• Non ci sono risultati.

Professore, Aldo Petrucci, relatore di questa tesi, per la pazienza e il

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Professore, Aldo Petrucci, relatore di questa tesi, per la pazienza e il "

Copied!
51
0
0

Testo completo

(1)

3

RINGRAZIAMENTI

Un doveroso ma soprattutto sentito ringraziamento va al carissimo

Professore, Aldo Petrucci, relatore di questa tesi, per la pazienza e il

paterno affetto, che hanno permesso il raggiungimento di questo

traguardo. Al Professor Alessandro Cassarino un affettuoso grazie,

per la sua innata disponibilità. Al Dottore Alessandro Grillone per la

sua cordialità e i suoi preziosi suggerimenti va tutta la mia stima e

gratitudine. Un amorevole ringraziamento ai miei bambini per avermi

fatto credere in me ogni giorno, supportandomi con il loro immenso

amore. Tutta la mia stima e la mia considerazione a mio fratello per la

devozione e il supporto incondizionato quando io stessa mi

sopportavo con difficoltà. Infine, un pensiero va a tutta la mia

famiglia per il sostegno immutato e i sacrifici affrontati, grazie anche

ai quali, ho potuto completare questo percorso.

(2)

4

Premessa

L’Unione Europea nasce dalla volontà di creare uno spazio unitario comune a tutti i cittadini, soggetti, istituzioni ed imprese che vivono e operano all’interno dei suoi confini. Si prefigge lo scopo di impedire nuovi conflitti tra stati confinanti così come avvenuto con la seconda guerra mondiale. Negli anni cinquanta la comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) comincia ad unire i Paesi europei sul piano economico politico al fine di garantire tra essi una pace duratura. I Paesi fondatori sono Italia, Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi. É il 1957 e il Trattato di Roma istituisce la comunità economica europea (CEE), o “Mercato comune”.

Lo spazio unitario, voluto e creato dai fondatori poggia su tre pilastri,

Stato sociale, economia libera e giustizia comune. A tale desiderio di

unitarietà e appartenenza alla stessa comunità si contrappongono le

peculiarità dei vari stati aderenti, oggi 28, con le loro differenze di

natura privatistica insieme ad alcuni elementi comuni. In un contesto

storico come quello attuale, appare, quindi, sempre più incalzante la

necessità di un’unificazione del diritto privato europeo, allo scopo di

agevolare l’interpretazione e la razionalizzazione dei vari contratti

privati nazionali, così da favorirne gli scambi commerciali

internazionali e meglio poter tutelare gli interessi economici delle

parti oggetto dei contratti. Attualmente il progetto di un universo

giuridico unitario, è ancora, travagliato da una molteplicità di fonti e

(3)

5

dal variabile grado di incidenza del diritto comunitario sul diritto interno degli Stati membri.

Il lavoro che segue si suddivide in una prima parte contenente i cenni storici sulla buona fede e un breve excursus che prende inizio dal diritto romano; seguirà, poi, una comparazione della clausola generale della buona fede nel diritto italiano, francese, tedesco e anglosassone.

Si procederà indicando il perché della necessità di un diritto

contrattuale europeo, annoverando il lavoro sin ora svolto dalle

commissioni e dai vari progetti e mostrando, si spera, quanto utile

sarebbe la nascita di un diritto contrattuale europeo unificato, per la

razionalizzazione ed armonizzazione degli scambi commerciali a

beneficio dell’intera collettività europea nelle sue relazioni

commerciali e non solo.

(4)

6

CAPITOLO I

PROFILI SOSTANZIALI ED EVOLUZIONE STORICA DEL PRINCIPIO DI BUONA FEDE

I.1 Le origini della Buona Fede nel diritto romano.

Le origini del concetto giuridico della buona fede risultano a tutt’oggi incerte.

Si tratta di una nozione erede di un concetto più ampio e risalente, ma meno preciso, quello di “fides”. 1 Gli autori antichi 2 utilizzano tale definizione per indicare due situazioni opposte: talora viene riferita al rispetto dell’impegno preso con constantia et veritas 3 , presupponente un rapporto di uguaglianza ed una promessa il cui compito è quello di definire il contenuto dell’impegno assunto, talora invece viene associato alla protezione della parte più debole evidenziandosi quindi l’ineguaglianza di esse.

L’estrema complessità della nozione di fides non permette che possa essere ridotta ad un concetto unitario, nonostante le prime manifestazioni di essa risalgano alle origini stesse di Roma.

Taluni autori, quali il Lombardi, rifiutano di riconoscere un nesso fra la fides ed il culto della dea Fides, negando quindi una rilevanza religiosa di tale concetto. Numerosi risultano i campi di applicazione del concetto della “fides" utilizzata sia nei rapporti tra privati che nei

1

L. Bigliazzi Geri, Note in tema di interpretazione secondo buona fede; Art 1366 cod.civ, Pisa, 1970.

2

Plauto, Tri 271 "boni sibi haec expetunt, rem, fidem, honorem, gloria et gratiam: hoc probis praemiumst".

3

Cic.,De off 1.23: << fides, id est dictorum conventorum que constantia et

veritas >> .

(5)

7

rapporti tra popoli diversi. Partendo quindi da quest’ultimo uso evinciamo che un popolo sconfitto si affida alla fede del vincitore,

“se in fidem tradere 4 ”, ma anche ha insita l’idea di Fides, intesa come reciproca fiducia che avrebbe dovuto instaurarsi tra chi lo avesse compiuto.

Con riguardo invece alla definizione di rapporti tra privati, la fides appare piuttosto, nei legami di clientela, un concetto integrante tanto di aspetti politici, quanto domestici. Il passato narra di lotte interne, agli inizi della storia di Roma, legate al potere sul cittadino-cliente che il magistrato ed il patrono traggono dalla fides. La stessa promulgazione delle XII Tavole costituirebbe, quindi, una vittoria della plebe nella sostituzione di un più favorevole concetto di

“fides”contrapposto a quello patrizio. Sorge quindi tra gli studiosi il dubbio sul contenuto della stessa nei rapporti clientelari. A tale proposito rilevano l’opinione del Lombardi 5 , ritenente la fides potestà ed affermazione di potere, contrapposta all’interpretazione del Kaser 6 per il quale il concetto sarebbe originato, piuttosto da una norma

“sacrale”, il cui scopo precipuo era limitare l’arbitrarietà del patrono.

A queste divergenti opinioni se ne contrappone una terza del Gaudemet 7 , il quale si pone l’interrogativo se la “fides” non sia

4

Liv.,8.2.11: " Campanorum Aliam codicionem esse, qui non foedere, sed per deditionem in fidem venissent " .

5

L. Lombardi, Dalla fides alla bona fides, Milano, 1961, pag. 147 e ss.

6

Kaser, Storia del diritto romano, Milano, 1990, traduzione a cura di R.

Martini, pag. 91 e ss.

7

Gaudemet, fides e bona fide s , cit. pag. 242.

(6)

8

piuttosto una virtù propria di colui che usa con moderazione il proprio potere. Ad ogni buon fine essa supera il suo campo di applicazione legato ai rapporti clientelari, portando però con sé svariate incongruenze, ed entrando in concorrenza con il campo di applicazione di altre nozioni quali la potestas o il dominium.

Per il Lombardi 8 la fides si ritrova nei casi di tutela, curatela, di adozione, di fiducia ritenendo che si tratti di alcuni atti di semi- assoggettamento della propria persona, ovvero di un uomo libero che offre sé medesimo per il pagamento di un proprio debito. Accezione non accolta dal Gaudemet, per il quale porre il problema della fides in quanto potere, ne solleverebbe uno ben più ampio dell’unità o pluralità del potere nella Roma arcaica, considerando la concezione romana della fides, come uno dei tanti aspetti del concetto di potere giuridico come la potestas e il dominium.

Ponendo adesso l’attenzione sulla nozione più tradizionale della definizione di fides in quanto promessa, essa si manifesta sotto tre aspetti differenti 9 . Il primo appare come un atto di assicurazione, accompagnato dal rito della mano destra, fidem dare. Al contempo però appare anche designare il legame instaurato da una promessa, in fidem stare, fidem frangere. Da ultimo, può consistere nel rispetto per l’impegno preso (dictorum conventorum quae constantia et veritas).

8

L. Lombardi, Dalla fides, cit., pag. 62 e ss.

9

L. Bigliazzi Geri, Note, cit., pag. 131 e ss.

(7)

9

Si giunge quindi a definire, la bona fides, un concetto puramente giuridico: la fides del bonus vir 10 .

La bona fides deriva la sua origine dall’insieme di queste nozioni, anche se tutt’oggi appare difficile spiegare come concetti vaghi abbiano potuto dar luogo a tale nozione giuridica.

È in un momento storico imprecisato che i giuristi hanno cominciato ad applicare tale principio quale strumento per l’elaborazione di alcune istituzioni di diritto privato. È nel campo dei contratti, in particolare, della vendita e della locazione, che la buona fede oggettiva trova il suo principale campo di applicazione. Sin dal III sec. a.C. Si rilevano influenze della nozione di buona fede in ambito contrattuale, dando vita ai bona fidei iudicia e all'impiego della nozione di buona fede intesa come comportamento corretto generalmente atteso da un uomo normale in uno specifico ambito negoziale. Nella sua accezione soggettiva, che non interessa il campo di questa indagine, concernendo invece i rapporti reali, la buona fede pare che abbia iniziato ad interessarli nel I sec. a.C.

L’Actio Publiciana, infatti, tutela il possessore in buona fede integrando la protezione del compratore nella sua accezione soggettiva ed interiore, in quanto condizione del soggetto che possiede. Una buona fede soggettiva che si estrinseca nella convinzione del possessore del carattere legittimo del suo

10

Cicerone, De Off. 3.80: "bonus vir qui prodest quibus potest et nocet

nemini", in R. Fiori, Il vir bonus tra filosofia greca e tradizione romane nel

de officiis di Cicerone, Napoli, 2011, pag. 19 e ss.

(8)

10

comportamento, incapace di ledere l’altrui diritto, ovvero, della legittimità dell’atto con cui ha acquistato il possesso.

La buona fede oggettiva si manifesta invece, in particolar modo nei Bonae fidei iudicia, specifica categoria di azioni della procedura formulare contrapposta agli stricta iudicia (azioni di stretto diritto). I Bonae fidei iudicia, che contengono al loro interno le parole: “ex fide bona”, avevano la caratteristica di concedere ampi margini di manovra al giudice. La formula di tali azioni si connota per una struttura particolare che associava alla condemnatio una ulteriore coppia di clausole: la demonstratio e l’intentio. Ciò comporta una duplice caratterizzazione del rapporto giuridico invocato dall’attore:

da una parte, qualificato, dalla fonte da cui scaturisce tale rapporto e dall’altra, dalle relative obbligazioni.

La demonstratio quindi, come fonte del rapporto giuridico dedotto in giudizio, l’intentio, come i doveri in esso contenuti a cui il convenuto deve, in forza di quanto indicato nella demonstratio e secondo le regole della buona fede, prestare ossequio dando o facendo qualcosa.

La presenza della parola Oportet nell' interpretatio indica l’esistenza

di un dovere, qualificato in questo caso ex fide bona, da cui scaturisce

un’azione, la quale trae origini da un atto anteriore alla concessione

pretoria. Un’osservazione particolareggiata della formula dell’azione

di buona fede mostra che essa porta con sé un insieme di regole

giuridiche attinenti al regime delle obbligazioni. È dal fatto

menzionato dalla demonstratio che si evince l’obbligazione, ma

(9)

11

origine e contenuto vengono regolati dal principio della buona fede presenti nell’intentio. Tale applicazione consente al giudice di poter decidere la controversia, valutando anche il comportamento delle parti a seguito della conclusione del contratto durante lo svolgimento del processo, in quanto l’obbligazione ha generato obblighi reciproci e interdipendenti, che sono integrati dalle peculiari regole della buona fede. Le azioni di buona fede si fanno strada in un momento storico interessato dall’insufficienza della procedura delle legis actiones a tutelare tutte le situazioni giuridiche presentate dallo sviluppo del commercio internazionale, nel quale essa viene così progressivamente soppiantata dalla procedura formulare. In tale periodo storico si assiste ad un’ulteriore innovazione ovvero la comparsa delle obbligazioni reciproche.

Il diritto romano antecedente conosceva il solo scambio reale, di cui

la mancipatio era il prototipo, e la stipulatio produceva solo

obbligazioni unilaterali. Lo scambio obbligatorio non era contemplato

e, dunque, è la creazione della figura delle azioni di buona fede ad

aver permesso ciò. Si poteva con esse riferirsi ad un oggetto incertum,

ma anche a somme certe e determinate e a qualsiasi obbligazione, nel

rispetto delle sue modalità di esecuzione. La buona fede era richiesta

nell’esecuzione di ogni tipo di prestazione, essa consisteva nella

conoscenza, nell’osservanza delle regole tecniche della diligenza e

(10)

12

nel rispetto dei patti speciali stipulati dalle parti 11 . La menzione della buona fede nell’intentio permetteva di cogliere e di regolare l’interdipendenza delle obbligazioni delle parti. È, dunque, in questo contesto che il regime della buona fede ha generato quello dei contratti consensuali.

La più antica azione di buona fede risale al III sec. a.C. Essa tutelava il pactum fiduciae, associato alla mancipatio fiduciaria, istituto alquanto antico, che la legge delle XII Tavole tuttavia non prevedeva, a cui si può far risalire il punto di partenza della creazione del contratto consensuale 12 . Dalle Istituzioni di Gaio 13 il catalogo delle azioni di buona fede, che può essere ricostruito include: le azioni di vendita, di locazione, di gestione degli affari, di mandato, di deposito, di fiducia, di società, di tutela, di dote, di comodato, di pegno e infine le azioni divisorie. Nelle Istituzioni di Giustiniano 14 non sono più menzionate l’actio fiduciae e l’actio rei uxoriae, esse aggiungono a questo catalogo le azioni per i contratti innominati di scambio e de aestimato, nonché l’actio praescriptis verbis.

Quest’ultima era l’azione generale per i contratti innominati ed era stata introdotta dalla giurisprudenza dell’inizio del II secolo 15 .

11

P. Daniel Senn, Buona fede nel diritto romano, in Dig., disc. priv. sez., II, Torino, 1988, pag. 129 e ss.

12

M. Kaser, Das roemische Privatrecht, München, 1975, II, pag., 461 e ss.

13

Gai. 4.62.

14

Gai. 4.6.28.

15

D.2.14.7.2.

(11)

13

La religiosità della fides, evidenziata fin dalle più lontane origini, mostra l'esigenza di garanzie e di rispetto: nel se dedere in fidem è proprio la fides che dovrebbe impedire arbitrio e spietata crudeltà che caratterizzano il dedere se in arbitrium, ovvero l'abbandonarsi e l'affidarsi ad altri senza difese alcune, dovrebbe quindi in tali circostanze la fides far scattare limiti e vincoli all'agire altrui.

Nei rapporti internazionali, i Romani, fregiandosi di una fides della quale si ritenevano esclusivi depositari, proponevano, come lealtà e rispetto dell’altrui affidamento, una politica espansionistica ed un’innata vocazione all’imperialismo. Nei criteri interpretativi, invece, la fides concretizzava un principio etico, che si sviluppava attraverso rapporti su un piano di uguaglianza.

Con il nascere e l'evolversi dello ius gentium e grazie all’intervento della figura del pretore peregrino, dapprima per regolare i rapporti tra gli stranieri, e poi quelli tra i cittadini, si assiste all’integrazione del diritto dei contratti con un criterio oggettivo di fides, divenuta oramai bona, e dunque, in base alla c.d. correttezza commerciale. Sono i bonae fidei iudicia sintetizzati nell’antica formula “quidquid ob eam rem dare facere oportere ex fide bona 16 ", essi rappresentano la risposta, sul piano processuale, alla violazione del vinculum derivante da negozi e rapporti costruiti sulla base di una regola comportamentale generale avente oramai portata normativa e in quanto tale successivamente assorbita nello ius civile.

16

Gai. 4,47.

(12)

14

Di tutto ciò l’aspetto più rilevante è, da un lato, la possibilità per il convenuto di far sempre valere le sue difese in giudizio tramite l’exceptio doli che si estende oltre l'ambito di operatività della buona fede e, dall’altro, nella << bilateralità >> che caratterizza i giudizi in questione, nei quali la formula usata consente al giudice, dapprima, di tenere conto delle pretese attoree verso il convenuto, e poi quelle di quest’ultimo nei confronti dell’attore 17 .

Si evidenzia la straordinaria efficienza dei bonae fidei iudicia, fondati su un concetto al quale è riconosciuto ampio margine estensivo e la capacità inoltre di intervenire, in tutelis societatibus (Cicerone, de off.,3.70: << Q. quidem Scaevola, pontifex maximus summam vim esse dicebat in omnibus iis arbitriis, in quibus adderetur ‘ex fide bona’, fideique bonae nomen existimabat manare latissime, id que versari in tutelis societatibus 18 >>) [Quinto Scevola, Pontefice Massimo, diceva che hanno grandissima importanza tutti quei giudizi arbitrali in cui si aggiunge la clausola "ex fide bona" e credeva che il significato della buona coscienza avesse una grandissima estensione e riguardasse la tutela della società].

Contestualmente si assiste ad un ampliamento dei poteri del giudice, che non avviene nell’ambito di quelli che verranno indicati come iudicia stricta.

17

L. Bigliazzi Geri, Note, cit., pag.131, 132 e 133.

18

Cicerone, de officis, 3,70.

(13)

15

Sono i testi giurisprudenziali prodotti tra il I e il III secolo d.C. a mettere in luce una pluralità di funzioni in cui essa opera concretamente in ambito contrattuale. Possiamo individuarne principalmente tre: I. la bona fides come parametro per valutare determinate modalità di esecuzione dei contratti e salvaguardare il vincolo sinallagmatico; II. La bona fides come criterio interpretativo per la ricostruzione della volontà delle parti e adattare ad essa il tipo contrattuale; III. La bona fides come criterio integrativo dell'assetto di interessi determinato dai contraenti.

La buona fede come parametro per valutare l’esecuzione di un contratto e la conservazione del sinallagma si evince nitidamente da un passo dei Posteriorum libri di Labeone, epitomato da Giavoleno (D.19,1,50 Lab. 4 a Iav.epit), 19 nel quale è affrontata la seguente fattispecie: Bona fides non patitur, ut, cum emptor alicuius legis beneficio pecuniam rei venditae debere desisset antequam res ei tradatur, venditor tradere compelletur et re sua careret. Possessione autem tradita futurum est,ut rem venditor aeque ammitteret utpote cum petenti < eam rem emptor exceptionem rei venditae et traditae opponere possit….integrazione dell’ed. Mommsen > . [La buona fede non tollera che, avendo il compratore, per beneficio di una qualche legge, cessato di dovere il denaro della cosa venduta prima che questa gli fosse consegnata, il venditore sia costretto a consegnargliela e a

19

A. Petrucci, Fondamenti romanistici del diritto europeo. La disciplina

generale del contratto, I, Torino, 2018, pag. 60 e ss.

(14)

16

privarsi della propria cosa. Invece, trasmesso il possesso, avverrà che equamente il venditore perda la cosa, cosicché, se la richieda in giudizio, il compratore possa opporgli l’eccezione di cosa venduta e cosa consegnata……].

Conclusa una compravendita, ma prima che le parti eseguano le rispettive obbligazioni, interviene una legge, con la quale si dispone, secondo la più attendibile ricostruzione, la trasmissione forzata di terre a favore dei veterani di guerra. In base ad essa l’acquirente era esonerato dal pagamento del prezzo. Ponendosi il quesito se in tale circostanza il venditore avesse dovuto o meno trasmettere la cosa, il giurista, esprimendo parere negativo, motivava la sua decisione sulla base del principio, secondo il quale la buona fede non permetteva un’alterazione del sinallagma tra le prestazioni così da lasciare il venditore obbligato a consegnare la cosa acquistata. Se invece il possesso del fondo fosse già stato trasmesso all’acquirente, il venditore avrebbe dovuto sopportare il rischio della sua perdita, e se l’avesse rivendicato, l’acquirente avrebbe potuto eccepirgli l’avvenuta consegna della cosa venduta 20 . Labeone si discosta dall’applicazione del principio del periculum est emptoris, secondo il quale in una compravendita il rischio del perimento non imputabile della cosa acquistata gravava sul compratore. Labeone preferisce richiamare il principio della buona fede quale criterio di valutazione della tollerabilità degli accadimenti intervenuti dopo il contratto, che

20

A. Petrucci, Fondamenti, cit., pag. 61.

(15)

17

alterano, quindi, l’equilibrio tra le prestazioni dei contraenti. Superato il limite, esso va ripristinato con la conseguenza in questa fattispecie che il venditore è esonerato dall’adempimento ed il contratto si risolve. Diversamente, se il passaggio del possesso fosse già intervenuto, valida è l’opposta soluzione, ovvero il contratto produce i suoi effetti ed è il venditore a sopportare la perdita del bene senza la corresponsione del pattuito. Ciò si dovrebbe al fatto che, fino al compimento della traditio (consegna), le obbligazioni reciproche coesistono e con esse il nesso di interdipendenza che le lega sulla base del criterio della buona fede, mentre, con l’estinzione dell’obbligazione di consegnare, viene meno tale nesso e l’obbligazione ancora esistente (quella di pagare il prezzo) segue la propria sorte. Un celebre testo delle Istituzioni di Gaio (4,61-63) ci propone un’applicazione in sede giudiziale del principio della buona fede, riferita all’adempimento delle obbligazioni delle parti: …..

continentur, ut habita ratione eius, quod invicem actorem ex aedem causa praestare oporteret, in reliquum eum, cum quo actum est, condemnari debeat. 62. Sunt autem bonae fidei iudicia haec:ex empto vendito, locato conducto,…..mandati, depositi, fiduciae, pro socio,….

rei uxoriae. 63. Liberum est tamen iudici nullam omnino invicem

compensationis rationem habere: nec enim aperte formulae verbis

praecipitur, sed quia id bonae fidei iudicio conveniens videtur, ideo

officio eius contineri creditur [Nei giudizi di buona fede è incluso

che, tenuto conto di ciò che l’attore deve, a sua volta, prestare in base

(16)

18

alla stessa causa, si debba condannare il convenuto alla rimanente differenza. 62. Sono poi i giudizi di buona fede quelli che nascono da compravendita, locazione, conduzione, mandato, deposito, fiducia, società…… costituzione di dote. 63. Tuttavia vi è libertà per il giudice di non tenere conto di nessuna compensazione reciproca:

infatti, ciò non è stabilito espressamente nelle parole della formula

<dell’azione>, ma, poiché si considera conveniente ad un giudizio di buona fede, si crede perciò che sia incluso nell’ufficio del giudice stesso]. Nelle relazioni contrattuali fondate sulla bona fides (compravendita, locazione …..) e nelle azioni corrispondenti il giudice può pronunciare sulla compensazione tra le reciproche pretese delle parti nascenti ex eadem causam 21 . Esso non rappresenta un obbligo del giudice, ma una sua facoltà, che, pur non essendo espressamente prevista dalle parole della formula, appare conforme ad un rapporto prima contrattuale e poi, in questo caso, processuale fondato sulla buona fede, considerata quale criterio di valutazione del comportamento delle parti e della reciproca cooperazione per il raggiungimento dei propri obiettivi mediante l’esecuzione del contratto. In tale contesto, merita di essere riferito anche il rinomato testo di Trifonino in D. 16,3,31 pr.-1 (9 disp.) attinente al rapporto tra buona fede ed equità, per l’influenza che una sua interpretazione ha esercitato nella tradizione giuridica successiva con importanti riflessi sulle codificazioni moderne: Bona fides quae in contractibus exigitur

21

A. Petrucci, Fondamenti, cit., pag. 62 e ss.

(17)

19

aequitatem summam desiderat: sed eam utrum aestimamus ad merum

ius gentium an vero cum praeceptis civilibus et praetoris? Veluti reus

capitalis iudicii deposuit apud te centum: is deportatus est, bona eiu

spublicata sunt; utrumne ipsi haec reddenda an in publicum

deferenda sint? Si tantum naturale et gentium ius intuemur, ei qui

dedit restituenda sunt: si civile ius et legum ordinem, magis in

publicum deferenda sunt: nam male meritus publice, ut exemplo aliis

ad deterrenda maleficia sit, etiam egestate laborare debet. 1. Incurrit

hic et alia inspectio. Bonam fidem inter eos tantum, <inter> quos

contractum est, nullo extrinsecus adsumpto aestimare debemus, an

respectu etiam aliarum personarum, ad quas id quod Geritur

pertinet? Exempli loco latro spolia quae mihi abstulit posuit apud

Seium inscium de malitia deponentis: utrum latroni an mihi resituere

Seius debeat? Si per se dantem et accipientem intuemur, haec est

bona fides, ut commissam rem recipiat is qui dedit: si totius rei

aequitatem, quae ex ominibus personis quaenegotio isto continguntur

impletur, mihi reddenda sunt….. Et probo hanc esse iustitiam, quae

suum cuique….. tribuit…..[La buona fede, che si esige nei contratti,

richiede la somma equità: ma la valutiamo con riguardo al mero

diritto delle genti oppure ai precetti civili e pretori? Come ad es.,

l’accusato di un giudizio capitale ha depositato presso di te cento; è

stato poi deportato ed i suoi beni sono stati confiscati. Forse che

questi < cento > devono essergli restituiti oppure vanno incamerati? Se

consideriamo soltanto il diritto naturale e delle genti, sono da

(18)

20

restituire a chi li ha dati; se invece < consideriamo > il diritto civile e l’ordine delle leggi, si devono piuttosto incamerare: infatti, chi demerita pubblicamente, per essere d’esempio agli altri nell’astenersi dai delitti, deve anche soffrire in povertà. 1.Ha luogo qui anche un’altra indagine. Dobbiamo valutare la buona fede soltanto tra quelli, tra i quali si è concluso il contratto, senza implicarne nessun altro al di fuori oppure con riferimento anche ad altre persone, alle quali concerne quanto si è concluso? Ad esempio, un ladro ha depositato le cose che mi ha sottratto presso Seio ignaro della malizia del deponente. Seio deve restituire a me o al ladro? Se consideriamo di per sé chi dà e chi riceve, è buona fede quella per cui chi ha dato riceva la restituzione della cosa consegnata; se consideriamo l’equità di tutta la situazione, che riguarda tutte le persone che sono implicate in questo affare, devono essere restituite a me…. Ed approvo che è giustizia quella che attribuisce a ciascuno il suo…..]

Nella frase in apertura si formula un’affermazione apparentemente di

carattere generale, per cui essa racchiude in sé l’equità che va

osservata in tutti i contratti. In realtà, nei due esempi su riportati, si

nota che il riferimento della buona fede, individuata sulla base dello

ius gentium, va inteso tenendo conto di un complesso di valori,

sottointesi alla nozione di equità, al fine di trovarne la soluzione

giuridica più consona. Altri passi della giurisprudenza romana,

incentrandosi sempre sul tema della esecuzione delle obbligazioni, si

pongono nella diversa ottica di richiamarsi alla buona fede

(19)

21

(oggettiva), per sanzionare con lo strumento dell’exceptio doli, il comportamento sleale e scorretto di una parte. Per i contratti tutelati da azioni che danno luogo a giudizi di stretto diritto (iudicia stricti iuris), contrapposti a quelli dei giudizi di buona fede (iudicia bonae fidei), le condotte delle parti contrarie ai doveri di lealtà e correttezza erano valutate e sanzionate in termini di dolus malus.

Già per i Romani esso costituiva vizio della volontà, rilevante nella conclusione di un negozio giuridico (in conficiendo negotio) si connotava quale dolus malus e consisteva nel comportamento inescusabilmente malizioso, fatto di raggiri e artifizi, di un soggetto (c.d. deceptor), nei riguardi di un altro soggetto (c.d. deceptus), con cui fosse in trattative o in rapporti giuridici, allo scopo e con gli effetti di indurlo ad un’azione pregiudizievole dei propri interessi.

Distintamente dal malus era il bonus, che consisteva in una tollerabile abilità, piccoli e innocui espedienti, nel curare i propri interessi e non costituiva vizio della volontà. L’elaborazione del dolo (nella forma di dolus malus) quale vizio della volontà negoziale è frutto della giurisprudenza preclassica e classica, che distinse tra:

dolo determinante (causam dans), che comportava la nullità del negozio, in quanto determinava nel contraente una falsa rappresentazione della realtà, che, fuorviandolo, lo induceva alla conclusione di un contratto, altrimenti non voluto;

dolo incidente (ìncidens), che induceva la controparte alla

(20)

22

stipulazione di un contratto a condizioni diverse da quelle volute.

Questo tipo di comportamento non determinava la nullità dell’atto; la parte caduta in errore, però, aveva diritto ad un indennizzo oppure ad ottenere la giusta prestazione.

La repressione del dolo fu, in origine, un’innovazione pretoria, che Cicerone, in particolare, attribuisce ad Aquilio Gallo. Tra i rimedi apprestati in favore del cd. deceptus (cioè la vittima del dolo) ricordiamo: l’actio de dolo; l’exceptio doli e l’in integrum restitutio ob dolum. Era usuale garantire la controparte con una clausula doli, cioè con una promessa assunta nella forma della stipulatio.

Era considerato illecito il “pactum ne dolum praestetur” cioè di esclusione della responsabilità per dolus malus.

Quale criterio di imputazione della responsabilità per inadempimento contrattuale, o da fatto illecito, rilevava solo nella configurazione di dolus malus (od anche dolus praesens), cioè quale accertata intenzionalità di non adempiere l’obbligazione o di commettere un fatto illecito. In particolare, in ambito contrattuale, si ritenne che fosse normale criterio di imputazione della responsabilità per i casi in cui un’obbligazione fosse sorta nell’esclusivo interesse del creditore:

in questo caso il debitore era responsabile solo dell’inadempimento derivante da dolo, mentre in tutti gli altri casi, il criterio d’imputazione normale era la culpa levis.

Un testo delle Istituzioni di Gaio (4,119), riporta le parole

dell’eccezione predisposta nell’editto pretorio e diretta a reprimere il

(21)

23

dolo negoziale dell’attore, commesso al momento della conclusione del negozio sia quello posto in essere nell’esercizio del suo diritto come, ad esempio, nel caso in cui si chiedesse la restituzione in via giudiziale di una somma di denaro mai pagata: ….. Nam si verbi gratia reus dolo malo aliquid actorem facere dicat, qui forte pecuniam petit quam non numeravit, sic exceptio concipitur: SI IN EA RE NIHIL DOLO MALO A. AGERII FACTUM SIT NEQUE FIAT…….

[…… Infatti, se ad esempio il convenuto dica che l’attore faccia qualcosa con dolo, perché, puta caso, richiede in giudizio denaro che non ha mai dato, l’eccezione è predisposta così: SE IN UNA TALE SITUAZIONE NON È STATO FATTO NÉ È FATTO NULLA PER DOLO O COLPA DI A. AGERIO….]

A questo testo meritano di esserne aggiunti due di Paolo, il primo indica la ratio alla base della creazione di una tale eccezione, individuandola nell’esigenza di evitare che qualcuno, mediante l’esercizio doloso di un proprio diritto riconosciutogli dallo ius civile, possa conseguire qualche vantaggio contra naturalem aequitatem:

D.44,4,1,1 (Paul. 71 ad ed.): Ideo autem hanc exceptionem praetor

proposuit, ne cui dolus suus per occasionem iuris civilis contra

naturalem aequitatem prosit. [Il pretore, poi, ha predisposto questa

eccezione (scil. di dolo) per ciò, che il dolo di qualcuno per occasione

del diritto civile non gli giovi contro l’equità naturale], mentre il

secondo configura come doloso il comportamento di chi faccia valere

(22)

24

in giudizio il diritto ad ottenere qualcosa, che debba subito dopo restituire, formulando una regola raccolta dai compilatori giustinianei nell’ultimo titolo del Digesto (dedicato alle diversae regulae iuris antiqui): D.44,4,8 pr. (D.50,17,173,3) (Paul. 6 ad Plaut): Dolo facit, qui petit quod redditurus est. [Agisce con dolo chi chiede in via giudiziale ciò che dovrà restituire].

Ciò rappresenta, difatti, una violazione dei doveri di buona fede e correttezza, che sarà poi sviluppata dalla dottrina e giurisprudenza tedesca in sede di applicazione ed interpretazione del ꭍ 242 del BGB.

Sul ruolo della buona fede come criterio per ricostruire il consenso delle parti e adattare ad esso il tipo contrattuale, si richiamano un passo collocato in D. 19,2,21 riconducibile a Giavoleno Prisco (11 epist.) vissuto nell’ultima parte del I secolo d.C., che esamina in una fattispecie concreta la funzione della fides bona in sede di ricostruzione ed attuazione della volontà contrattuale delle parti:

Cum venderem fundum, convenit, ut donec pecunia omnis

persolveretur, certa mercede emptor fundum conductum haberet: an

soluta pecunia merces accepta fieri debeat? Respondit: bona fides

exigit, ut quod convenit fiat: sed non amplius praestat venditori,

quam pro portione eius temporis, quo pecunia non numerata non

esset. [Quando ho venduto un fondo, si è convenuto che il compratore

lo prendesse in locazione ad un determinato canone fino a che tutto il

prezzo non fosse pagato; forse che il canone ricevuto si dovrebbe

considerare come prezzo pagato? Ha dato il responso: la buona fede

(23)

25

esige che sia fatto ciò che si è convenuto; ma l’acquirente non presta al venditore più di quello <che deve> per quella parte di tempo, in cui il denaro non sia stato pagato]. 22 In una compravendita si era convenuto che l’acquirente, cui era stato trasmesso il fondo acquistato, si considerasse suo conduttore, corrispondendo al venditore/locatore un canone determinato fino al pagamento completo del prezzo. Il quesito sottoposto al giurista è se, pagato il prezzo di acquisto nel corso di un anno (i canoni di locazione per i fondi agricoli si pagavano solitamente ad anno), il canone di quell’anno si dovesse ritenere rimesso o meno ed il suo responso, prendendo spunto dall’assunto per il quale la buona fede esige di rispettare l’accordo tra le parti, afferma che l’acquirente/conduttore è tenuto a corrispondere il canone al venditore solo per quel tempo in cui non è stato corrisposto il prezzo. Non si tratta di un criterio di modifica della volontà contrattuale espressa dalle parti, serve piuttosto a darne una corretta attuazione al momento in cui il contratto viene eseguito.

Ancora più netto nel delineare la funzione di buona fede è un testo di Ulpiano (D.19,1,11,1 (Ulp. 32 ad ed.): Et in primis sciendum est in hoc iudicio id demum deduci, quod praestari convenit: cum enim sit bonae fidei iudicium nihil magis bonae fidei congruit quam id praestari, quod inter contrahentes actum est quod si nihil convenit, tunc ea praestabuntur, quae naturaliter insunt huius iudicii potestate.

[E per prima cosa bisogna sapere che in questa azione (scil. da

22

A. Petrucci, Fondamenti, cit., pag. 65.

(24)

26

compravendita) si ha come oggetto ciò che si è convenuto che si prestasse: essendo infatti un giudizio di buona fede, nulla è più congruo alla buona fede che si presti ciò che tra i contraenti si è deciso in concreto. Ma se niente si è convenuto, allora si presterà ciò che è naturalmente insito nella potestà di questo giudizio].

Il giurista ammonisce che, in sede di valutazione giudiziale delle obbligazioni nascenti da una compravendita, va innanzitutto considerato ciò che le parti hanno convenuto che si prestasse, essendo congruo alla buona fede che venisse eseguito quanto stabilito nel loro accordo. Ma se, invece, nulla avessero convenuto su certi aspetti, allora si sarebbe dovuto prestare quanto discendesse dalla natura stessa del contratto.

La buona fede, come criterio integrativo della volontà delle parti,

emerge in numerose testimonianze dei giuristi. In questa sede si

prenderà in considerazione un passo delle Istituzioni di Gaio (3,137),

il quale si riferisce agli effetti della buona fede nell’esecuzione dei

contratti consensuali, cogliendone però anche la funzione integrativa

di quanto voluto dalle parti: Item in his contractibus alter alteri

obligatur de eo, quod alterum alteri ex bono et aequo praestare

oportet; cum alioquin in verborum obligationibus alius stipuletur,

alius promittat, et in nominibus alius expensum ferendo obliget, alius

obligetur. [Allo stesso in questi contratti (scil. quelli consensuali) una

parte si obbliga verso l’altra su ciò che ciascuna di esse deve prestare

nei confronti dell’altra sulla base del buono e dell’equo, mentre nelle

(25)

27

obbligazioni <nascenti da contratti> verbali una parte si fa promettere e l’altra promette e nei crediti <nascenti dai contratti letterali> una parte, annotando per iscritto <una somma> come dovuta, obbliga l’altra e l’altra è obbligata]. Sottolinea qui il giurista come le prestazioni corrispettive nascenti da tali contratti vincolino le parti reciprocamente, e come la loro esecuzione debba conformarsi al bonum et aequum, da intendersi come criterio attraverso il quale realizzare la volontà espressa dalle parti nel contratto, ma in modo corretto e conforme per entrambi. In tale ottica Gaio contrappone a questi contratti a prestazioni reciproche, quelli come la stipulatio o la expensilatio (il contratto letterale), che fanno nascere l’obbligazione a carico di una sola parte. In questa direzione si esprime anche Scevola, riprodotto in D. 19,1,48, in cui viene esaminata la fattispecie di seguito riportata: Titius heres Sempronii fundum Septicio venditit ita:

‘ fundus Sempronianus, quidquid Sempronii iuris fuit, erit tibi emptus

tot nummis’ vacuamque possessionem traditit neque fines eius

demonstravit: quaeritur, an empti iudicio cogendus sit ostendere ex

instrumentis hereditariis, quid iuris defunctus habuerit et fines

ostendere. Respondi id ex ea scriptura praestandum, quod sensisse

intelleguntur: quod si non appareat, debere venditorem et

instrumenta fundi et fines ostendere: hoc etenim contractui bonae

fidei consonat. [Tizio erede di Sempronio ha venduto un fondo a

Setticio così: "il fondo Semproniano, con tutti i diritti che aveva

Sempronio, sarà da te comprato a tanto prezzo" e gliene ha trasmesso

(26)

28

il semplice possesso, senza indicarne i confini. Si chiede se <il venditore> mediante l’azione di compera sia costretto a dimostrare, dai documenti ereditari quali diritti abbia avuto il defunto e ad indicare i confini. Ho risposto che, in base a quella scrittura, si deve prestare ciò che si intende che <le parti> abbiano voluto; ma, se ciò non appaia, il venditore deve mostrare i documenti del fondo ed i suoi confini: ciò è infatti consono ad un contratto di buona fede].

Tizio, erede di Sempronio, vende a Setticio un fondo ereditario nella stessa condizione giuridica che aveva presso il dante causa e gliene trasmette il possesso senza indicare, però, i confini. Posto il quesito al giurista, se l’acquirente possa pretendere giudizialmente l’esibizione dei documenti ereditari per conoscere la condizione giuridica del fondo e dei suoi confini, il giurista dà responso sostenendo che dapprima si deve considerare l’intenzione delle parti e, ove questa non risulti, il venditore deve esibire i documenti ed indicare i confini, perché ciò è consono ad un contratto di buona fede. Le funzioni della buona fede contrattuale esposte permangono, grazie all’inserzione dei testi classici nel Digesto, anche nel diritto giustinianeo e lo stesso vale per i passi delle Istituzioni di Gaio (3,137 e 4,61-63), che sono ricalcati nella forma e nel contenuto da quelle di Giustiniano 23 .

23

A. Petrucci, Fondamenti, cit., pag. 7.

(27)

29

I.2 La buona fede nel diritto medievale e moderno.

Il concetto di buona fede è copiosamente presente nei testi dottrinali medievali, ma, considerata la vasta operatività del termine e le sue varie sfaccettature ed utilizzi, risultava quanto mai improbo che potesse essere racchiusa in una sola frase che riuscisse a contenerne essenza e contenuti 24 . Di fronte alla locuzione alla quale danno vita un sostantivo di intonazione religiosa fides 25 e un aggettivo che lo qualifica in senso morale bona, i giuristi si arrestano prudenti, forse ispirati dalla massima << omnis definitio periculosa est in iure >> , riconoscendo che << bone fidei verbum varie sumitur >> , ovvero che

<< bonae fidei verbo pluracontinentur >> s ono, quest'ultime, parole di Celso Bargagli, giurista senese della seconda metà del cinquecento ad offrirci una definizione, più di tante altre significativa e che riflette l’insegnamento ciceroniano. Accanto alla bona fides teologica e quella physica, relativa alla filosofia teorica, rileva la fides moralis:

<< tertia est fides moralis, sive civilis, quae est dictorum factorum quae constantia, et veritas iustitiam praecipue rescipiens, cuius recte dicitur fundamentum >> : [la terza è la fede morale, o civile, che è la

24

L. Bigliazzi Geri, Note, cit., pag. 135.

25

La Glossa ordinaria al Decretum Graziani avverte che << multipliciter

enim dicitur fides >> . Essa vale ad indicare talvolta il sacramento del

battesimo, talora la castitas tori, talaltra securitas ovvero pactum, ed ancora

conscientia, habitus mentis bene constitutae, credulitas secundum quam

credimus illud quod non videmus (Gl.neque ad c. 16 Movet te, c.22,q. l,

1169). Inoltre chi presta giuramento per falsos Deos e non osserva la fides

promessa, pecca non soltanto perchè giurò per falsos Deos ma anche perchè

tradì la fides: In questo caso per fides deve intendersi la promessa e non illa

fides, a qua fideles catholici vocantur, tratto da L. Bigliazzi Geri, Note, cit.,

pag. 29.

(28)

30

costanza delle parole e delle azioni, e la verità guardando principalmente alla giustizia, di cui si dice giustamente essere il fondamento] 26 .

Anteriormente alla definizione di Bargagli, il senese Mario Sozzini sulla scorta dei testi canonici e reinterpretando uno dei tre "praecepta iuris civilis" aveva affermato: ille recognoscit bonam fidem qui iuste distribuit et qui reddit unicuique quod suum est, et agit secundum naturam et bonam coscientiam ita quod nec se nec alium velit cum aliena iactura locupletari 27 . [Colui il quale riconosce la buona fede giustamente distribuita e colui il quale restituisce a ciascuno ciò che è suo, agisce secondo natura e buona coscienza perchè non vuole arricchirsi con l'altrui rovina].

Il principio della buona fede nel diritto medievale ha quindi un florido terreno sul quale svilupparsi, occorre però precisare che non si tratta di una nuova creazione, ma piuttosto di un ampliamento del principio romanistico. Quindi è alquanto improbabile racchiudere in una sola frase definitoria un’accezione così ampia e frequentemente applicata in vari campi del diritto. Si può però osservare che in due punti la buona fede assume un’importanza fondamentale: in materia di obbligazioni nascenti da contratto ed in quella possessoria. In

26

Bargalius, De Dolo, lib 5. Num. G.-ibi- 702 n.78; Cicero, De Officis,1.7.23; M.Socinus, Prima pars consiliorum, cons.36 n.9., cfr.

Bertachinus, Repertorium secunda pars, sub v fides; Budaeus (v.n.3);

Benincasius, Ad tit. De actionibus interpr.,198 n.109, tratto da L. Bigliazzi Geri, Note, cit., pag. 136.

27

Sul significato da essi assunto nell'età medievale, F. Calasso, Introduzione

al diritto comune, Milano,1951, pag. 177-180.

(29)

31

entrambi i campi i giuristi dell’età intermedia ebbero come punto di riferimento due testi del diritto romano 28 , uno di Trifonino (D.16,3,31), dal quale si evinceva il principio secondo il quale nei rapporti contrattuali ed in generale quelli intersubiettivi, la bona fides comportava l’osservanza del proprio dovere, la lealtà di comportamento, contrapposto alla fraus, al dolo inteso come condotta contraria alla correttezza. Altro giurista romano a cui si ispirarono fu Modestino che con riguardo all’emptio delineò la bona fides secondo una duplice prospettiva che sottintendeva situazioni psicologiche differenti: ignoranza del compratore che la cosa fosse altrui, ovvero convincimento dello stesso che l’alienante possedesse lo ius vendendi. Tale duplice accezione della buona fede rileva anche nella dottrina giuridica dell’età intermedia. Pierre Rebuffe 29 , definisce possessore di buona fede colui che ignora di possedere una cosa altrui.

Medina, teorico giurista della seconda scolastica, distingue la buona fede in attitudine intellettiva come disposizione dell’intelligenza che si esprime in una credenza, in un’opinione, distinta da una buona fede come attitudine attiva, intesa come disposizione della volontà che ispira comportamenti retti e leali.

La romanistica evidenzia la differenza tra buona fede possessoria e contrattuale. Tale contrapposizione verrà riproposta nell’Ottocento in

28

D.50,16,109

29

Rebuffus, De Verborum significatione com.,403, tratto da L. Bigliazzi

Geri, Note, cit., pag. 137.

(30)

32

termini di buona fede soggettiva ed oggettiva: la prima intesa come convincimento psicologico individuale, della legittimità della propria posizione, la seconda bona fides identificata quale principio di condotta leale universalmente riconosciuto. I canonisti dell’età del Rinascimento giuridico, come mette in evidenza il Lombardi 30 , trasformarono il termine romano fides in senso teologico, assimilandolo al termine fides per culto cristiano. Troviamo un esempio al capitolo 41 del (De continuatione bonae fidei in omni praescriptione) del IV Concilio Lateranense del 1215 31 , per il quale in qualunque specie di prescrizione occorre la buona fede continua.

Nel diritto canonico la buona fede è ispirata al principio dell’assenza di peccato perfettamente in linea con il pensiero ecclesiale. Al contempo però i giuristi canonisti non rinunciano ad avvalersi del concetto più strettamente giuridico di buona fede intesa come contrattuale e possessoria. I giuristi canonisti e dell’età intermedia, in generale, pur non rinunciando alla visione romanistica della nozione di buona fede, aggiungono in essa principi tratti dalla religione cristiana, unendo nel medesimo ambito concettuale principi romanistici e presupposti etici e religiosi. Con la decretale Quoniam omne 32 di Innocenzo III, viene sancita la necessità di integrare ogni

30

L. Lombardi, Dalla fides, cit., pag. 209 e ss.

31

Comp. IV, II, tit. 10, c. 3, in Quinque Compilationes Antiquae, 14, tratto da L. Bigliazzi Geri, Note, cit., pag.136 e 138.

32

La decretale, che riproduce il c.41 del IV Concilio del Laterano venne

accolta nel Liber Extra (c.20 Quoniam Omne X, 2,26).

(31)

33

prescrizione attraverso la buona fede, che deve perdurare per l’intera vita dei rapporti giuridici.

I.3 La buona fede come attitudine attiva, contrattuale.

Tale definizione diede luogo a minori dispute. In un passo del codice giustinianeo si legge: Bonam fidem in contractibus considerari, aequum est 33 .

Viviano Tosco annota in una glossa il concetto secondo il quale, se è pur vero che in ogni contratto e in ogni azione la buona fede deve essere considerata, è anche vero, al contempo, che non tutti i contratti, non tutte le azioni e i giudizi sono di buona fede. In tali casi essa non sottintende una leale disposizione d’animo alla quale si contrappone il dolo, quanto piuttosto l'essere la buona fede nell’accezione di aequitas e come tale in contrapposizione allo ius strictum ovvero al rigor iuris.

È la Glossa Accursiana ad offrirci una triplice definizione di ius strictum, la prima si ricollega ad una definizione risalente a Martino Gosia, il quale ammetteva nell’esercizio della funzione giurisdizionale il ricorso ad un'equità non scritta. A tale nozione il diritto medievale riconobbe valore di una extensio ad similia di una lex aequitativa, tale per contrapposizione logica a una lex dura o rigor 34 .

33

C.4,10,4.

34

P. Grossi, L'ordine giuridico medievale, Bari, 2000, pag. 178 e ss.

(32)

34

La seconda accezione che Gosia rileva nella glossa è quella che mette in risalto l’intangibilità del valore dello ius strictum configurato come inderogabile. La terza, infine, illustra la disparità tra ius strictum estremamente severo, e l’aequitas configurata soprattutto tra i canonisti come più temperata 35 .

Si evince che l’esistenza di contratti di buona fede non sta ad indicare la possibilità che ve ne siano altri stipulati in mala fede, ma piuttosto che non tutti i contratti esigono la bona fides. A differenza delle previsioni dei contratti stricti iuris,in cui l’interpretazione del giudice è strettamente vincolata a quanto indicato dalle parti, in quelli stipulati in buona fede le parti devono comportarsi secondo i principi di quanto "ex aequo et bono oportet". Qualora non fosse espressamente pattuito, il giudice può, in ogni caso, sottoporre questi contratti ad un'interpretazione c.d. di Bonum et Aequum 36 . Egli vi può far ricorso ogni qualvolta le parole usate siano ambigue, pertanto ha la possibilità di ricorrere a criteri interpretativi che gli sarebbero preclusi nei contratti stricti iuris 37 . Ulteriore importante differenza tra i due tipi di contratti sta nel significato attribuito al termine "dolo".

I giuristi medievali solevano distinguerlo tra dolus dans causam che dava origine al contratto, nel senso che se il contraente non fosse stato vittima dello stesso non avrebbe concluso il contratto medesimo. In

35

Benincasius, Ad Tit. De actionibus interpr., 198 n.120 e 123, tratto da L. Bigliazzi Geri, Note, cit., pag. 129.

36

De Onate, De contractibus, I, 29 n. 120, tratto da L. Bigliazzi Geri, Note, cit., pag. 130.

37

A.Petrucci, Fondamenti, cit., pag.17 e ss.

(33)

35

contrapposizione troviamo la nozione di dolus incidens che, non colpisce il contratto nella sua causa, ma induce il contraente, che ne è stato vittima, a concludere il contratto medesimo a condizioni comunque diverse e/o sfavorevoli.

Ai primi del’400 Gian Pietro De’ Ferrariis sosteneva la nullità, ipso iure, del contratto di buona fede, se questo era scaturito dal dolo, a differenza di quello di stretto diritto che poteva essere rescisso ope exceptionis ovvero con l’actio de dolo. Tale teoria traeva origine dal ruolo svolto dalla buona fede in quanto in tali contratti essa era richiesta ad substantiam ipsius contractus, invece nei contratti di stretto diritto quo ad qualitatem 38 .

Per i sostenitori della nullità di pieno diritto dei contratti di buona fede l’azione di nullità in caso di dolo dans causam può essere fatta valere solo dalla vittima dello stesso.

Per ciò che concerne invece il dolus incidens esso dà luogo nei contratti bonae fidei all’azione contrattuale, invece in quelli di stretto diritto alla exceptio doli. Questa era l’opinione comune tra i giuristi italiani, ma non tra i giuristi d’Oltralpe, i quali negano che il dolus dans causam renda nulli i contratti di buona fede, che sarebbero quindi validi benché annullabili, attraverso l’istituto dell’azione contrattuale posta in essere dalla parte vittima del dolo 39 .

38

L. Bigliazzi Geri, Note, cit., pag. 148.

39

Cinus, super codice lectura, 65-66 r.v, 185 n.16; Petrus De Bella Pertica,

Lectura Codicis, 92,v.-93 r. 94 v.,201 r, tratto da L. Bigliazzi Geri, Note,

cit., pag. 148.

(34)

36

Nella prima metà del '600 Arnold Vinnen, giurista della scuola Elegante olandese, scriveva che ciascuno dei contraenti è tenuto verso l’altro ,<< ex bono et aequo secundum quandam aequitatem et benigniorem iustitiam >> e di converso nei giudizi di buona fede il magistrato è tenuto a decidere secondo il principio di omnia libere ex aequo et bono aestimat.

Un giurista tedesco affermava: << Hinc est, quod inter mercatores non habeat locum exceptio excussionis quae est de apicibus iuris, quin in foro mercatorum summarie, de plano, et de aequitate, non inspectis iuris apicibus proceditur 40 >> [Da qui il fatto che tra i mercanti non abbia luogo l'eccezione di escussione che deriva dalle sottigliezze del diritto, perchè nel foro dei mercanti si procede sommariamente, chiaramente e secondo giustizia, non considerate le sottigliezze del diritto]. Per agevolare gli scambi commerciali non venivano applicate tutte le lungaggini e gli apices iuris (sottigliezze del diritto), allo scopo di semplificare e di snellire e quindi agevolare le pratiche mercantili.

È il richiamo al foro dei mercatores a introdurci in una realtà economico-giuridica e sostanziale, nella quale la bona fides ha avuto un ruolo da protagonista.

Fu nel Settecento che Alberto Azuni, cogliendo lo spunto dalla tradizione romanistica e da quella successiva, riassunse una tradizione consolidatasi nei secoli con le parole:"Nelle contrattazioni mercantili

40

Gaill, Observationum practicarum, II, 112, n. 36.

(35)

37

si dee sempre avere il principale riguardo alla buona fede dei contraenti come al primo mobile del traffico, e della negoziazione;

quindi non debbonsi mai attendere tutte le regole del Diritto comune in quella medesima forza che si esige nel foro ordinario, mentre in favore del pubblico commercio debbesi sovente recedere da queste per dar luogo alla pura equità 41 ".

Si tratta di un principio che rileva in un contesto storico del c.d.

"Rinascimento giuridico" nel quale sorgono nuove forme associative, che pongono come fondamento morale l’ideale della fiducia, della lealtà e della fedeltà soprattutto contrattuale.

La buona fede viene così identificata con la legalitas dalla quale non si può prescindere. L’ideale della fiducia come espressione del senso di solidarietà contribuisce a dirigere i comportamenti verso il bonum e l’aequum, che devono guidare le decisioni dei giudici mercantili nel dirimere le controversie senza tenere conto degli apices iuris (sottigliezze), e della solemnitates iuris (eccessive formalità) sempre nel rispetto degli iura civilia.

I giudici, pur non dovendo prescindere dalle regole giuridiche, dovevano comunque interpretare i negozi mercantili, avendo ben presente nell'esercizio della loro attività la particolare natura e le esigenze della prassi mercantile, che mal sopportava ostacoli, nonché il voluto dalle parti. Due secoli dopo Benvenuto Stracca ammoniva i

41

D. A. Azuni, Dizionario universale ragionato della giurisprudenza

mercantile, 172 sub v., Buona fede par.1.

(36)

38

mercanti sulla necessità di intendere correttamente il bonum et aequum che non poteva essere trasformato nell’arbitrio dei propri interessi 42 . Giungiamo, quindi, alla determinazione che la buonafede deve presiedere quale elemento imprescindibile della fiducia reciproca delle parti nella formulazione e nell’adempimento delle obbligazioni. Questa evoluzione in ambito civilistico, a differenza di quello canonistico 43 , trova la sua base nella prassi mercantile. Se consideriamo la definizione del patto nudo che ci offriva il gesuita Vincenzo Filliucci ai primi del Seicento, <<Pactum est consensus inter duos, nudum quod caret alio firmamento, vestito quod aliquod habet, unde civili iure firmetur 44 >>,[Il patto è consenso tra due, nudo perchè manca di altre conferme, vestito perchè contiene qualcosa su cui viene confermato secondo il diritto civile]. Possiamo affermare che, con il proseguo del tempo, quel firmamentum,che da solo era in grado di far acquistare al patto la sua efficacia, perde nel tempo terreno, ponendosi, invece, in primo piano, la volontà delle parti. Nel Settecento senza ombra di dubbio si fa strada il pensiero secondo il quale l’efficacia giuridica dei patti nudi non può più essere considerata un privilegio mercantile. Per il Richeri 45 ciò che importa quindi è "fidem semel datam licet minus subtili modo, servare", [E'

42

F.Calasso, Il negozio giuridico: lezioni di storia del diritto italiano, Milano, 1968, pag. 169 e ss.

43

P. Grossi, Somme penitenziali, diritto canonico, diritto comune, in Annali dell'Università di Macerata XI, 1966, pag. 113.

44

Fillicius, compendium, 384.

45

Richeri, Universa Jurisprudentia.., IX, 202.

(37)

39

lecito conservare la fede una volta data anche in modo meno accurato]. Altrimenti la distinzione tra patto e convenzione che esclusivamente dipende dalla formula delle parole, si presterebbe a fornire fidei fallendae justam causam. La fides manifesta tutta la sua prestanza nell’ambito della fenomenologia giuridica.

I tempi in cui il Richieri scriveva, vedevano l’avvio di un nuovo metodo, quello delle codificazioni, che avrebbe soppiantato del tutto quello del diritto comune ormai irreversibilmente in crisi. Le correnti giusnaturalistiche e poi illuministiche, che caratterizzano la cultura europea nei secoli XVII e XVIII 46 , furono da stimolo culturale e dottrinale alla creazione di un diritto nuovo poggiato su presupposti rivoluzionari. Anche gli appartenenti alla cosiddetta scuola del diritto naturale furono estremamente sensibili all’idea della fides, della bona fides e dell’aequitas, quali idee da ritenersi il mezzo per connettere il diritto naturale a quello positivo 47 .

Per Grozio, primo teorizzatore del giusnaturalismo razionalistico, l’obbligo di tenere fede ai patti rappresenta una massima basilare, un principio che svolge la funzione di categoria giuridica universale 48 , pertanto è principio di diritto naturale.

46

A.Cavanna, Storia del Diritto moderno, Milano, 2001, pag. 319 e ss.

47

Per un quadro di sintesi si rinvia alla voce buona fede nel diritto medievale e moderno di G.P. Massetto, in Digesto delle Discipline Privatistiche, sez.

civ., II, Torino, 1988,p.147 e ss. in riferimento al diritto contrattuale.

48

Fassò, Storia della Filosofia del Diritto, II, l'età moderna, Bologna, 1968,

pag. 98 e ss.

(38)

40

Grozio ha quindi ben presente che la nozione ciceroniana di fides, si addentra in un ordine di questioni di carattere più strettamente giuridico. Lo stesso vale per Samuel Pufendorf 49 il quale ritiene

<<religiosissimum iuris naturale praeceptum: ut quilibet fidem datam servet seu promissa atque pacta expleat>>, [Religiosissimo è il precetto naturale del diritto, sia quando osservi la fede data, sia quando esplichi promesse e patti].

Nel suo De jure naturae et gentium vengono affrontate molte delle questioni dibattute nel diritto comune classico, tra le più importanti, gli effetti dell'ignorantia e dell’error. In particolare, rileva l’ampliamento dei poteri del giudice aventi funzione di amministrare bono et aequo, tuttavia la stessa ragione naturale mostra che i contratti onerosi sono di buona fede, ossia ammettono un'interpretazione più ampia in base all'equo e al buono. È poi l’opera di Jean Domat 50 ad offrire preziosi spunti in materia di buona fede, l'autore teorizza che << le leggi che la ordinano, la fedeltà, la sincerità e che difendono dalle frodi, siano leggi di cui non ci si può dispensare o farne eccezione,rientrando esse nella categoria delle leggi immutabili, che provenendo dalla naturalis ratio includono precetti universalmente avvertiti >> . Sono principi immutabili dell’equità, contenuti nel Corpus iuris Giustinianeo ad imporre che il

"faut être sincère dans les conventiones et fidelle en toutes sortes

49

Pufendorf, De Jurenaturae et gentium, III, pag. 359.

50

J. Domat, Les loix civiles dans leur ordre naturel. Le droit public, et legum

delectus, Parigi, 1689.

(39)

41

d'engangements". Domat insiste che, <<nell’adempimento dei doveri negoziali, è necessario essere leali e corretti >> , principi questi applicabili ad ogni convenzione. Essi devono fungere da traino sia nelle convenzioni stesse sia nel modo di eseguirle. Anche il Pothier si pone sulla stessa linea per cui la buona fede deve operare in campo contrattuale e al contempo ispirare costantemente la condotta dei contraenti, come espressione del principio dell’amare il prossimo come se stessi 51 . Principio generale che trova la sua applicazione concreta nell’ambito dei singoli contratti in regole pratiche di comportamento. Così, ad esempio, nella compravendita la buona fede obbliga l’acquirente a due comportamenti: non avvalersi del dolo per convincere il venditore a vendere o a fare diminuire il prezzo; mutatis mutandis lo stesso principio si applica per altri contratti, quali l’assicurazione e la locazione.

Vale la pena annoverare qui alcuni testi, il cui valore è esemplificativo circa le funzioni della fides bona 52 , con riguardo alle obbligazioni implicite connesse a quelle espressamente assunte dalle parti; con riguardo alla loro esecuzione in ossequio al principio dell'impegno assunto e con attenzione al divieto di trarre vantaggio da un comportamento fraudolento o sleale.

51

Pothier, Traite des obligations, oeuvrers, I,11.

52

G. P. Massetto, Buona fede, cit., pag.149 e ss.

(40)

42

Per quanto concerne la prima, risulta sulla scia del diritto romano al fine di integrare il contenuto dei contratti di buona fede, ed è costantemente espressa nel pensiero giuridico dei glossatori.

In tale funzione la buona fede rileva come strettamente legata all'equità al fine di favorire un'interpretazione di questi contratti ex bono et aequo: questo principio rileva nella glossa di Accursio 53 e nel commento di Bartolo al Codice giustinianeo 54 .

Negli autori appena citati la base romanistica emerge con chiarezza in particolar modo, nel rilievo attribuito alla buona fede quale criterio di valutazione, da parte del giudice, dell'esecuzione dei contratti fondata su di essa.

Ad essa si aggiunge la nuova possibilità di tener conto anche di circostanze impreviste, casus improvisi, dell'impossibilità di adempiere entro il termine, e di reprimere quei comportamenti che si appalesano contrari alla buona fede, quali il dolo e la violenza morale, così come evidente in Baldo 55 .

E' proprio con questi giuristi che nasce e si sviluppa l'idea che la buona fede sia immanente ad ogni tipo di contratto, e non solo a quelli di buona fede. Su tale atteggiamento incidono l'aequitas canonica e la prassi commerciale del Basso Medioevo e la conseguente riflessione giuridica sui contratti consuetudinari del

53

Gl. Oportet ad I.3,22.3.

54

C.4,10,4.

55

Baldo, Consiliorum, sive responsorum Volumen primum, Venetiis, 1575,

Consilium CCCXLIII, F.110va, n. 2

(41)

43

diritto commerciale e marittimo: essi infatti comportavano che la loro esecuzione dovesse essere conforme alla buona fede, con la conseguenza che nella giurisdizione dei tribunali mercantili fin dal secolo XIV ci si richiamava all'aequitas mercatoria e si decideva ex bono et aequo 56 .

Le idee elaborate dai giusnaturalisti ispirano anche le codificazioni ottocentesche svolgendo una funzione sotto il profilo ideologico.

Difatti le norme, che impongono di eseguire le convenzioni in buona fede, attribuiscono all’equità, efficacia di integrazione del volere contrattuale, temperando l’individualismo che è il principio di fondo delle codificazioni moderne.

Tale individualismo ha la sua massima espressione nell’assolutezza della proprietà privata ed in quella dell’autonomia della volontà dei privati in campo contrattuale. È il Code Napoléon ad offrire un giusto compromesso: difatti, nel suo testo originario si riconosceva alla buona fede il compito di operare come parametro per garantire l'esecuzione dell'accordo tra le parti nell'adempimento delle obbligazioni contrattuali e come elemento integrativo dell'assetto di interessi deciso dalle parti sia pure nell'ambito più ampio della nozione di equità. L' art. 1134 co.3 imponeva l'esecuzione delle convenzioni secondo buona fede, il successivo art. 1135 stabiliva che le parti erano vincolate a quanto espressamente convenuto, ma anche

56

A. Petrucci, Fondamenti, cit., pag.17 e ss.

Riferimenti

Documenti correlati

&#34;Se vi è soccombenza reciproca (...) il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti.&#34;. Dunque, anche nell'ipotesi di

Secondo la ricostruzione del giudice di primo grado, l'immobile promesso in vendita fu acquistato dal venditore il 16 aprile 2002, circa due mesi dopo

La Corte territoriale, in ogni caso, nell'esaminare la questione e nel dichiarare la prescrizione ha, comunque, ritenuto di ridurre l'entità della pena inflitta in

La questione della nullità per la mancanza dei dati catastali e di quelli relativi alla consistenza ed alla destinazione dell'immobile è stata pur essa esaminata ed è

In ogni caso, peraltro, si evidenzia come, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, dagli atti di causa fosse comunque ricavabile la prova

Ciò in quanto l'apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e della prassi di lavoro non si identificano e

618 c.p.p., avendo rilevato la possibile insorgenza di un contrasto di giurisprudenza sulla facoltà, in capo alla Corte di cassazione, in caso di declaratoria di

l'elemento oggettivo del delitto in esame. Con il secondo motivo si eccepisce la violazione dell'art. Ad avviso del ricorrente, la motivazione sarebbe