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A questo proposito si rivelò determinante l’intesa con l’episcopato, che si mantenne viva almeno fino agli anni Sessanta del secolo XII

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CONCLUSIONI PARTE I

Il processo di assoggettamento del territorio

Lo studio dei rapporti tra il Comune di Pisa e il suo contado presenta alcuni aspetti problematici che necessitano di un’attenzione particolare. Uno dei punti maggiormente controversi è rappresentato, a mio avviso, dalla ricostruzione del processo di assoggettamento del territorio rurale, che Pisa portò a termine entro la fine del secolo XIII. È noto, infatti, che l’espansionismo pisano travalicò i confini della diocesi e del comitatus, includendo zone come la Maremma e la Valdera che gravitavano ab antiquo – dal punto di vista civile ed ecclesiastico – su altre città.

Inoltre, ciascuna delle aree che entrò a fare parte del contado pisano presentava, tra XI e XII secolo, tratti peculiari sotto il profilo politico, sociale ed economico: in conseguenza di ciò, furono diverse non solo le strategie messe in atto dai Pisani per assicurarsene il controllo, ma anche i tempi entro cui le differenti aree furono sottomesse.

La storiografia più recente è concorde nel ritenere che Pisa sia riuscita a estendere piuttosto precocemente (entro la seconda metà del secolo XII) la propria egemonia politica nello spazio della diocesi/comitatus. A questo proposito si rivelò determinante l’intesa con l’episcopato, che si mantenne viva almeno fino agli anni Sessanta del secolo XII. Sostenendo le aspirazioni dei vescovi a incrementare le proprie disponibilità patrimoniali mediante l’acquisizione (a vario titolo) di quote di castelli e diritti signorili, il Comune estese poco a poco la propria influenza sul territorio. D’altra parte il successo delle iniziative pisane fu favorito dalla scarsa incidenza e dalla relativa debolezza delle strutture signorili, individuata come caratteristica del Pisano e in modo particolare delle zone più prossime al centro cittadino. Benché questo assunto sia forse meritevole di una verifica più puntuale, studi recenti dimostrano che, in effetti, i referenti politici scelti dalla città nel perseguire il proprio processo espansivo furono soprattutto le comunità rurali, le quali – almeno fino ai primi decenni del Duecento – si videro riconosciuti ampi margini di autonomia.

Diversa fu la invece situazione delle aree esterne all’ambito della diocesi e del comitatus storico. In Maremma e in Valdera i Pisani furono costretti a misurarsi con realtà molto più complesse, che rallentarono lo sviluppo del processo di comitatinanza, resero necessario il ricorso a frequenti spedizioni militari e – soprattutto – determinarono una accentuata precarietà e una maggiore disorganicità del controllo politico.

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I principali ostacoli alla penetrazione pisana in tali contesti furono costituiti sicuramente dal forte radicamento signorile – che interessò, seppure con differente intensità, entrambe le zone – e dalla concorrenza delle città confinanti (soprattutto Lucca, Firenze e Siena), che cercarono di contenere la politica espansionistica del Comune di Pisa, per il quale – d’altra parte – il controllo del proprio retroterra, dall’Arno fino alla Maremma, acquisì un rilievo sempre maggiore al fine di rendere Porto Pisano l’unico scalo accessibile della costa tirrenica centro-settentrionale, così come di garantire la sicurezza dei propri traffici terrestri.

Lo studio delle diverse fasi che consentirono ai Pisani di sottomettere la Valdera ha comportato, dunque, un esame sistematico di molte problematiche. Innanzitutto ho cercato di ricostruire il quadro degli assetti politici e sociali delle zona nei secoli XII-XIII per valutare l’effettiva incidenza del fenomeno signorile, osservare più da vicino chi fossero i detentori del potere in sede locale e quali i loro rapporti con gli ambienti cittadini e, infine, – quando possibile – evidenziare l’articolazione interna delle collettività rurali, con particolare attenzione al problema dello sviluppo degli organismi comunali. In secondo luogo si è rivelato necessario riconsiderare questioni già note e studiate dalla precedente storiografia: le ripercussioni dell’orientamento filo- imperiale della città tirrenica dal punto di vista della politica territoriale; le guerre e i contrasti di Pisa con i diversi soggetti politici (città ed episcopati) interessati a contenderle il controllo dell’area;

le sistemazioni seguite agli eventi bellici.

Per quanto riguarda gli assetti politici e sociali sono emersi dati di un certo rilievo, che obbligano a riconsiderare le caratteristiche della Valdera nei secoli XII-XIII e di conseguenza l’impatto avuto dalla conquista pisana nelle sue prime fasi. Infatti, a un’attenta analisi della documentazione superstite – che, occorre ricordarlo, copre in modo decisamente più esauriente il versante dell’area appartenente alla diocesi di Lucca, mentre restano molte zone d’ombra per quello

“volterrano” – la Valdera si rivela un territorio in cui la signoria ebbe sviluppi molto significativi.

Tra X e XI secolo vi si radicarono famiglie di vario prestigio e ricchezza – titolari di ingenti proprietà fondiarie e promotrici di un capillare processo di incastellamento – che in tempi e modi diversi riuscirono a ritagliarsi lo spazio per l’esercizio di una preminenza in sede locale.

È un dato certamente significativo che tra i maggiori detentori di beni e diritti vi fossero tre famiglie di rango comitale: i Cadolingi, il ramo dei Gherardeschi discendente dal conte Guido II di Guido I e i cosiddetti “conti di Cevoli, Pava e Montecuccari”, appartenenti alla stirpe degli Ardengheschi di Siena. Fin dalla seconda metà del secolo XI – ma le testimonianze si fanno più fitte nel XII – gli esponenti di queste importanti stirpi appaiono in grado di esercitare prerogative di tipo signorile su ambiti territoriali ben definiti (curie, districtus) facenti capo a strutture castrensi.

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Esiti importanti ebbe anche il radicamento di alcuni gruppi familiari riconducibili all’ambito dell’aristocrazia intermedia, le cui fortune dipesero in larga parte dai rapporti instaurati con gli ambienti cittadini e in modo particolare con gli episcopati tra XI e XII secolo. Per quanto riguarda la Valdera gli esempi più eclatanti sono costituiti dalla famiglia dei domini di Palaia e, soprattutto, della ramificata consorteria Upezzinga: in entrambi i casi l’inserimento nelle clientele dei vescovi e di altri signori maggiori (conti e marchesi) costituì il presupposto per la formazione di solide basi patrimoniali e per il successivo sviluppo di poteri signorili.

Bisogna inoltre tener conto dell’importanza rivestita dagli enti religiosi. Di grande rilievo fu il ruolo giocato da istituzioni monastiche come l’abbazia di Santa Maria di Morrona e quella di Santa Maria di Serena, in Val di Merse, fondate rispettivamente da Cadolingi e da Gherardeschi (e in misura minore dal monastero dei Santi Ippolito e Cassiano di Carigi). Nel corso del secolo XII i due cenobi – ormai svincolatisi dal controllo dei fondatori – incrementarono i rispettivi patrimoni in Valdera, entrando in possesso di quote di castelli, terre e diritti signorili. E sempre nel corso del secolo XII si registrò una forte spinta espansiva da parte degli episcopati lucchese, volterrano e pisano, che seppero approfittare delle difficoltà economiche e finanziarie di quegli stessi monasteri e di alcune famiglie aristocratiche, indebolite dalle suddivisioni patrimoniali determinate dai meccanismi della successione ereditaria. Per tutto il secolo XII i presuli lucchesi proseguirono nell’opera di recupero dei beni ecclesiastici alienati dai loro predecessori, riuscendo a rafforzare ulteriormente la presenza dell’episcopato in Valdera: ottennero la compartecipazione al possesso di diversi castelli, stipulando inoltre patti di assistenza giudiziaria e militare con alcune tra le più importanti famiglie radicate nell’area (in primis con i Gherardeschi); approfittarono delle difficoltà finanziarie del monastero di Serena, garantendosi per questa via l’acquisto di un patrimonio di notevoli proporzioni. Analoghe considerazioni possono essere fatte per l’episcopato volterrano, la cui espansione nell’area fu favorita tanto dall’estinzione della dinastia cadolingia, quanto dalle relazioni instaurate con gli esponenti di influenti gruppi familiari, in particolare i conti di Cevoli, Pava e Montecuccari. Anche il vescovato di Pisa riuscì ad acquisire castelli, proprietà fondiarie e diritti signorili in Valdera: a questo proposito, furono determinanti i rapporti con i Gherardeschi e il patrocinio garantito all’abbazia di Morrona, che permise agli arcivescovi pisani di mettere le mani su parte dell’eredità cadolingia in Valdera.

Ma l’aspetto di maggiore interesse e che più di ogni altro chiarisce il rilievo del fenomeno signorile nell’area oggetto di questa indagine è rappresentato dall’esistenza di un “pulviscolo” di piccoli e piccolissimi aristocratici – singoli individui o consorzi familiari compartecipi nel possesso di castelli, corti e chiese, titolari di patrimoni concentrati in aree ben circoscritte o più semplicemente di diritti di signoria fondiaria e personale – che le fonti superstiti ci fanno

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chiaramente intravedere, ma dei quali è pressoché impossibile ricostruire nel dettaglio l’effettivo profilo sociale e le disponibilità patrimoniali.

Tale stato di cose – frutto di una evoluzione di lungo corso – condizionò profondamente gli assetti socio-politici delle comunità locali, che vennero definendosi in stretta relazione con le strutture di potere signorile. Laddove la documentazione ci consente un’analisi più minuziosa, le collettività rurali rivelano una accentuata stratificazione sociale, una netta prevalenza dei rapporti

“verticali”, che rappresentarono un elemento strutturale di fondamentale importanza. Al vertice di gran parte di questi castelli venne definendosi una numerosa e vivace élite di boni homines, la cui preminenza dipese dalle relazioni clientelari instaurate con i detentori del potere, signori laici ed ecclesiastici: la militanza al fianco di questi ultimi permise ai ceti eminenti locali di incrementare il proprio prestigio e la propria ricchezza, entrando in possesso di cospicui patrimoni, di diritti su terre, uomini e, nei casi più eclatanti, perfino di quote di castelli.

Le prime forme di organizzazione istituzionale delle comunità si svilupparono in forte connessione con gli organismi signorili e con gli assetti sociali da essi determinati: furono i legami con i domini a garantire alla piccola aristocrazia rurale in ascesa il prestigio e la ricchezza indispensabili per assumere un ruolo di guida e di rappresentanza di tutta la popolazione; la signoria offrì al Comune il contesto territoriale entro il quale esso cercò di affermare le proprie aspirazioni autonomistiche; infine, fu in relazione al signore locale che andarono consolidandosi i rapporti tra le diverse componenti sociali che formavano la collettività, primo passo verso la costituzione del Comune come ente istituzionalmente formalizzato.

Va detto, comunque, che nessuna delle signorie documentate in Valdera appare in grado di esercitarsi in forme realmente forti e autoritarie sugli uomini e sul territorio, come per esempio avvenne in Maremma: lo dimostrano l’assenza di sistematici processi di omologazione delle condizioni contadine; l’accentuata stratificazione e lo stesso rapido sviluppo di organismi comunali, capaci – fin dalla seconda metà del secolo XII – di contestare diritti e prerogative dei signori.

In questo contesto, caratterizzato da un fragile equilibrio tra soggetti politici spesso tra di loro concorrenti, ad inizio secolo XII prese corpo il progetto espansionistico pisano. Fino alla seconda metà del secolo, tuttavia, il Comune di Pisa – lo stesso discorso vale anche per quello lucchese, mentre quello volterrano, il cui sviluppò fu molto ritardato dalla preminenza vescovile, non ebbe mai aspirazioni egemoniche sulla Valdera – si limitò a sostenere la politica territoriale del vescovato, intravvedendovi un mezzo per allargare, anche se solo indirettamente, la propria influenza sulle campagne. Le iniziative congiunte dell’episcopato e del Comune di Pisa nei territori a sud dell’Arno suscitarono però le proteste dei Lucchesi, che giudicarono indebito lo sconfinamento pisano: si aprì allora una stagione di conflitti – dei quali la contesa per il controllo

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della Valdera fu uno dei motivi principali – che avrebbe opposto le due città fino al termine del secolo.

Una svolta di fondamentale importanza si verificò negli anni Sessanta del secolo XII, quando il Comune di Pisa ottenne la legittimazione necessaria ai propri progetti egemonici sulla Valdera: il diploma dell’imperatore Federico I del 1162 riconosceva ai Pisani un vastissimo territorio che oltrepassava ampiamente i confini dell’antico comitatus pisano. Da quel momento in poi Pisa poté svincolarsi dalla tutela arcivescovile e cominciò a perseguire un’autonoma politica espansionistica. Nei decenni finali del secolo XII occupò quasi per intero la Valdera: i castelli del versante “volterrano” furono sottomessi con una serie di spedizioni militari; al termine della guerra con Lucca degli anni Sessanta/Settanta venne assoggetta anche la parte inclusa nella diocesi di quella città.

Ad ogni modo, il controllo sulla Valdera rimase precario per gran parte del Duecento.

Almeno in un primo momento il Comune di Pisa tollerò le giurisdizioni signorili presenti sul territorio; inoltre alcuni castelli ubicati nella parte settentrionale dell’area (San Gervasio, Palaia, Toiano, Tampiano, Montecastello, Pratiglione e Colleoli) rimasero nella piena disponibilità dell’episcopato lucchese, al quale furono definitivamente sottratti – al termine di una lunga e annosa controversia – solo sullo scorcio del secolo XIII.

Del resto, per tutto il Duecento la Valdera – divenuta un confine politico delicatissimo – fu costantemente sottoposta agli attacchi delle città guelfe in guerra con Pisa e andò quasi interamente perduta negli anni successivi alla sconfitta della Meloria (1284). Solo dopo la firma della pace di Fucecchio nel 1293, che pose fine alla guerra con la Lega guelfa delle città toscane, i Pisani riuscirono a recuperare tutto il loro contado e a dotarlo di una nuova, sistematica organizzazione amministrativa.

L’aspetto forse più interessante, ma anche il più controverso, è rappresentato dallo studio delle forme di organizzazione e di governo del territorio pisano nel periodo compreso tra XII e XIII secolo. Fino agli anni Sessanta del secolo XII, come abbiamo detto, Pisa si limitò ad assecondare e sostenere le operazioni del proprio vescovo nelle aree esterne alla diocesi; ottenne i primi giuramenti dalle comunità locali, spesso per vedersi riconosciuto il diritto di usufruire delle roccaforti locali in caso di emergenza militare. Ma il quadro politico non subì mutamenti di rilievo:

almeno per un paio di decenni ancora, la Valdera rimase estranea all’egemonia politica tanto pisana, quanto lucchese, una sorta di “cuscinetto” tra le aree di influenza politica delle due città rivali. E anche nei decenni successivi, dopo essere passata sotto il controllo pisano, il Comune non provvide ad una eliminazione sistematica delle giurisdizioni concorrenti (dei signori e dei Comuni rurali), ma – parallelamente a quanto stava avvenendo all’interno del comitatus storico – le riconobbe,

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cercando piuttosto di riorganizzarle nel contesto di un globale disegno di razionalizzazione degli assetti territoriali.

In sostanza, fino al Duecento Pisa esercitò sulla Valdera – come sul resto del contado – un’egemonia dai caratteri ben poco formalizzati. Le strutture signorili (quelle dei vescovati di Lucca e di Pisa, dei Gherardeschi, degli Upezzinghi e dei conti di Cevoli, Pava e Montecuccari) sopravvissero spesso ben oltre la fine del secolo XII. E d’altra parte, nella seconda metà del secolo, si intensificano le notizie relative alla formazione di Comuni rurali, molti dei quali sorti all’interno di nuclei signorili e avviati al conseguimento di una precoce maturità istituzionale, suggellata dall’elezione di propri magistrati. Forse proprio i decennali contrasti tra Pisa e Lucca, così come la concorrenza tra gli episcopati delle due città, accelerarono l’evoluzione politica e sociale delle compagini rurali, che riuscirono ad acquisire margini di autonomia più ampi rispetto al passato.

Più difficile è capire quali fossero nel concreto questi spazi di autonomia, soprattutto sotto il profilo giurisdizionale. Il Comune di Pisa cercò di incentivare il ricorso delle comunità rurali alla giustizia cittadina. Ma per tutto il secolo XII e anche oltre i sistemi giudiziari rimasero molto complessi e articolati e la risoluzione delle dispute civili continuò ad essere ampiamente demandata ad arbitrati informali, che spesso erano presieduti dagli elementi di spicco della società comitatina, cioè da quei boni homines che oltre a costituire la clientela dei detentori di diritti signorili nei diversi castelli della zona, rappresentavano anche il ceto dirigente degli organismi comunali. Del resto, il silenzio delle fonti riguardo all’amministrazione della giustizia nel territorio da parte delle magistrature pisane, costituisce una prova, seppure indiretta, che la società rurale rimase in larga parte in mano ai lignaggi e alle collettività rurali, ma quale fosse – laddove le signorie esistevano – l’articolazione interna dei rapporti tra queste due componenti è problema di difficile soluzione.

Una prima importante trasformazione si verificò all’inizio degli anni Novanta del XII secolo con l’istituzione delle Capitanie, circoscrizioni amministrative modellate sulle ampie aree geografiche del territorio pisano (tra cui la Valdera), affidate al governo di funzionari non residenti, chiamati Capitani. Non si trattò comunque di un cambiamento drastico, dal momento che questi officiali non ebbero competenze specifiche e che il ricorso alla loro autorità da parte degli abitanti del contado continuò a essere volontario.

Solo a partire dagli anni Trenta del secolo XIII l’atteggiamento del Comune di Pisa nei confronti del contado cambiò radicalmente. Il governo cittadino del territorio venne strutturandosi in senso sempre più marcatamente pubblicistico, determinando un disconoscimento delle giurisdizioni concorrenti, che furono duramente contestate e combattute. Il numero delle Capitanie crebbe e, cosa particolarmente importante, gli officiali cittadini iniziarono a risiedere e a tenere curia nella località loro affidate, nelle quali svolgevano funzioni giurisdizionali e amministrative. La

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presenza cittadina nel contado divenne molto più capillare e trasformò quello che fino ad allora era stato un controllo poco invasivo in un vero e proprio dominio politico. Le autonomie garantite fino a quel momento alle comunità rurali vennero poco a poco erose: soltanto alcuni dei castelli più importanti conservarono una posizione di maggior prestigio.

In Valdera però – e più in generale in tutte le aree esterne alla diocesi pisana – il rafforzamento del governo di Pisa non fu probabilmente così precoce. Negli anni Trenta del secolo XIII i Capitani di stanza nell’area erano soltanto tre; al titolare della più vasta circoscrizione di Valdera, si erano affiancati quelli di Peccioli e di Palaia, quest’ultima località temporaneamente sottratta al controllo del vescovo di Lucca, nella cui disponibilità sarebbe tornata di lì a poco: il che mette seriamente in discussione il presupposto di una sistematicità del governo pisano sulla zona.

Comunque, in quello stesso frangente, assicurarsi un controllo più saldo sulle roccaforti rurali divenne una necessità generale per tutti i soggetti politici: anche l’episcopato lucchese, nella prima metà del Duecento, cominciò a insediare funzionari dotati di pieni poteri giurisdizionali nei sette castelli della zona rimasti sotto il suo controllo.

È plausibile, in definitiva, che il dominio pisano sulla Valdera sia rimasto abbastanza discontinuo per tutto il Duecento: del resto, mancano testimonianze relative all’avvio di processi che vengono solitamente considerati significativi di una maggiore organicità di rapporti tra centro e periferia e mi riferisco in modo particolare alla penetrazione della proprietà cittadina nel territorio.

In Valdera tali processi si misero in moto solo tra la seconda metà del XIII e l’inizio del XIV secolo, quando la situazione mutò radicalmente anche sotto il profilo politico-amministrativo.

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