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1. “Distant Past” e “Recent Past”

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Academic year: 2021

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1. “Distant Past” e “Recent Past”

Ne I Quaderni di Malte Laurids Brigge, Rainer M. Rilke scrisse che una vita, per non rischiare di essere persa, deve “farsi” nella memoria dell’uomo. La memoria è, infatti, una parte importante del nostro presente, e quest’ultimo deriva in parte proprio dal passato, dove la memoria va continuamente a pescare pensieri e ricordi per poi immetterli nuovamente nel tempo attuale sotto nuove, mutevoli forme.

Queste nuove ma “familiari” parvenze si mescolano con quello scorrere cronologico creando una sorta di “Mead of Memories”, immagine che Thomas Hardy forgiò nella ballata “The Dead Quire” (CP 213).

Vi è anche una memoria collettiva, nella quale quella individuale ha un posto in comune con l’umanità. Qui i ricordi prendono voce e sostanza e devono “farsi”, per riprendere l’espressione di Rilke, affinché si costituisca un disegno generale, in un certo senso, autonomo, nel quale l’uomo possa riconoscersi individualmente.

Le poesie di Thomas Hardy che prenderò in esame nel seguente lavoro sono tutte accomunate dal tema della memoria, perché la scoperta del passato è stata, per il poeta inglese, il più grande stimolo di riflessione e supporto alla scrittura. Quasi l’intera opera lirica di Hardy è, infatti, un tentativo di modulare il ricordo, riprendere il passato e considerarlo, per un verso, come una gabbia da cui è impossibile liberarsi, e, per l’altro, come un tempo vivo e plasmabile nel quale il ripensare è più forte del semplice ricordare.

Hardy, infatti, interpreta la memoria come un ripensare e comprendere meglio ciò che è stato, sia quando descrive le vite di personaggi nati dalla sua fantasia, sia, come si osserverà nel secondo capitolo, presi dalla cronaca inglese, di cui era un fervido e instancabile lettore.

Per quanto riguarda la sua memoria personale, il poeta inglese, spesso tragicamente, usa la poesia per rivivere letteralmente dei momenti cruciali della sua esistenza, come se tornassero nuovamente vivi e vibranti nella sua mente, in attesa di essere liberati dalla fissità temporale. Prendiamo ad esempio la poesia “In Time of ‘The Breaking of Nations’”,1 che Hardy disse di aver composto quaranta anni circa dopo l’avvenimento che la ispirò. L’autore mantenne dentro di sé quell’emozione, quelle sensazioni, fino al punto in cui esse stesse trovarono una forma lirica adeguata per esprimersi, come una sorta di

1 Pubblicata inizialmente su Saturday Review, 29 gennaio 1916, poi inclusa nella raccolta Moments of Vision (1917).

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maturazione vegetale che dà alla pianta il tempo di fiorire e lasciar cadere i fiori una volta sbocciati:

I

Only a man harrowing clods In a slow silent walk

With an old horse that stumbles and nods Half asleep as they stalk.

II

Only thin smoke without flame From the heaps of couch-grass; Yet this will go onward the same Though Dynasties pass.

III

Yonder a maid and her wight Come whispering by;

War’s annals will cloud into night Ere their story die.

1915

Un uomo e un cavallo sonnacchioso attraversano un campo vicino St. Juliot (in Cornovaglia). Nei loro pressi, una coppia amoreggia incurante di ciò che accade intorno e, cosa ancora più rilevante, ignara dei corsi della Storia. I due forse neppure si accorgono che un filo di fumo si alza dai cumuli di grano disposti lungo il campo.

Hardy scrisse di aver legato questo episodio allo scoppio della guerra franco-prussiana del 1870, che causò – o forse è lecito dire “mieté”, vista l’ambientazione rurale nella quale il poeta incornicia l’evento – innumerevoli vittime. Subito la data (1915), posta in calce alla poesia, ci dice di tutto il tempo che è trascorso prima che il poeta riuscisse a trovare pace nei suoi ricordi; in effetti, più di quarant’anni.2

È inevitabile pensare alla “recollection in tranquillity” di wordsworthiana memoria, con una piccola ma certamente sostanziale

2 Abbiamo due versioni dell’episodio, una fornita direttamente da Hardy stesso, ‘I have a faculty … for burying an emotion in my heart or brain for forty years, and for exhuming it at the end of that time as fresh as when interred. For instance, the poem entitled “The Breaking of Nations” contains a feeling that moved me in 1870, during the Franco-Prussian War, when I chanced to be looking at such an agricultural incident in Cornwall. But I did not write the verses till during the war with Germany of 1914, and onwards’ Life (p. 378). L’altra corrispondente versione è: ‘On the day that the bloody battle of Gravelotte was fought they [Hardy and Emma Gifford] were reading Tennyson in the grounds of the rectory [at St. Juliot]. It was at this time and spot that Hardy was struck by the incident of the old horse harrowing the arable field in the valley below, which, when in far later years it was recalled to him by a still bloodier war, he made into the line poem of three verses’, Life (p. 79).

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differenza: mentre per Wordsworth il ricordare è un dolce volgersi al passato, e va relegato in quei momenti di tranquillità, appunto, della giornata, per Thomas Hardy tornare con la mente agli avvenimenti del passato non solo può essere fonte di dolore, come una ferita semiaperta, ma deve sempre essere motivo di più ampia riflessione, di considerazione della Storia. Questo appena enunciato è uno dei punti chiave della poetica hardiana: poiché nell’eredità che Hardy lasciò ai poeti della guerra vi era anche questo insight storico, questa complessa presa di coscienza della distanza che esiste fra la molteplice realtà della Storia e la storia individuale dell’uomo. “In Time of ‘The Breaking of Nations’,” benché breve e scandibile in tre stanze-microcosmo, dà molti spunti di riflessione circa il tempo, l’uomo, la memoria storica e la memoria individuale.

L’idea della morte domina la poesia sin dalla prima lassa, che allude ad essa grazie al movimento stanco e sonnolento del cavallo e dell’uomo, i quali sinistramente avanzano nel campo (“stalk” è un verbo che può evocare significati diversi, ma, tutto sommato, ‘avanzare in modo guardingo’ è il senso che qui gli si può attribuire, visto anche il riferimento alla guerra e ai soldati). Anche il fumo senza fuoco, che distrugge e dà la morte, silenziosamente e senza farsi notare, è un tassello di questo mosaico di morte e distrazione, che culmina nel sostantivo “wight” e nel verbo finale “die”.

“Wight” è, infatti, un vocabolo perfettamente hardiano e significa sia “creatura umana” che “presenza spettrale” (OED). Nell’uso che ne fece Hardy, forse, potrebbe far presagire che l’uomo morirà prima della donna. In un certo senso, questo presagio si rivelò veritiero; Emma Gifford, prima moglie di Thomas Hardy, infatti, morì prima di lui, ma fu una presenza sempre viva nei nostalgici ricordi che il poeta serbò nella sua memoria. La prova inconfutabile è reperibile nel ciclo di poesie “Poems of 1912-13”,3 che il marito le dedicò dopo la sua morte.

L’inserimento dell’elemento “spettrale”, o anche della vera e propria presenza del fantasma, come vedremo in seguito, è una costante nel suo immaginario poetico. Hardy, confessa nell’autobiografia, di essersi immaginato un fantasma fin dalla sua infanzia, e che questa attrazione suscitava in lui un profondo senso di appartenenza alla realtà insondabile della vita dopo la morte. Nell’autobiografia, appunto, leggiamo:

For my part, if there is any way of getting a melancholy satisfaction out of life it lies in dying, so to speak, before one is out of flesh; by which I mean putting on the manners of ghosts, wandering in their haunts, and taking their views of surrounding things.4

3 Pubblicate nella raccolta Satires of Circumstance (1914). 4 Life, pp. 209-210.

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Tornando a “In Time of ‘The Breaking of Nations’”, osserviamo che la scelta di utilizzare “wight” e “maid” ci dice molto anche dell’inclinazione linguistica hardiana a favore di vocaboli ricercati, arcaici e, a volte, ostici. Una lettura delle poesie di Hardy, rivela senza dubbio quanto lavoro di recupero del passato e immissione nel presente, ci fosse nelle sue intenzioni letterarie. Un punto chiave di questa scelta è certamente legato alla volontà del poeta di lasciare penetrare il passato nel presente attraverso la lingua. Come ha notato Dennis Taylor:

Hardy’s challenge to his contemporary language seems both synchronic and diachronic. That is, his word choices are drawn from competing classes of language,

standard, dialect, poetic, technical, which seem to create a babel of classes, over against the class-conscious nature of the current language. Also, his word choices are drawn from temporal classes of diction, archaic, obsolescent, newly coined, in a way that seems to challenge the temporal equilibrium of the current language.

Nurtured by historical philology, Hardy does not choose to write in a non-standard dialect (like Barnes), but to challenge the standard language from within, while also developing its expressiveness. This expressiveness is intimately connected with his

project to show the manifold ways in which history interpenetrates present thinking and feeling.5

Che la ricerca dell’espressività nella lingua non sia un elemento marginale nell’opera hardiana, si può evincere dall’insistenza sul dettaglio, sull’osservazione, sul ricordo dell’originale, e soprattutto sulla materia da privilegiare. Hardy poeta voleva che tutti questi aspetti confluissero naturalmente nella scrittura, così come avevano caratterizzato la sua esperienza di restauratore in gioventù.

“The man of the measuring eye” (in “Heiress and Architect”, CP 49), come egli stesso si definisce in una delle sue prime poesie, riteneva che “few occupations are more pleasant than that of endeavouring to re-capture an old design from the elusive hand of annihilation”.6

Dal restauro delle chiese gotiche aveva appreso che il recupero del passato, e dei sentimenti che si annidavano in quelle costruzioni, e il rispetto della materia (il suo adorato limestone), fossero la vera bellezza, nonché la qualità più inestimabile, dell’arte:

The old form inherits, or has acquired, an indefinable quality – possibly some deviation from exact geometry (curves were often struck by hand in mediaeval work) – which never reappears in the copy, especially in the vast majority of cases where no nice approximation is attempted.

The second, or spiritual, attribute which stultifies the would-be reproducer is perhaps more important still, and is not artistic at all. It lies in human association. […] I think the damage done to this sentiment of association by replacement, by the

5 D. Taylor, Hardy’s Literary Language and Victorian Philology, Oxford, Clarendon Press, 1993, p. 4 (corsivi miei).

6 T. Hardy, “Memories of Church Restoration”, in Thomas Hardy’s Public Voice, ed. M. Millgate, Oxford, Clarendon Press, 2001, p. 252.

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rupture of continuity, is mainly what makes the enormous loss this country has sustained from its seventy years of church restauration so tragic and deplorable. The protection of an ancient edifice against the renewal in fresh materials is, in fact, even more of a social – I may say a humane – duty than an aesthetic one. It is the preservation of memories, history, fellowships, fraternities.7

Hardy nota come il tempo e l’attesa abbiano donato alle opere d’arte una qualità indicibile, una carica emotiva e umana inestimabile, che convogliano un significato superiore alla memoria che le custodisce. La memoria diventa, così, sia un veicolo spirituale dei nostri ricordi, sia una custodia “morale” degli stessi. La memoria ci restituisce il valore del lavoro svolto nel passato da altri uomini, creando una continuità preziosa. Al contempo, Hardy si mostra anche cosciente che “the essence and soul”8 di un’opera architettonica risiede soprattutto nella sua forma, nei suoi contorni e nella sua figura, e non semplicemente nel materiale che sprigiona, inconsapevolmente, quel modello. Se si vuole, l’intenzione che Hardy seguiva in poesia era quella di uniformare questo modello derivato dal restauro anche alla lingua, ponendo particolare interesse in quelle parole, a quei suoni, ormai desueti e arcaici, che avevano arricchito la sua crescita umana e intellettuale. Dunque, bisognava donare al linguaggio, alla poesia in modo particolare, lo spazio e l’occasione per abbandonare il suo innato stato di “inconsapevole” ma potenziale valore, al fine di restituirlo “attivamente” alla storia presente dell’uomo vittoriano, alla sua coscienza individuale, in sostanza, alla sua memoria.

Come avrebbe detto in seguito Bergson, “l’art est donc là pour nous montrer qu’une extension de nos facultés de percevoir est possible”.9

Il passato come tempo da osservare, studiare, riscoprire, e “rivivere” attualizzandolo sotto nuove forme, è il nucleo della creazione hardiana. In modo particolare, Hardy, partendo da una formazione e da una passione per il gotico, ha sempre privilegiato un certo gusto per una scrittura apparentemente disadorna, irregular perché unforeseen:

He knew that in architecture cunning irregularity is of enormous worth, and it is obvious that he carried on into his verse, perhaps in part unconsciously, the Gothic art-principle in which he had been trained – the principle of spontaneity, found in mouldings, tracery, and such like – resulting in the ‘unforeseen’ (as it has been called) character of his metres and stanzas, that of stress rather than of syllable, poetic texture rather than poetic veneer.10

7 T. Hardy, “Memories of Church Restoration”, in Thomas Hardy’s Public Voice, cit., p. 251. 8 Ibidem, p. 250.

9 H. Bergson, La Perception du Changement, Oxford, Clarendon Press; London, Henry Frowde, Amen Corner, 1911, p. 11.

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“The principle of spontaneity” ad un certo punto, torna a fare capolino anche nel saggio sul restauro. Quando Hardy dice ‘rispettare le norme del passato’ voleva dire semplicemente ‘imitare la natura’: “the actual process of organic nature herself, which is one continuous substitution. She is always discarding the matter, while retaining the form”.11 Si scorge la necessità di dare uno spessore “ereditario” alla memoria, al passato, attraverso quella instancabile continuità che distingue gli sforzi della natura e che le permette di realizzare, come dice Darwin, delle opere “immeasurably superior to man’s feeble efforts, as the works of Nature as to those of Art”.12

Come Darwin aveva osservato le innumerevoli e impercettibili modificazioni della natura, per approdare poi alla scoperta delle “fundamental resemblance, retained by the strong principle of inheritance”,13 così Thomas Hardy cercava nel passato, nel suo personale e in quello collettivo “the preservation of memories, history, fellowships, fraternities”.14 La sostanziale differenza, fra queste due posizioni, giace nella serena accettazione darwiniana dell’amoralità della natura e del suo scorrere “indifferente”, mentre Hardy, come ha perfettamente sintetizzato Zietlow:

conceives the resistance to history as not merely a modern social phenomenon but an implacable force, working through the nature of things to obliterate memory and meaning.15

Il primo approccio alla storia, Hardy lo individua nella sua infanzia, come viene anche riportato all’inizio della sua ghosted

biography, quando sviluppa un’irrefrenabile curiosità per le sue origini

familiari.16 Questo interesse può spiegare l’attaccamento per la sua famiglia, le tradizioni locali, e le memorie del passato in generale. Avendo appreso di discendere dai Jersey le Hardy, abitanti del Dorset dal XV secolo, il poeta potrebbe aver rintracciato una ragione in più per intessere un’innata passione per la storia nazionale, sentendo questo forte legame fra la sua esperienza e le memorie del passato.

Come ricorda Alvarez:

11

H. Bergson, La Perception du Changement, cit., p.11.

12 C. Darwin, On the Origin of Species, Cambridge (Mass.) London, Harvard UP, 1964, p. 61. 13 Ibidem, p. 438.

14 T. Hardy, “Memories of Church Restoration”, i op. cit., p. 251.

15 P. Zietlow, Moments of Vision: The Poetry of Thomas Hardy, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1974,

p. 161. 16 Life, pp. 4-14.

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Sometimes in the twenties Thomas Hardy remarked to Robert Graves that ‘vers libre’ could come to nothing in England. “All we can do is to write on the old themes in the old styles, but try to do a little better than those who went before us”.17

La sua relazione con la storia è, infatti, un aspetto imprescindibile per sondare la sua capacità di apprezzare la presenza del passato nel presente. Così ha anche più senso il compito del restauratore, nella sua cura e protezione del passato, intese come recupero e valorizzazione del “to-day”.

Tom Paulin ha scritto: “for Hardy memory is a graveyard, and graveyards are a kind of racial memory. Their permanence is all there is, but it stops far short of the real permanence he sought”.18 Paulin ci dice quanto questo legame con la memoria e il passato abbia significato per Hardy anche l’impossibilità di evaderlo, in quanto il poeta in parte ne fu schiavo, e, allo stesso tempo, un grande manipolatore. La sua poesia non è alterata della memoria, sebbene sia legata alle esperienze che si sono cristallizzate in essa, e come si legge in una delle poesie più belle che Hardy dedicò all’antico amore per Emma:

What we did as we climbed, and what we talked of Matters not much, nor to what it led, –

Something that life will not be balked of Without rude reason till hope is dead, And feeling fled.

It filled but a minute. But was there ever A time of such quality, since of before, In that hill’s story? To one mind never,

Thought it has been climbed, foot-swift, foot-sore, By thousands more.

In “At Castle Boterel” (CP 292), Hardy distingue l’esperienza, la sua carica emotiva e la sua autonomia, dal semplice scorrere del tempo. “It filled but a minute” eppure l’emozione durò per sempre, incapsulata in questo istante di grazia dove la memoria seleziona il ricordo e lo conserva così come fu. Per dire che la metafisica aveva creduto in un tempo unico nel quale cercare la verità, e cercare la realtà coerente in ciò che non cambia, Bergson elabora il concetto definendolo come “une durée qui dure”.19 Questo particolare tempo bergsoniano è contenuto in questa poesia.

Hardy ritorna sulla collina dove era stato con la moglie, tanto tempo prima, e adesso quel luogo gli offre la momentanea immagine di

17 A. Alvarez, Introduzione al testo The New Poetry, Harmondsworth, Penguin, 1962, p. 21.

18 Tom Paulin, “Time and Sense Experience: Hardy and T. S. Eliot” (pp. 192- 204), in Budmouth Essays on Thomas Hardy, ed. F. B. Pinion, Dorchester, The Thomas Hardy Society, 1976, p. 193. 19 Henri Bergson, La Perception du Changement, cit., p. 16.

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quella giornata che passarono insieme, concedendogli “une durée qui dure”. Il poeta scopre di poter rivivere quelle ore nella memoria, che si rivela più forte del tempo passato e della morte della donna. Egli compie anche un’altra sottile operazione in questa poesia (così come fa in “In Time of ‘The Breaking of Nations’”) creando un ponte fra il ricordo dell’amore con Emma in quel luogo, e il passaggio indistinto dei “thousand” che in un altro tempo, per altre ragioni, hanno attraversato quella collina.

Ancora una volta vi è come una certa sospensione del tempo nella fissità “memoriale” del luogo. Il ricordo acquisisce così un’inestimabile valore individuale e un’unicità inviolabile.

Samuel Hynes mette in luce quanto la scomparsa di Emma fu in realtà la vera cesura fra presente e passato, nella vita di Hardy:

It was Hardy’s greatest loss, his greatest personal diminishment; Emma’s death emptied his life of his strongest link with his own past, with youth, hope and happiness, and shifted her presence and all that she meant to him into the ghost-world of memory.20

È innegabile che la morte di Emma, avvenuta nel 1912, abbia dato inizio nella mente e negli scritti di Hardy a una lenta ma vertiginosa ricapitolazione della sua vita, e che questo evento abbia sciolto moltissime reticenze e permesso al poeta di abbandonarsi alla tenerezza e alla dolcezza del ricordo. Tuttavia, non è possibile ridurre la questione della memoria al ricordo di Emma, perché, come abbiamo visto anche in precedenza, il passato era da sempre stato il tempo della narrazione lirica hardiana. Questo non solo perché il passato si può ripensare e esaminare, ma soprattutto perché il ricordare ha bisogno di una certa distanza e di un distacco totale.

Thomas Hardy era un uomo che detestava il contatto fisico. Hillis Miller nel suo libro Distance and Desire, affronta questo tema senza mediazioni, e sottolinea che “all his life Hardy hated to be touched”.21 Il rifiuto del contatto fisico è in un certo senso paragonabile alla pulsione a desiderare di rivivere ciò che non è più, annullando il potere “perturbatore” che il tempo ha sulla vita dell’uomo. Il tempo trattiene e fa morire ciò che vuole, non tiene conto delle speranze o dei desideri dell’uomo; ma il tempo che osserva Hardy si esprime attraverso i segni che lascia sulla materia, e l’attesa, così come il rinvio, diventano le parti favorite dell’ispirazione del poeta.

La scelta di dedicarsi alla lirica nell’età matura è un altro segno che tutto ciò che merita di essere vissuto giace nell’attesa e nei segnali del

20 S. Hynes, “How to be an Old Poet: Hardy and Yeats”, in Reading Thomas Hardy, ed. C. P. C. Pettitt, London, Macmillan, 1998, p. 175.

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passato, tanto è vero che le poesie di Hardy sono meditative, riflessive, e in sostanza rimandano tutte a una circostanza irripetibile, o persino immaginaria. Il risultato di questo scavo nella memoria fa rinvenire spesso il lato tragico della vita, così come il pensare al futuro per Hardy è, non a caso, un modo per mettere in gioco l’ironia. Infatti, tornando per un istante, a “At Castle Boterel”, ci si accorge che l’allusione ai piedi, che hanno, in un secondo tempo, calpestato quella collina, è una traccia relativa ad un arco temporale successivo al precedente “mitico” della coppia Thomas-Emma. Quindi va a definire un evento futuro rispetto al loro passato, creando una sorta di smorfia cinica sul viso del poeta che si allontana per sempre da quel luogo della memoria.

Il momento in cui si acuisce maggiormente il divario fra il suo presente e il suo passato, è sicuramente la morte di Emma, che, in un certo senso, lo libera dalle incomprensioni che avevano caratterizzato la loro unione in vita. Emma diventa una reliquia del passato, un’eccezione irripetibile e singolare che non scompare col passare del tempo. Affidarsi alla reliquia è forse il modo in cui Hardy crea la fusione fra materia e spazio, tanto più che questa reliquia è humanized. L’arte gotica è ancora più identificabile con la preziosità della reliquia, in quanto essa vive nel passato che l’ha creata, ma resiste indisturbata e avvolta in un’epoca che non si può ricostruire.

Un altro esempio lo troviamo in “On a Discovered Curl of Hair” (CP 630) che ci parla di una ciocca ritrovata: un ricciolo di Emma che ispira il ricordo del poeta. Hardy ritorna indietro nel tempo, a quando i giovani innamorati “walked where breakers dinned / It sported in the sun and wind”, e “to abate the misery / Of absentness” la donna gli donò questo ricciolo. Nell’immagine del passato “this curl was waving on your head”, e “it brushed and clung about my face” quando Hardy riuscì a conquistare le sue “words of grace”. Nel momento in cui “this curl” torna nelle mani del poeta, diventa una reliquia, custode della memoria di quell’amore:

Yet this one curl, untouched of time, Beams with live brown as in its prime, So that it seems I even could now Restore it to the living brow By bearing down the western road Till I had reached your old abode.

“Poetry attaches its emotion to the idea; the idea is the fact”, e “the future of poetry is immense because in poetry, where it is worthy of its high destinies, our race, as time goes on, will find an ever surer & surer

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stay”22, leggiamo nei Literary Notes di Thomas Hardy. Queste sono citazioni molto indicative circa il carattere che Hardy avrebbe voluto far acquisire alla sua lirica.

In “On a Discovered Curl of Hair” il poeta riconquista il passato attraverso una reliquia che sfugge al tempo (“untouched of time”); la ciocca lo illude di poter tornare indietro (“I even could now restore it to the living brow”) sulla strada impercorribile del loro lontano incontro. Sebbene sia un’illusione momentanea, o forse una rassegnata richiesta di morte, Hardy “attaches his emotion” al fatto, al momento avvenuto ma non ripetibile. Così facendo crea un oggetto “inviolabile”, quasi sacro, che non solo sfugge all’appassimento del tempo, ma che, come ha scritto Hillis Miller, dalla sua unicità trae l’occasione per non ripetersi, per non essere motivo di ulteriore coinvolgimento “fisico”, se non nella sua memoria.23

1.1

La coscienza del “Past repeating”

Sull’abilità di riscrivere il passato alcuni critici hanno cercato delle definizioni che fossero in grado di inglobare i molti mondi ricostituiti da Hardy in un’unica mappa, anche per non circoscrivere l’argomento solamente ai cosiddetti Emma Poems. Il compito non si presenta particolarmente facile, perché i ricordi d’amore o quelli storici, o le memorie di famiglia o quelle di paese, si mescolano indistintamente come nel campo di grano di St. Juliot citato in “In Time of ‘The Breaking of Nations’”. Tutto sembra perciò avvenire in un unico tempo mentale.

Spesso nella produzione lirica hardiana si ha come l’impressione che questo effetto di amalgamazione e metamorfosi della memoria sia necessario per non cedere alla tentazione di un’arte che, sebbene continuamente immersa nel passato personale dell’autore, scivoli in un eccessivo autobiografismo. Forse è per questo motivo che Hardy non è interessato a dividere cronologicamente i ricordi, ma piuttosto a rivestire gli eventi scatenanti di una unicità simbolica.

Scopriamo, infatti, che una delle intuizioni più innovative della poesia hardiana è quella di aver compreso che era arrivato il momento

22

The Literary Notebooks of Thomas Hardy (2 volumi), Lennart Björk (ed.), London, Macmillan, 1985, I volume, p. 183.

23 J. Hillis Miller, Distance and Desire, cit., p. 2. Nell’autobiografia si legge: “He [Hardy] loved being alone, but often, to his concealed discomfort, some of the other boys would volunteer to accompany him on his homeward journey to Bockhampton. How much this irked him he recalled long years after. He tried also to avoid being touched by his playmates. […] This peculiarity never left him, and to end of his life he disliked even the most friendly hand being lad on his arm or his shoulder”, Life, pp. 24-25.

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anche in poesia di rapportarsi con un presente più incerto al quale bisognava rivolgersi con molta ironia e distacco. Con uno stile e un linguaggio variabili quanto basta per essere ripetuti senza saturare nessuna forma metrica, Hardy giostrò le sue visioni e la tradizione popolare per far riemergere la memoria collettiva e quella individuale, aprendo per i suoi lettori delle vere e proprie finestre sulla storia. Come il suo tempo in poesia è spesso rapsodico, così il linguaggio deve mostrarsi pronto a trattare di tutto; perciò, al fine di esprimere i sentimenti e le situazioni che sostengono la memoria, il poeta usa mille stratagemmi: i

dash e le parentesi per dare l’idea delle pause vive (durante le quali

spesso il poeta spiega alcuni particolari, tecnica, fra l’altro, molto simile a quella di Mallarmé), le maiuscole per personificare figure astratte o forme della sua fantasia, i ritornelli e le ripetizioni così tipiche della tradizione. Nonostante il suo aggirarsi fra i simboli presenti nel suo linguaggio, Hardy mirò soprattutto a smascherare l’inganno che il passato contiene, la verité noire di cui parlava in Italia Franco Fortini a proposito della poesia di Montale.

“At the Entering of the New Year”24 (CP 597) si presenta suddivisa in due parti, ciascuna preceduta da un’epigrafe iniziale “Old Style”, e “New Style”. Due quadri che scandiscono il testo e ricompongono la stessa unità temporale: l’ultimo giorno dell’anno. In “Old Style” l’evento è “ripensato” e filtrato con una certa nostalgia; in “New Style” è talmente recente che il sentimento di cui parla Hardy sembra quasi appena sgorgato, ancora non delineato ma sicuramente già fortemente sentito.

I

Our songs went up and out the chimney,

And roused the home-gone husbandmen;

Our allemands, our heys, poussettings, Our hands-across and back again,

Sent rhythmic throbbings through the casements On to the white highway,

Where knighted farers paused and muttered, ‘Keep it up well, do they!’

The contrabasso’s measured booming Sped at each bar to the parish bounds, To shepherds at their midnight lambings, To stealthy poachers on their rounds; And everybody caught full duly The notes of our delight,

As Time unrobed the Youth of Promise Hailed by our sanguine sight.

24 Pubblicata sull’Athaeneum il 31 dicembre 1920, anche se la nota in calce dice “31 December, During the War”. Successivamente inserita nella raccolta Late Lyrics and Earlier (1922).

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II

We stand in the dusk of a pine-tree limb,

As if to give ear to the muffled peal, Brought or withheld at the breeze’s whim;

But our truest heed is to words that steal

From the mantled ghost that looms in the gray, And seems, so far as our sense can see,

To feature bereaved Humanity,

As it sighs to the imminent year its say: – ‘O stay without, O stay without,

Calm comely Youth, untasked, untired; Though stars irradiate thee about Thy entrance here is undesired. Open the gate not, mystic one;

Must we avow what we would close confine?

With thee, good friend, we would have conserve none,

Albeit the fault may not be thine.’

“Toute poésie exprime des états d’âme” scrive Bergson, “mais parmi ces états, il en est qui naissent surtout du contact de l’homme avec ses semblables. Ce sont les sentiments les plus intenses et aussi les plus violentes”.25 Indubbiamente, in tutti i versi che compongono questa poesia Hardy condivide un sentimento riguardo l’anno nuovo che sta per arrivare. Questo si manifesta negli otto “our” che serpeggiano nel testo; nel “we” che apre sommessamente la seconda parte; forse soprattutto nell’“everybody” che concentra in sé il grado espressivo della gioia collettiva del momento di unione durante le festività. Infatti, mentre nelle prime due stanze, appunto, “everybody caught full duly / The notes of our delight, / As Time unrobed the Youth of Promise / Hailed by our sanguine sight”, nelle seconde due che seguono: “our truest heed is […] ‘O stay without, O stay without, / Calm comely Youth, untasked, untired; / Though stars irradiate thee about / Thy entrance here is undesired”. In sintesi Hardy sta registrando il passaggio di “our sanguine sight” in una “bereaved Humanity”: l’ottimismo e la fiducia nel nuovo anno e la voglia di stare insieme sono ormai dei sentimenti del passato nati da memorie lontane e irripetibili. Ora l’umanità “sta” intorpidita, come assistendo al funerale della giovinezza, intravede e ascolta atterrita “the mantled ghost that looms in the gray” e risponde a questa figura funerea: “stay without”, “Thy entrance here is undesired”, “With thee, good friend, we

would have converse none”.

Hardy profeticamente rappresenta un mondo unito nella volontà di essere separato, che si prepara a vivere da “defunto” in un’epoca di

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sospettosa attesa. Tuttavia, il verso che chiude la poesia “Albeit the fault may not be thine” è, a nostro parere, molto interessante e si leva come una nuova riflessione nell’animo dell’umanità. Questo dubbio, che nasce dalla paura, rende la divisione fra passato e presente ancora più problematica.

Ciò che prima era fuso nel passato, anche grazie al collante religioso, nel presente e nel futuro (che il poeta attende senza impazienza) è drammaticamente e necessariamente diviso; l’ingresso della memoria collettiva è ostacolato e indesiderato. In sostanza, Hardy sta descrivendo la guerra: quello stato di cose in cui l’immobilità aleggia come un fantasma, nel quale muoversi liberamente è proibito, mentre “stare fermo” è paradossalmente l’unico modo per sopravvivere.

Il primo, sostanziale contrasto si avverte nel diverso, opposto direi, scorrere delle immagini: movimento e ritmo si caratterizzano la prima parte, mentre nella seconda, che inizia con “we stand” si avverte subito l’inevitabilità della circostanza “guerra”, rappresentata come il funerale della giovinezza. Con il dubbio finale che “la colpa non sia tua”, “At the Entering of the New Year” si pone come la prova tangibile che l’eredità, ormai impossibile da condividere, separa invece di unire.

L’incanto della festa e dell’innocenza, divenuto ormai la celebrazione funesta della morte, si tramuta in dubbio e in sospetto. Hardy qui sembra preoccuparsi di due cose principalmente. La prima riguarda la Storia, e come Pasolini avverte ne Le ceneri di Gramsci, “Non è il tempo della Storia. Patria divenuta coscienza oltre la memoria”, così anche per Hardy la memoria storica da individuale è diventata ineluttabilmente e drasticamente “universale”.

La seconda è forse un po’ più complessa e riguarda l’idea della “colpa”, che lascia il giudizio del poeta “onestamente” sospeso nel dubbio.

T. H. Huxley aveva messo in luce come “nel mondo puramente animale né le gioie né i dolori sono distribuiti secondo il merito”, e continuava dicendo che, al contrario, nella vita umana esiste una regola che ci accomuna tutti:

[T]he violator of ethical rules constantly escapes the punishment which he deserves; […] the wicked flourished like a green bay tree, while the righteous begs his bread; […] the sins of the fathers are visited upon the children; […] in the realm of nature, ignorance is punished just as severely as wilful; and […] the thousands upon thousands of innocent beings suffer for the crime, or the unintentional trespass, of one.26

26 T. H. Huxley, “Evolution and Ethics”, in T. H. Huxley e Julian Huxley, Evolution and Ethics 1893-1943, London, The Pilot Press, 1947, pp. 67-68.

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Un’altra osservazione che fa Huxley è di matrice letteraria, e ci sorprende per l’apparente attinenza con il mondo hardiano in guerra con se stesso. Infatti, poco prima aveva parlato di un “processo etico”, appunto un’evoluzione moderna, che avrebbe portato a dei sentimenti sociali, a “the organized and personified sympathy we call conscience”.27

What is more common motive in the ancient tragedy in fact, than the unfathomable injustice of the nature of things; what is more deeply felt to be true than its presentation of the destruction of the blameless by the work of his won hands, or by the fatal operation of the sins of others? […]

Thus, brought before the tribunal of ethics, the cosmos might well seem to stand condemned. The conscience of man revolted against the moral indifference of

nature, and the microcosmic atom should have found the illimitable macrocosm guilty.28

Hardy si amareggia molto quando assiste alla disfatta delle teorie scientifiche divulgate da Huxley – soprattutto riguardo quelle che distinguono l’uomo primitivo e l’uomo moderno, in base ai loro fini ultimi. L’arrivo della Prima Guerra Mondiale, infatti, denuda le premesse che circondavano l’uomo “etico”, il quale “usa le proprie energie migliori per porre limiti alla lotta [per l’esistenza]”.29 La guerra fa sì che l’uomo non si rivolti “against the moral indiffence of nature”, ma, al contrario, se ne serva per perpetrare la crudeltà della lotta in ambito nientemeno che mondiale.

Quando Hardy indica le non-ragioni della guerra, infatti, non solo pare rassegnato a questo colpo di coda che l’umanità ha inferto a sé stessa, ma si mostra soprattutto distaccato come quando parla delle sue memorie passate. Nel prendere atto che l’“uomo etico” non potrà mai esistere, al nostro poeta non resta che volgersi al passato, a quell’“Old Style” incommensurabilmente più “sanguine” (sebbene forse lo sia grazie ad una incoscienza, limitata e pericolosa), quando nessuna colpa pendeva sulla testa di un altro. “The mantled ghost”, “the mystic one” torna sulla terra per narrare l’orrore e il dolore della guerra, ma l’umanità “bereaved” lo respinge, lo lascia fuori, preferendo la custodia di una verità celata, nascosta (“Must we avow what we would close confine?”), in un certo senso, ormai compromessa e falsata.30

27 T. H. Huxley, “Evolution and Ethics”, cit., p. 51. 28 Ibidem, p. 68 (corsivi miei).

29 T. H. Huxley, “La lotta per l’esistenza nella società umana” (1888), in Evoluzione ed Etica, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 61.

30

Una conferma di questa delusione è rintracciabile nei versi di Siegfried Sassoon, che nella poesia “They” dice: “The Bishop tells us: “When the boys come back / They will not be the same; for they’ll have fought / In a just cause … ‘We’re none of us the same!’ the boys reply. / … you’ll not find / A chap who’s served that hasn’t found some change”. Edmund Blunden, un altro poeta della Guerra, amico di Sassoon, scrive nel capitolo intitolato “The Great War and After” della sua biografia di Thomas Hardy: “Mr. Sassoon came into Hardy’s circle in 1917 or 1918, being known as an officer of outstanding gallantry in the Western Front battles, and as a poet who has published a series of daring

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In uno dei saggi più interessanti che siano mai stati scritti sulla poesia di Hardy, Delmore Schwartz ha scritto:

Hardy inherited a substratum of sensibility of a definite character and formed by definite beliefs which denied the scientific view his intellect accepted. He inherited this sensibility from his fathers, just as he inherited the lineaments of his face, and he could soon have changed one as the other. Hardy was convinced that the new scientific view was the correct one; he was convinced intellectually, that is to say, that Darwin, Huxley, Schopenhauer, Hartmann, and Nietzsche had attained to the truth about Life. But at the same time, he could not help seeing Nature and human life in the light which was as habitual as walking on one’s feet and not on one’s hand. He could not work as a poet without his profound sense of history and sense of the past, his feeling for the many generations who had lived and died in his countryside before him; and his mind like theirs, naturally and inevitably recognized human choice, responsibility, and freedom, the irreparable character of human acts and the undeniable necessity of seeing life from the inside of the human psyche rather than from the astronomical-biological perspective of nineteenth century science.31

Schwartz lascia la questione aperta, in un certo senso, la biforca per chiarire il conflitto vittoriano che Hardy conteneva in sé. Intellettualmente, il poeta credeva nella scienza, d’altro canto, istintivamente, aveva ereditato l’“undeniable necessity of seeing life from the inside of the human psyche”, e conseguentemente una certa fiducia nella storia dell’uomo.

Sebbene il cardinale Newman rappresenti il prototipo del vittoriano illuminato e sensato, colui che attraverso i suoi dubbi e le sue incertezze ha trovato la strada per formulare nuovi ragionamenti filososici e religiosi ad uso collettivo, e non personale, qualcosa di molto simile, e molto più importante, furono le idee di Charles Darwin.

Il naturalista inglese non ha intrapreso una ricerca personale, ma collettiva, dando alla scienza, per la prima volta, un valore totalmente “sociale”, non fosse altro che per il livello di accessibilità linguistica (impensabile nelle opere di Newton, per esempio) in cui aveva reso i suoi scritti.

Hardy aveva evidentemente notato questo carattere “sociale”, “sfogliando”, leggendo e assimilando l’immaginario darwiniano; cosa ancora più importante, aveva filtrato questa visione nelle trame e nei destini dei protagonisti dei suoi romanzi rendendoli delle immagini concettuali di questa svolta storica così delicata. Non potevano che avere delle vite tragiche; delle esistenze al varco di un cambiamento così

poems in several kinds condemning the appalling sacrifice of youth in a war of which the battlefields grew worse and worse. He was one of the younger authors who, from the later years of the war, formed a new companionship for Hardy while they honoured his genius” (Thomas Hardy, London, Macmillan, 1942, p. 158).

31 D. Schwartz, “Poetry and Belief in Thomas Hardy”, in Hardy: A Collection of Critical Essays, ed. A. J. Guérard, Englewood Cliffs (NJ), Prentice-Hall, 1964, pp. 126-27.

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radicale non potevano che affacciarsi sul baratro dell’incertezza e della conseguente indecisione cronica.

Nelle poesie tutto questo materiale vulcanico acquista una forma diversa, può cambiare aspetto e prendere una strada di comunicazione e un’espressione diversa, può cioè trarre giovamento da questa “promessa-minaccia” che le teorie di Darwin avevano messo in luce così chiaramente.

Ecco perché a partire dal linguaggio, osserviamo che, nell’opera di Hardy, la poesia si rigenera. Il linguaggio è già coscienza, potremmo dire: abbandonando gli schemi lessicali prevedibili e ormai ritriti, Hardy abbraccia una lingua visibile e tangibile, creando il palcoscenico per la poesia moderna. Nel 1888, il poeta scriveva: “there is something [in this] the world ought to be shown, and I am the one to show it to them”.32

Versi come quelli presenti in “The Coming of the End” (CP 510), sono chiaramente distinguibili dal tono malinconico e formale di poesie come “In Memoriam” di Tennyson, o “Dover Beach” di M. Arnold, per esempio.

It came to an end;

Yes, the outgazing over the stream, With the sun on each serpentine bend, Or, later, the luring moon-gleam; It came to an end.

It came to an end,

The housebuilding, furnishing, planting, As if there were ages to spend

In welcoming, feasting, and jaunting; It came to an end.

Ma le ragioni di questo approccio non sono solo la lettura di Darwin, Huxley, Schopenhauer, Bergson. Hardy aveva acquisito una consapevolezza e un grado di profondità circa la vita e gli eventi che nascono e muoiono in essa, che era evidentemente anni luce di distanza dal lirismo di Tennyson. La sua ispirazione era certamente privata delle immagini vaghe e tardo romantiche; ma questa privazione acquista potere con il linguaggio diverso e moderno di Thomas Hardy.

Ai poeti non era più concesso il lusso di cullarsi nel mare magno dei loro simboli. Come dice Hillis Miller, da “Lamp”, il poeta diveniva “bare consciousnesss, the detached reflecting mirror”,33 dunque doveva possedere una sua filosofia. E Hardy controllava magistralmente il famoso sguardo idiosincratico sull’esistenza materiale.

32 Life, p. 208.

33 J. Hillis Miller, “The Theme of the Disappearance of God in Victorian Poetry”, Victorian Studies, vol. VI, no. 3, March 1963, p. 214.

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Poiché il modo di guardare il mondo era innegabilmente cambiato, era anche il momento per un’osservazione e una raccolta dei dettagli che aiutasse a far confluire nella memoria i ricordi e i particolari separati da una speciale dose di disincanto: “the tangled bank” di Darwin era un modello a disposizione per tutti. Hardy configura gli elementi materiali e quelli invisibili con un linguaggio personale, e questo rappresentava già metà del suo lavoro di poeta.

Il tentativo di far convergere l’epoca nella lingua, cioè di dare ancora una chance alla poesia di sondare i movimenti dell’anima, non solo da un punto di vista personale e circoscritto, ma soprattutto dal punto di vista dell’uomo moderno, è la grande sfida di Thomas Hardy poeta.

Thomas Hardy ha anche un altro punto a suo favore rispetto alle menti vittoriane, come Rossetti, Morris, Ruskin o Tennyson, che comunque hanno fatto la storia e testimoniano ancora adesso l’epoca più lunga della letteratura. Hardy non si è rifugiato nel medievalismo; al contrario lo ha conosciuto, studiato, amato, rispettato come restauratore di chiese gotiche, ma non si è nascosto fra le mura di quel passato.

Come dice perfettamente Cockshut:

Nevertheless, all these and indeed all the different varieties of medievalizer had one very important thing in common. They all felt that the nature of the Victorian intellectual and social scene was such that the imagination could only grasp it obliquely. That is a point of prime importance about the society they lived in; and it is hasty to say that they must have been mistaken, and unfair to dismiss them all as escapists. The medieval cult, in all its forms, witnesses to the strain of living and thinking in a society where facts, theories and principles must have seemed to many sensitive people like an unintelligible whirl of atoms.34

Hardy affronta il legame che il passato instaura con il futuro, ha bisogno di sapere se lo condiziona o se lo anticipa, se lo oscura o se lo rende insopportabile. In “He Wonders About Himself” (CP 460), il poeta scrive:

No use doping, or feeling vext, Tugged by a force above or under Like some fantocine, much I wonder What I shall find me doing next!

L’uomo è un fantoccio nelle mani del caso, e progettare un futuro, è amaramente irrilevante. Infatti, il poeta inglese non manca certo di ironia quando si tratta di immaginare una situazione futura, quasi

34 A. O. J. Cockshut, “Victorian Thought”, in The Victorians, ed. Arthur Pollard, London, Sphere Books, 1987, p. 22.

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rendendola “apparente”, figlia di una riflessione che, come in questa poesia, si ripete da sempre senza che l’uomo possa cambiare nulla.

Part is mine of the general Will, Cannot my share in the sum of sources Bend a digit the poise of forces, And a fair desire fulfil?

Ognuno di noi gioca una parte che mira a realizzare qualcosa all’interno di questo disegno vastissimo e cieco. Sono parole che, tuttavia, racchiudono un vago cinismo; in un certo senso anche l’ironia di questo componimento potrebbe essere vista come la minuscola “part” che l’uomo può simbolicamente opporre alla sua condizione drammatica e universale.

La religione in questo contesto appare come un rito del passato, che, smontato alla radice dalle teorie darwiniste, ritorna sotto varie forme. Soprattutto il senso dell’attesa, misticamente implicito nella religione cristiana, è una delle fonti di ironia maggiore di Hardy. In “Fragment” (CP 464) l’attesa è più un indugiare dell’umanità rispetto a ciò che non conosce, e pensa di trovare in Dio:

‘The sense of waiting here strikes strong; everyone’s waiting, waiting, it seems to me; what are you waiting for so long? –

what is to happen? ‘ I said.

‘O we are waiting for one called God’ said they, ‘(Though by some the Will, of Force, or Laws; And, vaguely, by some, the Ultimate Cause);

L’attesa di Dio è vissuta come una rivelazione, per conoscere “how things have been going on earth and below it”. Gli uomini, “humble pioneers” sono dotati di “feelings faster than he” e temono di essere presto fagocitati da questa pena che sentono, ma di cui il loro Dio non si accorge. Il titolo “Fragment” suggerisce a Bailey che la poesia possa essere un pensiero filosofico non terminato,35 tuttavia, l’immagine del

frammento scorre nei versi di Thomas Hardy come una particella costante

nei suoi dubbi e nelle sue speranze, caricando il suo tono di una certa malinconica esitazione.

Come dice Timothy Hands:

The complexity of Hardy’s attitude to the Christian religion is the root cause of such disagreement. Hardy never loses a fascination with the dogma encountered in his early years, though in his agnostic maturity he questions the value of the Christian

35 J. O. Bailey, The Poetry of Thomas Hardy: A Handbook and Commentary, Chapel Hill (North Carolina), University of North Carolina Press, 1970, p. 404.

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religion, whilst eclectically maintaining some of its ethical assumptions. The influence of sentiment and emotion militates against any systematic logicality in his outlook, resulting in a crucially important uncertainty of viewpoint. Discussion of these three predominant qualities – fascination, rejection and sentiment illogicality – is the clearest way of examining the bewildering and eclectic variety of Hardy’s religious thought.36

“God’s Funeral” (CP 267) è la poesia che sembra attraversare il ponte di dubbi e speranze mal riposte, espresse in “At the Entering of the New Year”. In questa poesia, Hardy, creando una scena indubbiamente dantesca, immagina di essere in coda al funerale di Dio, condividendo quel sentimento di dolore senza ostilità (“I was wrought / To consciousness of sorrow even as they”). Mentre il funerale procede, Hardy si accorge che chi non vuole proprio accettare che Dio sia davvero morto, partendo dalla coda della processione, si ribella vigorosamente:

Some in the background then I saw,

Sweet women, youths, men, all incredulous, Who chimed: ‘This is a counterfeit of straw, This requiem mockery! Still he lives to us!’

Già in questa quartina si avverte la simpatia di Hardy per la folla immaginaria che protesta all’idea che Dio fosse morto,37 nonostante si percepisca anche una punta di ironia in “Still he lives to us!’.

[…] I could not buoy their faith: and yet Many I had known: with all I sympathized; And though struck speechless, I did not forget That what was mourned for, I, too, long had prized.

Hardy non poteva sostenere la fede cristiana; la sua volontà e la sua coscienza non glielo permettevano più: “I could not buoy their faith”. Però conosce i visi, le speranze e le parole di chi crede, perché anche lui “long had prized” di imbattersi in una qualche salvezza divina.

In una conversazione con Frédéric Lefèvre, Hardy dichiarava:

By religion I mean the religious spirit. […] I believe that we are moving towards the disappearance of dogmas. […] I dream of an alliance between religious freed and dogmas. The religion which ought to be preserved if the world is not to perish absolutely and which we must achieve if the world is not to perish, an alliance

36

T. Hands, Thomas Hardy: Distracted Preacher? Hardy’s Religious Biography and its Influence on

his Novels, London, Macmillan, 1989, p. 80.

37 È interessante notare una corrispondenza con il saggio freudiano “Il Disagio della Civiltà” (1929), nel quale Freud scrive: “[V]errebbe voglia di mescolarsi alle schiere dei credenti per rivolgere, ai filosofi che credono di salvare il Dio della religione sostituendolo con un principio impersonale, oscuro e astratto, il monito: “Non nominare il nome di Dio invano!” Se alcuni dei grandi spiriti del passato hanno fatto lo stesso, non perciò è lecito rifarsi al loro esempio. Sappiamo perché dovettero farlo” (Torino, Bollati Boringhieri, 2006, p. 209).

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of rationalism and religion, would be created by poetry. […] Poetry, pure literature, and religion are the visible points of the most authentic mental and emotional life.38

La questione che si pone Hardy è di ordine razionale. Anche il poeta parla di “mental and emotional life” ed esige una via che incammini l’uomo verso il progresso, senza sottovalutare l’importanza del passato comune. “Everything was made for man”, scrive in “Drinking Song” (CP 896), eppure questo mondo è nelle mani di “some Vast Imbecility” (“Nature’s Questioning” CP 43) che ha abbandonato l’umanità nelle mani incaute del caso. Infatti, Hardy sembra suggerirci il dubbio che la religione abbia manipolato la vita dell’uomo, piuttosto che indirizzarlo verso una morale scientifico-religiosa, al fine di creare un mondo – e in questo la visione dei versi hardiani è fedele a quella presente nei romanzi – nel quale l’umanità è spesso vittima del destino e di se stessa.

Il poeta ci ha lasciato una testimonianza inoppugnabile della sua “fede” nella scienza, a suo modo di vedere unica valida compagna della verità. Per questa ragione il compito al quale Hardy mirava si rendeva sempre più ambizioso: la scienza poteva creare un ponte fra la religione e la poesia attraverso la libertà di pensiero.

Björk scrive che “Hardy’s castigation of traditional religion is an integral part of his social criticism”,39 e, secondo Marroni, “per Hardy, ogni poesia è un’interrogazione sulla realtà”.40 Infatti la fiducia hardiana nella storia dell’uomo, nella quale la religione aveva giocato un ruolo fondamentale, nasconde un atteggiamento profondamente critico. Come ha ulteriormente notato Lennart Bjork,

One aspect of the Darwinian impact on Hardy which has not received much attention is to be found in the ethical ramifications that Hardy saw in the theory of evolution.41

Hardy ha effettivamente percepito la teoria dell’evoluzione come un’occasione per rivedere alcune posizioni sull’etica e sull’idea di Natura, con lo scopo forse di accedere ad alcuni principi base del mondo “naturale” ed applicarli ad una visione più laica della vita. Infatti, prima di ogni altra cosa, credo che sia fondamentale partire dal solido presupposto che Hardy abbia visto in questa rivoluzione scientifico-culturale anche un’opportunità di laicità che mai, prima di quel momento, si era presentata.

38 F. Lefèvre, “An Hour with Thomas Hardy”, in Thomas Hardy Remembered, ed. Martin Ray, Aldershot, Ashgate, 2007, pp. 282-283.

39 L. Björk, Psychological Vision and Social Criticism in the Novels Thomas Hardy, Stockholm, Acta Universitatis Stockholmiensis, 1987, pp. 24- 25.

40 F. Marroni, La poesia di Thomas Hardy, Bari, Adriatica, 1997, p. 74.

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Chiaramente questo desiderio di etica, laicità, e scientificità, ben si legava con il carattere e la personalità di un autore che ha basato la maggior parte dei suoi romanzi sulla denuncia della disparità fra classi, sui danni che le convenzioni sociali provocano nella vita degli individui. In buona sostanza, Hardy aveva scoperto nella letteratura una lente capace di cogliere e ingrandire le vicende umane mettendo a fuoco i pericoli e i rischi a cui un’umanità tanto, troppo lontana dal suo passato, stava andando incontro, lasciandosi alle spalle le proprie origini e tradizioni.

Tuttavia, il mondo vittoriano va considerato come “nuovo”, come il nuovo volto di un lento processo storico che arrivava ad affacciarsi in modo compiuto proprio intorno al 1832, con il Reform Act. Per quanto riguarda la religiosità vittoriana, soprattutto dei suoi legami con la politica nascente e con quella ormai sedimentata, lo studioso Cockshut ci invita a considerarla con meno severità perché “the coherence of all this was much more emotional than it was intellectual”42, e in realtà anche prima di Darwin, “unbelief was as varied and confusing in its manifestations as belief”.43

Di certo l’età vittoriana non dava molte possibilità di scelta a chi decideva di allontanarsi dalla religione e soprattutto a chi non aveva i mezzi economici e culturali per procurarsi un altro paradiso, ed era costretto a vivere in una condizione di repressione e disagio sociale. Alcuni dei personaggi dei romanzi hardiani – senza sbagliare si può dire che sono quei personaggi che hanno rappresentato le punte più accese della modernità di Thomas Hardy – sono simboli di questo disagio e, soprattutto il celebre ‘appetite of joy’, che caratterizza Tess e la conduce senza speranza verso la condanna a morte, riassume chiaramente il conflitto esistente fra l’unione di slancio e esperienza, e la chiusura, i limiti e la sofferenza che la società vittoriana imponeva ai più miseri.

Hardy è cosciente di vivere in un momento molto delicato, e sa di parlare per un’umanità confusa, della quale anche lui fa pienamente parte. Infatti, quello che cerca di fare in poesia è non allontanarsi dalla religione, anzi sfiorandola spesso con il dubbio e la possibilità di un’etica laica:

In every poetry, pure literature in general, religion – I include religion, in its essential and undogmatic sense, because poetry and religion touch each other, or rather modulate into each other; are, indeed, often but different names for the same thing – these, I say, the visible signs of mental and emotional life, must like all other things keep moving, becoming; even though at present, when belief in witches of Endor is displacing the Darwinian theory and “the truth that shall make you free”, men’s minds appear, (…), to be moving backwards rather than on. (…) For since the historic and once august hierarchy of Rome some generation ago lost its chance of

42 A. O. J., Cockshut “Faith and Doubt in the Victorian Age”, The Victorians, cit., p. 29. 43 Ibidem, p. 43.

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being the religion of the future by doing otherwise, and throwing over the little band of New Catholics who were making a struggle for continuity by applying the principle of evolution to their own faith, joining hands with modern science, and outflanking the hesitating English instinct towards liturgical restatement (a flank march which I at the time quite expected to witness, with the gathering of many millions of waiting agnostics into its fold); since then, one may ask, what other purely English establishment than the Church, of sufficient dignity and footing, with such strength of old association, such scope for transmutability, such architectural spell, is left in this country to keep the shreds of morality together?44

In questo passo, Hardy si pronuncia correttamente sul problema insorto dopo la pubblicazione de L’Origine delle specie. Darwin, infatti, scardina le obsolete concezioni religiose che indicavano nel disegno creativo di Dio ogni possibile dogmatica spiegazione a proposito della vita umana sulla terra, e, così facendo, getta un’ombra sulla credibilità delle posizioni ecclesiastiche. La moralità, dunque, non è più assimilabile alla fede, tutt’altro, e Hardy sostiene che se non si vuole afferrare il vero senso della moralità, bisogna che la chiesa si avvicini alla scienza affinché si definisca il disegno naturale che spieghi i processi evolutivi e le logiche del progredire umano, ma anche animale e vegetale, in relazione all’istinto e alla ragione.

Come leggiamo in una lettera a Clodd in occasione della pubblicazione del suo libro, Thomas Henry Huxley (1902):

If the doctrines of the supernatural were quietly abandoned to-morrow by the Church, & “reverence & love for an ethical ideal” alone retained, not one in ten thousand would object to the readjustment, while the enormous bulk of thinkers excluded by the old teaching would be brought into the fold, & our venerable old churches & cathedrals would become the centres of emotional life that they once were.

Well: what we gain from science is, after all, sadness, (…) that the world exists is a fact absolutely logicless & senseless.45

In “New Year’s Eve” (CP 231) Hardy dipinge un quadro meno cupo ma non meno inquietante, della religione; infatti, “God” stavolta non è altro che “The Unconscious Will”, figura dominante dei Dynasts, che opera sulla terra, dominando l’uomo e il tempo (“In grey, green, white, and brown; / I have strewn the leaf upon the sod, / Sealed up the worm within the clod, / And let the last sun down”).

“The Immanent Will”, “God” in questa poesia, ha creato l’uomo donandogli una coscienza di cui egli stesso è totalmente sprovvisto. Nel

Foreword dell’epic-drama, “The Shade of the Earth” chiede a “The

Spirit of the Years”: “What of the Immanent Will and Its designs?”, e il

44 Thomas Hardy, “Apology” in Late Lyrics and Earlier, CP, cit., pp. 448-9.

45 The Collected Letters of Thomas Hardy (Vol. Three 1902-1908), Oxford, Clarendon Press, 1982, p. 5.

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tempo risponde: “It works unconsciously, as heretofore, / Eternal artistries in Circumstance, / Whose patterns, wrought by rapt aesthetic rote, / Seem in themselves Its single listless aim, / And not their consequence”.

Anche in “New Year’s Eve”, l’uomo si interroga sulla non-volontà di questo Dio, e sulla inevitabile ricerca di una gioia terrena, tuttavia impossibile da ottenere.

Then he: "My labours – logicless – You may explain; not I:

Sense-sealed I have wrought, without a guess That I evolved a Consciousness

To ask for reasons why.

"Strange that ephemeral creatures who By my own ordering are,

Should see the shortness of my view, Use ethic tests I never knew,

Or made provision for!" He sank to raptness as of yore, And opening New Year's Day Wove it by rote as theretofore, And went on working evermore In his unweeting way.

Hardy mette in luce come fra Dio e gli uomini non possa esistere dialogo, l’uno “logicless”, gli altri dotati di “consciousness” e capaci di leggere e interpretare “ethic texts” atti a smascherare “the shortness” dell’operato divino. Ma l’ultima stanza non prevede cambi sostanziali nel rapporto “amorale” fra l’umanità e il Dio, il quale, inesorabilmente, prosegue il suo lavoro sulla terra. Lo scenario di “Fragment” si ripropone anche in questa poesia, mostrando il problema della sofferenza, ancora una volta, in relazione alla coscienza umana: “The emotions have no place in a world of defect, and it is a cruel injustice that they should have developed in it”.46

A proposito di “New Year’s Eve”, Hardy scrisse qualcosa di molto interessante, in una lettera a Clodd:

Many thanks for your letter about my New Year’s fantasy or dream in the F. R. [Fortnightly Review]. […] As you say, people will no doubt mistake it for a belief. It is Feuerbach who says that God is the product of man. […] On the other hand I quite enter into Spencer’s feeling – that is paralysing to think what if, of all that is so incomprehensible to us (the Universe) there exists no comprehension anywhere.47

46 Life, p. 149.

47 The Collected Letters of Thomas Hardy (vol. Three 1902-1908), eds. R. L. Purdy e M. Millgate,

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Hardy dice di sentirsi “paralizzato” al solo pensiero che non esiste alcuna comprensione in questo universo, mentre poco prima nella ‘Apology’ aveva chiesto: “What other purely English establishment than the Church, of sufficient dignity and footing, with such strength of old association, such scope for transmutability, such architectural spell, is left in this country to keep the shreds of morality together?”.

Infatti, il cruccio ideologico-religioso riguarda l’incapacità della Chiesa, che ha ormai abbandonato l’uomo a se stesso; trascurando il problema della comprensione e della solidarietà fra uomini, e perciò compromettendo il valore della memoria collettiva, la religione ha perso la vera e necessaria relazione che la teneva in vita.

Non è un problema che riguarda strettamente la vita personale di Hardy, ma non gli è totalmente estraneo. Abbiamo infatti già osservato che in lui era fortemente presente il desiderio “intellettuale” di aderire alle verità scientifiche. Piuttosto, pensando anche alla poesia “God’s Funeral”, il poeta sembra rivolgersi ai credenti, partecipando al sentimento di sofferenza e smarrimento che può sorgere negli animi di coloro che non riescono a sopportare una vita senza Dio, e che facilmente si abituano ad una Chiesa senza comprensione.

Patrick Yarker mette l’accento sulla churchiness di Hardy, per dire che il poeta non era estraneo alla chiesa come luogo di comunione della gente. Era cosciente dei cambiamenti della società, ma non ci teneva ad allontanarsi dalla vita che aveva sempre fatto, dalle sue tradizioni e dal suo Dorset, insomma:

He had an instinctive feel for the immemorial way of life, regulated by the seasons, punctuated by secular or ecclesiastical festivals, and maintained by ‘practices which had suffered no mutilation at the hands of time’. Moreover, in those ancient regions evidence is plentiful of occupation and husbandry since prehistoric times. Hardy’s sense of the past was fostered by the propinquity of these earlier inhabitants, who has never really vanished from the scene.48

È evidente che, per Hardy, i cambiamenti del sentimento religioso non erano una questione che poteva risolversi nell’animo di chi aveva accettato le teorie di Darwin, il quale, in ogni caso, aveva solo risvegliato, ma non provocato, il conflitto tra la fede e la ragione. È evidente, allo stesso modo, che il poeta lanciava un appello sempre più forte alla Chiesa, affinché fosse lei come istituzione e autorità morale, a riavvicinarsi ai suoi fedeli.

48 Patrick M. Yarker, “Later Victorian Novelists. Meredith, Hardy and Gissing”, The Victorians, cit., pp. 317-318.

(25)

1.2

Memoria e verità

Nella “Preface” di Wessex Poems and Other Verses, del 1898, Hardy scrive qualcosa di molto pertinente alla questione della memoria storica e al suo imprescindibile legame con i luoghi. Riguardo al concetto di tempo e sull’uso del tempo in poesia, infatti, il poeta offre una singolare riflessione:

The dates attached to some of the poems do not apply to the rough sketches given in illustration, which have been recently made, and, as may be surmised, are inserted for personal and local reasons rather then for their intrinsic qualities. 49

Linda M. Shires osserva che “Memory is finally more actual for Hardy, in this set of poems, than time”.50 La memoria scandisce il tempo

e le immagini.

Il tempo, per Hardy, ha valore solo se legato allo spazio, non per un valore astratto ma per delle “ragioni personali e locali”; queste ultime parole, quasi dette con una punta di ostentato e stridente snobismo, rimandano al significato di un sentito legame fra logos, sentimento e memoria. Questo canale sensoriale è come una lente che avvicina e allontana lo sguardo e l’oggetto dell’osservazione. Il tempo regola l’uomo, non sempre in armonia con la realtà della natura, e, tuttavia, ciò che ritorna nei versi di Hardy è il desiderio di verità che si conserva nella memoria, e che spesso emerge anche nei luoghi.

“Memoried” è un participio passato che conia Hardy per una poesia raccolta in Moments of Vision, “Apostrophe to an Old Psalm Tune” (CP 359), ma poi sarà ripreso anche in tre poesie di Late Lyrics

and Earlier. “But in my memoried passion / For evermore stands she / In

the gown of fading fashion / She wore that night” (“The Old Gown” CP 542); “Through the party-wall / Of the memoried spot / They danced at a ball / Who recalled her not” (“Lonely Days” CP 614). In “A House with a Hostory” (CP 602), il poeta dona ad una casa la capacità di registrare e conservare la memoria di coloro che l’hanno abitata:

Their raw equipments, scenes, and says Afflicted its memoried face,

That had seen every larger phase Of human ways

Before these filled the place.

49 T. Hardy, “Preface” di Wessex Poems and Other Verses, CP, cit., p. 6.

50 Linda M. Shires, “Hardy’s ‘Poems of 1912-13’” (pp. 138- 152), in Thomas Hardy and

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