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Dialoghi sulle impugnazioni civili al tempo della spending review - Judicium

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Academic year: 2022

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R. RUSSO

Dialoghi sulle impugnazioni civili al tempo della spending review

I. PREMESSA

È l’undici settembre delle impugnazioni civili.

In significativa coincidenza con la nuova disciplina della c.d. legge Pinto, a partire da quel giorno, anno domini 2012, chi voglia proporre appello (ancorché ammesso tout court dall’art.

339 c.p.c. contro le sentenze di prime cure) deve attenersi al nuovo regime disegnato dagli artt. 342, 345, 348 bis, 348 ter, 383, 434, 436 bis, 447 bis e 702 c.p.c., come modificati ovve- ro introdotti sia dall’art. 54 del D.L. n. 83 del 2012 sia dalla legge di conversione n. 134 del 2012; salve le eccezioni previste (processo tributario e, con qualche variante, cause avviate con il rito sommario e cause di cui all’art. 70, 1° c.p.p.).

Le sentenze di appello emesse a partire dal quel giorno, anno domini 2012, potranno essere impugnate per cassazione soltanto nei limiti segnati dal novellato art. 360 n. 5 c.p.c., con la sola eccezione del contenzioso tributario.

Scontando qualche imprecisione od incompletezza, in prima approssimazione il nuovo regime delle impugnazioni ordinarie civili si può così compendiare.

APPELLO

1. Processo tributario: resta escluso dalla riforma 2012, dei cui sperati benefici effetti perciò non si avvantaggia la Quinta Sezione della Suprema Corte.

2. Appelli introdotti prima del dì 11.9.2012: vecchio regime, ma (in difetto di disposizioni di diritto intertemporale1):

1 Nel testo risultante dalla legge di conversione, la disposizione di diritto intertemporale contenuta nell’art. 54, 2° si occupa (tra l’altro: v. infra nota n. 2) espressamente dell’operatività dell’art. 342, 1° c.p.c. so- stituito soltanto con la legge di conversione (art. 54, 1°, 0a), ma non dell’art. 54, 1°, 0b) né dell’art. 54, 1° bis (attinenti, rispettivamente, alla modifica dell’art. 345, 3° e dell’art. 702 quater, 1° c.p.c.) anch’essi inseriti sol- tanto con la legge di conversione, entrata in vigore il 12 agosto 2012. Perciò, a volere considerare non soltanto la dizione letterale della disposizione (art. 54, 2°) ma anche il differente trattamento intertemporale significativa- mente riservato alla sostituzione dell’art. 342, 1° c.p.c., si dovrebbe convenire, secondo il principio tempus regit actum (art. 11 disp. prel. c.c.), sull’immediata operatività dei novellati art. 345, 3° e 702 quater, 1° c.p.c. a far tempo dal 12 agosto 2012, qualunque sia la data dell’introduzione dell’appello. D’altronde, per un verso, non poteva sfuggire al legislatore (saggio fino a prova del contrario) che la richiesta del novum tendenzialmente deve essere contenuta nell’atto di appello (come prescritto dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8203 del 20/04/2005); per altro verso, l’immediata applicazione delle restrizioni imposte dai novellati artt. 345 e 702 qua- ter c.p.c. denuncia chiaramente l’intento dei conditores di 'chiudere' ulteriormente gli appelli anche in corso, in coerenza con il rigore che ispira l’intera riforma. Infine, sul piano puramente teorico non è agevole sostenere che la sola richiesta del novum (prove indispensabili, nel rito ordinario; prove rilevanti in quello sommario), avanzata anteriormente al 12 agosto 2012 alla stregua del precedente regime, valga a concretizzare di per sé un effetto in-

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1.1. procedimenti ordinari di cognizione: si applica dal 12 agosto 2012 il novellato art. 345, terzo comma c.p.c., che esclude dal novum ammissibile nuovi mezzi di prova e nuovi documenti ancorché ritenuti indispensabili ai fini della decisione;

1.2. procedimenti sommari: si applica dal 12 agosto 2012 il novellato art. 704 quater c.p.c., che include nel novum ammissibile nuovi mezzi di prova e nuovi documenti purché rite- nuti indispensabili (anziché, come prima, rilevanti) ai fini della decisione.

3. Appelli introdotti in epoca non anteriore al dì 11.9.20122:

3.1.A. cause a cognizione ordinaria, di lavoro e locatizie: specificità qualificata dei motivi di appello (artt. 342,1°, 434, 1° e 447 bis, 1° c.p.c, nel testo novellato): una sorta di au- tosufficienza dell’appello, imposta dal legislatore (in veste didascalica) al fine di age- volare il compito del giudice di secondo grado;

3.1.B. inoltre:

3.1.B.a. cause ex art. 70,1° c.p.c.3:

 appello vecchio regime, disputandosi di diritti indisponibili, con espressa e- sclusione quindi del vaglio di ammissibilità;

 e perciò contro la sentenza di appello che abbia confermato in fatto quella di prime cure è sempre ammissibile il ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. (nella versione novellata): esclusione del principio della doppia con- forme;

3.1.B.b. cause ex art. 702 bis c.p.c.:

 appello vecchio regime (con espressa esclusione quindi del vaglio di ammis- sibilità), al fine di incoraggiare l’accesso a tale rito (per altro ammesso sol- tanto per le cause altrimenti soggette al rito ordinario di competenza del tri- bunale in composizione monocratica, sempre che non sia ritenuta necessa- ria un’istruzione non sommaria) e velocizzare il primo grado di giudizio;

 (ma) contro la sentenza di appello che abbia confermato in fatto quella di prime cure non è ammissibile il ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 c.p.c.

(nella versione novellata): applicazione del principio della doppia confor- me;

3.1.B.c. altre cause (filtro d’appello):

dente che il legislatore del 2012 ha perso un’ottima occasione per impedire un contenzioso ampiamente prevedi- bile.

2 Ai sensi dell’art. 54,2° del citato D.L. le nuove disposizioni, ad eccezione degli artt. 345, 3° e 702 quater, 1° c.p.c. (novellati con la legge di conversione: v. retro sub nota n. 1), «si applicano ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». L’art. 1 della legge di conversione 7.8.2012 n. 134 ne ha previsto l’entrata in vigore il giorno successivo alla pubblicazione, avvenuta sulla G.U. n. 171 del dì 11 agosto 2012, e cioè il 12 agosto 2012. Perciò, al netto delle eccezioni, la nuova disci- plina dell’appello ha per oggetto gli appelli introdotti a far tempo dal trentesimo giorno successivo al 12 agosto 2012, e cioè a far tempo dal dì 11 settembre 2012 (compreso).

3 Premesso il discrimine temporale determinato dalla data di introduzione dell’appello (a seconda che sia anteriore o non all’undici settembre 2012), la riforma 2012 si estrinseca in varie e frastagliate direzioni, escludendo in ogni caso il contenzioso tributario. Incide innanzi tutto, come si è già affermato dubitativamente (v. retro sub nota n. 1), sui vecchi appelli (art. 345, 3° e 702 quater c.p.c.). Poi introduce, per i nuovi appelli, il vaglio di ammissibilità con il nuovo art. 348 bis c.p.c., escludendone le cause su diritti indisponibili e quelle pro- poste con il rito sommario, per le quali dunque l’appello è considerato per legge ammissibile (nel senso, più pre- cisamente, che non è ammessa, per la loro trattazione, la valutazione sulla ragionevole probabilità di successo).

Ma gli appelli relativi ai casi eccettuati (con una significativa diversità all’interno di tale categoria) sono poi og- getto della disciplina della doppia decisione conforme; che si applica anche agli appelli su cause non eccettuate, se abbiano superato il vaglio obbligatorio di ammissibilità, come denuncia chiaramente l’art. 348 ter 5° c.p.c.

Ovvio, infine, che la nuova disciplina della forma dell’appello (art. 342 c.p.c.) può applicarsi soltanto ai nuovi appelli.

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 nuovo regime dell’appello: in sede di trattazione ex art. 350 c.p.c. ovvero all’udienza di discussione ex art. 436 bis c.p.c.: previa audizione delle parti, obbligatoria valutazione di ammissibilità (artt. 348 bis e 348 ter c.p.c.), con i seguenti alternativi esiti:

 o appello ammissibile > sentenza di appello:

 quaestiones facti già denunciate in appello:

o in caso di doppia conforme in fatto è escluso il ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 nel testo novellato;

o altrimenti è ammesso il ricorso per cassazione ex art.

360 n. 5 nel testo novellato;

 quaestiones iuris: è ammesso il ricorso per cassazione;

 ovvero ordinanza di inammissibilità di tutti gli appelli succintamente motivata, perché nessuno di essi ha una ragionevole probabilità di suc- cesso, con statuizione sulle spese: è ammesso (soltanto) il ricorso per cassazione contro la sentenza di prime cure; ma:

 quaestiones facti già denunciate in appello:

o se l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni ineren- ti alle questioni di fatto poste a base della decisione im- pugnata (quella di primo grado) è escluso il ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 c.p.c.;

o altrimenti è ammesso il ricorso per cassazione;

 quaestiones iuris: è ammesso il ricorso per cassazione;

 decisioni della Suprema Corte (Sezione Sesta, in sede di filtro, ovvero altre Sezioni), a seguito di ricorso avverso la sentenza di primo grado (essendo stato dichiarato inammissibile l’appello):

 inammissibilità ovvero rigetto del ricorso: nulla quaestio;

 la Suprema Corte accoglie il ricorso (nuovo art. 383, 4° c.p.c.):

 per motivi ex art. 382 c.p.c.: statuizione sulla giurisdi- zione o sulla competenza;

 per altri motivi: rinvio al giudice di appello e disciplina del giudizio di rinvio.

RICORSO PER CASSAZIONE

4. Processo tributario: resta escluso dalla riforma 2012, dei cui sperati benefici effetti perciò non si avvantaggia la Quinta Sezione della Suprema Corte.

5. Decisioni d’appello pubblicate prima del dì 11.9.20124: vecchio regime (art. 360 c.p.c. nel- la versione anteriore alla riforma 2012).

6. Decisioni d’appello pubblicate in epoca non anteriore al dì 11.9.2012:

4 Ai sensi dell’art. 54,3° del citato D.L. la riforma dell’art. 360, n. 5 c.p.c. «si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». L’art. 1 della legge di conversione 7.8.2012 n. 134 ne ha previsto l’entrata in vigore il giorno successi- vo alla pubblicazione, avvenuta sulla G.U. n. 171 del dì 11 agosto 2012, e cioè il 12 agosto 2012. Perciò, eccet- tuato il solo processo tributario, la nuova disciplina del ricorso per cassazione ha per oggetto le sentenze deposi- tate a far tempo dal trentesimo giorno successivo al 12 agosto 2012, e cioè a far tempo dal dì 11 settembre 2012 (compreso). Inoltre, dopo tale data il nuovo regime si applica ratione temporis non solo alle sentenze d’appello decise alla vecchia maniera, ma anche alle decisioni (di primo grado o di secondo grado) emesse in sede d’appello, alla stregua del nuovo regime dell’appello (operativo per gli appelli introdotti a partire dal dì

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6.1. se l’appello sia stato introdotto in epoca non anteriore al dì 11.9.2012:

6.1.A. cause ex art. 70,1° c.p.c.: contro la sentenza di appello che abbia confermato in fatto quella di prime cure è ammissibile il ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 c.p.c.

(nella versione novellata), non operando il principio della doppia conforme;

6.1.B. cause ex art. 702 quater c.p.c.: contro la sentenza di appello che abbia conferma- to in fatto quella di prime cure non è ammissibile il ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. (nella versione novellata);

6.1.C. altre cause:

6.1.C.a.

 appello ammissibile: ricorso avverso la decisione d’appello:

 quaestiones facti già denunciate in appello:

o in caso di doppia conforme in fatto è escluso il ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 nel testo novellato;

o altrimenti è ammesso il ricorso per cassazione ex art.

360 n. 5 c.p.c. nel testo novellato;

 quaestiones iuris: è ammesso il ricorso per cassazione;

 ordinanza di inammissibilità di tutti gli appelli: è ammesso il ricorso per cassazione contro la sentenza di prime cure; ma:

 quaestiones facti già denunciate in appello:

o se l’inammissibilità sia fondata sulle stesse ragioni ine- renti alle questioni di fatto poste a base della decisione impugnata (quella di primo grado) è escluso il ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. nel testo novellato;

o altrimenti è ammesso il ricorso per cassazione;

 quaestiones iuris: è ammesso il ricorso per cassazione;

6.2. se l’appello sia stato introdotto in epoca anteriore al dì 11.9.2012: art. 360 n. 5 novella- to: omesso esame di un fatto decisivo disputato esplicitamente tra le parti.

Sul decreto legge si sono già espressi assai negativamente autorevoli Giuristi, sollecitati dal sondaggio meritoriamente promosso dal Prof. B. Sassani5; a tal punto che si sperava fino all’ultimo in un saggio ripensamento.

Ora che il dado è tratto, forse conviene indagare l’impatto che, dopo un decennio di tentativi (tanto impegnativi sul piano interpretativo quanto vani), il nuovo regime impugnatorio avrà sui protagonisti principali della vicenda processuale: (da parte lasciando la Suprema Corte) la Parte soccombente in prime cure, il suo Avvocato, il Giudice di appello (ai quali si aggiunge un quarto soggetto, assai meno scontato).

Ne scaturiscono due dialoghi: forma letteraria insolita nei discorsi sul diritto ma consigliabile se si voglia seriamente tentare di indossare 'dall’interno' – cioè con viscerale (e quindi soffer- ta) immedesimazione - i panni di coloro che, con varietà di ruoli, sono chiamati ad interpre- tare e ad attuare il nuovo regime civilprocessuale.

Il primo dialogo, quello tra l’Avvocato ed il suo Cliente, vuole fotografare il momento origi- nario in cui i primi protagonisti della vicenda si confrontano con la nuova disciplina, cercando di dare risposta (alla stregua dei loro doveri e, rispettivamente, dei loro interessi) ai numero- si quesiti che essa propone: un esercizio che potremmo definire microsistemico (ovvero di microinterpretazione), giacché si confrontano con l’ordinamento i suoi immediati interlocuto- ri, la Parte ed il suo Difensore.

5 Sul sito http://www.judicium.it.

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Più ardita – e forse troppo ambiziosa – si rivela la ricerca tentata con il secondo dialogo; in cui l’ordinamento si misura con sé stesso (cioè con la propria intrinseca coerenza) in un mo- mento delicatissimo, qual è quello dell’immaginario procedimento disciplinare nei confronti del Giudice d’appello: un’operazione che potremmo qualificare macrosistemica (o di ma- crointerpretazione), se non diventa metagiuridica.

Sia ben chiaro, niente a che fare con la teoria dei giochi, perché ne difetta l’immancabile presupposto: la trasparenza e la precisione delle regole su cui i players possano contare per valutare i rispettivi playoffs. Al più – in votis – artigianale esperimento di critical thinking in salsa dialogica.

II. PRIMO DIALOGO

Il dialogo si svolge, il 15.12.2012 nello studio dell’avv. Cicero, tra questo ed il suo cliente Signor Simplicio, rimasto soccombente nella causa da essi promossa in prime cure.

SIMPLICIO: Avv. Cicero, lei ha criticato aspramente la sentenza emessa dal Giudice onora- rio del Tribunale, e precisamente la sua valutazione in fatto.

AVV. CICERO: … e lo ribadisco. Sennonché, nel frattempo la disciplina processuale dell’appello e del ricorso per cassazione è profondamente mutata e mi trovo a mal partito nell’indicarle il rimedio più appropriato.

SIMPLICIO: vuol cercare di farmi comprendere?

AVV. CICERO: certamente, è mio dovere. Fatte alcune eccezioni (tra cui non rientra il no- stro caso), il nuovo regime opera, all’interno delle sentenze di primo grado, una netta distin- zione tra sentenze illegittime, cioè quelle viziate da errore di diritto, e sentenze ingiuste, cioè quelle viziate da errore di fatto (o vizio motivazionale). È già questa distinzione, pur teorica- mente valida (o meglio didatticamente comoda), nella vissuta realtà processuale rappresenta quasi una mistificazione, perché – come insegnano gli studiosi di logica e di teoria generale del diritto – nell’interpretazione (di cui gli avvocati sono i primi protagonisti) e nel momento decisionale (che spetta al giudice, sulla base delle prospettazioni delle parti) il profilo pura- mente normativo (cioè la corretta individuazione ed interpretazione della disposizione appli- cabile al caso) e quello fattuale (cioè la ricostruzione dei fatti nudi e crudi, ammesso che ve ne siano) si rincorrono e si contaminano continuamente; lo chiamano (comprendendovi anche l’apporto storico-culturale dell’autore dell’interpretazione e la sua ricerca di senso) circolo ermeneutica, ma io preferisco chiamarla – se mi è permessa l’enfasi - vertigine ermeneutica:

se lo immagini come un numero consistente di tessere di un puzzle che, non essendo assegna- bili isolatamente al diritto ed al fatto, devono trovare faticosamente la loro giusta allocazione, così trascorrendosi vertiginosamente (per l’appunto) dal fatto al diritto. Questo – mi consenta la digressione - è il motivo principale (oltre alla severità formalistica sposata dalla Suprema Corte) per cui gli Avvocati hanno osteggiato l’art. 366 bis c.p.c. D’altronde, proprio in ciò consiste il compito cui è chiamato il giurista (avvocato, magistrato e accademico); cui compe- te – a mio modesto avviso - anche il dovere di disvelare, e se del caso di demistificare, quel che si nasconde dietro i dispositivi normativi, per confrontarlo con il dettato costituzionale.

SIMPLICIO: Avvocato, inizialmente la seguivo; vuole gentilmente riprendere il discorso dalla indicata distinzione.

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AVV. CICERO: Certamente. Orbene, per le questioni di puro diritto (ma si è visto che non sempre tale qualificazione è così selettivamente possibile) l’appello funziona come appros- simativo filtro rispetto al ricorso per cassazione (il cui procedimento a sua volta gode di una procedura di filtro), nel senso che la parte soccombente in iure in primo grado, non può rivol- gersi direttamente alla Suprema Corte, ma è tenuta a proporre appello, “sperando” che il giu- dice di secondo grado colga immediatamente l’errore e lo corregga prontamente con la sen- tenza d’appello. Se questo non avviene (ed il giudice di secondo grado dichiari perciò inam- missibile l’impugnazione, condannando il soccombente alle spese), l’appello funziona come (mi consenta il paragone) “scambiatore di binari”, nel senso che sarà (o meglio diventerà) ri- corribile per cassazione (non il provvedimento di inammissibilità reso in appello, bensì) la sentenza di prime cure, sempre al solo fine di fare valere l’error in iure già (invano) denuncia- to in secondo grado.

SIMPLICIO: comprendo che per le sentenze di prime cure esclusivamente illegittime è pos- sibile utilizzare il rimedio dell’appello e, se esso non ha successo, quello del ricorso per cas- sazione avverso la sentenza di prime cure. E, tornando alla mia sentenza, per la sentenza in- giusta, cioè non adeguatamente ovvero erroneamente motivata in fatto, che cosa prevede la riforma del 2012 ?

AVV. CICERO: per le sentenze esclusivamente illegittime la sua conclusione è fin troppo confortante, come vedremo tra poco; ma per le sentenze ingiuste è molto peggio. Sì, perché qui il vaglio negativo del giudizio di appello, cioè la sua ordinanza d’inammissibilità, rende definitivamente inattaccabile in fatto la decisione di prime cure, cioè la fa passare sostanzial- mente in giudicato. Per completezza aggiungo che, secondo la relazione che accompagna il decreto legge n. 83 del 2012, avverso l’ordinanza d’inammissibilità sarebbe sempre consenti- to quel ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., che una volta si chiamava a ragione “straordi- nario”, perché praticabile (con ristretta cognizione) soltanto nei confronti delle motivazioni mancanti ovvero apparenti. Ma, a parte il fatto che è già scontato (anzi prescritto) che la mo- tivazione del giudice di appello deve essere succinta (anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi), mi permetto ri- levare che innanzi tutto la dizione letterale del nuovo art. 348 ter c.p.c. non consente tale in- terpretazione (per quanto suggerita dagli stessi conditores, i cui disegni cedono a fronte dei verba legis), giacché prescrive in modo stringente che cosa avviene nel caso di dichiarata i- nammissibilità dell’appello (cioè soltanto la possibilità di ricorrere per cassazione contro la sentenza di prime cure), e che, in secondo luogo, se fosse corretta la tesi pur prospettata dagli stessi conditores, crollerebbe il senso dell’intera riforma, atteso che secondo l’ultimo comma del già novellato art. 360 c.p.c. i ricorsi (già) straordinari per cassazione sono stati parificati in tutto e per tutto a quelli ordinari (sicché sarebbe ammissibile la deduzione del vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., invece ora espressamente preclusa a fronte di una doppia conforme in fatto). Resta qualche serio problema per la condanna dell’appellante alle spese annessa all’ordinanza di inammissibilità emessa dal giudice d’appello (condanna che a stretto rigore dovrebbe essere quasi sempre aggravata d’ufficio ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c., connessa com’è ad una decisione d’inammissibilità), e si vedrà come deciderà sul pun- to la Suprema Corte. Ma mi sembra di dovere confermare che di regola la decisione di inam- missibilità serve soltanto a consentire il saltus per cassazione (un saltus ….con l’asta, cioè previo tentativo di appello) per le sole sentenze (ritenute) illegittime di primo grado, secondo un modulo che l’ordinamento già ammetteva, ma soltanto previo accordo tra le parti (art.

360, 2° c.p.c.). Anzi in questa vicenda si registra una grave alogicità, che farebbe inorridire un cultore del diritto razionale, perché fa comprendere come davvero (al pari del giudicato) il legislatore (nei limiti impostigli dalla Costituzione) può disporre quasi tutto, oltre che mutare

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in bianco il nero ed il quadrato in cerchio. Chiarisco: finora abbiamo ipotizzato che il giudi- zio di appello si concluda con una decisione d’inammissibilità; se invece il giudice di secondo grado proceda all’appello (ritenendolo ammissibile) ed alla fine lo rigetti au fond, tale deci- sione è parificata quoad effectum a quella d’inammissibilità, nel senso che in entrambi i casi la quaestio facti è definitivamente decisa, restando preclusa la possibilità di ricorrere sul punto per cassazione; e ciò ancorché in un caso (appello dichiarato inammissibile con ordi- nanza) il giudice di secondo grado non abbia neppure trattato l’appello, mentre nell’altro caso (appello considerato implicitamente ammissibile e perciò trattato nel merito) in secondo gra- do la valutazione fattuale sia stata piena e completa. Ora qui si annida la fallacia logica: se A (ammissibilità dell’appello) e B (inammissibilità dell’appello) sono diversi, ed anzi tanto dia- metralmente opposti da escludersi a vicenda, non può affermarsi, senza disconoscere la pro- clamata opposizione, che essi abbiano lo stesso effetto preclusivo. Si tratta di due evenienze ontologicamente opposte, tuttavia per legge (o forse, sarebbe il caso di precisare, per autorità di legge) parificate.

SIMPLICIO: avvocato, non colgo la differenza; infine, che cosa fa il giudice di secondo grado nelle due ipotesi ? non è uguale il metro della valutazione ?

AVV. CICERO: Purtroppo no, e qui tocchiamo il senso tanto profondo quanto sconvolgente della riforma. Il giudice di secondo grado non è tenuto a procedere alla trattazione dell’appello, come avveniva prima, secondo una tradizione consolidatasi a partire dal diritto romano dell’età del principato (se prima d’allora si riconosceva all’attività del giudice carat- tere assolutamente creativo, da quell’epoca il riesame in appello, sottomettendo anche il giu- dice alla norma, affermò la tendenziale prevalenza di essa). Egli ora deve – ripeto deve – alla prima udienza selezionare gli appelli che meritano di essere trattati da quelli che non lo meri- tano; e lo dovrà fare (secondo la logica interna della riforma) senza entrare – mi scusi per il bisticcio – nel merito. Infatti, per trattare l’appello come tale il Giudice di secondo grado do- vrà stabilire se esso abbia una ragionevole probabilità di successo (in termini di pura logica numerica, ammesso che la 'probabilità' sia traducibile in una percentuale maggiore del 50%

per distinguersi dalla mera 'possibilità', il range dell’ammissibilità resta compreso tra > 50%

e 100%); se non l’ha, non rigetta l’appello, ma lo dichiara inammissibile con le conseguenze già viste: se la sentenza di prime cure sia (considerata dall’appellante) illegittima residua la possibilità del ricorso per cassazione in iure; se invece sia (considerata dall’appellante) ingiu- sta, non è ammesso alcun rimedio ulteriore, perché ogni ulteriore controllo sulla motivazione (in fatto) è precluso (secondo il principio canonico della doppia sentenza conforme; qui adat- tato ulteriormente, perché, al netto della condanna alle spese, l’ordinanza di inammissibilità è tutto tranne che una sentenza).

SIMPLICIO: quindi il giudizio di inammissibilità dell’appello è costituito da una valutazio- ne statistica sul futuro, una prognosi ?

AVV. CICERO: più volte, ed anche autorevolmente, si è fatto tale accostamento. Sennon- ché, a volere essere puntuali, nella metodologia clinica la sequenza logico-temporale è così scandita: diagnosi, terapia e prognosi; e quest’ultima è collegata all’incertezza (scientifica) sia della diagnosi sia degli effetti della terapia, così manifestandosi lo iato tra la scienza (e la coscienza) del medico ed i risultati naturalistici del suo intervento. Tutt’altra è la struttura epistemica della decisione che il giudice (anche oggi quello d’appello, per le cause eccettuate dal filtro o per quelle positivamente filtrate) è tenuto ad emettere: egli è obbligato (o ‘con- dannato’, essendo vietato il non liquet) a trasformare in certezza giuridica l’incertezza (fattua- le e giuridica) che si annida nella controversia (di primo grado ovvero d’impugnazione) che

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divide i litiganti. “Decidere” significa - per l’appunto – “recidere” le soluzioni non appro- priate per proclamare, al fine di togliere l’incertezza e risolvere la lite, quella destinata a di- ventare il dictum e lo iussum dell’ordinamento. Di per sé tale dictum dunque non è un prae- dictum (o un vaticìnium) cioè un pronostico, qual è ora quello imposto al giudice di appello dalla riforma 2012. Nell’attuare la giurisdizione nel nome del Popolo Italiano, i giudici non giocano a dadi né in borsa e neppure fanno esercizio di valutazioni statistiche; le quali ultime, per altro, a stretto rigore presuppongono la registrazione di eventi-campione (così il clinico medico può affermare che la terapia contro la polmonite ha una percentuale di successo X, perché può avvalersi di adeguate tabelle e rilevazioni statistiche). Se mai il pronostico sulla possibile decisione è compito dell’avvocato, al quale spetta di indagare le possibilità (anche statistiche, se dispone di appropriate tabelle) dell’azione che intenda avviare. È anche vero che talora, quando (per esempio) incombe il c.d. periculum in mora, il giudice si deve accon- tentare (e deve decidere sulla base) del mero fumus boni iuris ma tale decisione se cautelare conservativa ne comporta una definitiva a cognizione piena, volta a confermare od a smentire la prima; se cautelare anticipatoria consente comunque l’instaurazione di un apposito giudizio di merito. Perciò, a volere coltivare la similitudine con l’esperienza della clinica medica, la sentenza d’appello compendia la diagnosi e la terapia, restandole estranea invece proprio la prognosi. Alla quale invece è accostabile ora la decisione d’inammissibilità dell’appello im- posta dalla riforma, precisandosi che tuttavia essa non prevede alcun controllo sulla prognosi infausta (e quindi sulla diagnosi e sulla terapia che logicamente la presuppongono), dacché da essa scaturisce soltanto l’impugnabilità in iure della sentenza di prime cure, quasi che la decisione sull’appello pur proposto (con tutti i crismi formali ora imposti dal novellato art.

342 c.p.c.) non fosse stata mai emessa; salvo a riemergere in sede di giudizio di rinvio, qua- lora la Suprema Corte accolga il ricorso in iure avverso la sentenza di prime cure (ed anche in questo annientamento, seguito da ‘resurrezione’, si rivela la “potenza” demiurgica del legi- slatore).

SIMPLICIO: dunque, nel nuovo regime, alla sentenza negativa d’appello (dictum – iussum) sempre impugnabile per cassazione si sostituisce una mera predizione negativa (in sé e per sé) inattaccabile ?

AVV. CICERO: Non basta. La nuova disciplina esibisce un’ulteriore patologia sistemica.

Rispetto alle valutazioni fattuali (verità di fatto) è possibile ipotizzare teoricamente una mol- teplicità di soluzioni, o di dicta, tra i quali il giudice di merito (e soltanto egli) deve esprimere (con un responsabile atto di cognizione e di volontà) la propria motivata scelta. Tale molte- plicità è esclusa invece per le verità di diritto, rispetto alle quali è in pratica presunto dall’ordinamento che il dictum deve essere uno ed uno solo (secondo uno dei postulati, ribadi- to dall’art. 360 bis, n. 1 c.p.c., del giuspositivismo teorico ed anche del giusnaturalismo), sic- ché neppure teoricamente è proponibile rispetto ad esse una questione di ragionevole proba- bilità di successo: qui prevale infatti una logica monistica (“sì, se è sì; no, se è no; il di più viene dal maligno”), per cui il giudice di appello (tenuto a rispettare soltanto la legge: art.

101 Cost.) giudica legittimamente ma impropriamente se, anche nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto, è costretto a fare capo a una valutazione del più probabile che non (coerente soltanto con lo scetticismo interpretativo).

SIMPLICIO: Avvocato, lei parla di patologie sistemiche: che significa ? E ve ne sono al- tre?

AVV. CICERO: anche per assicurare il principio costituzionale dell’uguaglianza sostanziale, ogni sistema giuridico ha una propria struttura organica, una intrinseca razionalità che nei ca-

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si anzidetti viene interrotta, quasi come uno strappo in un drappo finemente ricamato. Senza dire che anche giudici ed avvocati subiscono una qualche violenza professionale a discutere e ad argomentare in termini di una logica probabilità di successo, dove invece (come già speci- ficato) non sarebbe possibile farlo razionalmente. La riforma 2012 comporta altre storture sistemiche? Si; consideri che alcuni dispositivi processuali presuppongono che sulla decisio- ne di prime cure possa intervenire in appello un controllo (monocratico ovvero collegiale, ma comunque) effettivo di merito: così per esempio rispetto alle decisioni (talora per somme non irrisorie) del Giudice di pace ovvero del giudice onorario del tribunale. Crolla una ‘stampella’

del sistema, se anche in tali ipotesi viene a mancare un effettivo giudizio d’appello.

SIMPLICIO: Ma, da questo punto di vista, io stesso ho motivo di dolermi: noi, egregio A- vocato, avevamo promosso azione giudiziaria senza fare capo al rito sommario (per altro i- nappropriato, come lei ha sostenuto, attesa la prevedibile complessità dell’istruttoria) confi- dando, a fronte di un insuccesso in primo grado, su un’altra chance in appello. Dunque vivo l’immediata entrata in vigore della riforma 2012 dell’appello come un player che, iniziata la partita il cui regolamento prevedeva due tempi, si vede dichiarato definitivamente sconfitto già dopo il primo tempo, perché l’arbitro (ovvero il nuovo regolamento) ha deciso di abolire sostanzialmente il secondo tempo ovvero di renderlo discrezionale; il che francamente non mi sembra civile. Ma infine, perché è cambiato in modo così incisivo ed intempestivo il regola- mento del ’gioco’ processuale? Perché l’appello vecchia maniera era considerato inutile?

AVV. CICERO: No; a mio avviso soltanto per ragioni economiche, o meglio di finanza pub- blica e di politica economica, stante la gravissima crisi economica in cui versa lo Stato italia- no. Si è ritenuto, innanzi tutto, insopportabile che esso (a differenza della maggior parte de- gli altri paesi, anche europei) dovesse pagare ingenti indennizzi per la irragionevole durata del processo civile; si è ritenuto altresì che gli investitori non fossero attratti da un sistema giuridico che impiega tempi biblici per dirimere definitivamente le controversie. Non potendo (ovviamente) abolire il primo grado, senza violare l’art. 24 Cost., e potendo soltanto cercare di ‘limare’ il ricorso per cassazione, stante l’art. 111, penultimo comma, Cost., l’appello è diventato l’agnello sacrificale. Il sistema processuale era fin qui strutturato su due gradi per il giudizio sulle verità di fatto e l’appello serviva anche da filtro rispetto alle verità di diritto, da fare valere comunque in ultima istanza davanti alla Suprema Corte. Ora, invece, sostan- zialmente l’utente finale del servizio giustizia dovrà ‘imparare’ che il giudizio di fatto (ove non sia stato promosso secondo il rito sommario e non verta su diritti indisponibili) si con- clude sostanzialmente in prime cure e che soltanto per le quaestiones iuris gli è data la possi- bilità di ricorrere per cassazione, previo tentativo di appello; un appello che oserei qualifica- re a discrezione (absit iniuria verbis) del giudice chiamato a delibarne nel modo anzidetto sol- tanto la ragionevole probabilità di successo. In questa direzione i conditores hanno tratto spunto da una rivelazione statistica sui dati registrati sotto il precedente regime dell’appello:

nel 68% dei casi esso confermava la decisione di primo grado (risultando perciò inutile, ma soltanto a posteriori); dunque – si è ragionato - occorre allestire uno strumento con cui, per ridurre o escludere gli indennizzi altrimenti dovuti, il giudice d’appello possa celermente

‘liquidare’ gli appelli che gli apparissero ragionevolmente destinati all’insuccesso. Non sfug- ge anche qui la multiforme e straordinaria alogicità di tale argomentazione: innanzi tutto, per- ché il dato statistico rende (paradossalmente) evidente la palmare ’utilità’ dell’appello vecchia maniera, confermando che addirittura un appello su tre risultava comunque (ed in qualche parte) fondato; in secondo luogo, dacché la distribuzione percentuale degli esiti del vecchio appello (uno su tre fondato; due su tre infondati, salva impugnazione per cassazione) era frut- to di un giudizio di appello trattato con pienezza e completezza di cognizione; proprio quella ora impedita dal nuovo regime. In altri termini, spinto dall’esigenza di contenere il costo degli

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indennizzi ex lege Pinto, il legislatore del 2012 ha ritenuto più importante ‘liberarsi’ degli ap- pelli (statisticamente) infondati in fatto (due su tre), anche a costo di sacrificare gli appelli (statisticamente) fondati in fatto (uno su tre). Opzione processualpolitica che – anche per chi non indossa la toga – suona quanto meno esageratamente economicistica, per non dire mo- ralmente cinica: come se, accertato che una certa terapia ha efficacia positiva soltanto nella misura del 32% dei casi, un medico fosse costretto ad astenersi dal prescriverla, soltanto per fare risparmiare il servizio sanitario seriamente indebitato.

SIMPLICIO: ma, applicando la nuova disciplina delle impugnazioni, almeno la durata com- plessiva del giudizio resterà contenuta in termini tali da escludere l’indennizzo della c.d.

legge Pinto, così salvaguardando almeno le finanze statali?

AVV. CICERO: Con la nuova disciplina della L. Pinto, apprestata contestualmente alla ri- forma delle impugnazioni, per un verso si stabilisce che il primo, il secondo ed il terzo grado dei giudizi a cognizione ordinaria devono essere definiti, rispettivamente, entro tre anni, due anni ed un anno, a pena di indennizzo; ma, per altro verso, è previsto che nessun indennizzo è dovuto se comunque l’intero giudizio è definito in modo irrevocabile entro sei anni. I nuovi conditores confidano per l’appunto nel fatto che l’immediata sostanziale abolizione dell’appello (anche nei casi in cui sia stata già emessa la decisione di prime cure) e la restri- zione dei casi in cui è consentito accedere al giudizio di legittimità comporti una sostanziale contrazione della durata complessiva del giudizio, tale da farlo concludere (impugnazioni comprese, se proposte) nel termine (ragionevole) di sei anni, secondo una delle seguenti alter- native estreme: tre anni per il giudizio di prime cure più tre anni per il nuovo appello e l’eventuale nuovo giudizio di cassazione (e qui la coerenza non fa difetto, perché sei anni rappresentano la somma dei tempi parziali massimi); ma anche sei anni per il solo giudizio di prime cure, se comunque entro tale termine si coaguli una decisione irrevocabile (e qui in- vece siamo in presenza di una contraddizione inaccettabile, giacché in tal modo si rendono irrilevanti i pur dettati termini massimi di ciascun grado, per attribuire rilevanza sanante alla loro somma). Ovviamente, questo è quel che ha sancito in causa propria lo Stato-Soggetto debitore dell’indennizzo, ma la seconda delle accennate alternative difficilmente troverà con- senso presso la Corte di Strasburgo; cui sarà agevole obiettare che, se il giudizio di prime cu- re deve concludersi al massimo in tre anni (come prevede la Corte e la stessa L. Pinto, perfino nella versione riformata), non può affermarsi impunemente che non sia dovuto alcun inden- nizzo anche se la durata del solo primo grado sia esattamente doppia: nessun legislatore può pretendere di dimostrare l’equazione X = 2X e che tre gradi siano uguali a un grado o a due gradi di giudizio. Qui si annida davvero un taglio secco, o forse un colpo d’accetta.

SIMPLICIO: Avvocato, ma al postutto lei consiglia l’appello della sentenza di prime cure?

AVV. CICERO: Caro Signor Simplicio, se nel suo caso l’errore della sentenza di primo gra- do fosse di tipo revocatorio (per esempio: per effetto di una mera svista, il giudice avesse letto che il semaforo era verde dove il testimone aveva dichiarato a verbale che era rosso), potrei confidare che il giudice di appello si sensibilizzi agevolmente e (ritenuta ammissibile l’impugnazione) annulli la decisione, decidendo in suo favore. Ma la sua causa, per altro di ingente valore economico, è assai più complessa, perché qui si tratta di interpretare una serie di clausole contrattuali e soprattutto di scrutinare una molteplicità di fatti, quali emergenti dalla complessa istruttoria, svolta (quando si dice: il caso...) in sei anni di istruttoria (prove orali e documentali, C.T.U. con molteplici integrazioni, etc.). Per cui, ancorché sia mio pre- ciso dovere professionale puntualizzare al massimo con l’appello le censure ed i vizi dedotti (come vuole il nuovo art. 342 c.p.c.), difficilmente il giudice di appello avrà modo (e tempo)

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di addentrarsi in una radicale controllo della verità processuale faticosamente proclamata in prime cure in seno ad una complessa decisione di oltre quaranta pagine, proprio perché glielo preclude la nuova disciplina dell’appello (che non avrebbe senso se non si diversificasse radi- calmente dal precedente regime dell’appello); e (perfino suo malgrado) considererà proba- bilmente più ovvio, ma anche (paradossalmente) più adeguato allo spirito del nuovo regime normativo, ‘liquidare’ il nostro appello con una succinta decisione di inammissibilità, e forse anche con una condanna aggravata alle spese: ordinanza contro cui, trattandosi di valutazioni sostanzialmente fattuali, difficilmente potremo adire con successo la Suprema Corte, mentre per la condanna (specialmente se aggravata) alle spese, la soluzione (come le ho già specifica- to) rimane allo stato oggettivamente dubbia.

Per cui è lei, ora edotto di tutti gli elementi giuridici necessari e perfino dei possibili rischi pa- trimoniali, che dovrà responsabilmente decidere; spettando a me il dovere di prodigarmi tec- nicamente al meglio per la tutela dei suoi interessi.

SIMPLICIO: Ottimo Avvocato, probabilmente in una prospettiva altrettanto economicistica di quella che ha determinato la riforma, cioè fondata esclusivamente sul ‘particulare’ econo- mico (ancorché dello Stato), dovrei rassegnarmi a subire la ingiusta sentenza resa in prime cure. Ma, come civis, intendo ribellarmi a tale ingiusta riforma, che mi toglie la possibilità di un ulteriore riesame in fatto, e perciò preferisco ‘sfidare’ il nuovo ordinamento, utilizzando quel poco di appello ‘discrezionale’ che ancora esso mi accorda; niente di socratico, ma sol- tanto residua voglia e speranza di Giustizia. Per altro, come fruitore finale del «servizio giu- stizia», ritengo che, essendo lo Stato tenuto a conciliare celeritas e iustitia, una decisione ce- lere in appello ma (soltanto per esigenze di bilancio) superficiale, siccome sommariamente probabilistica, ed insindacabile sia da aborrire più di una decisione emessa in tempi più lun- ghi, ma con pienezza di cognizione. E poi, infine, se lei considera la notevole entità della po- sta in giuoco e la durata del giudizio di primo grado (sei anni), perché non dovrei tentare l’ultima chance?

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III. SECONDO DIALOGO.

Più che di un dialogo, potrebbe essere la trascrizione di un immaginario verbale di un imma- ginario interrogatorio: quello, svoltosi in una sala del Palazzaccio romano il 15 dicembre 2013, tra il dott. Celerino Coatto, presidente di un Collegio d’appello, ed il dott. Giustino Sanzio, sostituto procuratore generale presso la Suprema Corte. Nonostante la veste formale, il confronto è, oltre che articolato, molto garbato e cooperativo, poiché entrambi gli interlocu- tori, a diverso titolo civil servants, sono 'condannati' ad interpretare la contorta riforma del 2012.

Giustino Sanzio: è stato presentato un esposto con cui le si addebita, sotto vari profili, viola- zione del dovere di diligenza nella (confezione e) sottoscrizione di un’ordinanza d’inammissibilità di un atto d’appello, previa dichiarazione di manifesta infondatezza di un’eccezione di illegittimità costituzionale avente per oggetto la riforma 2012. In particolare, l’autore dell’esposto si duole della motivazione troppo tacitiana del provvedimento, a suo av- viso davvero insoddisfacente a fronte sia della complessità della motivazione della sentenza di prime cure sia della qualificata specificità dell’appello. Il Procuratore Generale vuol vederci chiaro.

Celerino Coatto: In qualche modo me lo aspettavo, perché la riforma mette in croce proprio i giudici di secondo grado; a tal punto che qualche giudice d’appello sta rispolverando la verba- lizzazione (ai sensi dell’art. 131, 3° c.p.c.) della dissenting opinion. Mi spiego meglio. Il legi- slatore del 2012 ha diagnosticato che – ancorché «i giudici italiani .... hanno smaltito nel 2008 oltre un milione di cause in più dei loro colleghi francesi e spagnoli» (come autorevolmente riportato nell’ultima relazione del Primo Presidente della Suprema Corte, pag. 33) – i giudici delle impugnazioni ordinarie non riescono a smaltire in tempi ragionevoli l’enorme arretrato accumulatosi; e perciò è intervenuto sia per 'filtrare' gli appelli, sia per ridurre l’accesso alla Suprema Corte. Considerando che già il giudizio di legittimità presuppone un 'filtro', assegna- to alla Sesta Sezione, tenuta a decidere immediatamente nei casi di inammissibilità e di im- procedibilità, ma anche di evidenza decisoria (positiva o negativa), consegue che ora le impu- gnazioni ordinarie sono sottoposte ad un «doppio filtro» sequenziale (cioè applicato progres- sivamente alla stessa causa). Sennonché, mentre la Suprema Corte, allorché il ricorso sia ammissibile e procedibile, decide (anche nell’ipotesi di cui all’art. 360 bis, n. 1 c.p.c.) au fond su di esso (secondo il paradigma manifesta fondatezza - manifesta infondatezza), invece il 'filtro' d’appello opera in termini di ragionevole probabilità di successo o d’insuccesso: nel primo caso segue l’appello e contro la relativa sentenza è ammesso il ricorso per cassazione anche per denunciare, nei limiti segnati dal novellato art. 360 n. 5 c.p.c., vizi di motivazione, a meno che la sentenza di secondo grado abbia confermato in fatto quella appellata (principio della doppia sentenza conforme); nel secondo caso, la sentenza di primo grado diventa ricor- ribile per cassazione, con esclusione della doppia decisione conforme (in una sua variante, perché alla sentenza di prime cure si abbina qui non una sentenza di merito di secondo grado, ma un'ordinanza con prognosi negativa). Orbene, il giudizio prognostico cui è tenuto ora ob- bligatoriamente il giudice d’appello in sede di (primo) ’filtro', con i predetti incisivi effetti, gli impone una tormentata torsione logica e (perfino) professionale, perché, escluso che sia pari- ficabile sia all’operazione decisionale assegnata alla Sezione ‘filtro’ della Suprema Corte sia (a fortiori ) alla valutazione cui era abituato il giudice di secondo grado prima della riforma del 2012, tale giudizio si risolve necessariamente in una valutazione tanto spedita quanto

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sommaria dell’appello stesso, uno screening velocissimo basato sul colpo d’occhio, sulla ca- pacità di individuare repentinamente il punctum dolens della sentenza appellata.

Giustino Sanzio: ma è proprio per questo che l’appello deve essere specificamente motivato, come analiticamente prescritto non a caso proprio dalla stessa riforma; e poi in ogni caso chi impedisce al giudice d’appello di approfondire adeguatamente (in scientia et conscientia) le ragioni dell’appellante ?

Celerino Coatto: l’onere di autosufficienza e di auto evidenza imposto ora dalla riforma all’appellante è sostanzialmente utile soltanto nel caso in cui l’errore addebitato al primo giu- dice sia di carattere revocatorio o comunque ictu oculi ostensibile e diagnosticabile. Pensi in- vece ai casi (tra cui vorrà annoverare quello oggetto dell’esposto) in cui la decisione impugna- ta in fatto ed il correlativo appello abbiano per oggetto l’interpretazione di complesse clausole contrattuali o della volontà testamentaria o un appalto, per non parlare di complesse indagini peritali. Ma, infine, è l’origine e la ratio stessa della riforma a conclamare non solo l’oggettiva impotenza del giudice di secondo grado a valutare l’appello con cognizione piena, ma perfino (oserei sostenere) l’impossibilità concreta di una tale completa e satisfattoria co- gnizione. Ben vero, se il presupposto stesso della novella consiste proprio nella registrata ed incolpevole incapacità del giudice di secondo grado a far fronte agli appelli vecchia maniera;

se – come è stato autorevolmente affermato «... l’attuale sistema delle impugnazioni civili è un lusso che non possiamo permetterci» (Corriere della Sera del 25 luglio 2012); allora – deve concludersi – nel nuovo assetto ordinamentale è definitivamente scontato che il «filtro d’appello» per essere tale (non potendo che esser tale) comporta di necessità una valutazione probabilistica tanto rapida quanto a volo d’uccello; per dirla in due parole, la possibile (ma sostanzialmente inevitabile) prevalenza della celeritas sulla cognitio (e quindi sulla stessa iu- stitia, ove mai si possa convenire su un determinato standard di diligenza e di professionalità esigibile dal Giudice di secondo grado, come implicitamente postulato dalle norme sulla re- sponsabilità disciplinare dei magistrati).

Giustino Sanzio: vorrà ammettere che la sua lettura della riforma è molto ardita?

Celerino Coatto: a mio modesto avviso resta l’unica ammissibile. Non le può sfuggire che i giudici di appello hanno già programmato la decisione degli appelli ante riforma per i prossi- mi anni, sicché questo obbligatorio impegno aggiuntivo di ‘filtro’ del novum, a partire degli appelli introdotti in epoca non anteriore all’undici settembre 2012, li trova già in patologica ...

dispnea. Quanto tempo vi potranno seriamente e doverosamente dedicare, mentre devono de- cidere gli appelli introitati, senza accumulare ingenti ritardi censurabili anche in sede discipli- nare? Non è un caso che con delibera del 5 luglio 2012 il Consiglio Superiore della Magistra- tura, in seno al parere espresso sull’art. 54 del D.L. n. 83 del 2012, abbia ritenuto di temere non tanto «un utilizzo assai spregiudicato della formula legislativa della ragionevole probabi- lità», ma piuttosto «quello opposto che la riforma possa avere una limitata, se non scarsa, ap- plicazione».

Giustino Sanzio: ma il legislatore dovrà pur aver considerato l’attuale (e certamente non pro- crastinabile) carico di lavoro dei giudici di secondo grado, atteso che esso costituisce proprio il problema alla cui soluzione ha deciso di por mano?

Celerino Coatto: certamente, ma, per le cause non escluse dalla riforma, i conditores, piutto- sto che abolire l’appello, hanno preferito in qualche misura 'delegare' a questo scopo il Giudi- ce di secondo grado, lasciandogli un margine di apprezzamento, tanto ampio quanto insinda-

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bile sulle quaestiones facti. In definitiva, se si tenta una sintesi finale della riforma, deve con- venirsi che, limitatamente alle cause su diritti disponibili, essa: a) fa carico alle parti di adotta- re (ove consentito) il rito sommario, se vogliano garantirsi la chance di un effettivo appello e di un ricorso per cassazione, quest’ultimo tuttavia depotenziato dalla regola della doppia con- forme in fatto e da una limitazione di accesso; b) in caso contrario, è come se l’ordinamento avesse impartito al giudice di secondo grado la seguente 'disposizione': nei limiti delle tue scarne possibilità compromesse dall’enorme carico di lavoro (che non riesci incolpevolmente ad evadere) «fai quel che puoi» per selezionare i nuovi appelli, in modo tale da liquidare rapi- damente quelli che ti sembrano ragionevolmente destinati al probabile insuccesso. Non ci vuol molto a dedurre che, nella situazione di incolpevole collasso dei giudizi di appello, il mandato «fai quel che puoi» può trascendere (o può essere avvertito da coloro che ‘subisco- no’ l’inammissibilità) nell’altro «fai quel che vuoi»; come tale idoneo, per un verso, ad aggra- vare la dialettica (particolarmente accesa nel nostro paese, per le ragioni a tutti note) tra Av- vocatura e Magistratura e, per altro verso, ad incrementare, con il tasso di incertezza dell’ordinamento giuridico, la sfiducia nella giustizia da parte dei cives (compresi, ove sia il caso, gli operatori economici stranieri), e segnatamente di quanti, avendo promosso un giudi- zio prima della riforma, la sentono come una pregiudizievole 'sorpresa'.

Giustino Sanzio: Mi riprometto di approfondire le sue osservazioni. Ma se esse si rivelassero fondate potrebbe concludersi che, mentre l’art. 339 c.p.c. prescrive(va) una vera e propria re- gula iuris indefettibile e puntuale (il giudice di secondo grado è tenuto a decidere sull’appello more solito), invece, facendo capo ad una previsione in termini di ragionevole probabilità di successo, il nuovo art. 348 bis c.p.c. (salvi i casi espressamente eccettuati) vi apporta deroga, dettando al giudice d’appello un semplice ‘principio’, come tale defettibile e generico, o addi- rittura limitandosi a conferirgli un ’potere’, per giunta a struttura elastica (perché oggettiva- mente esercitabile soltanto nei limiti segnati dal carico di lavoro, riconosciuto intollerabile).

Ed, in teoria generale analitica, a differenza delle prescrizioni o regulae iuris (ingl. rules), che influenzano direttamente il comportamento (in questo caso processuale), tanto le norme che conferiscono poteri (ingl. power conferring rules) quanto i principi (ingl. principles) sono classificati tra le norme in senso lato, in quanto dirigono soltanto mediatamente il comporta- mento. Il che, specialmente trattandosi di materia processuale, non sarebbe davvero poco, perché l’art. 111, 1° Cost. vuole che il giusto processo sia regolato dalla legge. A proposito, sotto quale profilo il Collegio d’appello ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità sollevata dall’appellante? Inoltre, comunque sia, non può trascurarsi che la riforma è stata varata in dichiarata assonanza ai modelli inglesi e tedeschi, che certamente godono di ampio credito.

Celerino Coatto: L’appellante aveva lamentato l’incostituzionalità dell’eliminazione e del depotenziamento dell’appello vecchia maniera; incostituzionalità, che di per sé – come Lei sa - è esclusa unanimemente dalla Dottrina. Perfino a proposito dell’appello penale, con la sen- tenza n. 288 del 1997, la Corte Costituzionale ha ritenuto che la previsione dell’art. 2 del VII Protocollo addizionale della Convenzione europea (che proclama «il diritto di sottoporre ad un tribunale della giurisdizione superiore la dichiarazione di colpa o la condanna») non rende indefettibile il secondo giudizio di merito, risultando idoneo a soddisfare l’impegno pattizio il ricorso per cassazione, quale previsto nel nostro ordinamento.

Il criterio comparativistico, su cui fa perno la relazione al D.L., non è pienamente dirimente innanzi tutto sotto il profilo della scelta dei sistemi inclusi nell’ambito della comparazione:

tanto per dirne una, non si comprende perché non si faccia riferimento all’ordinamento fran- cese, che tuttavia non è così gravato dal pagamento per indennizzi come il nostro. Ma poi, specialmente quando si tratti di microcomparazione, come avviene nel nostro caso (ove si di-

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scute della disciplina dell’appello alla stregua dei sistemi adottati per la comparazione), il di- ritto comparato può assurgere a «école de vérité» soltanto se tenga conto dei differenti appro- aches e soprattutto che la struttura e la funzionalità, nell’ambito di ciascun sistema giuridico, di un istituto processuale come l’appello va ricercato non solo nell’ambito delle regole giuri- diche che lo disciplinano, ma anche nell’ambito dei fenomeni extragiuridici, vale a dire della cultura e della storia del sistema di riferimento. Orbene, illustri studiosi, tra cui R. Caponi e L.

Passanante, hanno chiarito perché nel processo civile inglese, ancora dominato dall’eredità culturale della giuria (ancorché gradualmente scomparsa dal 1854), i mezzi d’impugnazione sono considerati eccezionali; a tal segno che, mentre prima della grande riforma del 1873- 1875 la struttura orizzontale dell’organizzazione giudiziaria faceva sì che a decidere sull’impugnazione fosse un collegio di giudici di pari grado rispetto al giudice che aveva e- messo la sentenza impugnata, soltanto a partire dalla riforma del 1999 decide sull’appello un giudice superiore, ma soltanto a seguito di permission to appeal del giudice a quo, contro il cui diniego è possibile ricorrere davanti al giudice ad quem (Civile Procedure Rules, 52.4):

evoluzione storica e disposizioni normative la cui distanza siderale dal nostro sistema (nel quale è immaginabile soltanto come salottiera facezia un permesso d’appello rilasciato dallo stesso giudice autore dell’impugnanda decisione) è agevolmente misurabile. La fallacia di trasposizione rispetto al sistema tedesco è stata anch’essa dimostrata dal prof. R. Caponi: il legislatore italiano sembra che non abbia tenuto conto della riforma con cui quello tedesco nell’ottobre 2011, stemperando la «frenesia efficientistica» che aveva caratterizzato la prece- dente riforma del 2001, ha (tra l’altro) «inasprito il parametro (il difetto di prospettiva di suc- cesso deve essere 'manifesto')» e soprattutto ha introdotto contro il provvedimento negativo del giudice d’appello il reclamo dinnanzi alla Corte Suprema, qualora il valore della soccom- benza superi i 20.000 euro.

D’altronde, in entrambi gli ordinamenti sopraddetti, a differenza di quanto avviene nel nostro, già il primo grado di giudizio viene normalmente definito nel termine che la Corte di Stra- sburgo ritiene ragionevole.

Giustino Sanzio: comunque sia, non par dubbio che, a fronte dell’immane problema dell’arretrato, il legislatore del 2012 sia stato costretto ad intervenire in una gravissima ed ur- gente situazione di necessità, maturatasi nel corso di decenni.

Celerino Coatto: Non ne dubito minimamente. Il disegno dell’intervento legislativo, visto nella sua diacronica compiutezza, è abbastanza chiaro e si dipana in due fasi cronologicamen- te successive: a) da subito, con la varata riforma delle impugnazioni, bloccare, o quantomeno severamente ridurre, nuovi input o sopravvenienze davanti ai giudici delle impugnazioni, per consentire loro di dedicarsi (tendenzialmente soltanto) all’eliminazione dell’enorme arretrato accumulatosi; b) in immediata prospettiva, già allo studio, creare una task-force («Un’ipotesi è formare dei gruppi di lavoro composti da un magistrato e due avvocati», come ha dichiarato il Ministro Severino al quotidiano La Stampa il 26 agosto 2012) per smaltire tale arretrato, es- sendosi calcolato (dal Consiglio Superiore della Magistratura, nel parere già citato) che altri- menti i benefici della prima fase dell’intervento programmato diventerebbero tangibili soltan- to dopo 10 o 12 anni. Lo stesso Ministro, nella ricordata intervista, ha riconosciuto che l’efficacia di tale strategia dipende dal numero dei componenti non togati applicati alla task- force di nuova istituzione; e meritoriamente ha soggiunto che «al problema del numero dob- biamo far precedere quello della qualità».

Giustino Sanzio: I magistrati sono tenuti ad applicare puntualmente la legge ma – se posso esprimere una sintetica valutazione tanto personale quanto tecnica - mi sembra un progetto, certamente animato dalle migliori intenzioni, con molte variabili e irto di ostacoli; ancorché

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abbinato a riforme strutturali, di certo storicamente e meritoriamente innovative, qual è quella della revisione delle circoscrizioni giudiziarie.

Celerino Coatto: Condivido il suo avviso. Se – come è doveroso – si pone al centro della questione l’utente finale del servizio giustizia, non può farsi a meno di ripetere - come si leg- ge nell’ultima autorevole relazione del Primo Presidente della Suprema Corte (pag. 59) – che

«L’esplosione della domanda di giustizia è fenomeno planetario che ha in sé aspetti indub- biamente positivi, nascendo prevalentemente dalla sempre maggiore e diffusa consapevolezza di bisogni di tutela che spesso attengono ad aspetti fondamentali della vita delle persone».

Trattasi perciò di un servizio pubblico (quello dell’amministrazione della giustizia) estrema- mente qualificante, che di per sé in principio va tutelato e disciplinato con categorie interpre- tative diverse da quelle ortodossamente utilizzate dagli economisti per i beni ed i servizi pri- vati; il che di certo non esclude il ricorso ai metodi di analisi e di intervento in uso nelle gran- di organizzazioni amministrative (private o pubbliche). In questa direzione, la prima indica- zione è metodologicamente radicale. Anche se stretto nella morsa degli indennizzi ex lege Pinto (che rappresentano soltanto l’epifenomeno dell’insostenibile durata dei giudizi civili), ed anzi proprio per questo, qualunque radicale riforma sistemica dovrebbe prendere le mosse dall’analisi e dalla cura delle ragioni che hanno creato l’immane arretrato che si vuole debel- lare: non si sana la patologia se non se ne individuano innanzi tutto le cause remote, prossime ed efficienti. Posto che nessuna analisi, nazionale o sovranazionale, individua la ragione del male in un deficit produttivo dei magistrati (considerati nel loro complesso), essa va indivi- duata altrove; ed in genere va ravvisata - ed è stata riscontrata - in un deficit tanto organizzati- vo quanto culturale del nostro sistema giustizia, i cui nodi sono per altro sotto gli occhi di tut- ti, essendo stati ampiamente studiati.

Quanto al deficit organizzativo, valga un esempio per tutti: la riforma 2012 affida allo stesso giudice d’appello lo screening dei nuovi appelli, attraverso il giudizio probabilistico d’ammissibilità, così come alla Sesta Sezione civile della Suprema Corte è stato assegnato il compito di filtrare i ricorsi anche ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c. Sennonché l’esperienza dell’ordinamento spagnolo (in cui il Tribunal Supremo si avvale della collaborazione stabile del Gabinete Técnico, composto da undici magistrati e di oltre 75 letrados: letteralmente

‘letterati’ o ‘giuristi’), magistralmente descritta dal cons. A. Manna in una relazione svolta nell’aula magna della Suprema Corte il 12 aprile 2012, dimostra l’«insuperabile contraddizio- ne tra lo svolgere attività di nomofilachia e, allo stesso tempo, dover ‘ripulire’ i ruoli dalla gran massa di ricorsi più o meno seriali, irrilevanti, inammissibili o francamente infondati»; in altre parole, come d’altronde appare manifesto, le risorse dedicate alla selezione vengono co- munque sottratte all’attività decisionale già in estrema difficoltà. Dal che deriva la necessità di un’organizzazione giudiziaria che, non solo privilegi la specializzazione dei saperi giuridici (secondo l’insegnamento, anche orale, di Virgilio Andrioli), ovvio essendo che (come l’Avvocato ed il Docente) anche il Giudice che conosce funditus il diritto di famiglia non ne- cessariamente è parimenti esperto anche di espropriazioni per p.u. o di giurisdizione, ma uti- lizzi anche il giudice soltanto per le sue specifiche competenze e soltanto nel momento deci- sorio cruciale, lasciando ad altri (l’ufficio del giudice o altri uffici collettivi di supporto) com- piti preparatori o di servizio (per i quali l’attenzione in prima battuta del giudice sarebbe un vero spreco). Perciò, per restare al tema, ancor prima di aumentare (con la preannunciata task- force) il numero dei decidenti (aggiungendone di non togati, se pure di qualità), è forse il caso di ottimizzare comunque le attuali risorse personali decisionali dei togati, implementando i supporti (meramente) organizzativi (e informatici) al loro servizio; giacché, come insegna la scienza dell’organizzazione, un conto è decidere ex nihilo, altro conto è (controllare e) deci- dere sui punti davvero cruciali, già adeguatamente segnalati ed evidenziati da adeguato perso- nale (non togato).

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Sull’altro decisivo versante, quello lato sensu culturale, non ci si può sottrarre a domande im- pudicamente impietose: come ci si può attendere un efficace e celere funzionamento dell’amministrazione della Giustizia, se legalità e giustizia non sono avvertiti da tanti cives come valori fondanti del nostro ordinamento? E davvero, in tale situazione, un depotenzia- mento delle impugnazioni rafforza il senso e la speranza di Giustizia? Sono davvero questi i

‘lussi’ che dobbiamo innanzi tutto debellare? Non sarebbe il caso invece di investire econo- micamente e idealmente in quei valori? Non si corre altrimenti il rischio di un pernicioso cor- to circuito, rivelandosi infine il rimedio peggiore del male?

Giustino Sanzio: Ma tutto ciò non è idoneo ancora a risolvere in tempi brevi il problema che il legislatore ha voluto affrontare. Ne conviene?

Celerino Coatto: Sotto tale profilo, la riforma testé varata depotenzia da subito (in modo tal- volta assai critico) le impugnazioni civili; di per sé tuttavia non accelera seriamente lo smal- timento dell’arretrato mettendoci al riparo dai dovuti indennizzi, come già segnalato dallo stesso Consiglio Superiore della Magistratura. Di tal che, se ad essa non segua con successo la seconda fase dell’intero progetto (quella volta per l’appunto ad operare in concreto detto smaltimento con misure straordinarie d’intervento, necessariamente pluriennali), sarebbe cer- ta, indiscutibile e senza compenso alcuno la perdita di Verità e di Giustizia del sistema. Ma allora, non sarebbe stato forse più strategicamente efficace tentare di aggredire con urgenza tale straordinario arretrato con misure parimenti straordinarie (comunque già divisate), senza incidere da subito e così pesantemente sui mezzi d’impugnazione? E, se da essi bisognava pur cominciare, non sarebbe stato preferibile avviare una matura e franca revisione dell’art.

111, 7° Cost., come da tempo suggerito da autorevole Dottrina?

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