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I fratelli Carlo, Aldo, Lina. I genitori Nane e Ada. I SECONDARI. compagni di trincea.

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Academic year: 2022

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TITOLO Il giorno degli eroi

AUTORE GUIDO SGARDOLI vive e lavora a Treviso, ma è nato a San Donà di Piave. La sua famiglia ha vissuto a lungo sulle sponde del fiume “sacro alla Patria” e di quella terra respira da sempre il profumo. Già autore per Rizzoli di romanzi come Piccolo Capo Bianco e Muso Rosso, nel 2009 ha ricevuto il Premio Andersen come miglior autore italiano di narrativa per ragazzi.

CASA EDITRICE Rizzoli ANNO DI PUBBLICAZIONE 2014

GENERE LIBRO Narrativa ragazzi, storia

PERSONAGGI PRINCIPALI Silvio Moretti, ragazzo del 1899 PERSONAGGI

SECONDARI

I fratelli Carlo, Aldo, Lina. I genitori Nane e Ada. I compagni di trincea.

ANTAGONISTI “i generali”

LUOGHI prima parte in un luogo imprecisato in Veneto, seconda parte nella trincea a Nord-Est dell’Italia

TEMPO Tempo della storia: Prima guerra mondiale Tempo del racconto : un mese, dal 27 novembre 1917 al 27 dicembre

TEMATICHE La brutalità della guerra e la sua assurdità Vita in trincea

Amicizia

"In occasione del centenario della Prima guerra

mondiale, la storia di un giovanissimo e audace soldato che non vuole uccidere più. Una storia italiana, un grido di pace per non dimenticare le vittime di tutte le guerre."

TRAMA È il 1915, e dopo un anno di neutralità, l’Italia ha

dichiarato guerra all’Austria. Per tanti ragazzi – contadini, manovali, semplici artigiani – servire la Patria è una responsabilità, un dovere, un onore. Quasi una gioia.

Alle stazioni dei treni, i soldati partono tra sorrisi e promesse: non passerà molto tempo, ripetono, prima che tornino a riabbracciare i propri cari. C’è persino chi vuole partire ma non può, come Silvio, classe 1899, prigioniero dei limiti d’età imposti all’arruolamento, costretto a guardare i fratelli più grandi correre al fronte.

E invece passano i mesi, la guerra non accenna a finire, e l’Italia si copre di cicatrici, le stesse che segnano i volti di chi aveva mariti, figli o fratelli che non riabbraccerà più. E poi arriva il 1917, e Silvio, aggrappato

tenacemente ai sogni patriottici, saluta la sua famiglia, pronto a fare il suo dovere. Ma bastano poche settimane per scoprire che nella guerra non c’è nulla di eroico. E quando si accorge che le file nemiche sono gonfie di ragazzi disillusi, sfiniti e impazienti di tornare a casa come lui, Silvio capisce cosa significa davvero essere un eroe.

COMMENTO Come si legge sulla copertina del libro, “l’unica battaglia è quella per la pace”. E nel libro, raccontandoci la storia

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di Silvio e dei suoi compagni di trincea, Sgardoli ci spiega perché. Con una prosa chiara e breve, l’autore ci illustra il cambiamento che avviene in Silvio e in chi gli sta intorno. Lo incontriamo il 27 novembre del 1917 e, nelle lunghe ore che passa in trincea, ripensa a quando la guerra era iniziata e al suo folle desiderio di partire per

“difendere la patria”. Gli unici consapevoli di che cosa significhi la guerra sono i genitori di Silvio, Nane e Ada.

Entrambi ne hanno già conosciute diverse e sanno bene che la loro vita è destinata solo a peggiorare e che, forse, nel conflitto perderanno i loro cari… Poco alla volta, e tra molte lacrime, anche noi assistiamo alla follia dell’uomo contro i propri simili e il pensiero corre subito ai conflitti che ancora oggi continuano a distruggere le esistenze di persone semplici, che vorrebbero solo avere una tranquilla esistenza e godere della fatica del proprio lavoro e dell’affetto dei propri cari.

A Silvio bastano quattro mesi, una dozzina di assalti e qualche migliaio di morti per comprendere che una guerra così non serve a nulla, se non a sfasciare le famiglie e il Paese.

Eppure, anche in mezzo a tanta distruzione e morte, basta un canto che echeggia tra due trincee, nella “terra di nessuno”, perché gli uomini si riconoscano come fratelli, al di là del Paese in cui sono nati, della lingua che parlano e della religione professata. E al di là del volere dei loro comandanti

Un libro davvero eccezionale, che consiglio anche a chi ha superato da qualche decennio i dodici anni! E che aiuterà anche molti studenti a conoscere meglio la Prima Guerra Mondiale

IL RIASSUNTO

Insieme a Silvio ci troviamo in trincea. E’ il 26 novembre 1917

La trincea è una specie di fossato, stretto e profondo un paio di metri, scavato nella terra e puntellato con assi di legno, ma anziché riempirlo d’acqua, come quelli che correvano un tempo intorno ai castelli, ci si mettono gli uomini. Nelle trincee si mangia, si dorme, ci si racconta la vita, tutti pigiati insieme. A volte si gioca a carte o a dadi, o si scrive una lettera. Più spesso si spara. Si spara a soldati che stanno in altre trincee, uguali alla tua: i nemici. Nelle trincee, quando non si spara si pensa a casa, anche mentre si mangia, anche mentre si gioca ai dadi o alle carte. E qualche volta nelle trincee, quando nessuno bada a te, di notte, si piange

E Silvio ripensa a tre anni prima, al 28 giugno 1914 e all’attentato di Sarajevo che aveva innescato la polveriera europea…Era un ragazzino di 15 anni, che viveva con suo padre Giovanni, detto Nane, Moretti e sua madre, Ada Fornari, donna devota a Dio e alla famiglia, che veniva dal Friuli e a quella terra aspra somigliava nel carattere

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Oltre a Silvio, in famiglio ci sono due fratelli maggiori, Carlo di 21 anni e Aldo, di sedici mesi più piccolo. Infine c’è la sorellina Lina, che nel 1914 ha nove anni.

A loro poco era importato dei fatti di Sarajevo:

i Moretti, come molti altri braccianti, seguitarono le loro incombenze, come facevano sempre e come sempre avevano fatto le generazioni che li avevano preceduti. Sfamarsi non dipendeva dalla politica, ma dall’aratro. E anche quando, un mese più tardi, l’Austria- Ungheria dichiarò guerra alla Serbia provocando una reazione a catena che portò la Germania a fare altrettanto nei confronti della Russia e della Francia sua alleata, in quel pezzetto di Veneto orientale si continuò a vivere come se nulla fosse accaduto.

Più importante il fatto che Aldo si fosse rotto un piede e non potesse lavorare

Dopo quasi due mesi dall’incidente, fu chiaro che il piede di Aldo non sarebbe più tornato a posto

Una vita povera e semplice, quella dei Moretti: ogni giorno si lavorava dall’alba al tramonto, per poi consumare tutti insieme una frugale cena

Ogni sera al calare del sole, estate o inverno che fosse, la famiglia si riuniva per la cena, con la fatica a segnare volti e corpi.

A rallegrare le serate, Carlo con la sua armonica e la voce di Lina.

Nel libro ci viene spiegato che, all’inizio, l’Italia stava a guardare, incerta su quale dei due schieramenti le convenisse appoggiare. Un patto chiamato Triplice Alleanza la legava alla Germania e all’Austria-Ungheria, ma se l’Intesa anglo-franco-russa avesse vinto quella grande guerra europea, l’Italia, in quanto alleata degli sconfitti, sarebbe rimasta esclusa dalla spartizione delle terre e dai compensi che ne sarebbero derivati.

Mentre i politici italiani incontravano segretamente i loro colleghi stranieri per stabilire quale fosse la scelta migliore da fare, Carlo immaginava di combattere per l’onore e l’integrità della Patria e se taceva i suoi proponimenti di fronte ai genitori per timore che lo rimproverassero, con i fratelli non ne faceva mistero.

In autunno l’Europa intera ormai tremava al rombo sordo dei cannoni, ma laggiù, nel piccolo podere che un tempo era stato parte della grande tenuta dei conti di Collalto, regnava il silenzio e i giorni scorrevano tutti uguali e con mille cose da fare.

L’Italia entrò in guerra nel maggio del 1915 e subito Carlo ed Aldo corrono in città a vedere se sono tra i coscritti

La chiamata a combattere era obbligatoria. In città tutti sono felici di questa guerra Nella piazza principale si cantavano canzoni patriottiche alternandole a motti che incitavano alla battaglia, e ci si abbracciava, carichi dello stesso ingenuo entusiasmo.

Quei pochi che si oppongono alla guerra, i neutralisti, erano considerati traditori della Patria e nell’occasione vengono presi a male parole e anche malmenati

Nane non è affatto contento :

«Coi fucili no se mágna» sputò Nane seduto sulla sedia, gli occhi fissi al pavimento polveroso. «Coi fusili se móre. E la guerra, á xe ’na maedissión.» Lui, che era sempre

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arrabbiato col mondo, questa volta più che con la vita ce l’aveva con la Patria, quell’amata Patria che i suoi figli desideravano difendere, una Patria che per lui non aveva mai fatto niente e che ora gli avrebbe sottratto dei figli e forse il lavoro di una vita…. morire per la Patria: cos’aveva fatto la Patria per la sua famiglia?

Carlo parte, felice e salutato da tutto il paese, insieme a molti altri giovani come lui. Aldo viene riformato per il suo piede.

Ada sentì un moto di felicità salirle dallo stomaco. Quella caduta dal tetto, pensava, era stata la Provvidenza a procurarla. Guardò suo marito, che ascoltava impassibile. Lo

conosceva abbastanza bene per sapere che anche lui era contento che Aldo non partisse.

Quando Carlo partì, alla stazione ci andò tutta la famiglia. Il piazzale brulicava di attività e di gente. I soldati, impettiti, fieri nelle loro uniformi nuove e ben stirate, salutavano i

familiari. Non avevano ancora gradi o mostrine, ma non importava: si sentivano comunque parte di un tutto ed erano felici.

La maggior parte delle madri piangeva, e intanto sistemava un colletto o un berretto, e si assicurava che il proprio figlio, sotto la divisa, avesse indossato la maglia di lana. Gli uomini mantenevano un atteggiamento distaccato, e si limitavano a piccoli sorrisi o buffetti o strette di mano formali. E i fratelli, le sorelle, i parenti, zampettavano intorno curiosi, sorridenti, fiduciosi. C’erano anche molti padri, che partivano lasciando mogli e figli a volte ancora troppo piccoli per capire che cosa succedeva; e tutti cercavano di infondere

coraggio a chi restava perché molti di loro avevano già combattuto altre guerre e sapevano a cosa sarebbero andati incontro, lo sapevano più e meglio delle giovani reclute.

Infatti mentre l’Italia nei mesi precedenti prendeva tempo decidendo quando e al fianco di chi scendere in guerra, gli austriaci avevano provveduto a fortificare il confine dal Trentino al Friuli. Quello che attendeva i nostri soldati era un muro solido contro il quale avrebbero sbattuto facendosi male

A chi resta a casa, una volta a settimana, non restava da fare altro che guardare le liste dei feriti, dei caduti e dei dispersi.

Erano elenchi dolorosi, che tenevano col fiato sospeso. Quei bollettini rappresentavano un’angoscia che si ripeteva puntuale, e ogni volta immancabilmente c’era chi si disperava o chi, con fare dimesso, ringraziava Dio di non avervi trovato il nome del proprio caro Quando in quella lista compare il nome del figlio dei loro vicini, Luigi Boscolo, per Silvio è uno choc. Per la prima volta, Silvio capisce che in guerra si poteva davvero morire.

E non contava quanto eri coraggioso e forte o bravo a fare qualcosa. E se una cosa tanto grave, tanto definitiva, era accaduta a Luigi Boscolo, nulla vietava che potesse accadere anche a Carlo Moretti.

La morte del bravo Luigi apre gli occhi a Silvio:

Il pensiero che suo fratello restasse ucciso colpì Silvio con cruda violenza. L’assenza di Luigi era reale, molto più reale di una lista di nomi affissi sull’albo pretorio, più reale perfino dei fratelli morti ancora bambini a causa di qualcosa che non potevano evitare, più reale delle loro lapidi, che spuntavano dalla nuda terra nel piccolo cimitero dietro la chiesa, lo stesso camposanto dove probabilmente sarebbe stato sepolto Luigi Boscolo.

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Quando Silvio vede per la prima volta degli aerei sorvolare i campi della sua famiglia, comprende che la morte può arrivare anche dal cielo. Diverse città vengono infatti bombardate. Aldo intanto decide di aiutare lo sforzo bellico e trova lavoro in città, in una fabbrica che produce scarponi per l’esercito. Ma inizia anche il suo commercio irregolare.

Finalmente Carlo torna a casa in licenza per Natale. E subito Silvio si rende conto che qualcosa è cambiato. Con un filo di voce infatti il ragazzo racconta di essere stato proposto per una medaglia di bronzo al valor militare»

«Per l’assalto sul Bassòn.»

una serie di sanguinosi scontri condotti contro l’esercito austriaco, culminati con la conquista del monte Bassòn, una solida roccaforte nemica. Era proprio in una di quelle battaglie che aveva trovato la morte Luigi Boscolo.

E a Silvio dà un consiglio

«La tua guerra» gli disse Carlo infilandogli il berretto sulla testa, «falla qui, a casa.»

Mentre i ricordi scorrono, Silvio continua la sua guerra di trincea. E’ arrivato al fronte in agosto

Dopo un addestramento sommario durato quindici giorni, l’avevano mandato a nord, sulle colline. Un tempo, gli avevano detto, quassù ci venivano i veneziani, a far legna per

costruire le loro navi. E con orrore leggiamo delle bombe shrapnel, le granate con spoletta a tempo che esplodono in aria lanciando a terra schegge di piombo, e del gas mostarda, così ribattezzato per via del suo caratteristico odore, che il nemico usa lanciare a ridosso delle prime linee servendosi di proiettili d’artiglieria. È un gas che uccide nel giro di una settimana. E le fosse comuni in cui venivano sepolti i morti…

Chi è stato in visita alla famiglia racconta di case abbandonate e saccheggiate da

delinquenti comuni ma anche dai soldati inglesi, che portano via tutto quello che trovano:

legna, paglia, materassi, coperte, perfino le porte. Nelle case più decorose, invece, si sono stabiliti gli ufficiali, che le hanno requisite come fossero usurpatori anziché alleati. E le hanno rovinate.

Il Professore dice che combattere per il proprio Paese significa farlo per le proprie case e le proprie famiglie, chiunque tu sia. La trincea non fa differenze. Siamo tutti italiani, e quel semplice pensiero ha il potere di confortare Silvio, di dargli coraggio, più di quanto ne dia il liquore distribuito alle truppe prima di un assalto.

Il ricordo dei bombardamenti delle città venete si accompagna a quello del primo assalto, durante il quale ha perso tanti amici. E scopriamo che Lina aveva portato a casa una bomba inesplosa, che solo grazie al sangue freddo di Nane non ha sterminato tutta la famiglia…

Nel settembre del 1916 Carlo ebbe un’altra licenza. Questa volta si fermò più a lungo:

un’intera settimana.

Pareva diverso. Aveva una ferita sulla fronte e un braccio fasciato. Ma non si trattava di questo. Erano i suoi occhi, ad essere cambiati, era lo sguardo, e anche il tono della voce, nonostante lui si sforzasse di sembrare il solito Carlo, entusiasta e determinato.

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Qualche mese prima, a maggio, gli italiani se l’erano vista davvero brutta, lassù in Trentino. Von Hötzendorf, il capo di Stato Maggiore austro-ungarico, aveva condotto un’offensiva senza precedenti contro le truppe italiane chiamata Strafexpedition,

Spedizione Punitiva. Asiago era stata rasa al suolo e le divisioni italiane avevano ripiegato in pianura, tra Vicenza e Treviso. La mobilitazione generale ordinata da Cadorna aveva dato i suoi frutti: grazie a centoventi battaglioni richiamati dall’Isonzo e a una divisione allestita in tutta fretta con soldati rimpatriati dalla Libia e dall’Albania, i nemici erano stati fermati, seppur a un prezzo altissimo di vite. Si respirava finalmente un’aria di timida fiducia, alimentata anche dai successi dei francesi e degli inglesi. La sottile ventata di ottimismo aveva portato a osare e Gorizia era stata presa contro ogni aspettativa.

«La guerra è una brutta bestia. Ti uccide dentro, anche se di fuori sembri sano.»

E i racconti di Carlo sono agghiaccianti

Ci mandano a combattere come carne da macello, da cannone si usa dire, e guai a contraddire un ordine. Ti sparano subito, senza neanche uno straccio di processo… Sul Bassòn, quando ci hanno dato la medaglia, uscivamo a gruppi di cinquanta, su per la scaletta e via. Cadevano tutti, cinquanta alla volta, e il tenente continuava a mandarci a morire… Uno gli ha detto: Tenente, se va prima lei allora vado anch’io, e quello gli ha sparato al cuore e ha chiesto chi era il prossimo…

Se al fronte la situazione è difficile, anche nel Paese “civile” non è facile:

L’inverno che seguì fu difficile. Se nei mesi precedenti i generi alimentari si erano ridotti fino ad essere introvabili, quell’inverno la situazione si fece drammatica. Perfino il sapone divenne merce rara, per non dire della carne o della verdura fresca.

La Guerra Europea era diventata Grande anche in termini di vite umane e il Re seguitava a chiedere agli uomini in età di partire, per rimpolpare le fila di un esercito che perdeva i pezzi

Persino Aldo viene richiamato e deve raggiungere il fronte

Per i renitenti c’era il tribunale militare e in casi estremi la fucilazione.

Dove si trova Silvio, intanto, arrivano soldati provenienti da altri reggimenti “reduci dalle terribili battaglie sull’Isonzo e sul Tagliamento. Raccontano di una guerra brutta, brutta davvero”.

«Cadorna ci ha dato dei vili, dei traditori… Ma lui mica c’era lassù. È stata una cosa che non si può neanche dire. Una fiumana di gente mandata a morire.»

Proprio nei giorni di Caporetto, in quei giorni confusi, disgraziati, di fine ottobre, Silvio era in licenza, a casa, per la prima volta da che era partito.

E aveva visto arrivare insieme ai soldati una tremenda ondata di profughi civili.

Venivano anche loro dal Friuli e dall’oltre Piave. Orfani, famiglie spezzate, gente che a malapena si rendeva conto di dove si trovava, stupefatta e rassegnata insieme, alcuni senza niente con sé, tranne i vestiti che portavano addosso. Sfilavano lungo le vie

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principali come fantasmi pervasi da una strana calma, madidi di pioggia e di muta desolazione.

Ci commuove Silvio che aiuta una donna

reggeva tra le braccia un cumulo di stracci, convinta di avere con sé il proprio bambino.

Non si era accorta di averlo perduto lungo la strada.

Le scuole si erano trasformate in Posti di Assistenza ai Fuggiaschi, così come le chiese e ogni altro luogo pubblico. Ma il cibo non bastava. I negozi erano chiusi e le scorte ridotte a zero. Molti avevano cominciato a scemare nelle campagne, nella speranza che i contadini potessero dar loro da mangiare. E i contadini, generosi, sfamavano meglio che potevano quell’esercito di disperati.

Ada e Lina servivano i tácui, polenta cosparsa di latte appena munto, o patate, quel poco che restava, e intanto Nane borbottava che, dopo tutto quello che aveva passato, ora gli toccava pure dar da mangiare agli sbandati, e teneva a portata di mano lo schioppo che usava per andare a caccia perché “Con certa gente non si sa mai”.

«Spera invece che qualcuno faccia altrettanto con i tuoi figli» lo rimbrottava Ada.

Silvio infine era stato assegnato al fronte, lungo la Piave: è lì che si sarebbero giocate le sorti dell’Italia in guerra. Partiva il 9 di novembre.

Il fiume distava appena una trentina di chilometri da casa. Ora mancano solo due settimane a natale

E ripensa a quando era partito il fratello Aldo:

Il 3 di marzo del 1917, sotto una pioggerellina fredda e ostile e con un grosso peso sul cuore, la famiglia Moretti accompagnò Aldo alla stazione, esattamente come aveva fatto quasi due anni prima con Carlo. I soldati che partivano quel giorno, però, erano molto diversi dai commilitoni che li avevano preceduti. Pochi manifestavano l’orgoglio e la fierezza mostrati da Carlo, da Luigi Boscolo e da molti altri. Parevano bambini sperduti, questi, terrorizzati dai giorni oscuri che li attendevano. E Aldo non faceva eccezione.

Non ci furono canzoni patriottiche, né incitamenti a gran voce, ma solo lacrime e disperazione.

Ora gli uomini che lasciavano le loro famiglie sapevano che forse non sarebbero tornati.

Ma Silvio è più determinato che mai

Sarebbe partito, anche se la guerra ora faceva un po’ più paura di prima, anche dopo lo sfogo e le lacrime di Carlo, anche dopo aver visto come aveva trasformato la città.

Sarebbe partito perché non voleva essere da meno dei suoi fratelli e di tutti quelli che conosceva e che in guerra ci erano andati, senza fiatare. La Patria chiamava ancora, e lui avrebbe risposto.

Il 10 dicembre Silvio torna a casa e scopre che è stata abbandonata. Trova però Don Antonio Prosdocimo “smagrito, provato, eppure ancora al suo posto. La tonaca, frusta e macchiata, gli scende sui piedi come un drappo funebre. Mentre le autorità civili hanno da tempo e vigliaccamente lasciato la città, abbandonando poveri, vecchi, ammalati e senza

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tetto alla loro sorte, il Vescovo Longhin è rimasto al suo posto, invitando i sacerdoti a fare altrettanto per soccorrere i bisognosi nelle rispettive parrocchie.

I suoi sono a Rovigo, dopo l’ordine di evacuazione del comando britannico. Da solo, a casa, ripensa ai mesi precedenti.

Un mese dopo la partenza di Aldo, gli Stati Uniti entrarono nel conflitto dichiarando guerra alla Germania. Per molti fu un’iniezione di fiducia e ci si azzardò a pensare che questa volta la guerra sarebbe davvero finita presto.

Lina all’epoca ha ormai quasi dodici anni.

Era una ragazzina bella e aggraziata, con capelli biondi che nascondeva sotto una cuffia bianca.

E Silvio si accorge che la sorellina ha un atteggiamento strano. Deciso a scoprire che cosa nasconda, la segue. La bambina sta aiutando un soldato austriaco, Gustav. Il giovane è ferito. il suo aereo è caduto sulle colline. Quando il giovane comprende di essere stato scoperto, lascia il suo rifugio…

Mentre torna al fronte, Silvio ripensa a quando, qualche tempo prima, aveva incontrato suo fratello Carlo

Un giorno di novembre, mentre il reggimento veniva trasferito a est verso San Donà, lungo la strada Silvio e Rame riconobbero il suono di un’armonica. Le note, che si levavano da un gruppo confuso di fanti che avanzava in senso contrario, erano quelle, tanto familiari a Silvio, di Compare Giacometo.

Carlo è reduce da Caporetto e non ha più alcuna fiducia

«I soldati che non sono riusciti a far morire sull’Isonzo, li faranno morire qui… Siamo tutti morti se restiamo. Tutti quanti.Questa guerra è sbagliata…»

«Sbagliata? Eri tu che dicevi che una guerra quando serve a difendere la propria terra e le proprie case è una guerra giusta!»

«Non ci sono guerre giuste, lo capisci?» quasi gridò Carlo afferrando il fratello per le spalle. «Tutte le guerre sono sbagliate.»

«Mettiti in salvo, Silvio, non ci morire qua, su questo maledetto fiume.»

Silvio indietreggiò confuso. Era Carlo quell’uomo che parlava, che gli diceva di disertare, di scappare come un codardo? Era davvero suo fratello, lo stesso che aveva conquistato una medaglia di bronzo al valore?

Una settimana dopo, un compagno di Carlo gli consegna un messaggio: Carlo è scappato e vuole che anche Silvio si metta in salvo

«Se sei suo amico, perché non scappi anche tu?»

L’altro ci pensò un po’ su. «Perché io sono un vigliacco» rispose, e dopo essersi rimesso l’elmetto, riprese la strada dalla quale era venuto.

Silvio restò a guardarlo, pensoso. Avevano sempre detto che i vigliacchi erano quelli che fuggivano o che ricorrevano a trucchi per non partire, non quelli che restavano a

combattere. Chi sono, si chiese, i veri eroi?

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La chiamata per Silvio era arrivata il 22 giugno. Avrebbe dovuto presentarsi al Comando militare agli inizi di luglio

Caporetto aveva cambiato molte cose, e l’Italia stava mobilitando altre centinaia di migliaia di civili per contrastare l’avanzata dei nemici che giungevano dall’oltre Piave

In molti tentano stratagemmi assurdi pur di non partire, ma Silvio è felice di poter fare il suo dovere. L’addestramento fu brevissimo, appena due settimane, e lacunoso. In una baraonda di giovani inesperti e spaventati, Silvio imparò a reggere un fucile (cosa che già sapeva fare, dato che di tanto in tanto tirava un colpo con la doppietta di suo padre), a riconoscere i gradi dei superiori e a marciare. Un paio di volte venne simulato un goffo combattimento corpo a corpo contro fantocci di pezza. Tutto qui. Niente sulle strategie di guerra, sulla sopravvivenza al fronte, sulle tecniche di soccorso.

Ma gli bastano quattro mesi, una dozzina di assalti e qualche migliaio di morti per comprendere che una guerra così non serve a nulla, se non a sfasciare le famiglie e il Paese.

La convinzione che l’animava nel passato sfuma nella realtà presente, fatta di brutalità e orrori... Quello che davvero conta è sopravvivere, istante dopo istante.

Poco prima di Natale, arriva un nuovo sacerdote, Don Fausto, che condivide tutto con i soldati

Mangia e dorme in mezzo ai soldati, ne condivide la fame, il freddo, i pidocchi, la sporcizia, i timori e i pensieri. E fa quel che può per consolare spiriti a volte inconsolabili.

La sera del 21 dicembre, Silvio sente don Fausto parlare con il capitano Marino della

“tregua di Natale”:

«Nel ’14, a Ypres e in altre zone del fronte occidentale, inglesi e tedeschi hanno smesso di sparare»

Il capitano però vuole rispettare gli ordini. Anche perché

«quegli uomini, quei soldati, che si rifiutarono di tornare a combattere, furono processati per tradimento.»

«Processati per essersi rifiutati di uccidere dei fratelli. Forse è come dice lei, capitano, la giustizia non è più di questa Terra, o se ancora esiste essa è del tutto distorta.»

Silvio passa la notte a rimuginare sulle parole ascoltate

È confuso. Gli sembra quasi che trovarsi al fronte, imbracciare un fucile, prepararsi ad uccidere il nemico sia tutt’a un tratto sbagliato. Don Fausto ha detto che il Papa ha indicato le soluzioni politiche a quella guerra, accordi ragionevoli per una pace giusta e duratura, ma ha anche aggiunto che molti degli uomini che reggono il destino delle Nazioni coinvolte nel conflitto non la vogliono, la pace suggerita dal Papa. I potenti della Terra, ha detto, sono sordi alle sue parole e trascinano i loro popoli sempre più in basso, verso una rovina che sembra ormai inevitabile.

E d’un tratto si rende conto di non sapere perché si trova lì, a fare la guerra, come la maggior parte dei suoi compagni

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«L’Italia ha dichiarato guerra all’Austria per prendersi i territori che ritiene le spettino»

aveva detto un giorno il Professore, «ma non è avanzata di un solo metro. Né l’hanno fatto gli inglesi o i francesi. Questa è una guerra di logoramento, dove si guadagna una

posizione e la si cede il giorno appresso. Non serve a nessuno.»

Silvio ha creduto di poter salvare il proprio Paese. Ma salvarlo da cosa? Nessuno l’ha minacciato e l’Italia è entrata nel conflitto per sua scelta.

E, appena possibile, chiede a don Fausto di raccontargli della tregua di Natale. A noi vengono le lacrime agli occhi:

Cominciarono cantando le canzoni natalizie del proprio Paese. I tedeschi, furono loro i primi. Era il 25 dicembre del 1914, nelle Fiandre, in Belgio. Gli inglesi, piuttosto sorpresi, risposero cantando le loro e disponendo qualche candela lungo il bordo della trincea. Poi vennero gli auguri, gridati da uno schieramento all’altro, e con grande cautela qualcuno si azzardò ad uscire per stringere la mano ai nemici. Ci furono scambi di doni, come liquori, cioccolata o sigarette, e venne consentito il recupero dei soldati caduti.

Il giorno dopo uno scozzese si presentò con un pallone da calcio. C’erano alcuni ex

giocatori nelle file dell’esercito, sia da una parte che dall’altra, e un pallone nello zaino non era una cosa poi così rara. Giocarono nella terra di nessuno, quella zona tra le trincee occupata da filo spinato, cavalli di frisia, crateri provocati dalle bombe e resti di soldati insepolti. Ad un certo punto il pallone finì contro un reticolato e si lacerò come uno straccio vecchio. Ne fecero un altro, di strisce di cuoio cucite insieme, e la partita riprese. Finì 3 a 2 per i tedeschi, e non ci furono contestazioni anche se mancava l’arbitro.

La tregua durò parecchi giorni, fino a capodanno, fino a che gli ufficiali, richiamati al

dovere dagli alti comandi, ordinarono di non uscire più dalla trincea, pena la corte marziale e la fucilazione.

Quella tregua era riuscita a dimostrare che gli uomini sanno riconoscersi come fratelli, al di là del Paese in cui sono nati, della lingua che parlano e della religione professata. E al di là del volere dei loro comandanti

L’alba del 25 dicembre Silvio è di guardia. E un soldato austriaco, invece di sparargli, lo saluta, come per fargli gli auguri… ma ancora più sconcertante, alla fine della messa, udire un canto provenire dalla trincea nemica. È una melodia conosciuta: Stille Nacht, Astro del ciel!

E al canto in tedesco si unisce quello in italiano. Alla fine, un applauso parte da entrambe le trincee:

È qualcosa di straordinario, che mette i brividi per la sua eccezionalità. Uomini che fino al giorno prima si sparavano contro, ora si perdono come bambini all’oratorio cullati da una canzoncina natalizia. È una specie di miracolo.

Silvio prende una decisione folle: decide di raggiungere il fiume, issando una bandiera bianca come era stato fatto ad Ypres. Sembrerebbe una cosa stupida da farsi. Eppure, a dare retta a don Fausto

Non c’è nulla di stupido nel fidarsi degli altri, nel credere che un essere umano possa provare pietà e rispetto per un suo simile.

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Infine la decisione: Silvio esce dalla trincea, nonostante il suo amico Rame e il capitano cerchino di fermarlo. Avanza sventolando il fazzoletto bianco che gli ha dato sua madre ed urlando «Nicht schiessen! E’ Natale! Tregua, tregua!»

Già sto piangendo come una fontana… e continuando a leggere comincio pure a singhiozzare:

Dalla trincea austriaca si levano un applauso e qualche urlo di incitamento. E infine, tra l’incredulità dei soldati italiani, i nemici vengono fuori, dapprima timidamente, poi come se fosse la cosa più naturale del mondo.

E subito Rame segue Silvio, immediatamente imitato da don Fausto.

Da quel momento in poi è come se una diga avesse ceduto: la sponda destra della Piave si macchia di divise grigioverdi e quella sinistra di divise grigioazzurre, e le due macchie di colore convergono verso un punto in cui dal fiume spunta una lingua di terra e rocce che corre da sponda a sponda, unendole.

Naturalmente Silvio è il primo a raggiungere gli Austriaci e a tendere la mano al “nemico”:

un ragazzo della sua età e le sue stesse paure, le sue stesse speranze. La sua stessa voglia di vivere.

Silvio li guarda e pensa che non danno l’idea di essere invincibili nemici, ma solo uomini spaventati e costretti a una guerra di cui farebbero volentieri a meno

Ha modo di fraternizzare con Martin, il giovane che non gli ha sparato al mattino.

Uno dei miei episodi preferiti è il momento in cui i soldati, uniti, raccolgono i morti, rimasti abbandonati da giorni.

Austriaci che raccolgono corpi di italiani e viceversa, non ha importanza la divisa, gli uomini sono uomini. ... E poi gli uomini scavano, non una nuova trincea, ma una fossa comune, più larga possibile, perché i corpi stiano distesi, allineati l’uno a fianco dell’altro come fratelli, italiani e austriaci insieme

Durante la cerimonia funebre tutti piangono, non solo per i morti, ma anche per loro stessi, per la loro sorte, per l’orrore che hanno vissuto, per il futuro incerto, per le famiglie, per il senso di ingiustizia profondo che tutti avvertono a essere lì.

Tutti quella notte tornano in trincea con un solo pensiero:

sarebbe facile far cessare la guerra se solo dipendesse dalla volontà dei soldati costretti a combattere. Sarebbe sufficiente dire “È finita. Basta” e mollare le armi lì per terra e gettare le divise e riprendere ognuno la strada di casa.

Anche il giorno di Santo Stefano la tregua continua. E silvio è sempre più sicuro di avere più da spartire con Martin che con i generaloni

La trincea è per i poveri, per chi ha solo da perdere; stessi guai, stessa carne da cannone.

Il capitano Marino dovrebbe mettere fine alla tregua, ma non può e non vuole: saranno i comandanti a decidere! Infatti il 27 arriva il generale di divisione Enrico Mandricardo. Che promette clemenza se tutti torneranno ai loro posti. Ma i soldati non ci stanno

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La maggior parte dei soldati non ne vuole sapere di riprendere a sparare contro coloro con cui hanno giocato a calcio e a carte, contro gli uomini con cui hanno condiviso una bottiglia di Schnaps o le fotografie delle famiglie

Alla fine, però, Madricardo ha la meglio. Silvio invece non cede: meglio il carcere che tornare a combattere. Ed osa l’impossibile… questa volta però non ci sono tregue che tengano

Ho ancora le lacrime agli occhi

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