L'UNIFORMITÀ PECUNIARIA DI BASE PER GARANTIRE UN PARAMETRO DI VALUTAZIONE DI RIFERIMENTO UGUALE PER TUTTI
di Antonio Arbia*
Se analizziamo le norme vigenti nel diritto dei singoli paesi dell'Unione Europea in materia di risarcimento dei danni, rileviamo che quasi universalmente ci si ispira, anche se con sfumature diverse, al principio di acquiliana memoria del neminem laedere recepito dall’art 2043 del vigente Codice Civile Italiano.
Numerosi sono i parallelismi esistenti tra le diverse realtà, anche se la materia in tema di risarcimento dei danni appare fortemente caratterizzato dal livello di sviluppo, in ciascun Stato membro, dell'economia, delle tradizioni e delle aspirazioni dei singoli ordinamenti giuridici nazionali.
Nell'ambito dell'Unione Europea negli ultimi anni si sono moltiplicati gli sforzi per uniformare i singoli aspetti del diritto risarcitorio.
Ricorderò per tutte:
I) la direttiva CEE in tema di responsabilità del produttore del 12/07/1985 ormai recepita in quasi tutti gli ordinamenti nazionali dei paesi membri;
2) le tre direttive CEE del 24/04/1972, 30/12/1985 e 14/05/1990 tutte relative, alla assicurazione della responsabilità civile RCA, delle quali è stato accolto il principio della obbligatorietà dell’assicuratore e relativi minimali di garanzia.
Scarso successo hanno avuto invece la cosiddetta Convenzione di Strasburgo del 14/05/1973, che aveva l'obiettivo di unificare le norme in materia di responsabilità, e la pubblicazione nel 1973 della proposta di risoluzione di una Commissione del Consiglio d'Europa, per l'armonizzazione delle regole di quantificazione dei danni alla persona.
I relatori stranieri che illustreranno o i criteri di liquidazione adottati nei propri paesi ci daranno sicuramente la possibilità di osservare le sostanziali differenze esistenti tra i diversi sistemi.
Non è mia intenzione sovrapporre le mie argomentazioni a quelle di altri relatori che affronteranno proprio il tema spinoso della quantificazione del danno alla persona in Italia, ma il nostro paese fa parte dell'Unione Europea e non potendo ignorare che dobbiamo confrontarci con gli altri partner europei, non posso esimermi del toccare l'argomento della evoluzione subita negli ultimi anni dal risarcimento del danno alla persona nel nostro paese.
Un vivace risveglio nel mondo del diritto su tale materia ha avuto inizio intorno alla metà degli anni ‘70, allorché, da una dicotomia tradizionale, fondata su due titoli di danno patrimoniale, e non- patrimoniale, si iniziò a prospettare il problema di come correttamente inquadrare alcune tipologie di danno che la coscienza giuridica e la sensibilità sociale cominciavano a cogliere.
Si iniziò a parlare di danno estetico, danno alla vita di relazione, danno alla sfera sessuale, danno alla capacità generica. Si sentì l’esigenza di riunire in una unità dogmatica diversi autonomi titoli risarcitori.
Il Tribunale che per primo colse questa necessità fu quello di Genova nella sentenza ormai famosa del 25/5/1974 pubblicata 22 anni or sono.
Per la prima volta si fece riferimento al “diritto alla salute” previsto dall’art. 32 della nostra Costituzione e lo si qualificò come diritto soggettivo primario dell'individuo.
Si dibatté a lungo se tale danno dovesse rientrare nella categoria del danno patrimoniale o extra- patrimoniale.
Con la sentenza n. 186/84 la Corte Costituzionale affermò l'autonomia concettuale del “danno alla salute” o “danno biologico” introducendo così nel nostro ordinamento un urtium genus che trae
* Direttore Centrale delle Generali Assicurazioni, Mogliano Veneto
Collana Medico Giuridica ADDITO SALIS GRANO
ed. Acomep, 1998
scaturigine, come norma primaria, dall'art. 32 della Costituzione, alla quale è complementare come norma sanzionatoria secondaria quella dell’art. 2043 del Codice Civile.
Sul piano pratico la sentenza introdusse definitivamente il risarcimento, a titolo autonomo, del
“danno alla salute” accanto a quello patrimoniale, e nei casi previsti, del “danno morale”.
La Corte però avvertì l'esigenza di non legittimare “sperequazioni e duplicazione” risarcitorie, mettendo in guardia contro questo pericolo tutti gli operatori del diritto.
Possiamo quindi affermare che nel nostro ordinamento giuridico la liquidazione del danno alla persona prevede il risarcimento del:
• danno biologico, inteso come lesione dell'integrità psicofisica o più semplicemente come incapacità temporanea o permanente di godere a pieno la vita, anche in senso edonistico, a causa di un intervento illecito esterno;
• il danno non patrimoniale, riconosciuto nei casi previsti dalla legge come indica l’art. 2059 del C. C., e che riassume l’ansia, l’angoscia, le sofferenze fisiche e psichiche, l’afflizione, e i patemi d’animo;
• il danno patrimoniale, inteso solo ed esclusivamente come conseguenza obiettivamente documentata di ripercussione negativa sulla capacità attuale o futura di produrre reddito.
In assenza di una norma legislativa “quadro” che ispirasse i criteri di liquidazione del danno biologico, la Suprema Corte di Cassazione, investita del problema, si limitò a dire che l’individuazione e la scelta dei criteri di quantificazione veniva demandata ai giudici di merito in base al criterio dell’equità, riconoscendo in tal modo l’inesistenza di un metodo particolare per la liquidazione del danno da preferire ad altri (vedi Cassazione Civ. 616/87 n.3675).
Apparve quindi chiaro che poteva essere utilizzato qualsiasi metodo purché non applicato secondo schemi rigidi ma equitativamente, in modo che il risarcimento potesse essere adattato alle singole fattispecie concrete.
La giurisprudenza di merito, recependo genericamente il principio espresso dalla Corte, gli diede corpo offrendo varie soluzioni per la quantificazione del danno biologico:
• determinazione equitativa pura e semplice ex art. 1226 C.C.;
• calcolo tabellare basato sul reddito medio nazionale o sul triplo della pensione minima sociale;
• calcolo procento.
Le corpose differenze rilevate tra i diversi sistemi avevano indotto il legislatore nel 1992 a rivedere alcune norme della legge 990/69 sulla assicurazione obbligatoria RCA e a tentare di dare concrete indicazioni sulla quantificazione del danno biologico. A ragione o a torto, la legge fu rinviata alle Camere e mai più riproposta.
Sia pure con qualche impennata i criteri in uso per la liquidazione continuarono ad essere applicati con sperequazioni più o meno rilevanti, ma da qualche anno ed in particolare da quando la 3°
Sezione della Corte di Cassazione ritenne illegittimo il ricorso analogico all’art 4 della Legge 39/72, abbiamo assistito ad un proliferare di tabelle di riferimento elaborate da molti tribunali che hanno creato grave incertezze tra gli assicuratori impossibilitati a determinare in maniera congrua le riserve dei danni con lesioni.
Sicuramente a queste tabelle va riconosciuto il merito di aver tentato di disinquinare il terreno della litigiosità e del ricorso al contenzioso ma non può sfuggire a nessuno che la molteplicità di tali tabelle, ingenera la convinzione dell’incertezza del difetto o, di una grave sperequazione dì trattamento in situazioni simili, proprio come paventato dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 186/84.
Come cittadino prima e come operatore del mondo assicurativo poi, non posso non auspicare l’avvento di un sistema di liquidazione che consenta uniformità di valutazioni fuori da incertezze e frammentazioni e che abbia come irrinunciabile fondamento:
• una uniformità pecuniaria di base;
• una progressività risarcitoria in funzione della gravità delle lesioni;
Collana Medico Giuridica ADDITO SALIS GRANO
ed. Acomep, 1998
• una quantificazione dei postumi, dal punto di visti medico legale, non ancorato alle attuali tabelle riferite alla capacità lavorativa generica;
• l’assenza di qualsivoglia duplicazione;
• una rigorosa prova della diminuita capacità reddituale per i danni patrimoniali;
• danno morale assolutamente svincolato dalle tabelle del danno biologico e proporzionato all’entità dell’ingiusto perturbamento dello stato d’animo del leso o dei superstiti del de cuius.
L’uniformità pecuniaria di base dovrebbe garantire un parametro di valutazione di riferimento uguale per tutti, con l’eliminazione, quindi, di tutte quelle sperequazioni derivanti dall’applicazione dei diversi sistemi di calcolo empirici adottati.
La progressività in funzione della gravità dei postumi dovrebbe consentire il riconoscimento di un adeguato risarcimento per ogni caso specifico.
La quantificazione dei postumi permanenti secondo schemi più aderenti alla realtà del danno
“biologico” dovrebbe consentire di inquadrare questo predominante titolo di danno nel suoi giusti confini.
La prova rigorosa dell’incidenza dei postumi sulla capacità reddituale eviterebbe indebito duplicazioni, in sintonia con quanto raccomandato dalle Corte Costituzionale nella citata sentenza.
Sul danno morale infine, ritengo di non poter condividere l’opinione di chi pretende un automatico agganciamento al danno “biologico” o ancor peggio, nei casi mortali, al semplice vicolo di parentela, senza considerare del legami d’affetto tra i componenti del nucleo familiare.
Concludo affermando che l’armonizzazione del nostro sistema risarcitorio è indispensabile e va presto raggiunta, per consentire agli operatori del mondo assicurativo di poter commisurare fra loro risorse economiche disponibili ed entità dei risarcimenti.
Infatti, non sfugge a nessuno che di fronte alla penuria di risorse economiche, resta la via limitata della riduzione delle spese e quella ancor più impopolare e dolorosa dell’aumento delle tariffe.
Ove scegliessimo tale ultima risorsa dovremmo fare i conti con le altre compagnie del mercato europeo, inoltre delle quali possono affrontare meglio di noi l’intera problematica che qui si dibatte, avendo una legislazione più avanzata o una giurisprudenza più prudente in materia di risarcimento del danno.
Collana Medico Giuridica ADDITO SALIS GRANO
ed. Acomep, 1998