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Riparazione e pena. Profili giuridici e pedagogici di una rinnovata concezione della pena

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INDICE SOMMARIO

Presentazione pag. 1

CAPITOLO I

L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA PENALE

1.1 LA LEGISLAZIONE PENALE ITALIANA: EXCURSUS STORICO pag. 5

1.2 L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI PENA pag. 8

1.3 LE TEORIE SULLA FUNZIONE DELLA PENA pag. 14

1.3.1 Teoria della retribuzione pag. 16

1.3.2 Teoria dell’emenda pag. 17

1.3.3 Teoria della prevenzione pag. 17

1.4 LA PENA SECONDO LA COSTITUZIONE pag. 23

1.4.1 La riserva di legge pag. 26

1.4.2 La determinatezza-tassatività della fattispecie penale pag. 26 1.4.3 La irretroattività della legge penale pag. 26 1.5 LA PENA NEL DIRITTO VIGENTE pag. 27

1.6 L’AFFERMAZIONE DEL DIRITTO PENITENZIARIO pag. 31

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CAPITOLO II

RIEDUCAZIONE E TRATTAMENTO

2.1L’AREA EDUCATIVA NEGLI ISTITUTI PENITENZIARI pag. 40 2.2 GLI ELEMENTI DEL TRATTAMENTO pag. 47

2.2.1 L’istruzione pag. 50

2.2.2 Le attività culturali, ricreative e sportive pag. 51

2.2.3 La libertà di religione pag. 52

2.2.4 I permessi pag. 53

2.2.5 Le licenze pag. 54

2.2.6 Il lavoro pag. 55

2.2.7 La liberazione anticipata pag. 59

2.2.8 La remissione del debito pag. 61

2.2.9 Il regime disciplinare pag. 62

2.3 IL TRATTAMENTO: UN TEMA APERTO pag. 64

2.4 TRA LA COLPA E LA PUNIZIONE pag. 74

2.5 LA NUOVA CULTURA SULL’EDUCAZIONE pag. 83

CAPITOLO III

LE MISURE ALTERNATIVE ALLA PENA DETENTIVA

3.1 LE MISURE ALTERNATIVE pag. 95

3.2 L’AREA PENITENZIARIA ESTERNA pag. 99

3.2.1 L’affidamento in prova al servizio sociale pag. 101 3.2.2 L’affidamento in prova in casi particolari pag. 105 3.2.3 La detenzione domiciliare pag.107 3.2.4 Il regime di semilibertà pag.109 3.3 IL PROCEDIMENTO DI SORVEGLIANZA pag. 113 3.4 I CENTRI DI SERVIZIO SOCIALE pag. 114

3.5 I SISTEMI DIFFERENZIATI pag. 117

3.6 LE PROSPETTIVE DEL SISTEMA SANZIONATORIO pag. 120

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CAPITOLO IV

LA VITTIMA DEL REATO

4.1 IL SOGGETTO PASSIVO DEL REATO pag. 123

4.2 LA RILEVANZA DEL SOGGETTO PASSIVO pag. 126

4.3 LA DIMENSIONE DELL’OFFESA pag. 130

4.4 LA RILEVANZA GIURIDICO-PENALE DEL SOGGETTO PASSIVO pag. 132

4.5 LA VITTIMOLOGIA pag. 134

4.5.1 L’interazione tra vittima e reo pag. 134 4.5.2 Le predisposizioni vittimogene pag. 135 4.5.3 Le vittime fungibili e le vittime infungibili pag. 136 4.5.4 I postulati della vittimologia pag. 137

4.5.5 L’induzione criminale pag.138

4.6 LE VITTIME DI REATO pag. 138

4.6.1 L’esperienza olandese:

il Verenging Landelijke Organisatie Slachtofferhulp pag. 141 4.6.2 L’esperienza britannica pag. 142 4.7 LE OBBLIGAZIONI CIVILI NASCENTI DAL REATO pag. 143 4.7.1 Le obbligazioni verso la vittima del reato pag. 144

CAPITOLO V

LA GIUSTIZIA RIPARATIVA

5.1 LA MEDIAZIONE ED IL DIRITTO pag. 149

5.2 I PROFILI COMPARATISTICI DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA pag. 154 5.2.1 La nozione orientata sulla vittima del reato pag. 154 5.2.2 La nozione orientata sulla comunità pag. 155 5.2.3 La nozione orientata sui contenuti e sulle modalità della riparazione pag. 156

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5.3.1 Il riconoscimento della vittima pag. 164 5.3.2 La riparazione del danno nella sua misura globale pag. 166 5.3.3 L’autoresponsabilizzazione del reo pag. 167 5.3.4 Il coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione pag. 168 5.3.5 L’orientamento delle condotte attraverso il rafforzamento

degli standards morali collettivi pag. 169 5.3.6 Il contenimento del senso di allarme sociale pag. 169 5.4 LE ORIGINI STORICHE DELL’IDEA DI RIPARAZIONE pag. 170

5.5 LA COMPETENZA PENALE DEL GIUDICE DI PACE pag. 173

5.6 TECNICHE E STRUMENTI DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA pag. 181 5.7 I MODELLI DI INTERVENTO DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA pag.

186

5.7.1 I programmi di riconciliazione autore-vittima e la mediazione pag. 187 5.7.2 La Neighbourhood justice pag. 192 5.7.3 Il Family Group Conferencing (FGC) pag. 193 5.7.4 I “consigli commisurativi” ed i “resoconti di vittimizzazione” pag. 195 5.8 LA MEDIAZIONE COME PROCESSO DIALETTICO

NELLA COMPLESSITA’ SOCIALE pag. 196

Conclusione pag. 205

Bibliografia pag. 209

Ringraziamenti pag. 217

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PRESENTAZIONE

La giustizia riparativa si offre, oggi, quale nuova sfida del diritto penale e del diritto penitenziario in particolare, dal momento che proprio quest’ultimo si pone come luogo deputato alla punizione e all’espiazione: un purgatorio terreno che attraverso il castigo più severo, la privazione della libertà personale, è in grado di condurre, forse, ad una probabile redenzione.

Per chi ha occasione di vivere il carcere come operatore, per un periodo di tempo più o meno lungo, si profila l’idea circa le concrete e reali possibilità che una persona detenuta dispone per un rientro a pieno titolo in società, dopo aver saldato il debito con la giustizia.

Un interrogativo, questo, che poggia su un bagaglio culturale e morale poco consono alla realtà vigente. La prassi, infatti, ben si discosta dal teorico sapere divulgato dalla letteratura, che propone paesaggi che contrastano fortemente con gli archetipi originali e tangibili.

L’esperienza, ma soprattutto una discussione con un gruppo di persone ristrette, mi ha fatto riflettere sul valore ed i possibili riscontri che si possono avere attraverso l’attività riparativa.

Il contatto con la vittima del reato, che il più delle volte rimane nell’ombra, si rende un passo necessario per rivolgere, innanzi tutto, delle scuse formali che non si esauriscono nella richiesta di un perdono ma hanno un valore più profondo, radicato nella presa di coscienza circa l’entità del danno causato attraverso la condotta illecita.

Può essere considerato questo il primo passo di una mediazione che, al di là delle modalità operative e degli strumenti che la caratterizzano, si origina dalla volontà del reo, il quale, dopo il percorso di revisione sulle modalità poste in essere attraverso il reato, rivisita in chiave critica l’azione delittuosa cagione del danno.

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E’ necessario, innanzi tutto, prendere atto dell’evoluzione che ha caratterizzato il sistema penale italiano, con il conseguente passaggio da una pena che ha il carattere del supplizio ad una pena rieducativa, in adempimento all’art. 27 della Costituzione.

Una riflessione, questa, che consente di capire come il trapasso da un paradigma retributivo ad una concezione che considera il reo quale persona in grado di ristabilire il patto infranto con la società possa giustificare una giustizia volta alla riparazione, una giustizia che punisce ma al contempo cerca di ripristinare la coesione sociale.

Da tre secoli a questa parte, infatti, molto si è modificato nel sistema penale:

definizione dei reati, gerarchia della loro gravità, margini di indulgenza, modalità dell’esecuzione penale e applicazione dei benefici.

Diversi modelli di applicazione della Giustizia si sono succeduti, di volta in volta, sotto l’influenza degli orientamenti filosofici, politici e di ricerca.

Il carattere deterrente e strettamente afflittivo del modello retributivo ha passato il testimone ad una modalità la cui attenzione si focalizzava sul reo e sul suo possibile reinserimento nella società.

Il percorso dell’attuale risposta sanzionatoria ha conosciuto una notevole umanizzazione, rendendo l’esecuzione penale conforme ai bisogni ed alle esigenze del condannato; risposte meno afflittive, dunque, ed un trattamento che consente al soggetto di coltivare il proprio futuro su un terreno più fertile.

Il carcere sembra, per il momento, un’inevitabile risposta, lo strumento in grado di contenere ed arginare la criminalità.

Le varie leggi di riforma dell’Ordinamento Penitenziario hanno notevolmente ampliato le risposte alternative alla detenzione, consentendo al soggetto di intraprendere un percorso di reinserimento sociale in modo graduale.

Tra queste, quella che sembra rispondere in modo adeguato alle esigenze della collettività, da un lato, e a quelle del reo, dall’altro, è l’istituto dell’affidamento in prova ai servizi sociali, disciplinato dall’art. 47 O.P. Il 7° comma del predetto articolo, infatti, annovera, tra i doveri dell’affidato, l’adoperarsi in favore della

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vittima del suo reato, se e quando possibile, per tentare di riparare il danno cagionato mediante l’azione delittuosa, non circoscrivendolo strettamente ad un risarcimento economico ma riversandosi in un contesto più ampio di risarcimento morale.

Accanto a questo modello riabilitativo si è andata lentamente accostando una nuova forma di giustizia (la cui effettività non rientra ancora a pieno titolo nel panorama italiano), un paradigma alternativo che non implica la rinuncia alla giustizia penale ma richiede un accordo con quest’ultima da attuarsi attraverso la regolamentazione dei circuiti di attivazione della mediazione.

La nascita della Giustizia Riparativa è stata individuata nella crisi dei modelli retributivo e riabilitativo e nell’esigenza di elevare alla sua misura reale il ruolo della vittima, spesso relegata ad assumere un ruolo del tutto marginale.

La mediazione, considerata lo strumento attraverso cui si esplica l’attività riparativa, prevede un incontro diretto tra la vittima e l’autore di reato, la cui finalità non è quella esclusiva del risarcimento in senso economico o materiale bensì quella di prediligere gli aspetti comunicativo-relazionali fra le parti coinvolte nel reato per pervenire ad una soluzione pacifica del conflitto.

Affinché l’attività mediatoria possa concludersi in maniera soddisfacente, è necessaria l’adozione di una mentalità comune volta al recupero sociale del condannato.

Solo il risveglio della coscienza e la consapevolezza del significato degli atti, seppur minimi, compiuti a danno degli altri, consente a tutti ed a ciascuno di capire quali sono le ragioni dell’odio, della rabbia e della violenza.

La modernità, con i suoi innumerevoli progressi e le sue sagomate conquiste nei vari campi del sapere, deve sì garantire un livello adeguato di sicurezza ma deve, al contempo, restituire alla società, individui vivi e coscienti del fatto che “solo un velo sottile separa noi tutti da chi è rinchiuso in carcere”1.

1 KIRAN BEDI, La coscienza di sé. Le carceri trasformate. Il crollo della recidiva, Giuffrè Editore,

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Un imperativo etico e morale che apre una sfida soprattutto con se stessi, nel tentativo di riconoscersi tutti, nessuno escluso, responsabili di un pezzetto del cammino della società.

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CAPITOLO I

L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA PENALE

SOMMARIO: 1.1 La legislazione penale italiana: excursus storico. – 1.2 L’evoluzione del concetto di pena. - 1.3 Le teorie sulla funzione della pena. – 1.3.1 La teoria della retribuzione. – 1.3.2 La teoria dell’emenda. – 1.3.3 La teoria della prevenzione. –

1.4 La pena secondo la Costituzione. - 1.4.1 La riserva di legge. – 1.4.2 La determinatezza-tassatività della fattispecie penale. - 1.4.3 La irretroattività della legge penale. – 1.5 La pena nel diritto vigente. – 1.6 L’affermazione del diritto penitenziario.

1.1 La legislazione penale italiana: excursus storico2

Convenzionalmente la nascita della moderna scienza penale si riallaccia all’irrompere del pensiero illuministico, un movimento di rinnovamento politico e sociale che alla fine del XVIII secolo si verificò in Europa, in reazione all’arbitrario esercizio del potere punitivo dell’Ancien Regime, regolato dall’assolutismo monarchico.

In questo scenario, con chiara coscienza critica ed in termini razionali, si muovono i primi passi in relazione al problema del jus puniendi, del suo fondamento, dei suoi limiti, delle sue forme e dei suoi mezzi d’attuazione.

La deplorevole condizione in cui si muoveva l’amministrazione della giustizia motivò una più feconda riorganizzazione del sistema giuridico.

2 FLORA-TONINI, Diritto penale per operatori sociali, Giuffrè, 2002, volume I-Profili generali su reato, autore e sanzioni, pag. XI-XVI; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, Giuffrè, 2003, pag. 21 ss.; MANTOVANI, Principi di diritto penale, Cedam, 2002, pag. 19 ss.; EUSEBI, La pena in

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Il movimento riformista puntava, essenzialmente, all’eliminazione degli abusi della tirannica “ragion di Stato” e all’affermazione dei diritti della persona.

I principi politici sostenuti con la Rivoluzione Francese avevano già trovato espressione nell’opera di Cesare Beccaria (1738-1794), al quale va il merito di aver raccolto le aspirazioni dei tempi nuovi, esprimendo, in modo essenziale ed organico, la necessità di un profondo rinnovamento e ponendo le basi di un programma di riforma nel libro “Dei delitti e delle pene”, uno dei più letti e discussi del secolo.

Tale opera si fece largo in quasi tutta Europa, favorendo un eccezionale momento d’incontro fra le nuove idee illuministe e la politica riformatrice.

Con la dominazione francese vennero estesi a gran parte d’Italia i codici penali francesi del 1791 e 1795 e, successivamente, il codice napoleonico (1810).

La Restaurazione conobbe lo sviluppo dell’opera di codificazione. L’Italia vide così fiorire numerosi codici penali (i c.d. codici preunitari) nei diversi Stati:

 la Legislazione Criminale nel Granducato di Toscana di Leopoldo I nel 1786 (il c.d. Codice Leopoldino) ed il c.p. del 1853 di Leopoldo II

 nel regno di Sardegna il c.p. del 1839 di Carlo Alberto, sostituito nel 1859 da quello di Vittorio Emanuele II

 l’estensione, nel Regno Lombardo-Veneto, del severo Codice Austriaco del 1803 e poi del 1852

 il Codice di Ferdinando I (1819) nel Regno delle Due Sicilie

 il Regolamento sui delitti e sulle pene del 1832 di Gregorio XVI negli Stati Pontifici

 il c.p. del 1820 di Maria Luigia nel Ducato di Parma

 il c.p. del 1835 di Francesco IV ed il Codice Criminale e di Procedura Criminale del 1855 di Francesco V

Durante il processo di Unificazione italiana, il c.p. sardo venne esteso a tutta l’Italia con qualche modifica per l’ex Regno delle Due Sicilie e con esclusione della Toscana.

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La filosofia illuminista ha consegnato all’età moderna un’eredità in qualche misura duplice: da un lato un certo insieme di suoi principi ha contribuito alla fondazione del liberalismo moderno, dall’altro la profonda sensibilità per l’uguaglianza, l’aspirazione ad una palingenesi radicale della società, il disegno di uno Stato forte e accentrato, la diffidenza per l’istituto della rappresentanza, hanno avuto una cospicua influenza nei secoli successivi.

Una spiccata volontà di giudicare il passato ed il presente ed una forte tensione progettuale per il futuro, caratterizzano dunque l’Illuminismo. Metro e strumento ne è la ragione, che assume così una spiccata valenza critica e normativa; critica perché è di fronte al “tribunale della ragione” che filosofie, istituzioni, dogmi e tradizioni devono presentarsi affinché ne siano giudicate la legittimità, la fondatezza e l’utilità; normativa perché solo alla ragione si affida il compito ed il diritto di prescrivere le leggi ed i criteri in base ai quali si deve regolare e indirizzare la vita dell’uomo.

Il periodo dell’Illuminismo ed i principi riconducibili all’insegnamento di Beccaria segnarono, per la scienza penalistica italiana, l’inizio di un nuovo sviluppo assai rigoglioso.

Completata l’Unificazione, iniziarono i lavori per dare al Paese una nuova legislazione penale.

Alla Scuola Classica ed al carattere etico-retributivo della pena, dopo la realizzazione dell’Unità italiana, si delineò, nel nostro Paese, un movimento determinista e innovatore, contrapposto al razionalismo illuministico. Portavoce di questa corrente è la Scuola Positiva, il cui iniziatore fu il medico Cesare Lombroso, a cui si deve il merito di aver spostato l’accento dallo studio del reato allo studio del reo.

Tra i più significativi esponenti, vanno menzionati Ferri (autore di un progetto di c.p. del 1921, il c.d. Progetto Ferri che per le vivaci opposizioni non trovò realizzazione), Garofalo e Grispigni.

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A mediare l’area di separazione ed a placare le polemiche e le intolleranze contro gli opposti dogmatismi delle due correnti dottrinarie, si pone la Terza Scuola (o Scuola Eclettica)

Proprio ai dettami della Terza Scuola si ispira il Codice Penale del 1930, principale fonte del diritto penale vigente.

1.2 L’evoluzione del concetto di pena 3

La pena è in senso generale, giuridico e sociale il mezzo di cui si serve l’autorità per reprimere l’attività dell’individuo contraria agli interessi comunitari e consiste sostanzialmente nella privazione o diminuzione di un bene individuale (vita, libertà, patrimonio).

In Italia il principale complesso di norme giuridiche penali è costituito dal Codice Penale pubblicato con Regio Decreto 19 ottobre 1930 n. 1398, entrato in vigore il 1 luglio 1931 e comunemente denominato “ codice Rocco” dal nome del Guardasigilli che lo propose.

La giustizia penale costituisce, da sempre, il tentativo di combattere il male, che ha fondamento in una condotta dell’uomo, attraverso il castigo, cioè contrapponendo al male un altro male in qualche misura simmetrico rispetto a quello cagionato dal delitto. E’ l’equilibrio contenuto nella legge del Taglione che non è propriamente una legge di vendetta ma di giustizia, una legge dalla cui inflessibile applicazione ci si attende un effetto positivo di prevenzione e di educazione sociale.4

La legge è considerata alla stregua di un insieme di imperativi che dovrebbero fungere da regolatori della condotta umana. Si è tentato di sostenere che esiste una differenza sostanziale tra gli imperativi etici e gli obblighi giuridici, ma la differenza sta solo nel tipo di pena comminata e nel suo esecutore materiale. In

3 EUSEBI, La pena in crisi: il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, Morcelliana, 1990.

4 CICALA, Intervento al 33° Convegno Nazionale “Giustizia e Solidarietà” del Coordinamento Enti ed Associazioni di Volontariato Penitenziario-SEAC, Roma, 15 settembre 2000, pag.1.

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un caso si tratta di Dio o di un suo rappresentante, nell’altro di un giudice, sacerdote del potere terreno.5

Nella Genesi l’uomo incomincia la propria storia con una colpa. Il seguito sarà il tentativo di ripararvi, per tornare a stabilire il rapporto originale con il Padre. Dio stesso dà le leggi per non ricadere nel peccato e in questo modo indica come peccare. La proibizione rende attraente la trasgressione : il peccato diventa desiderio di peccare.6

Secondo Sant’Agostino (354-430), tutta la vita dei mortali è stata segnata dalla tentazione.

La costitutiva peccaminosità dell’essere umano ed il conseguente cattivo uso del libero arbitrio hanno viziato ed irretito la natura seminale dalla quale proviene l’uomo.

Fin dall’origine del mondo, infatti, la natura dell’umanità è stata deformata, assumendo l’appellativo di “massa damnationis”.7

La determinazione filosofica della “pena” implica il chiarimento di due questioni connesse: il fondamento del diritto di punire e lo scopo della pena. Argomenti fondamentali che implicano i più ardui problemi religiosi, etici e filosofico- giuridici rendendo questo tema fra i più dibattuti.

Come parlare di pena senza intendere la responsabilità morale o la libertà? Come fondarla senza postulare una potestà d’imperio, una sovranità e chiedersi in ultimo la ragione di essa?

Essenziali appaiono, quindi, i contributi apportati nel corso della storia da filosofi e letterati sulla concezione dell’uomo, sul concetto di giustizia nonché sull’evoluzione della società, i quali hanno, in tal modo, fornito i presupposti e gli strumenti necessari alla realizzazione di un disegno di trasformazione ed innovazione del mondo.

La letteratura, particolarmente, ha accompagnato e scandito le varie tappe che hanno caratterizzato l’evoluzione del sistema giuridico, facendosi portavoce di nuove teorie, nuovi sistemi e nuovi modelli.

5 ANDREOLI, La violenza,Bur, 2003, pag. 162

6 ANDREOLI, La violenza,… pag. 58

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Il testimone del più insidioso luogo di castigo e di tortura, per antonomasia, è Dante Alighieri (1265-1321) che con la “Divina Commedia” ripercorre la storia ideale dell’anima intorpidita dal peccato.

La voragine desolata dell’Inferno, come luogo in cui sono puniti in eterno i peccatori secondo la legge del contrappasso (corrispondenza per contrasto o somiglianza delle pene dei vari peccatori con le colpe commesse), ed il monte del Purgatorio, come luogo di purificazione ed espiazione, sono una rappresentazione riflessa in un paesaggio di stati d’animo. Lo smarrimento ed il traviamento della società del suo tempo, hanno spinto Dante a riprendere quella

“diritta via…smarrita”8 che conduce alla felicità terrena ed alla beatitudine celeste.

C’è stata un’epoca in cui la poesia di Dante è stata messa in leggi; il supplizio era la rappresentazione terrena dell’inferno.

La giustizia perseguitava il corpo del condannato al di là di ogni sofferenza possibile e le pene, per essere considerate tali, dovevano comportare una dimensione di supplizio, il quale correlava il tipo di danno corporale, qualità, intensità, lunghezza delle sofferenze con la gravità del crimine, la persona del criminale, il rango delle vittime.9

C’è stata un’epoca in cui la pena era considerata uno strumento di formazione, uno spettacolo educativo e come la tragedia dell’antica Grecia, mostrava il

“destino” che attendeva a chi si opponeva al potere.

La tortura è stata la punizione che ha percorso tutta la storia delle pene anche se è stata inflitta con modalità molto diverse; “per secoli ha costituito una rappresentazione teatrale di piazza. La tortura apparteneva alla pedagogia prima che alla giurisprudenza; serviva a prevenire il reato più che a punirlo”.10 L’armamentario per le torture era vastissimo e permetteva scene di particolare spettacolarità; modalità e sequenze che di fatto hanno oltrepassato qualunque fantasia.

8 ALIGHIERI D., La Divina Commedia, Inferno,Canto I, 1-3, a cura di Reggio G. e Bosco U., Le Monnier, 1995.

9 FOUCAULT, Sorvegliare e punire... pag. 37.

10 ANDREOLI, La violenza, cit., pag. 21

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Successivamente la punizione ha abbandonato il corpo ed è divenuta sociale ed il supplizio teso a distruggere l’appartenenza al gruppo, ad alimentare l’emarginazione.

Le tecniche, non più cruente, distruggevano la dignità e sconvolgevano l’equilibrio personale.

Da 3 secoli a questa parte molto si è modificato nel sistema penale: definizione dei reati, gerarchia della loro gravità, margini di indulgenza,…

Lo spettacolo della punizione e del supplizio come mera manifestazione del potere politico ha lasciato il posto a nuove modalità di esecuzione penale. Il principale bersaglio della repressione non è più solo il corpo ma gli succede un castigo che agisce in profondità, sul cuore, sul pensiero, sulla volontà.

In effetti, la detenzione, divenuta in pochissimo tempo la forma essenziale del castigo, agisce, sul piano psicologico, come la tortura fisica del passato. Ha carattere di punizione psicologica e sociale; ma non solo. Nei suoi dispositivi più espliciti ha sempre comportato in una certa misura anche sofferenza fisica.

Il corpo è considerato uno strumento, un intermediario; intervenire su di esso rinchiudendolo, significa privare l’individuo di una libertà considerata un diritto e insieme un bene.

Sono cambiati, dunque, i patiboli ma la pena di morte, quella che di volta in volta è considerata la vera morte, resiste. Ogni pena, infatti, “uccide” almeno un po’, altrimenti non sarebbe tale: “uccide” libertà, “uccide” tempo, “uccide”, a volte, speranza.11

L’avvento dell’illuminismo, sviluppatosi agli albori del ‘700, segna l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità, assumendo come motto il “Sapere Aude”

kantiano. A questo movimento di rinnovamento politico e sociale si riallaccia la legislazione italiana ed in particolare la nascita della moderna scienza penale.

Milano fu uno dei centri italiani dove più vivacemente operò il movimento riformatore. Nell’ambiente dell’ ”Accademia dei Pugni”, animata dai fratelli Verri, maturò una delle opere più significative dell’illuminismo italiano, “Dei

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delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (1738-1794), con la quale il giurista puntò ad una riforma globale del sistema penale che tutelasse i cittadini.

Beccaria, pur sentendo il fascino delle idee più radicali, si ferma sulla soglia dell’utopia e aderisce ad una concezione strettamente utilitaristica, come unica via per giungere all’eguaglianza. Tutta la società doveva tendere “alla massima felicità divisa nel maggior numero”. Era questa la formula di un programma di riforme razionalmente contrapposta alla rivolta utopistica.

Il successo dell’opera è da rintracciare tra il rigore logico delle deduzioni, la chiarezza matematica, il calore dell’emozione prorompente, il genuino slancio di carità verso i derelitti e gli oppressi.

Non solo era stata spezzata la cieca tradizione sanguinaria delle efferatezze, delle torture, delle esecuzioni indiscriminate, del carcere disumano, ma l’intera procedura giuridica ne usciva rinnovata; non più la confessione estorta con ferocia per supplire all’insufficienza delle prove legali, bensì la certezza morale del giudice, illuminata dalla ragione comune; non più norme discriminanti per i privilegiati e pene irrogate a capriccio del magistrato, non più giudizi segreti e arbitri interpretativi, ma leggi certe e tassative, processo semplice e pubblico, giudice imparziale, pene intese come mezzo di prevenzione e sicurezza sociale e non mai come punizione espiatoria e pubblico spettacolo deterrente per la crudeltà.

Beccaria, teorizzando una concezione della pena non come vendetta nei confronti del reo ma come strumento per garantire una convivenza sociale e ordinata, ha sostituito la pena di morte con una pena che deve tendere a far pagare il debito che il criminale ha contratto con la società.12

Nasce così la pena come sistema che comporta una proporzione tra delitto e punizione.

La colpa è dunque un danno sociale e la pena un’ammenda economica.13

Il principio del lavoro obbligatorio si profila come base per la retribuzione e la redenzione personale.

12 SEGRE-MARTIGNONI, Testi nella storia,vol. 2, Mondatori, 1992, pag. 1211-1218

13 BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, Einaudi, Torino, 1965, pag. 59

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A tutt’oggi il lavoro è reputato un agente di trasformazione detentivo. Non è considerato né un additivo, né un correttivo della pena ma un accompagnamento necessariamente obbligatorio per consentire alla persona ristretta di giocare il suo ruolo con “perfetta” regolarità.14

Per quanto la pena sia uno dei fenomeni più generali e costanti della vita sociale non sono mancati pensatori che ne hanno contestato la fondatezza, ritenendola ingiusta, inutile e a volte persino dannosa. Oltre agli utopisti Tommaso Moro e Tommaso Campanella, vanno ricordati parecchi teorici dell’anarchismo tra cui primeggia la figura di Leone Tolstoi e soprattutto alcuni sociologi e criminalisti:

Girardin, Ferri, Wargha, Montero, ecc. Questi ultimi, partendo da una concezione ottimistica della vita umana, hanno sostenuto che un’opera di prevenzione, largamente e sapientemente esercitata, può rendere inutile la repressione dei delitti.

Tutti gli scrittori citati debbono ritenersi fuori della realtà. Essi prescindono da un assunto difficilmente contestabile, e cioè che la tendenza al delitto non è circoscritta ad una particolare categoria di individui, secondo la tesi di Cesare Lombroso, ma ha un carattere generalissimo.15

La carcerazione è vissuta, oggi, come “un intervento di emergenza, un estremo rimedio per arginare una violenza gratuita ed ingiusta, impazzita e disumana; è un rimedio necessario per fermare coloro che, afferrati da un istinto egoistico e distruttivo, hanno perso il controllo di sé, calpestando i valori sacri della vita e delle persone e il senso della convivenza civile”.16

Ma il carcere, oggi, è anche e soprattutto lo specchio rovesciato della società;

rappresenta una realtà che ci appartiene anche se appare fisicamente lontana.

L’attuale sistema penale si preoccupa sì di punire, ma riveste un ruolo assai più profondo, offrendo la possibilità della redenzione personale, del reinserimento nella società, aprendo le porte ad orizzonti di speranza nei confronti di coloro che, al di là del debito contratto con la giustizia, tentano di ripensarsi in termini nuovi sia come uomini che come cittadini.

14 FOUCAULT, Sorvegliare e punire, pag.262.

15 ANTOLISEI, Manuale di diritto.., pag.677 ss.

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Ed è proprio questo l’obiettivo che si pone la polifunzionalità della sanzione penale che attesta, oggi, la necessità di perseguire non solo la funzione retributiva della pena ma anche e soprattutto quella rieducativa in adempimento all’art. 27 della Costituzione.

1.3 Le teorie sulla funzione della pena

La pena, strumento irrinunciabile del controllo sociale, è considerata l’elemento garantista del nostro sistema giuridico. Sebbene non elimini la criminalità, come dimostrano gli elevati tassi di recidiva, tuttavia, la contiene, prima che per la sua forza intimidatrice, perché con la sua intrinseca disapprovazione sociale, mantiene e rafforza i valori di una società e stimola l’autocontrollo (Durkheim)17. Non possono essere abbandonati i tradizionali strumenti preventivi (istituti carcerari, psichiatrici, sanzioni penali,…) senza avere a disposizione alternative valide e di immediata attuazione.

L’affievolirsi della difesa statuale contro il crimine farebbe aumentare i fenomeni di autodifesa e di autogiustizia ritornando agli antichi sistemi di vendetta e ai delitti di reazione.

La pena, quale categoria logica, è inscindibilmente connessa all’idea della norma-comando. Nonostante pensatori e scienziati, nel passato e nel presente, ne abbiano contestato la fondatezza o profetizzato la scomparsa, la pena, come categoria statica, ha sempre rappresentato lo specchio più fedele delle faticose tappe della civiltà umana, registrandone i cosi ed i ricorsi, i progressi e le regressioni. E per la sua polivalenza, essa ha subito, e continua a subire, a seconda dei tempi, tipi di società e regimi, utilizzazioni diverse come pure strumentalizzazioni politico-ideologiche. Le sue origini sembrano ricollegarsi ad

17 E. Durkheim (1858-1917) è considerato il padre della sociologia come scienza. Per D. oggetto della sociologia non è più la società intesa come un tutto o un sistema organico, ma “le società particolari che nascono, si sviluppano, muoiono indipendentemente l’una dall’altra”. Di qui la preoccupazione di definire il “fatto sociale”in modo non metafisico, attraverso l’osservazione, la quale consente di concepire i fenomeni sociali come suis generis, essenzialmente perché sono irriducibili alla semplice interazione tra gli individui.

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un superamento della vendetta privata per soddisfare non più un semplice istinto ma una esigenza di giustizia e di difesa sociale.

E attraverso i passaggi della Lex Talionis e delle forme più barbare e rozze, in cui trionfano forme di violenza dell’uomo sull’uomo, ma costituenti pur sempre un progresso rispetto all’incontrollata ed istintuale vendetta privata, è pervenuta alla moderna dosimetria dei mali, alle attuali fasi di razionalizzazione ed umanizzazione ed alle trasformazioni in atto, con tutti i passaggi, altresì, della sua esecuzione attraverso le diverse ritualità: dalla pubblicità ammonitrice dopo un processo segreto alla segregazione dopo un processo pubblico ai ricollegamenti con la realtà sociale esterna.

Sempre aperto è il problema di fondo della politica criminale: perché si punisce?

A quali pene conviene fare ricorso? Quali sono quelle che meglio garantiscono il contenimento della criminalità?

Il problema del fondamento della pena è tra i più dibattuti della nostra disciplina.

Il dibattito non è limitato alla scienza penale ma viene affrontato, prima ancora, in ambito filosofico.

Le prime indagini di cui si abbia notizia sono quelle dei presocratici e da allora non c’è stato quasi pensatore che non si sia pronunciato al riguardo.

Le teorie sulla funzione della pena si distinguono tradizionalmente in teoria della retribuzione, teoria dell’emenda e teoria della prevenzione.

1.3.1 La teoria della retribuzione

Per le teorie retribuzionistiche, compendiabili nell’assunto che il bene va ricompensato con il bene ed il male con il male, e per questo denominate anche

“del corrispettivo”, la pena è una ricompensa, è un valore che trova in sé la sua ragione e giustificazione.

Essa è il malum passionis quod infligitur ob malum actionis (U. Grosso), cioè il corrispettivo del male commesso, e viene applicata quia peccatum est, a cagione del reato commesso e come tale è affittiva, personale, proporzionale, determinata e inderogabile.

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Questo criterio generale comprende due aspetti diversi: la retribuzione morale e la retribuzione giuridica.

Per i seguaci della retribuzione morale, il cui maggiore rappresentante può considerarsi Francesco Carrara, il cui frutto legislativo è rappresentato dal codice italiano del 1889 (il c.d. Codice Zanardelli, dal nome del Guardasigilli dell’epoca), la pena è un’esigenza etica ed inscindibile della coscienza umana da porre in essere per punire il reo. Una concezione, questa, che postula una sudditanza necessaria nei confronti del sistema giuridico, regolatore dei diritti penale e premiale.

Un imperativo categorico (Kant) che giustifica la pena realizzando un’idea di giustizia attuabile attraverso la retribuzione.

La sanzione si legittima nella concezione filosofico-illuministica dell’uomo come soggetto in grado di autodeterminarsi attraverso il libero arbitrio: allorché le sue condotte propendono verso atteggiamenti antisociali ed illeciti, deve essere adeguatamente punito.

Per la retribuzione giuridica la pena trova fondamento all’interno dell’ordinamento giuridico; il delitto è la ribellione del singolo alla volontà della legge e come tale esige una riparazione volta a riaffermare l’autorità statuale.

1.3.2 La teoria dell’emenda

La teoria emendativa è frutto di una lunga tradizione. Già enunciata da Platone (per il quale la pena era “medicina dell’anima”) ed affermata anche nel Digesto, ove è riportata la celebre massima del giureconsulto Paolo (poena constituitur in emendationem hominum), ha avuto non pochi fautori, tra i quali Roeder, apostolo appassionato, il quale ha vestito la pena di una funzione educativa e disciplinare, in grado di trasformare il reo, indisciplinato e sovversivo, in un elemento cooperante nella vita sociale.

Le dottrine dell’emenda partono dal presupposto che l’esecutore materiale di illeciti perseguibili penalmente, dimostra di essere proclive nella commissione di

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azioni criminose. Al fine di prevenire la ricaduta nel delitto occorre procurare il suo ravvedimento: è necessario migliorarlo, correggerlo (per questo la teoria dell’emenda viene anche denominata teoria correzionalista).

Conseguendo tale risultato, lo Stato assicura la conservazione ed il progresso del consorzio civile perché argina quel triste flagello sociale che è la criminalità.

1.3.3 La teoria della prevenzione

L’ultima via della lotta contro il crimine si concentra sulla teoria della prevenzione, generale se incentrata nell’azione diretta a distogliere la generalità dei consociati dalla commissione di reati, speciale se diretta verso il singolo.

La teoria della prevenzione generale (o della intimidazione), sviluppatasi sulla scia dell’ideologia illuminista, attribuisce alla pena un fondamento utilitarista in quanto strumento per prevenire i delitti e distogliere i soggetti dal compiere atti criminosi mediante l’efficacia intimidatrice che è chiamata ad esercitare.

“Sia perché non si riconosce allo Stato il compito sovraumano, proprio della giustizia divina, di commisurare il castigo al male, sia perché la pena rappresenta un grave onere per la collettività, essa non può essere usata che per ragioni di “necessità pratica” attinenti alla conservazione ed allo sviluppo della vita associata. Consistendo in un male proporzionato al piacere conseguibile con il reato, la pena agisce psicologicamente come controspinta rispetto al desiderio di procurarsi quel piacere, che costituisce la spinta criminosa. E tale funzione essa svolge sia nel momento in cui è minacciata, sia nel momento in cui è applicata ed eseguita, in quanto perderebbe ogni efficacia intimidatrice per il futuro una pena minacciata ma non effettivamente applicata. L’inderogabilità della pena è, perciò, un corollario anche della prevenzione generale, come pure una certa adeguatezza della stessa. Si è, invero, obiettato che, assegnando alla pena uno scopo intimidivo, si dovrebbe giungere alla conclusione che le pene debbono esser il più possibile dure e crudeli. Ma in verità viene oggi respinta l’antica e grossolana teoria del castigo esemplare, per cui l’effetto di trattenere gli individui propensi al delitto si otterrebbe mediante pene severe ed anche

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crudeli, da eseguirsi per quanto possibile pubblicamente. E la stessa esperienza insegna che solo una pena equa ed umana, non terroristica e crudele, può assolvere il compito di prevenzione.” 18

La prevenzione speciale è una conquista relativamente recente che ha la funzione di neutralizzare il pericolo che il soggetto cada o ricada nel reato: si punisce ne peccetur.

Essa opera, essenzialmente, in previsione di un processo di riadattamento del soggetto alla vita comunitaria mediante l’eliminazione o l’attenuazione dei fattori che hanno determinato o favorito la commissione di illeciti.

“Le varie teorie peccano tutte di assolutezza. La retribuzione e la prevenzione generale ignorano la realtà dei soggetti che cadono o ricadono nel delitto nonostante la minaccia del castigo e la sua concreta esecuzione. La prevenzione speciale dimentica, a sua volta, i soggetti che non abbisognano di una vera e propria opera rieducativa, nei confronti dei quali la pena non può avere che una funzione retributivo-dissuasiva. La teoria della retribuzione morale trova, poi, il proprio limite nel fatto che l’imperativo morale di punire l’autore del male non vale rispetto ai reati che non possono ritenersi in contrasto coi postulati dell’etica. La teoria della prevenzione generale trova il proprio limite nell’effettività della pena, per cui, di fronte all’aumento della criminalità o della cifra oscura si dovrebbe pervenire o al terrorismo penale o alla rinuncia della pena.” 19

Recentemente si è arrivati ad una posizione di compromesso: la polifunzionalità della sanzione penale, attesta la necessità di perseguire sia la funzione retributiva della pena che quella rieducativa, in adempimento all’art. 27 della Costituzione.

Le origini del finalismo rieducativo della pena, nonostante sia una conquista relativamente recente dell’ordinamento previgente, sono da rintracciare, quasi paradossalmente, nelle origini delle riflessioni proprie della natura dell’uomo.

18 MANTOVANI, Diritto penale, cit., pag. 354-355.

19 MANTOVANI, Diritto penale, cit., pag. 355.

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L’indagine sul fondamento intrinseco del diritto punitivo, sulla giustizia del magistero penale, è fondamentale e ineliminabile, nonostante la varietà delle soluzioni, i contrasti, i dubbi e le oscillazioni cui dà luogo.

La prima soluzione apparsa al pensiero umano, la più ovvia per la mente primitiva, è quella teocratica. Il potere, sia esso statuale o meno, punisce per l’autorità conferita dal divino; se il delitto contrasta le legge celeste, il potere di Dio non può esimersi dal punire, per mano dello Stato, qualunque sia il suo rappresentante, l’audace violatore. Il diritto è la trasposizione del volere della divinità, il magistero penale eterno. E’ questa la concezione che circola nelle primissime legislazioni, in quelle società autocostituentisi in cui il potere supremo dettava le sue leggi attraverso manifestazioni naturali con lo scopo di punire ma anche di emendare l’azione umana.

Il graduale abbandono delle premesse teologiche o divinatorie implica una profonda mutazione, la più ampia, della dottrina in senso umano e il frammentarsi in più teorie: da quelle fondate sull’identificazione di diritto e forza per cui lo stato punisce perché è il più forte, alle altre contrattualistiche che, presupponendo lo Stato fondato su un tacito o espresso accordo fra i consociati, sostengono che nei termini del patto viga un diritto da tutti concesso all’autorità costituita contro chi eventualmente viola le stesse leggi consentite. Ricorrono a tal proposito per le une il nome di Hobbes, per le altre i grandi giusnaturalisti, da Grozio a Thomasius.

Più strettamente giuridica e largamente diffusa è la dottrina che vuol vedere la ragione della pena nell’erroneità della posizione in cui si trova chi viola il diritto.

Se lo stato è il tutore dell’ordine giuridico, anzi secondo alcuni l’ordine giuridico stesso, se l’ordine esige la subordinazione dei soggetti, chiunque vi si opponga, violi l’ordine, non può non incontrare la restaurazione dell’ordine turbato, poiché ad esso incombe la custodia di questo. Qui la questione apparentemente s’inquadra nei termini del giure positivo. In realtà implica l’esame della sua intrinseca autorevolezza.

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Solo dimostrando la giustizia dell’ordine giuridico, giusta ne appare altresì la tutela nel magistero penale.

Nella relazione al codice del 1889 del Ministro Guardasigilli Zanardelli il fine della rieducazione è più volte richiamato: “E’ tutto ciò che si ispira sempre all’alto e vero concetto della legge penale…che non ha soltanto ufficio di intimidire e di reprimere, ma eziandio di correggere e di educare”; “…interessa che la giustizia penale sia più correttiva che coercitiva…”.

Anche nel Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari del 1° febbraio 1891, riecheggia questo motivo e lo puntualizza in alcune disposizioni che si rinvengono, per esempio, dove si menziona “la riforma orale dei detenuti” (art.

46) e dove a tale scopo è fatto “obbligo precipuo al direttore di mettere ogni suo studio nel conoscere il carattere morale dei detenuti…” (art. 67).

Nonostante questa sincera preoccupazione rieducativa, però, gli istituti penitenziari continuarono a mantenere un ruolo squisitamente custodialistico, soprattutto per la mancanza di personale pedagogicamente preparato.

La relazione al Regolamento del 18 giugno 1931 sancisce che “l’Italia…ha consacrato nel suo codice penale un sistema dell’esecuzione delle pene detentive…che…segna altresì la necessità che il regime carcerario serva alla rigenerazione del condannato…”. Coerentemente con la relazione, il testo riecheggia di continuo il fine rieducativo (es. artt. 227 e 228).

Con la promulgazione della costituente si vuole sottolineare i principi di umanizzazione delle pene e di rieducazione del reo. All’art. 27 si legge, infatti:

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Al di là dell’efficacia espressiva, il concetto di rieducazione è ancora fortemente connesso alle risultanti di azioni mosse nel campo dell’istruzione, del lavoro, … cui il detenuto è sottoposto in modo più o meno obbligatorio, nella convinzione che un’imposizione della regola di vita e di un complesso di abitudini di per sé

“bonificanti” non mancherà di dare, con il passare del tempo, buoni frutti.20 A ciò

20 Si pensi al termine “bonifica umana”, usato nel 1941 come titolo di un’opera documentaria ufficiale sulle attività dell’Amministrazione penitenziaria che appare, sotto questo profilo, esemplare. Cfr. DI GENNARO-BONOMO-BREDA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè

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si accompagna un trattamento penitenziario basato sul c.d. “modello medico”;

all’esperto in camice bianco viene affidato il compito di guidare operazione rieducativa dei detenuti con la finalità di ricercare le cause criminogenetiche collegate al comportamento delittuoso.

Gli anni che precedono l’ultima guerra ribaltano la situazione, affermando in modo massiccio il concetto di trattamento come terapia di riadattamento sociale;

un lungo percorso culturale che svestirà il carcere della sua immagine custodialistico-manicomiale.

Si ravvisa, dunque, l’idea secondo cui nessuno può essere rieducato dal semplice contatto fisico con una serie di attività ed esperienze positive, ma tutto dipende dal modo in cui il soggetto è disposto a vivere ciò che gli viene proposto.

L’esercizio del potere e l’agire politico, in particolare, devono assoggettarsi ad un giudizio della coscienza morale di chi lo compie. Una sottomissione che non può limitarsi ad un atto personale ed interiore, data l’insuperabile fallibilità umana.

Se si delegasse questo giudizio alla sola coscienza umana di chi esercita il potere, questo diverrebbe assoluto. E’ essenziale, invece, che il potere si sottometta ad un’istanza marcata da una valenza etica e morale che nell’esaltazione della sua pienezza, rimanga ancorata al senso di giustizia sociale che deve essere assicurato, per diritto, alla collettività.

Nell’attribuzione di castighi e pene, le istituzioni preposte a giudicare ed a punire gli uomini che si rendono colpevoli, macchiandosi con la commissione di azioni criminose, possono incorrere, consapevolmente o meno, in situazioni ritenute ingiuste. Le pene che una società infligge sono sofferenze e mali che vanno attentamente e sapientemente ponderati e commisurati al sistema di giustizia. In questo caso l’organo giurisdizionale non si limita alla considerazione del male commesso dal colpevole ma deve rispettare il bene che egli, in quanto uomo, continua ad essere.

Se è vero che nessuna società umana può rinunciare al male della sofferenza inflitta come strumento di difesa, punizione e correzione, è vero, però, che l’atto

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dell’infliggere una sofferenza deve essere rigidamente disciplinato ed umanamente moderato.

E’ questo il percorso della civiltà occidentale che, eliminate le torture fisiche, le punizioni corporali e la pena di morte, si volge verso un’accezione legislativa umanizzante, su un sistema carcerario maggiormente attento ai bisogni psico- fisici di quell’individuo che vi permane per un periodo di tempo più o meno lungo e sulla possibilità di rientrare nel sistema collettivo.

Il sistema penale, dunque, si preoccupa non solo di punire, ma anche di offrire al reo la possibilità di reinserirsi nella società e di ripensarsi in termini nuovi come uomo e come cittadino.

Diversi modelli di applicazione della giustizia, dunque, si sono succeduti, influenzati non solo dal mutare degli orientamenti filosofici e di ricerca, ma anche dai cambiamenti politici che hanno contribuito alla loro affermazione o declino.

Il percorso di umanizzazione del diritto penale apre oggi le porte ad una nuova logica sanzionatoria improntata su un intervento che vuole coinvolgere, per la prima volta, le vittime del reato.

Il paradigma riparativo, per dirla con le parole di G. Mannozzi, si offre come la sfida del nuovo millennio. 21

1.4 La pena secondo la Costituzione22

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” .23

Attorno al principio del finalismo rieducativo della pena si sono accese le più vive polemiche tra retribuzionisti e positivisti, i cui estremismi interpretativi hanno ostacolato la comprensione del dettato costituzionale.

21 E’ questa la “suggestione” che emerge dai lavori della Fourth International Conference on Restorative Justice for Juveniles: “Restorative Justice as a Challenge for the New Millennium”, tenutosi a Tubinga dal 1 al 4 ottobre 2000.

22 ANTOLISEI, Manuale di diritto.., pag. 66 ss. e 70 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, pag. 3 ss., 13 ss.

e 20 ss.: FLORA-TONINI, Diritto penale per…, pag. 2-9.

23 Art. 27, comma 3, Costituzione.

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I primi neutralizzano l’innovazione costituzionale considerandola una mera enunciazione politico-programmatica o comunque relegando la rieducazione alla sola fase esecutivo-penitenziaria ed identificandola con l’emenda, per altro non essenziale. I secondi, all’opposto, ne enfatizzano il significato, costituzionalizzando le istanze positivistiche della prevenzione speciale ed assegnando alla pena il compito precipuo della risocializzazione.

Lentamente ha preso piede l’opinione secondo cui, dal punto di vista costituzionale, la pena nella sua essenza e giustificazione etica e logica è, innanzitutto, retributivo-generalpreventiva.

A questa finalità si è addizionata anche quella utilitaristica di modifica, in senso sociale, della personalità del reo che si propone non tanto di eliminare quanto piuttosto di circoscrivere il fenomeno della recidiva, da sempre considerata il parametro, il metro di valutazione della bontà dei sistemi punitivi.

La norma penale rimane ancorata ad un sistema rigido e inflessibile; il carattere garantista della retribuzione (quale la proporzionalità edittale alla gravità del reato) consente, cioè, alla pena di conservare i propri caratteri di certezza ed effettività.

Numerose dispute si sono accese attorno all’equivoco concetto richiamato dalla Costituzione all’art. 27; la rieducazione non può essere mistificata, non può trovare correlazione ai concetti di pentimento, emenda morale e spirituale, astrattamente possibile a mezzo pena ed in qualsiasi condizione di espiazione.

L’attività risocializzante non può concretarsi né attraverso l’applicazione di una correzione politica-ideologica, fatta propria dagli stati totalitari, né dal trattamento propugnato indiscriminatamente dalla Nuova Difesa Sociale, la cui ideologia e prassi appaiono avviate verso un inarrestabile declino per l’incapacità di far fronte al sistema criminale.

Tale movimento, che ricevette la sua prima consacrazione internazionale con l’istituzione, nel 1948, della Sezione di difesa sociale delle Nazioni Unite, è uno tra i più fecondi movimenti di pensiero del dopoguerra che ha configurato

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accanto al diritto della società di esser protetta contro la criminalità, il c.d. diritto del reo alla risocializzazione.

Questo indirizzo, pur ricollegandosi ad alcuni motivi caratteristici della Scuola Positiva, si muove su un piano di eclettico pragmatismo e di agnosticismo metafisico.

“Non sopprime la nozione di responsabilità, non nega la libertà dell’uomo, né rifiuta la possibilità della punizione. Ma fonda la politica criminale della difesa sociale sulla responsabilità individuale, la cui realtà esistenziale costituisce uno dei cardini del sistema, viene assunta come molla e motore essenziale del processo di risocializzazione e torna ad essere la giustificazione profonda della giustizia penale.”24

La rieducazione viene, in tal modo, confinata all’offerta di opportunità presupponendo un ritorno del soggetto nella comunità, dandogli la possibilità di correggere la propria antisocialità e di adeguarsi al sistema delle regole sociali.

E’ in quest’ambito solidaristico che si snoda il principio punitivo-premiale: la creazione di “motivazioni” ai comportamenti socialmente corretti ed il sistema della pena e del premio, dell’approvazione e della disapprovazione, sono un possente e storicamente ancorato strumento pedagogico.

Col sancire che la “responsabilità penale è personale”, l’art. 27 Cost. ha statuito non solo la personalità dell’illecito penale ma anche la personalità della sanzione penale.

Per comprendere esattamente la presa di posizione della Costituzione non è corretto soffermarsi esclusivamente all’art. 27, in quanto si esaurisce nella funzione della pena relativamente la sua fase esecutiva.

L’art 25, Cost. afferma il principio della necessità della pena; considerata elemento garantista non eliminabile del nostro sistema giuridico e perciò non sostituibile con “misure di difesa sociale”.

La distinzione, poi, tra misura di sicurezza e pena, di cui si riafferma il carattere punitivo, fa della afflittività, quale limitazione dei diritti del soggetto, un

24 MANTOVANI, Diritto penale,Cedam, 1992, cit., pag. 567.

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elemento ineliminabile della pena nella sua imprescindibile funzione retributivo- intimidatrice-pedagogica.

Il principio della responsabilità individuale consente di affidare alla competenza giuridica le tipologie di pene da applicare e le diverse forme di penalità. Una linea, questa, perseguita dal legislatore italiano che dal 1944 in poi, non ha mai messo in discussione il concetto di pena, pur ispirandosi a criteri indulgenziali, almeno fino ad una certa inversione di tendenza che, a decorrere dal 1973, ha portato ad accentuare il carattere deterrente della pena, nel momento della minaccia, ed il contenuto punitivo, nel momento applicativo.

Altro principio che si desume dalla correlazione responsabilità-pena come antitesi alla responsabilità sociale o legale, è la legalità della pena, realizzato con l’integrazione del nullum crimen sine lege con il nulla poena sine lege, principio cardine che domina la materia delle fonti nel nostro diritto e che si richiama implicitamente ma inequivocabilmente alla sanzione penale nella sua dimensione affittivo-punitiva e nella sua “tradizionale” funzione general preventiva e retributiva.

Il principio di legalità, sancito dall’art. 25, commi 2 e 3 Cost., si articola in tre sottoprincipi: la riserva di legge, la determinatezza-tassatività della fattispecie penale, la irretroattività della legge penale.

1.4.1 La riserva di legge

Tale principio ha inteso riservare il monopolio normativo penale al potere legislativo, circoscrivendo pertanto le fonti del diritto penale alla sola legge o agli atti aventi forza di legge.

La ratio della riserva di legge si sostanzia nell’attribuzione al Parlamento del diritto esclusivo della criminalizzazione con il duplice scopo di evitare l’arbitrio del potere giudiziario e del potere esecutivo.

1.4.2 La determinatezza-tassatività della fattispecie penale

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Tale principio presiede alla tecnica di formulazione della legge penale. Indica il dovere del legislatore di procedere, al momento della creazione della norma, ad una precisa determinazione della fattispecie legale, affinché risulti tassativamente stabilito il confine tra lecito ed illecito penale.

1.4.3 La irretroattività della legge penale

Sancito all’art. 25 Cost. e disciplinato all’art. 2 c.p., tale principio si sostanzia nel divieto di applicare la legge penale a fatti anteriori alla sua entrata in vigore.

Enunciato dal pensiero illuministico, consacrato nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (1789) e assurto a punto fermo nel moderno Stato di diritto, il principio di irretroattività costituisce il completamento logico dei principi della riserva di legge e soprattutto della tassatività, la cui funzione garantista sarebbe frustrata se si lasciassero i nuovi comportamenti esposti all’incognita di future incriminazioni.

La proporzionalità della pena rappresenta il ragionevole limite del potere punitivo nello Stato di diritto; insito nel concetto retributivo di pena, è costituzionalizzato dagli artt. 3 e 27/1,3, che impongono rispettivamente il trattamento differenziato e l’ineludibile giustizia della pena, intrinseca al carattere personale della responsabilità e presupposto fondante l’azione rieducativa della pena.

Gli elementi base che convergono alla determinazione della gravità fattuale sono i beni costituzionalmente significativi, il grado e la quantità dell’offesa ed il tipo di colpevolezza, che concorrono a loro volta alla definizione dell’inflessibile ed immanente criterio intimidativo della prevenzione generale.

Ultimo caposaldo costituzionale, ma non per questo meno rilevante, è il principio dell’umanizzazione della pena che ha inteso bandire ogni trattamento disumano, crudele e afflittivo, relegando alle epoche passate il ricordo dei supplizi, delle

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punizioni infamanti e corporali, considerati i segni delle barbarie di quei secoli e di quelle nazioni provati dalla debole influenza della ragione.

Tale principio si completa con quello del rispetto della personalità e della dignità del condannato.

1.5 La pena nel diritto vigente

La pena è stata, dunque, per secoli, un puro e semplice castigo. Per effetto dell’opera svolta dalle correnti dottrinarie volte alla promozione della riforma delle leggi penali e dei sistemi penitenziari, la pena ha cominciato a subire una lenta ma assai significativa trasformazione.

Il primo passo è consistito nell’eliminazione dai sistemi carcerari di tutto ciò che potesse peggiorare le condizioni non solo fisiche, ma anche e soprattutto morali, del recluso, introducendo vari provvedimenti tesi al conseguimento della rigenerazione dei condannati. Avendo riconosciuto nell’ozio una delle principali cause che ostacolano l’emenda, in quanto fattore di degradazione e abbrutimento, la legge di riforma dell’O.P. ha consacrato il trattamento come lo strumento cardine per la rieducazione carceraria. Nell’esecuzione, poi, è stato adottato il c.d. sistema progressivo, il quale implica una graduale attenuazione delle limitazioni imposte al detenuto proporzionalmente al suo miglioramento, predisponendo, in tal modo, le fondamenta per il reinserimento nel tessuto sociale.25

Il vecchio sistema penale importava, come conseguenza dei criteri che lo ispiravano, la necessità che la pena inflitta al reo, per il delitto commesso, fosse, in ogni caso, inflessibilmente applicata.

Orbene, con l’introduzione della liberazione condizionale, viene concessa la possibilità di condonare al reo, che ha tenuto buona condotta, una parte della pena purché, entro un certo tempo, non commetta altri reati.

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E’ stato dato al giudice il potere di sospendere l’applicazione dell’intera pena a chi delinque per la prima volta (la c.d. sospensione condizionale). Le legislazioni recenti hanno fatto un passo più in là, consentendo al giudice la facoltà di non irrogare la pena spettante al reo, ma di perdonarlo, sia pure limitatamente agli autori di reato minorenni (il c.d. perdono giudiziale); ciò, soprattutto, al fine di evitare le conseguenze morali della condanna, che possono ostacolare lo sviluppo dei processi educativi e l’inserimento del giovane nel consorzio civile.

Infine, le pene detentive meno gravi sono state, talora, sostituite con forme di semilibertà o libertà controllata.

Uno dei caratteri essenziali del vecchio sistema punitivo, e cioè la proporzione fra il reato e la sanzione, è stato fortemente intaccato. Le moderne legislazioni vogliono che nella misura e nella scelta della pena si tenga conto anche dei caratteri personali del reo, che influiscono sulla quantità e la qualità della pena stessa.

“Queste constatazioni autorizzano a concludere che la pura pena, la pena vuota di ogni contenuto, la pena che è soltanto una sofferenza per colui che la subisce se non è già scomparsa, va scomparendo. Si profila, in tal modo, la pena moderna, la quale conserva bensì il carattere affittivo, o meglio dissuasivo, ma ha anche la funzione di combattere le cause individuali della criminalità: tende, in altri termini, a far sì che l’autore del reato torni ad essere, o diventi, un membro utile della comunità sociale. Essa, in conseguenza, più che verso il passato, è protesa verso il futuro. In correlazione a ciò, le carceri, da semplici luoghi di pena, vanno assumendo, in misura sempre maggiore, il carattere di istituti di disciplina costruttiva e di rieducazione” .26

Il problema della natura della pena, trattandosi sostanzialmente di questione interpretativa, va chiarito esclusivamente con la chiave del diritto positivo, essendo questa la realtà che si propone agli occhi del giurista.

Ad un esame obiettivo e aprioristico, il diritto attualmente vigente in Italia conferma il carattere tradizionale, ossia punitivo, che la pena ha mantenuto nel tempo e le connesse finalità di intimidazione.

26 ANTOLISEI, Manuale di diritto…, cit, pag. 696.

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Tuttavia, il diritto stesso assegna alla pena la funzione emendativa; funzione che ha acquisito una sostanziale rilevanza, come già anticipato, con l’approvazione dell’O.P. di cui alla legge 26 luglio 1975 n. 354 e successive modificazioni.

L’art. 1 comma 6 di tale ordinamento reca: “ Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi.

Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.” 27

In tale ordinamento sono destinati a conseguire l’emenda:

 l’organizzazione del lavoro all’interno dello stabilimento e all’aperto

 l’istruzione (a cui si provvede mediante l’istituzione di scuole e l’attrezzatura di biblioteche)

 l’educazione morale (coadiuvata dall’assistenza religiosa)

 le attività culturali, ricreative e sportive

 la sorveglianza del giudice sull’esecuzione della pena

 il sistema progressivo di esecuzione penale

Nell’ordinamento vigente, dunque, la funzione retributiva è stata assai mitigata per perseguire lo scopo del reinserimento sociale del condannato.

La pena, nel diritto attuale, non ha, dunque, un carattere rigorosamente unitario: è un mixtum compositum nel quale emerge a grandi lettere, accanto all’emenda del reo, il concetto centrale del corrispettivo.

Il castigo giuridico viene notevolmente temperato nel tentativo, più o meno esplicito, di conciliare le varie e complesse esigenze nella lotta contro il delitto, traendo ispirazione da motivi di opportunità politica e di necessità sociale.

La determinazione della “pena giusta” consente sì di determinare concretamente le pena come quella socialmente meritata, ma rischia di offuscare il finalismo utilitarista ed i criteri razionali che dovrebbero guidare la funzione primaria della pena che si esplicita nel tentativo di ricostruire e rafforzare l’integrazione sociale del reo (“pena utile”).

27 Legge 26 luglio 1975, n. 354- Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure

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L’istituzione carceraria evidenzia, attualmente, una profonda crisi guardando soprattutto alle nuove sfide e alle complesse esigenze che deve gestire. Tale crisi sembra aver colpito i due perni attorno ai quali ruota il sistema penitenziario: il trattamento e la sicurezza.28

La rigida dicotomia tra la funzione riabilitativa e la funzione custodialistica del carcere, si proietta anche nella realtà extra muraria, quando le attività deputate a produrre sicurezza richiedono interventi più vigorosi da parte delle agenzie di controllo e dei servizi esterni.

La progressiva apertura della prigione alla realtà, configura quella che è forse la più importante novità nella storia penitenziaria del nostro secolo.

Le misure di trattamento in libertà (permessi premio, licenze, art. 21, …) e le misure alternative alla detenzione, configurano uno scenario con il quale la società non può fare a meno di confrontarsi.

La partecipazione della società esterna alle forme di gestione della pena, sia intramurale che a mezzo delle sanzioni sostitutive, è un aspetto importante della progressiva riappropriazione da parte della società libera, del diritto di punire ormai molto diverso, nella sua pratica concreta, rispetto alle origini.

L’obiettivo prioritario che il sistema si pone ruota attorno ai soggetti direttamente coinvolti nell’azione delittuosa: il reo e la vittima, lavorando sui bisogni e le domande di chi trasgredisce la legge ed ha diritto al trattamento ma anche di chi ha subito la violazione dei propri diritti ed esige una sicurezza garantita e attualizzata.

In questa fase le maggiori potenzialità di tale prospettiva sembrano essere giocate dai modelli riparativi e di mediazione, anche se, attualmente, si costituiscono come servizi marginali incapaci di incidere in modo significativo sul funzionamento generale del sistema di giustizia.

28 Rif. G. DE LEO, Le prospettive del sistema sanzionatorio, Relazione al XIII Seminario Internazionale AETSJ, Venezia, 25-27 settembre 2000.

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1.6 L’affermazione del diritto penitenziario

Il concetto di carcere moderno si fa risalire intorno alla seconda metà del ‘700.

Nei secoli precedenti, infatti, ebbe solo una funzione secondaria, predominando la pena di morte, le pene corporali e le pene patrimoniali. Esistevano, tuttavia, degli edifici nei quali venivano promiscuamente rinchiusi non solo gli autori di reato ma anche vagabondi, poveri, prostitute e, in genere, tutti quegli individui emarginati perché ritenuti pericolosi o elementi di disturbo dell’ordine pubblico (es. la Bridewell, una workhouse, dal nome del palazzo in cui fu istituita nel 1557 in Inghilterra). Per questo suo carattere secondario e sussidiario, la pena detentiva non fu, per lunghi secoli, oggetto di una vera e propria regolamentazione.

Bastava una sola preoccupazione: renderla sempre più dura perché potesse reggere il confronto con le pene corporali, il ricordo delle cui crudeltà era troppo recente per poter loro contrapporre un nuovo istituto con caratteri profondamente diversi. La coscienza pubblica, infatti, non si sarebbe facilmente adattata ad un rivolgimento così profondo.

La pena detentiva, perciò, fu inizialmente accolta solo in vista della evidente inutilità delle pene corporali, che caddero sotto il peso stesso della loro aberrante varietà, ma non si allontanò dalla sostanziale finalità di quelle pene che si riducevano alla realizzazione della vendetta sociale. Perciò, nella tristezza della prigione si ricercò, in tutte le ore, in tutte le occasioni, in tutte le manifestazioni della vita morale e della vita materiale, la possibilità di colpire atrocemente il condannato; offese all’onore e alla dignità, lavoro a esaurimento senza utilità e senza soddisfazione, soppressione di ogni regola di igiene, privazione della luce e del passeggio,…29

La Chiesa fu la prima a portare luce in questa tenebre perché per merito suo si iniziò, nelle leggi e nella pratica, un movimento di idee che si proponeva non solo di far cessare gli abusi offensivi della personalità umana nelle carceri, ma

29 Testo di riferimento: MARCHESE-MANCINI-GRECO-ASSINI, Stato e società, La Nuova Italia,

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