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Il nuovo art. 96, 3° comma c.p.c.: consigli per l’uso - Judicium

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GIULIANO SCARSELLI

Il nuovo art. 96, 3° comma c.p.c.: consigli per l’uso

“Se ci raccontassero che un magistrato, senza esser richiesto da alcuno, si è messo in viaggio alla scoperta dei torti da raddrizzare, saremmo portati a considerarlo, piuttosto che un eroe della giustizia, un maniaco pericoloso”.

CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1941, 113.

1. Vengono qui pubblicate alcune prime applicazioni del nuovo art. 96, 3° comma c.p.c., che si sono avute in un giudizio ordinario di opposizione a decreto ingiuntivo (tribunale di Prato), nel nuovo giudizio sommario ex art. 702 bis e ss. c.p.c. (tribunale di Varese), e a seguito di richiesta d’urgenza ex art. 700 c.p.c. (tribunale di Milano).

L’art. 96, 3° comma c.p.c. introduce nel processo civile una novità di un certo significato, che, se non correttamente inquadrata e interpretata, può dar luogo a provvedimenti fuorvianti1.

E la ragione è evidente, poiché si tratta di una norma che incide nei rapporti tra giudice e parti, e già non mancano incontri di studio, convegni, scritti, ed anche provvedimenti giudiziali, nei quali l’art.

96, 3° comma c.p.c. viene semplicemente considerato uno strumento con il quale reprimere il diritto di azione e di difesa quando esercitati senza sensibilità per la cosa pubblica, o per il sovraccarico dei ruoli del giudice, od ancora per il funzionamento generale della giustizia, se non financo per la ragionevole durata del processo.

Si tratta pertanto di norma insidiosa, poiché coinvolge principi che vanno oltre il tema delle spese giudiziali; e per questo bene fa la rivista a pubblicare su questo tema due diverse note.

2. Qual è la corretta interpretazione dell’art. 96, 3° comma c.p.c.?

A me sembra che il legislatore abbia inteso agevolare la condanna al risarcimento dei danni avverso la parte che abbia posto in essere una lite temeraria ma non anche voluto introdurre nel sistema un nuovo istituto, basato su altri presupposti, e finalizzato al raggiungimento di altre finalità.

In particolare, in passato, un ostacolo alla pronuncia di cui all’art. 96 c.p.c. è stata rappresentata, per la parte vittima del comportamento, dalla difficoltà di riuscire a provare il quantum del danno subito da lite temeraria, e, stante i tempi del processo e l’esiguità delle risorse, anche di poter pretendere che il tribunale, oltre a istruire i fatti relativi al merito, potesse procedere anche ad una istruttoria sui danni da lite temeraria; cosicché, alla fine, i litiganti, per buon senso e per evitare complicazioni processuali, hanno smesso di chiedere la condanna delle controparti ex art. 96 c.p.c.

Il legislatore ha inteso ovviare a questi inconvenienti, così come anche risulta dai lavori parlamentari, e ha inteso correttamente ribadire non solo l’illiceità dell’agire in mala fede o colpa

1 Per questi rilievi v. già SCARSELLI, Le modifiche in tema di spese, Foro it., 2009, V, 258.

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grave, ma anche la necessità che a detta illiceità consegua una qualche conseguenza, perché altrimenti l’illecito resta teorico, e la norma priva di forza dissuasiva.

A questo fine il legislatore ha previsto che il giudice possa procedere anche d’ufficio (“in ogni caso...anche d’ufficio”) e possa liquidare il danno anche in via equitativa (“una somma equitativamente determinata”).

Certamente, però, l’agevolazione che il nuovo 3° comma dell’art. 96 c.p.c. fornisce alla parte vittoriosa sotto questo duplice profilo non significa che le altre condizioni della norma non debbano sussistere per poter giungere alla condanna del litigante temerario, poiché chi ritenesse ciò, farebbe (come si dice) di tutta l’erba un fascio, e creerebbe un istituto che nel nostro sistema non esiste, ne’

il legislatore ha introdotto.

E così, se da una parte è vero che il giudice può oggi pronunciare anche d’ufficio e liquidare il danno anche in via equitativa, dall’altra resta parimenti vero che in tanto ciò è possibile in quanto gli altri estremi della fattispecie di cui all’art. 96 c.p.c. sussistano, ovvero: a) si sia comunque in presenza di una lite temeraria; b) vi sia un danno da ritenere esistente nell’an; c) e vi sia nesso di causalità tra il danno e la lite temeraria.

In questi termini, (salva solo la pronuncia d’ufficio), la novità è condivisibile, e non necessita di ulteriori, particolari approfondimenti.

3. Il problema, però (e senza entrare nel merito delle decisioni che si pubblicano) è che da più parti si ritiene invece possibile una diversa lettura del nuovo art. 96, 3° comma c.p.c., quale norma che attribuisce al giudice discrezionali e officiosi poteri repressivi dell’uso dell’azione e della difesa.

Si tratta di una posizione, a mio parere, non solo destituita di ogni corrispondenza con il dato testuale della legge, ma anche da definire pubblicistico-autoritaria.

Poiché, se da una parte è più che giusto reprimere il dolo, la malafede, e financo la colpa grave nel compimento delle attività processuali, dall’altra è fuori luogo, e fors’anche in contrasto con lo stesso art. 24 Cost., pretendere che il ruolo dell’avvocato nel processo sia tutt’uno con quello del giudice, e per ciò utilizzare il nuovo l’art. 96, 3° comma c.p.c., quale strumento di repressione dell’attività difensiva.

Una è infatti la malafede, altro il diritto alla difesa; uno è il giudice, altro l’avvocato.

E se il giudice, nell’interesse superiore dello Stato, deve vigilare sull’andamento del processo e sul rispetto delle sue regole, anche sotto il profilo della ragionevole durata, e deve rendere giustizia nel senso più pieno di questa parola, reprimendo ogni violazione di legge e ripristinando piena legalità alla parte che abbia subito un torto, medesimo comportamento non può essere richiesto al difensore, poiché questo non ha nel processo il dovere di realizzare l’interesse superiore dello Stato, ma solo quello individuale della parte che assiste.

Si deve ricordare, con le parole di Calamandrei, che lo Stato, con il processo civile, non celebra solo l’interesse pubblico ad una sentenza giusta, ma anche l’interesse privato ad una sentenza favorevole2, ed è con la sintesi di questi due momenti che l’ordinamento assicura il giusto equilibrio tra libertà e autorità, tra privato e pubblico, tra cittadino e Stato.

Se tutti nel processo fossero portatori del solo interesse pubblico, il sistema sarebbe autoritario e repressivo; al contrario, se nel processo si potesse lasciare alle parti piena libertà di perseguire i propri personali interessi, il processo non costituirebbe più un momento di giustizia, e si trasformerebbe in un ring, dove solo vince il più forte, o il più furbo, o il più scaltro.

2 CALAMANDREI, Troppi avvocati!, in Opere giuridiche, Napoli, 1966, II, 70.

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Il giudice deve assicurare il rispetto delle regole, e impedire che il processo civile si trasformi in un ring, ma al tempo stesso non può pensare di trovare nell’avvocato un suo simile, ne’ pensare che le parti abbiano il dovere di collaborare nella realizzazione degli interessi generali.

Le parti devono tenere un comportamento conforme alla legge e alla deontologia, secondo criteri di lealtà e probità, ma nessuno, nemmeno il giudice, e nemmeno in punto di spese o danni, può pretendere che essi tengano comportamenti in contrasto con i propri interessi (nemo tenetur edere contra se).

Questo deve essere chiaro nell’individuazione dell’ambito di applicazione dell’art. 96, 3° comma c.p.c., poiché tale norma non può proprio essere utilizzata per sanzionare comportamenti processuali che, commessi senza violazione della legge o della deontologia professionale, semplicemente sono realizzati dall’avvocato nell’interesse individuale e privato della parte che assiste, anziché in quello generale e pubblico.

4. Detto ciò, riprendendo un mio vecchio scritto, desidero allora qui ricordare quali sono le attività difensive da considerare del tutto lecite, e per questo non sanzionabili sotto il duplice profilo degli artt. 91 e 96 c.p.c., nemmeno con l’introduzione del nuovo 3° comma3.

a) In primo luogo non è sanzionabile la mera soccombenza, ovvero l’aver agito o resistito con torto, e ciò per la semplicissima ragione che, anche da un punto di vista teorico-dottrinale, il diritto di azione spetta a tutti, a prescindere dalla ragione e dal torto; ed anzi può dirsi che il diritto di azione consiste proprio nel diritto di accedere al giudice per sapere se si ha ragione o torto, con l’unico onere di affermare di aver ragione4.

E, a maggior ragione, ciò vale per il diritto alla difesa, che la parte convenuta ha indistintamente, e a prescindere dalla ragione o dal torto, avverso le pretese della parte attrice5.

3 V. infatti SCARSELLI, Le spese giudiziali civili, Milano, 1998, 243 e ss.

4 E così dalle prime elaborazioni teoriche sull’azione avutesi in Italia. V. infatti CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti (1903), ora in Saggi di diritto processuale civile (ristampa a cura di A. PROTO PISANI), Milano, 1993, I, 3 e ss.

Il punto, peraltro, è ben spiegato da PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 196-7, il quale scrive: “Poiché prima del processo il diritto sostanziale vive in uno stato di incertezza, il legislatore non può ricollegare il potere della parte di mettere in moto l’attività giurisdizionale all’esistenza del diritto sostanziale fatto valere in giudizio...di qui la necessità di ricollegare il diritto di azione alla mera possibilità di esistenza del diritto sostanziale, ad un diritto cioè meramente ipotetico, affermato”.

Per l’indipendenza del diritto di azione rispetto alla sussistenza nel merito del diritto azionato v. ancor oggi l’eccellente voce di SATTA, Azione in generale, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1959, IV, 785.

5 L’impossibilità di punire chi ha torto risulta anche dalla assoluta relatività che in molti processi vi è tra torto e ragione.

Ad esempio: alcune volte una parte vince in primo grado, ma poi perde nei gradi successivi; altre volte una parte ha ragione, e tuttavia resta soccombente per motivi processuali; altre volte ancora una parte ha ragione ma non riesce a provarla, oppure a dimostrarla, oppure il giudice non la rileva (per questa analisi v. CALAMANDREI, Il processo come giuoco, in Studi sul processo civile, Padova, 1957, VI, 45 e ss.).

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b) In secondo luogo non potrà mai sanzionarsi la mera argomentazione giuridica, e ciò non solo quando questa assuma caratteristiche del tutto normali, ma anche quando possa apparire particolare, od originale, se non addirittura infondata, in quanto, salvo il dovere di competenza e il divieto di accettare incarichi che non sia in grado di svolgere, l’avvocato ha il diritto-dovere di dedurre dai fatti di causa ogni conseguenza giuridica possibile che le sembri la preferibile nell’interesse della parte che assiste6.

c) In terzo luogo non costituisce fatto sanzionabile la facoltà che il difensore ha di sfruttare l’errore dell’avversario, soprattutto se si considera che gli errori processuali sono normalmente rilevabili d’ufficio, e se si considera che il difensore, tra il dovere di assistere al meglio il proprio cliente e quello di rispettare il collega avversario, deve dare prevalenza agli interessi del cliente7.

d) In quarto luogo, e soprattutto, la parte e il suo difensore non hanno nel processo alcun dovere di completezza.

Ove si postulasse un simile dovere, si dovrebbe sostenere che la parte ha il dovere di dire al giudice tutto quanto è di sua conoscenza, senza omettere niente, e con il preciso obbligo di narrare anche le circostanze sfavorevoli.

Ma un tale assunto non è prospettabile, e contrasterebbe con lo stesso concetto di parte, poiché a chi è parte non può chiedersi di essere completo, e imporgli un tale dovere sarebbe snaturale la sua funzione e il suo ruolo8.

Nel nostro sistema le dichiarazioni dei contendenti hanno valore solo se di carattere confessorio, mentre non ne hanno alcuno se queste giovano alla parte che rende la dichiarazione.

In un quadro di questo genere è impossibile imporre alla parte un obbligo di completezza, atteso che altrimenti “la parte avrebbe il dovere (di essere completa e) di dire la verità se questa le nuoce; ma non il diritto di essere creduta quando questa le giova”9.

e) Per le stesse ragioni non esiste nemmeno, nel nostro sistema, un dovere di verità10, che la parte ha solo quando richiede al giudice un provvedimento inaudita altera parte, poiché altrimenti la verità, nel processo, scaturisce dal contraddittorio11.

In un contesto di questo genere, pertanto, stante la normale incertezza sull’esistenza o meno di un diritto prima del processo, punire chi risulta soccombente non sembra proprio possibile.

6 Così già SCARSELLI, Le spese giudiziali civili, cit., 253-5.

7 V. SCARSELLI, Le spese giudiziali civili, cit., 255.

8 Così CALAMANDREI, in Parere della Università di Firenze al Ministero della Giustizia sul Progetto preliminare del cod.proc. civ., Firenze, 1937, 98-103.

9 Così ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1957, I, 244., riportando un passo della relazione del Calamandrei.

10 Sull’obbligo di dire la verità nel processo civile v. le diverse posizione di CHIARLONI, Processo civile e verità, Quest.

giust., 1987, 504; SCARSELLI, Lealtà e probità nel compimento degli atti processuali, Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 91;

CIPRIANI, L’avvocato e la verità, in il processo civile nello stato democratico, Napoli, 2006, 136.

11 V. infatti CARNELUTTI, La prova civile, Roma, 1915, 31; e CALAMANDREI, Verità e verosimiglianza nel processo civile, in Opere giuridiche, cit., 1972, V, 615.

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Ed infatti, alla possibilità di inserire un dovere di verità nel processo civile pensarono ben tre progetti del codice di procedura civile: il progetto Chiovenda12, il progetto Carnelutti13, ed infine il progetto preliminare Solmi14.

Questa impostazione fu sottoposta a severe critiche dalla dottrina, dalla giurisprudenza, e perfino dalle Università che intervennero sull’argomento, tanto che fu abbandonata dallo stesso progetto definitivo Solmi, e omessa del tutto con l’approvazione del nuovo codice del ’40, atteso che l’art.

88 c.p.c. si limita a prevedere un dovere di lealtà e probità, ma non anche uno di dire la verità15. E questo indirizzo fu riaffermato, poco prima dell’emanazione del nuovo codice, da uno scritto ancor oggi di fondamentale importanza del Calogero16, il quale non solo escluse che le parti abbiano il dovere di dire la verità, ma addirittura coordinò l’assenza di un tale obbligo con il principio dispositivo.

Con una immagine rimasta famosa Calogero pose la distinzione tra obbligo di dire la verità e il dovere di agire in giudizio con lealtà e probità “in ciò che il primo starebbe al secondo come il divieto di barare sta al diritto di non mostrare le carte”17.

f) Addirittura Calamandrei, dopo aver sottolineato le differenze tra malafede processuale e diritto alla difesa18, non escluse tra gli atti difensivi leciti nemmeno il c.d. negozio indiretto, che può immaginarsi anche nel diritto processuale, e che si ha quando nel processo una parte pone in essere un atto lecito e previsto dal sistema, e tuttavia realizzato non tanto per gli effetti processuali che esso produce per legge, quanto per le prevedibili reazioni che esso provocherà nell’atteggiamento degli altri soggetti del processo, e in primo luogo la controparte e il giudice.

Per Calamandrei, l’uso indiretto degli atti processuali, seppur in taluni casi illecito, non può considerarsi sempre e senz’altro tale, ed anzi è questa la schermaglia tattica delle parti, nella quale

“gli articoli del codice di procedura civile possono essere adoperati dai contendenti come pedine di una scacchiera”19.

Il nuovo art. 96. 3° comma c.p.c. lascia invariato tutto ciò, e certamente non è, ne’ può essere, una disposizione per reprimere, o limitare, rispetto al passato, l’attività difensiva, o immaginare in capo all’avvocato doveri e rigori tipici della figura del giudice.

12 CHIOVENDA, Progetto di riforma del procedimento civile, in Saggi di diritto processuale civile, cit., II, 121.

13 CARNELUTTI, Progetto del codice di procedura civile, Padova, 1926, 15.

14 Vedilo in ANDRIOLI, Commento, cit., I, 243.

15 Sulla circostanza che nemmeno il fascismo, seppur avesse gradito, riuscì ad inserire nel processo l’obbligo di dire la verità, rinvio alle molte opere di Franco Cipriani, cui una sintesi può trovarsi in CIPRIANI, Codice di procedura civile, voce del Il diritto, Enc. giur. del sole 24 ore, Milano, 2007, III, 226-7.

16 CALOGERO, Probità, lealtà, veridicità nel processo civile, Riv. dir. proc., 1939, I, 128.

17 CALOGERO, op. cit., 134. Sul punto v. anche ANDRIOLI, Commento, cit., I, 245.

18 CALAMANDREI, Il processo come giuoco, cit., 45 e ss.

19 CALAMANDREI, Il processo come giuoco, cit., 53.

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5. L’orientamento che vede nell’art. 96, 3° comma c.p.c. uno strumento con il quale reprimere i comportamenti difensivi non in linea con il giusto processo ritiene poi che la nuova norma non abbia ad oggetto un illecito civile bensì un illecito a rilevanza pubblica, con la conseguenza che la condanna di cui al nuovo art. 96, 3° comma c.p.c. non avrebbe ad oggetto un risarcimento del danno, bensì proprio una pena.

Ma si tratta di un dato che non emerge affatto dalla nuova disposizione, ed anzi solo denota in chi lo manifesta una visione autoritaria del processo civile.

Ora, non v’è dubbio che agire con dolo o colpa grave costituisca fatto illecito, ma questo illecito è commesso contro la controparte e non contro lo Stato, e costituisce illecito civile, non illecito amministrativo.

Se il legislatore (peraltro in contrasto con la storia e la tradizione della lite temeraria) avesse davvero inteso introdurre un nuovo illecito, con diversi presupposti, e a tutela della cosa pubblica e non della controparte, avrebbe dovuto predicare in modo chiaro ed espresso una cosa del genere.

Ma poiché il nuovo 3° comma dell’art. 96 c.p.c. non dice niente di tutto ciò, e non delinea i presupposti (o, se si vuole, gli elementi costitutivi della fattispecie) in forza dei quali il giudice può, anche d’ufficio, condannare una parte ad una somma equitativamente determinata, va da sé che i presupposti non possono che essere quelli della rubrica della disposizione, ovvero quelli della responsabilità aggravata, in una lettura che coordini i primi due comma della norma al terzo.

Peraltro, ove il legislatore avesse davvero pensato ad una pena o ad una sanzione non civile per l’uso improprio dello strumento processuale, avrebbe dovuto assegnare la somma di condanna alle casse dello Stato, e non alla controparte.

Al contrario, aver riconosciuto detta somma alla controparte e non allo Stato, significa parimenti aver attribuito ad essa funzione di ristoro del danno subito; e dunque significa altresì, tutt’assieme, che l’illecito è civile, e che parte offesa dal comportamento illegittimo è il privato.

Il giudice, allora, quando decide di comminare la condanna di cui all’art. 96, 3° comma c.p.c., non può, sulla sola constatazione dell’illecito, emanare la condanna, poiché questo automatismo vi è dinanzi all’illecito penale o a quello amministrativo, ma non a quello civile.

Se l’illecito è civile, presupposto della condanna è la sussistenza di un danno provato almeno nell’an, e la verifica che detto danno abbia subito la controparte, e non lo Stato.

Con la conseguenza che il provvedimento di condanna ex art. 96, 3° comma c.p.c. motivato sull’interesse pubblico ad una giustizia funzionale, o all’interesse che il ruolo del magistrato non venga inutilmente aggravato, o al nocumento che ogni causa può produrre ai tempi di definizione degli altri, ecc...costituisce un fuor d’opera, perché si tratta di una logica conforme all’illecito amministrativo, non a quello civile.

L’illecito civile (forse non è inutile ricordarlo) presuppone sempre un danno specifico e differenziato del privato, e non della collettività genericamente intesa, e presuppone altresì un nesso di causalità tra la condotta illecita e il danno.

6. Infine, l’orientamento che vede nell’art. 96, 3° comma c.p.c. il nuovo grimaldello di repressione dei comportamenti difensivi non in linea con il giusto processo tende altresì a rallegrarsi della scelta del legislatore di aver previsto che il provvedimento possa esser dato d’ufficio.

Io trovo questa tendenza preoccupante, poiché, come è stato autorevolmente osservato, il processo civile non rappresenta per il giudice “un viaggio alla scoperta dei torti da raddrizzare”20 ma solo

20 CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1941, 113.

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momento nel quale rendere giustizia a chi la chiede (principio della domanda), e nei limiti in cui viene chiesta (principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato).

E’ opinione diffusa che la pronuncia d’ufficio sia in contrasto con i principi costituzionali, poiché il giudice, in ossequio agli artt. 24 e 111 Cost., può pronunciare solo su istanza di parte, nel rispetto del principio della domanda e di terzietà21. Ed è parimenti opinione diffusa che nemmeno la rilevanza pubblica della questione da decidere legittima la pronuncia d’ufficio, poiché in quei casi il sistema deve attribuire l’azione al pubblico ministero22, e non già consentire al giudice di rompere quella necessaria dialettica tra chi pone una questione (principio della domanda) e chi è chiamato a deciderla (funzione giurisdizionale)23.

In questo ottica si tenga conto che ormai sono pochissime le ipotesi nelle quali è ancora consentito al giudice di procedere d’ufficio, e solo a titolo di esempio si pensi alle recenti modifiche della legge fallimentare, che, modificando gli artt. 6, 7 e 162 l. fall. ha provveduto a sopprimere ogni possibilità per il giudice di dichiarare d’ufficio il fallimento24.

Il nuovo 3° comma dell’art. 96 c.p.c. va in controtendenza, e introduce una nuova pronuncia d’ufficio25. E a niente serve rilevare che in materia di spese il giudice ha sempre provveduto d’ufficio, perché la condanna di cui all’art. 96, 3° comma c.p.c. non ha ad oggetto le spese del giudizio, bensì ha ad oggetto un risarcimento del danno.

Anche i giudici che non ritengano, in forza di una interpretazione costituzionalmente orientata di questa nuova norma, semplicemente di non provvedere se non a domanda, o non ritengano di dover rimettere la questione alla Corte costituzionale, dovrebbero tuttavia avere sufficiente sensibilità per comprendere che la pronuncia d’ufficio è qualcosa che contrasta con i principi del nostro processo, e che rompe il rapporto che deve darsi tra parti e giudice.

7. In conclusione ricordo anche che chi perde paga le spese (art. 91 c.p.c.) non perché debba essere punito, ma solo perché il processo deve dare a chi ha ragione “praticamente tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire”26, cosicché, appunto, “tutto ciò che fu necessario al riconoscimento del diritto è concorso a diminuirlo e deve essere reintegrato al subbietto del diritto stesso, in modo che questo non soffra detrimento dal giudizio”27.

Parimenti ricordo che il giudice, fuori dei casi di cui all’art. 116, 2° comma c.p.c., non è tenuto a dare giudizi morali, ma solo giuridici, cosicché anche l’art. 96, 3° comma c.p.c., in tanto può essere

21 Per tutti v. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, cit., 188.

22 V. sul punto SCARSELLI, Terzietà del giudice e processo civile, Foro it., 1996, I, 3616.

23 CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, cit., 102, per il quale il principio della domanda consente di contrapporre “la funzione di chiedere e quella di rispondere, di proporre un problema e di risolverlo, di denunciare un torto e di ripararlo”.

24 SCARSELLI, Terzietà del giudice e procedure fallimentari, Foro it., 1997, I, 2002

25 Per una critica a questa scelta v. ancora SCARSELLI, Le modifiche in tema di spese, cit., 258.

26 CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1932, I, 41.

27 Così ancora CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, Roma, 1935, 157.

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www.judicium.it applicato, in quanto la parte che lo subisce abbia commesso un illecito, che si ha solo in presenza di lite temeraria.

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