma non si può. Andate su Google, cercate le parole “Buddhist Anarchism” [“Anarchia Buddhista”] e tenetevi indietro; il numero

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di risultati vi sorprenderà. Per di più, eccetto i riferimenti all'articolo di Gary Snyder nel primo numero del Journal for the Protection of All Beings del 1962, i risultati si riferiscono al Buddhismo classico, alle parole del Buddha. L'articolo di Gary faceva riferimento al Sutra di Huayan — buona scelta, ma c'è una quantità di altri buoni riferimenti Mahayana. I “tre corpi del Buddha”, per esempio: ogni cosa è in realtà vuota, personalmente interconnessa, e preziosa in sé. Non ci serve che un tizio con una tonaca color zafferano ce lo venga a dire. E oltre a Google e a una qualunque scuola del Buddhismo, è il nostro senso comune a suggerircelo. L'anarchia è sensata, per tutte le maschere di ferro, per tutti i cappi di Haymarket e tutte le successive persecuzioni, i processi, le esecuzioni. La voce solitaria e tremolante di Lucy Parsons ci fa vergognare.6

È ora che ci mettiamo in una posizione da cui non abbiamo nulla da proteggere; nessun ego di gruppo, nessun nome, nessuno slogan.

Come il re Cristiano X di Danimarca, possiamo tutti indossare la stella gialla. Possiamo tutti sventolare la bandiera nera, senza colore e senza simboli. Sono i simboli che ci fregano. C'è solo una cosa che funziona dinanzi alle maschere di ferro, ed è la decenza. Col che non intendo l'essere gentili. Intendo la responsabilità secondo il Mahayana. Non è gentile chiudere l'ingresso. La condotta decente secondo il Mahayana significa assumere una condotta appropriata. Ed è certo appropriato, in questi giorni in cui si giustificano torture e armi al fosforo bianco, esibire uno specchio di fronte ai mostri che scatenano l'inferno nel nostro nome — per poi proseguire con un essenziale ordine del giorno non necessariamente legale, come i furti di medicinali agli iracheni — il programma delle Voices in the

Wilderness finché la situazione non si è fatta troppo pericolosa — o imbastire un ricovero per i prigionieri appena liberati come l'Olimpia Zen Center, o nutrire i poveri cinque giorni alla settimana, ogni settimana per anni, come fanno le case dei

Catholic Workers in tutto il paese. Dopotutto, l'essenziale ordine del giorno non è un passatempo.

6 Lucy Parsons, vedova di Albert Parsons, dopo l'esecuzione del marito ha portato avanti il suo lavoro sull'affare Haymarket a fronte di mille difficoltà. Sono lieto di riferire che ad oggi il Lucy Parsons Center, una libreria e comunità a gestione collettiva, è aperta a clienti e visitatori nel South End di Boston.

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