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Sapere chi siamo per essere un capitale sociale nella società di oggi Bologna, 1 marzo Il realismo dell'approccio psicologico al paziente

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Sapere chi siamo per essere un capitale sociale nella società di oggi Bologna, 1 marzo 2019

Ordine degli Psicologi dell'Emilia-Romagna Antonio Alberto Semi

Il realismo dell'approccio psicologico al paziente

Vi ringrazio - e ringrazio particolarmente la Presidente Anna Ancona - di avermi invitato a questo incontro su un tema apparentemente "classico" ('sapere chi siamo') ma, per contro, un tema da rielaborare continuamente per poter affermare realisticamente di essere "un capitale sociale nella società di oggi". L'argomento che ho scelto e proposto io, quello del "realismo dell'approccio psicologico al paziente" è, come vedremo, molto collegato alle problematiche della società di oggi ma pretende anche di essere molto "classico".

Qui penso sia opportuno che inizi dicendovi qualcosa di personale, il che non guasta in ambiente "psi".

Vedete, ci sono autori di punta e ci sono autori di base. I primi hanno a cuore l'innovazione, la partecipazione, spesso hanno la velleità di sentirsi leader o addirittura di fondare scuole; i secondi, pur tenendo anch'essi alla popolarità (perché ognuno ha anche il proprio narcisismo da alimentare), studiano e cercano di diffondere i risultati della ricerca (badate alla parola "ricerca") sui fenomeni di base, quelli che nessuno può non incontrare e che in un certo senso sono banali. E quando dico che nessuno può non incontrare questi fenomeni, voglio mettere in evidenza che al di là di scuole, scuolette, correnti, appartenenze e altri guai che ci affliggono, questi fenomeni non possono che essere esperiti e condivisi da tutti coloro i quali hanno a che fare professionalmente con persone, avendo per oggetto la loro attività psichica. Badate che, da questo punto di vista, gli innovatori possono far leva su

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modalità seduttive o identificative ma, tutto sommato, offrono qualche cosa. Chi si occupa di fenomeni di base, viceversa, ha la pretesa poco liberale di richiedere a tutti l'osservazione e la comprensione di certi fenomeni. Di ritenerli irrinunciabili e perciò in una certa misura di imporli all'attenzione. Io faccio parte di questa serie di tipacci.

Sto facendo insomma una specie di autobiografia scientifica, prendendomi anche un po' in giro, e mi sento autorizzato a farla visto il colore dei miei capelli. Del resto, dalla "Tecnica del colloquio", pubblicato da Cortina nel 1985 a "Contes des faits", pubblicato da Gallimard nel 2016 passano trent'anni. E io sempre lì, a scrivere cose che possono essere giudicate "terra-terra". Ricordo ancora l'espressione stupita e un po' seccata di un collega al quale chiedevo una recensione al mio libro sulla tecnica del colloquio, che mi disse "ma insomma, cosa posso scrivere, che insegni a chiudere la porta quando si fa un colloquio?". E, in effetti, nel libro c'era anche la sottolineatura di quel gesto, che per me è pieno di significati.

Perciò ho avuto molta soddisfazione dai miei libri, che sono anche stati studiati e adottati in molte università e che soprattutto mi hanno valso moltissime lettere e mail e conoscenze personali, ma ho avuto invece pochissime recensioni. Insomma posso considerarmi legittimamente un autore di base. Questa affermazione, appunto un po' ridicola, vi serva per comprendere il perché del titolo della mia relazione, che sarà centrata sul realismo ossia su una condizione banale ma spesso trascurata eppure a mio avviso centrale e che va lungamente sondata.

Cosa intendo per "realismo"? eh, qui già cominciano i problemi. Perché questo termine ha uno spessore culturale incredibile. Si potrebbe dire che il termine realismo indica un atteggiamento adeguato alla realtà ma, subito, questo collegamento tra un elemento soggettivo (l'atteggiamento adeguato) e uno apparentemente oggettivo (la realtà) ci piomba in una serie di dilemmi che la nostra cara cultura occidentale ha affrontato da 2500 anni a questa parte e che, ovviamente, non ha risolto ma ha sempre spinto perché continuassero ad interrogarci. Che cos'è la realtà per gli esseri umani?

Dai cosiddetti pre-socratici a Platone e Aristotele su su, passando per la grande

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filosofia romana e poi per quella cristiana dei Padri della Chiesa e poi dei filosofi medievali (San Tommaso in testa) fino a giungere a Giordano Bruno e Baruch Spinoza e Leibniz e Christian Wolff e poi a Kant, Hegel e Kierkegaard e infine, più vicino a noi, a Brentano e Husserl, non c'è grande autore di filosofia che non si sia posto il problema. Mi sarete grati se non starò qui ad esaminare le loro posizioni, indico solo un filo di pensiero che si svolge in epoche e condizioni storiche diversissime, dando risposte altrettanto differenti e man mano più complesse ma che è un filo che testimonia con la sua persistenza il fatto che ciò che si intende con il termine "realtà" è un grande grattacapo per la nostra specie e la nostra cultura. Essere realisti, avere e mantenere un atteggiamento adeguato alla realtà, è dunque per questo legittimamente difficile.

E con lo sviluppo scientifico le cose non sono cambiate molto, tanto che si può seguire analogamente il filo del concetto di realtà nella storia del pensiero scientifico.

Non lo faccio, ma voglio soffermarmi su un esempio classico e per noi importante, quello del pensiero di Galileo Galilei. Questo grande, nel "Saggiatore" (1623) sosteneva che "La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto."

In questo passo fondamentale Galilei - in polemica con i suoi detrattori - operava una distinzione che oggi a noi che ci occupiamo dell'attività psichica suona un po' come un pugno nello stomaco. Perché anche l'essere umano fa parte del grande libro dell'universo. Ma Galileo, per sostenere la sua tesi, svaluta drasticamente il pensiero quotidiano dell'essere umano, il come leggiamo il grande libro dell'universo nel linguaggio quotidiano e soggettivo e considera solo la realtà fisica e la lingua matematica. Beninteso so - dopo Copernico e Galilei - che la Terra gira sul proprio asse e compie una rotta particolare attorno al Sole, ma quando mi affaccio alla

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finestra di primo mattino, io vedo il Sole sorgere da una parte e so che la sera lo vedrò tramontare dall'altra. È un pensiero sbagliato? La percezione mi inganna?

Davvero, se bado a Galileo, se non uso dunque la "lingua matematica" mi aggiro vanamente per un oscuro laberinto?

Naturalmente, questi sono pensieri di oggi. E sono pensieri grezzi, se vogliamo, perché molta della ricerca psicologica si è viceversa affannata e entusiasmata a dimostrare quanto e come il pensiero quotidiano sia un universo complesso, raffinato e anche fallace ma comunque meritevole di indagine approfondita.

E del resto il collegamento tra esperienza, anche dell'attività psichica, e teoria rimane un punto interrogativo centrale della ricerca scientifica. Di qualsiasi scienza. Mi piace ricordare un'affermazione di Albert Einstein che, nell'Autobiografia scientifica, scrive: "Io distinguo da una parte la totalità delle esperienze sensibili e dall'altra la totalità dei concetti e delle proposizioni che sono enunciati nei libri. I rapporti interni tra i diversi concetti e proposizioni sono di natura logica […]. I concetti e le proposizioni [però] acquistano "significato", cioè "contenuto", solo attraverso la loro connessione con le esperienze sensibili. Questa connessione è puramente intuitiva, non è essa stessa di natura logica." (1949, p.65-66, corsivo mio). Frase centrale, quest'ultima, sulla quale chi si occupa di attività psichica dovrebbe, a mio avviso, costantemente riflettere. Personalmente, sono grato a Einstein perché ha ristabilito in tal modo la dignità dell' "esperienza sensibile" e ha posto il problema - perché di problema si tratta - della connessione di questa con i "concetti e le proposizioni"

contenuti nei libri.

Freud aveva fatto a questo proposito una osservazione analoga, quando, all'inizio di Pulsioni e loro destini (1915) sostenendo la necessità di idee astratte, scrisse che

"queste idee hanno dunque il carattere di convenzioni, benché tutto lasci supporre che non siano state scelte ad arbitrio ma siano state determinate in base a relazioni significative col materiale empirico, relazioni che supponiamo di arguire prima ancora di aver avuto la possibilità di riconoscerle e indicarle. (1915, p.13, corsivo

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mio). Come si vede, sia Freud sia Einstein puntano l'attenzione sulle relazioni tra concetti o idee astratte e esperienze sensibili o materiale empirico.

Però, la mia relazione sul realismo dove va allora a finire? Eh, va innanzitutto a sbattere contro l'esperienza sensibile alla quale dunque conviene rivolgersi.

Quando incontriamo professionalmente una persona accettiamo di usare della nostra esperienza sensibile? O già il fatto che si tratti di un incontro professionale può implicare , tramite la proiezione di uno schema mentale nostro, una facilitazione che sembra risparmiarci della fatica ma ci nasconde parte della realtà rendendoci difficile o falsa la connessione di cui sopra? La persona che si accomoda di fronte a noi è già un "paziente", un "utente", un "cliente"? Quanto questo dato banale già in parte oscura e comunque modifica la curiosità che dovrebbe essere espressa dalla domanda

"chi è questo sconosciuto?". E badate che questa domanda è valida anche se e soprattutto se questa persona la vediamo da anni. Molti di noi hanno a che fare con patologie di lungo decorso o addirittura con cronicità. E dunque sanno quant'è difficile conservare la capacità di porsi sempre questa domanda.

Intendo dire che la difesa che mira a trasformare una persona in un cliché apparentemente ben noto diventa sempre più attiva con il passare del tempo in cui si snoda la relazione, sebbene sappiamo che ci troviamo di fronte ad una persona vivente, dunque ad una organizzazione anche psichica in continuo mutamento e che, semmai, il nostro problema costante è quello di riuscire ad individuare e comprendere i mutamenti, mentre, ammesso che esistano, le costanti, una volta individuate, sono relativamente meno interessanti. Ma la difesa è sempre in atto, dentro di noi, anche per, apparentemente, risparmiarci della fatica.

Un tempo gli psicologi avevano il vantaggio - rispetto agli psichiatri - di non dover subire il fascino degli psicofarmaci i quali, come si sa da lungo tempo, tendono a tranquillizzare o sedare gli operatori. Oggi tuttavia può capitare che le nuove subspecializzazioni psicologiche - pensiamo ad esempio alla neuropsicologia - rischino di fornire motivi difensivi analoghi a quelli usati dagli psichiatri.

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Beninteso sia gli psicofarmaci sia le specializzazioni servono ma a mio avviso, tutte queste professioni e specializzazioni corrono, benché in forme diverse, il medesimo rischio, quello di rendere difficile il porsi la domanda che ho appena formulato: "chi è questo sconosciuto?". Eppure, se ci pensiamo si tratta di una domanda realistica.

Questo è dunque un nostro grande problema, di fronte al quale possiamo innanzitutto chiederci dove vada a finire l'esame di realtà. Il nostro esame di realtà.

Tornerò più avanti su questo punto, ma volevo dirvi subito che io sono un sostenitore dell'INAIL, l'istituto che dovrebbe assistere i lavoratori infortunati e che mi sono spessissimo chiesto perché non venga riconosciuta come una patologia professionale la crisi dell'esame di realtà da parte degli operatori "psi" giunti ad una certa età.

Eppure quant'è frequente ad esempio incontrare colleghi che , anziché interessarsi agli incontri con gli altri, emettono rapidamente delle specie di sentenze diagnostiche a carico di parenti, amici, conoscenti e, innanzitutto, dei colleghi! Oppure che frequentano prevalentemente, anziché amici diversissimi tra loro, amici "psi". Ci si può chiedere cosa sia accaduto loro, quanto le modalità difensive dall'intrusione dell'essere umano dentro di noi siano diventate preponderanti anche nella loro vita quotidiana.

Sto entrando a piccoli passi nel tema: dal problema del realismo e del cos'è la realtà per la nostra specie, dalle esperienze sensibili e quotidiane che andrebbero connesse ad idee astratte sono passato, come vedete, alla questione dell'esame di realtà e allora credo sia opportuno che vediamo qualche fenomeno reale. Che tutti possiamo subire o vedere o usare. Ma sul quale, poi, bisogna duramente riflettere anche usando appunto di concetti, di idee astratte, di teorie.

Ebbene, il primo di questi fenomeni consiste nel fatto che la persona con la quale abbiamo professionalmente a che fare pensa. E che ci comunica i suoi pensieri.

Possiamo usare di questi pensieri per cercare di fare una diagnosi - compito importante comunque - o di riflettere sulla sua realtà esterna (magari ci sta raccontando di qualcosa di drammatico che gli è accaduto) ma comunque, prima di usare di questi pensieri, dobbiamo constatare che sta pensando. Cosa vuol dire? Che

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un'attività motoria come la parola ci sta mettendo in evidenza che qualcosa l'ha messa in moto e che questo qualcosa ci è sconosciuto. Letteralmente, e nel senso che noi psicoanalisti chiamiamo descrittivo, che è accaduto qualcosa di inconscio (sia a lui sia a noi) che ha provocato quell'attività psichica e non un'altra. Ecco una realtà innegabile. E, a proposito di realtà innegabili, un'altra è che è anche accaduto che noi siamo stati colpiti da una serie di stimoli sonori/acustici che sono entrati dentro di noi e che abbiamo rapidissimamente elaborato fino a costituire un percetto acustico fatto di parole, dotate di un qualche significato. E nemmeno noi saremmo in grado di dirci, ossia di formulare coscientemente un pensiero, che spieghi quale percorso sia avvenuto dentro di noi per cui una serie di stimoli si è trasformato in un percetto preciso. Si tratta, com'è ovvio, di un'osservazione banale e realistica ma nessuno potrebbe smontarla.

Viceversa, ognuno potrebbe darne una spiegazione propria, connettendo questa esperienza con qualche idea astratta, accettabile purché si tratti di qualche idea dotata di una certa coerenza logica (v. Einstein). Sono assai diverse, ad esempio, ma entrambe accettabili le spiegazioni teoriche di Bion e di Gribinski di fronte ad un fenomeno simile: Bion racconta che, quando il suo paziente psicotico ha parlato di

"Ice cream", lui ha in seguito potuto pensare "I scream", pensando così al grido anziché al gelato (Bion W.R., 1970, Attenzione e Interpretazione. Armando, Roma, p.23 , 1973), Gribinski (2004, Deviner à peu près, Rev. Fr. Psychanalyse, 3: 897-915) dal canto suo narra di come una paziente gli stesse parlando di una propria difficoltà a salire su un ascensore e di come lui, però, avesse sentito/pensato all'assenza di una sorella ("ascenseur" che diventa "sans soeur") .

Poi appunto ognuno insegue ed ascolta delle linee di pensiero e di ricerca proprie ma quel che desidero sottolineare è il fenomeno di base , che può capitare e anzi senz'altro capita a ciascuno di noi nell'ascoltare una persona che ci comunica i suoi pensieri.

Insisto sull'importanza del riflettere su questi fatti di base perché ad esempio temo l'inflazione e il conseguente progressivo svuotamento di termini e concetti come

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"transfert" o "controtransfert". Non ne posso più di sentire classificare ogni pensiero e atteggiamento di un terapeuta come "controtransfert" e altrettanto mi sembra incongruo e ridicolo qualificare qualsivoglia espressione verbale o no di un

"paziente" come "transferale". Il transfert e il controtransfert sono fenomeni importantissimi e fondamentali ma inconsci e difficilmente rilevabili. Sono ricostruibili o indovinabili a partire dai derivati rappresentazionali che in qualche modo giungono a costituirsi a livello conscio ma sempre con qualche fatica. E prima di precipitare nella ricerca o nella pseudoscoperta del transfert conviene stare ad indagare sulla costituzione - dentro di noi e nella persona che ci ha stimolati - di una forma di pensiero. Questa sì che è una ricerca realistica. Perché, quando questa signora è entrata nel mio studio, m'è venuto in mente Andrea, un mio compagno di università? Non ho alcun dubbio che da anni non pensavo al mio compagno e non ho alcun dubbio che m'è venuto in mente mentre la signora entrava, dunque qualche collegamento dev'esserci, bisogna ricercarlo.

Ma si tratta anche di una ricerca che viene spessissimo disattesa. E, con essa, viene disatteso anche l'esame di realtà. Perché la realtà è questa: la signora, come si dice, mi ha fatto venire in mente Andrea. Che procedimento dunque si è svolto, dentro di me, che ha anche trasformato il saluto cortese della signora ed ha richiamato il ricordo di Andrea? O, guardandolo dall'altro lato, non avrei denegato la realtà del mio stesso pensiero se avessi scacciato il ricordo di Andrea come un fastidioso intruso, irrilevante sul momento?

Come ricorderete, - e sennò ve lo ricordo io - l'esame di realtà cui ora arriviamo per cercare di metterlo a fuoco, viene qualificato già da Freud (dunque più di un secolo fa) come una delle grandi istituzioni dell'Io.

Beninteso l'Io è una costruzione teorica necessaria, difficile e anche ambigua.

Necessaria perché bisogna ben spiegare come un individuo possa mediare tra limiti o condizioni imposti dalla realtà esterna, sistemi di regole che tende a seguire e fasci di desideri anche disparati che comunque lo spingono verso la ricerca della soddisfazione. E poi bisogna anche essere abbastanza aderenti alla realtà e constatare

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che l'uso della prima persona singolare per lo meno nella nostra cultura è irrinunciabile, dunque "Io" non può essere omesso. Ma è una costruzione anche difficile, com'è testimoniato da numerose teorie che cercano di qualificare e immaginare questa istanza e che, in ogni caso, ci lasciano con alquanta insoddisfazione. Infine è anche una costruzione teorica ambigua, nel senso che, sia quando ne pensiamo le caratteristiche riferite a noi stessi sia quando usiamo di questa costruzione per - almeno in prima battuta - descrivere l'altro, non possiamo non chiederci, per dirlo nella forma più semplice, "chi è che sta parlando?" ossia "questo Io chi è?".

Ebbene è a questo Io che viene attribuita la funzione dell'esame di realtà. E questa funzione ha progressivamente - nell'ambito della ricerca psicoanalitica - cambiato faccia, divenendo più complessa , più fragile anche, ma anche potenzialmente più ricca.

Nello scritto famoso su La negazione (1925) Freud sosteneva che la prima tappa dell'esame di realtà consistesse nella distinzione psichica tra percezione e rappresentazione. Il riconoscimento della presenza della percezione e di una rappresentazione insieme qualifica la realtà esterna, mentre l'assenza di percezione in presenza di un'attività psichica relativa ad un oggetto, un'attività psichica dunque che lo rappresenta nel doppio senso del termine, implica il riconoscimento del fatto che si tratta di una rappresentazione.

Non starò qui a fare una ridicola critica del pensiero freudiano di un secolo fa, voglio invece indicare come l'apparente ingenuità della descrizione della percezione sia stata alla base di ricerche che hanno un po' alla volta compreso e sviluppato la complessità del processo percettivo e che conseguentemente hanno consentito di avere immagini certamente meno nette ma altrettanto certamente più felicemente complesse dei percetti finali, quelli che giungono a livello della coscienza. Non esiste percetto - soprattutto se si tratta di percetti relativi ad esseri viventi - che non sia anche infiltrato

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dal desiderio e dalle vicissitudini psichiche del soggetto che lo esprime1. Tant'è, del resto, che di fronte allo stesso oggetto mai la descrizione del percetto da parte di diverse persone risulta eguale. La descrizione, prima tappa di una costruzione astratta e teorica, rivela comunque le sue fonti soggettive. Inutile dire che questo ci riguarda tutti e che quindi la descrizione del paziente, dipendente dalla nostra percezione di lui, è sempre anche un documento autobiografico, che solo il rispetto delle norme di riservatezza e della privacy impedisce di scandagliare. Le nostre cosiddette cartelle cliniche sono un universo disponibile per validare questa osservazione. Ma molti di noi lo sanno e , soprattutto nelle istituzioni, tengono quadernini di note, appunti, ricordi di colloqui o di sedute, conservandoli tra le proprie carte personali e non mettendoli a disposizione della discussione del gruppo di lavoro.

Tuttavia, per quel che riguarda il nostro argomento qui e oggi, dobbiamo allora dire che l'esame di realtà, della realtà psichica nostra e altrui, è mutato in conseguenza di una maggiore comprensione del processo percettivo e conseguentemente il problema del realismo dell'approccio psicologico al paziente ha acquistato di spessore. Che la dimensione soggettiva, cioè, ha acquistato man mano un valore che un tempo non aveva.

Un momento: si tratta davvero di una dimensione soggettiva? O non è piuttosto una reazione nostra - di fronte alla consapevolezza dell'effetto che quella persona lì ha provocato in noi - quella di tendere a considerare nostra e in questo senso soggettiva quella immagine percettiva e quella serie di pensieri connessa ad essa?

Perché il problema è questo: se di fronte a quella data persona che mi ha detto la cosa X io ho avuto quella reazione psichica lì, non è ipotizzabile che, nella serie di stimoli sonori che hanno colpito il mio orecchio in forma di parole, fossero contenuti anche stimoli che, dentro di me, si sono strutturati in quel modo ma stimoli che io non ho riconosciuto? Non sono questi allora dei pensieri che si sono intrufolati dentro di me e che io cerco narcisisticamente di considerare miei mentre sono suoi? Cerco di

1 Per un esempio importante si veda: C. e S. Botella (2001) La raffigurabilità psichica. Ed.it. Borla, Roma, 2004, la cui ultima parte si intitola appunto "Abbozzo di una metapsicologia della percezione". Nel testo vi è anche una buona bibliografia sull'argomento.

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considerarli pensieri miei perché sentirmi 'pensato' da un altro dentro di me non è gradevole e può suonare come uno spossessamento della mia stessa attività psichica.

Per dire: perché quella signora mi ha fatto pensare ad Andrea? E quale messaggio può essere contenuto nella mia rievocazione in quel momento? Certamente la signora non conosce Andrea, non sa nemmeno che esista, ma altrettanto certamente ha introdotto dentro di me qualcosa che, in qualche modo, si è concatenato fino a giungere alla configurazione di un nome e di una serie di ricordi collegati ad esso.

Intendo dire che si può pensare che il suo pensiero entrato dentro di me abbia per così dire rovistato nei miei depositi mnestici e rappresentazionali fino a trovare qualcosa che poteva essere utilizzato per avere diritto di cittadinanza dentro di me e quindi costituirsi alla coscienza. Ma che si tratta pur sempre del suo pensiero.

Credo che valga la pena di criticare subito la possibile tendenza a valorizzare come relativamente straordinarie esperienze di questo tipo, così come val la pena di sorridere delle esperienze di Bion e di Gribinski cui ho accennato prima ma di sorridere evitando di ipervalorizzarle.

Se ci pensiamo, invece, si tratta di esperienze che fanno parte dell'esperienza quotidiana: ad esempio difficilmente riusciamo a spiegare a noi stessi in modo soddisfacente perché una data persona, appena intravvista, ci ha provocato un intenso moto di simpatia o, viceversa, di antipatia. Oppure perché una data persona che ci è stata appena presentata ci ricorda qualcuno e magari un qualcuno il cui nome abbiamo sulla punta della lingua ma che non sapremmo dichiarare e che magari ci torna in mente il giorno dopo o anche appena usciti da quell'occasione di incontro.

Insomma sto dicendo che la riflessione sull'esame di realtà rivisitato può anche farci rivedere la nostra concezione della comunicazione umana. Se infatti prendiamo sul serio la realtà comunicativa complessa e prevalentemente inconscia che gli esseri umani si scambiano tra loro, dobbiamo tollerare che essa implichi un continuo spossessamento e un necessario tentativo di reimpossessamento della nostra attività psichica, il che fra l'altro rende ancor più prezioso il tempo del sonno, dedicato appunto alla reintegrazione psichica individuale. Il riferimento necessario, a questo

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proposito, è al Supplemento metapsicologico alla teoria del sogno contenuto nella serie di saggi metapsicologici (1915) di Freud.

Ma, se consideriamo la differenziazione necessaria dei percetti dalle rappresentazioni per giungere ad un corretto esame di realtà e se riconosciamo che i percetti sono sempre infiltrati dal pensiero altrui, anche la concezione dell'Io deve necessariamente essere modificata. Perché se l'Io deve dar voce all'altro, bisogna che ci chiediamo come possa riconquistare la legittimità della propria affermazione. Chi, insomma, può affermare tranquillamente "Io"?

Facendo una breve parentesi nel contesto culturale nel quale viviamo, dobbiamo riconoscere che la grande letteratura ha esemplificato in modo mirabile, già dal secolo scorso, questa situazione. Thomas Mann ne La montagna magica o James Joyce con il suo Ulisse o più vicino a noi Italo Svevo con la sua Coscienza di Zeno hanno dimostrato in modo convincente la drammaticità, la difficoltà, ma anche la ricchezza di pensiero che si apre per noi se riusciamo in qualche modo a riconoscere quanto letteralmente siamo fatti e pensati dagli altri. Ma, diciamolo francamente, benché siamo loro grati per il loro apporto alle nostre conoscenze, dobbiamo anche riconoscere che esse sono rimaste per lo più lì, che possono avere coinvolto e anche travolto qualche lettore ma che non hanno modificato la concezione dell'essere umano di tutti noi. Non sono diventati un capitale sociale diffuso ed equamente distribuito. Beninteso forse non è possibile, ma dispiace egualmente.

Questa parentesi tuttavia serva anche a notare come la modificazione della concezione dell'esame di realtà e della correlata visione dell'Io non sia stata propria solo della psicoanalisi o della ricerca psicologica, ma che si è trattato e si tratta di un movimento che i ricercatori hanno cercato di riuscire a portare sul piano della ragione e poi della teoria ma che va al di là delle singole scuole e linee di ricerca. È la nostra cultura che si è posta e ci pone l'interrogativo circa la possibilità o meno, la tollerabilità o meno, dello sviluppo della soggettività.

Ora, se ci pensate, siamo partiti da una mia considerazione autobiografica, da una seguente rapida scorsa allo sviluppo del pensiero filosofico e scientifico occidentale

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per passare alla banale constatazione che gli altri pensano e poi però anche per annotare come questo pensiero che ci viene trasmesso non solo sia inconscio ma anche penetri nel nostro mondo psichico con effetti che possono essere poi elaborati in modo utile ma che possono anche conservare degli aspetti inquietanti. Abbiamo poi constatato la modifica della concezione dell'esame di realtà come conseguenza anche di un più preciso apprezzamento del processo percettivo e però ci siamo chiesti a questo punto se allora questa grande istituzione dell'Io così considerata non ci obbligasse anche a mutare la nostra concezione dell'Io, vedendolo sempre più in equilibrio tra l'essere gli altri e il ritornare ad essere se stesso. E abbiamo in conclusione ritenuto che tutto ciò faccia parte della vita quotidiana e che quindi sia opportuno rivedere anche la nostra concezione dei rapporti tra esseri umani e magari anche di chiederci quale sia lo spazio e il tempo nei quali la nostra soggettività e quella di tutti possano svilupparsi.

E dopo questa giro o détour ritorniamo subito anche al nostro lavoro. Ritorniamo perché, come avete sentito, ho continuamente richiamato delle condizioni di base dell'attività psichica umana e man mano ho cercato di farne vedere le implicazioni anche nella vita quotidiana. Ma dove sta allora la specificità del nostro lavoro?

Io credo che la specificità stia innanzitutto nel fare uso consapevole delle caratteristiche reali della comunicazione umana, (ecco il realismo nell'approccio psicologico al paziente) cercando di evitare modalità difensive come il diniego o la scissione dell'oggetto, che allora viene visto solo parzialmente e quindi in modo distorto ma che sono anche modalità difensive che inevitabilmente rischiano di diventare nostre e di impoverirci. Facendo quest'esperienza ci capiterà anche che alcuni - anche tra i colleghi - ci considerino un po' matti o pensino che, per così dire, andando col lupo abbiamo imparato ad ululare2. Ma quando ci vengono fatte direttamente o indirettamente queste osservazioni possiamo anche chiederci come

2 Cfr. Gaburri E. e Ambrosiano L. (2003) Ululare con i lupi - Conformismo e rêverie, Bollati Boringhieri, Torino, per una valutazione positiva dell'ululare.

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abbiamo espresso la nostra soggettività se questa viene avvertita come vagamente patologica.

Intendo però sottolineare che quel che oggi sta diventando man mano più intollerabile, sia nei piccoli gruppi sia nelle collettività più grandi, è proprio l'uso e lo sviluppo della soggettività. Che pure è, a mio avviso, l'elemento primo e di base delle nostre professionalità e che costituisce in questo senso un vero capitale sociale che dobbiamo poter rappresentare e - per rimanere nella metafora economica - dobbiamo anche poter investire per farlo fruttare per tutti e in primo luogo per noi stessi.

Se mi consentite una deviazione diciamo così "politica", vorrei ricordarvi il dettato di quello che io considero un piccolo capolavoro della nostra Costituzione repubblicana:

all'articolo 3, questa stabilisce, nel secondo comma, che "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana".

Ebbene: per il pieno sviluppo della persona umana noi dobbiamo intendere innanzitutto il pieno sviluppo della attività psichica, nelle forme e nelle modalità che ciascuno può elaborare in base alla propria storia, alle proprie vicissitudini, alle proprie relazioni. E queste forme e modalità sono eminentemente soggettive e, se non le si prende in considerazione, permangono limitate anche quando siano stati rimossi gli ostacoli di natura economica o sociale. È un compito nostro quello di fare presente costantemente l'importanza della attività psichica, importanza che, dal punto di vista generale, viene per lo più e incredibilmente messa in secondo piano. Ricordo ancora un signore che mi raccontò trionfante di essersi permesso di acquistare una Maserati e che però poco dopo mi disse che non poteva più permettersi di pagare un'analisi. Ma lo ricordo perché mi ritorna in mente quando guardo le statistiche relative alla spesa pubblica per i servizi relativi all'attività psichica, che si tratti di servizi sanitari o di servizi scolastici e culturali: quel signore era, in questo senso, un conformista, che aveva accettato un criterio di giudizio collettivo e - a mio avviso - agghiacciante di svalutazione dell'attività psichica.

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Piccolo appunto teoretico: come vedete, sto parlando di soggettività e non di soggetto. Non credo, in altri termini, che si possa facilmente giustificare l'uso della categoria "soggetto" nel nostro campo. Ci hanno tentato in molti, soprattutto in ambito francofono e sulla scia di Lacan, ma sempre con esiti sconcertanti e spessissimo con deviazioni pseudofilosofiche ("pseudo" perché pochissimi di noi hanno una vera preparazione filosofica). Il rischio è quello di una deriva per così dire ontologica, il pensare, come diceva già Breuer all'epoca degli Studi sull'isteria, che dietro ad un sostantivo ci sia una sostanza. Personalmente credo sia più utile riconoscere alla categoria del 'soggetto' un valore grammaticale e sintattico e limitarla lì. Viceversa, penso che la categoria della "soggettività" sia più adatta all'uso delle comunicazioni altrui e alla comprensione delle dinamiche che portano l'altro a farci queste comunicazioni, nonché ovviamente alla comprensione delle dinamiche che portano dentro di noi a farci queste comunicazioni intrapsichiche. Soprattutto, penso che la categoria "soggettività" sia più aperta a soluzioni le più diverse, anzi che implichi di per sé che la condizione umana sia quella di dover costantemente ricercare una propria personalissima via. A questo proposito potremmo ritornare a quanto segnalavo all'inizio di questa relazione, quando mettevo in evidenza il pericolo di costituire o di usare di cliché preformati. Potremmo chiederci se all'ombra di questi cliché non alberghino anche stereotipi di paradigmi evolutivi che diventano un po' alla volta delle sorta di "protocolli del buon vivere". Un adulto dev'essere così e così, un adolescente ha più o meno queste caratteristiche, una coppia deve relazionarsi in questo modo eccetera eccetera. Penso che i protocolli e le linee guida che il Ministero della Sanità volonterosamente ammanisce a noi medici siano dei modi per comunicarci che non dobbiamo pensare con la nostra testa ma dobbiamo dedicarci ad applicare nel migliore dei modi le direttive lì stabilite. Ebbene: non è che dentro di noi - mediante anche delle derive ideologiche delle scoperte psicologiche, ivi comprese le scoperte psicoanalitiche - si stabiliscano un po' alla volta delle linee guida che non sono meno imperiose per il fatto di non essere ministeriali? Penso ad esempio alla sequenza delle fasi di sviluppo psicosessuale (orale, anale, fallica,

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genitale ecc.) che rischia costantemente di trasformarsi da descrittiva a prescrittiva, mentre sia il bambino evolvendo sia l'adulto regredendo possono giocare queste possibilità esperienziali secondo le sequenze più varie.

Ritorno dunque in conclusione alla questione del 'capitale sociale nella società di oggi'. Le nostre professionalità sono tra le poche che non potranno essere abolite dalla rivoluzione tecnologica, anche se magari potranno in qualche misura modificare degli aspetti tecnici. Potrebbero però essere abolite del tutto se ci prestassimo a diventare dei surrogati degli esseri umani desoggettivati. Trovare dunque l'equilibrio tra lo sviluppo della nostra soggettività quotidiana e la ricerca della comprensione dell'attività psichica umana anche nel nostro lavoro quotidiano è un compito secondo me entusiasmante che giustifica il giudizio di noi stessi come capitale sociale e ci sprona, senza eccessiva enfasi ma anche senza accettare una eccessiva svalutazione, a considerare il nostro impegno scientifico e lavorativo davvero pienamente umano e possibilmente esemplare. È realistico pensare che ce la possiamo fare? Nel mio inguaribile ottimismo penso che, adottando criteri appunto realistici e magari terra- terra , non solo ce la possiamo fare ma alla fine, nonostante tutto, meriteremo la gratitudine sociale.

Grazie.

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