• Non ci sono risultati.

Appendice a un tu non ipotetico e caro

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "Appendice a un tu non ipotetico e caro"

Copied!
26
0
0

Testo completo

(1)

Scelgo questo bicchiere traboccante di rosso violaceo, il suo odore fiorito e carnoso a due calici vuoti, usati, macchiati per non essere mai stati sciacquati.

Bisognerà imparare ancora dall’acqua di questo rubinetto che sa fluire e dileguarsi giù, in oblio metallico,

senza ansie di distacco.

Servirà imparare dall’acqua a prender forme difformi,

a librarsi nel vuoto in cascata verticale, ad essere mare aperto,

capace di amare la sua terra, di stare quanto basta e andare.

Allora Annarita, questi due testi li vedo nettamente superiori a quelli iniziali. Vedo l'uso delle figure retoriche e vedo un'attenzione all'essenzialità. Il che mi sembra ottimo. Essendo solo esercizi non si richiede un significato particolarmente profondo e vissuto ma un'uso adeguato della forma. Che c'è.

In accordo con le tue richieste lasceremo stare l'esercizio di scrittura per continuare le lezioni un po' più frontali. Posto che se vuoi provarci sono a disposizione.

Adesso vorrei quindi cominciare una carrellata di letture (tre lezioni) e osservazioni su diverse forme poetiche. Il primo che affronteremo e che io adoro è Ferruccio Benzoni:

Jeux de massacre

Da poco gli amanti sono dissolti umidi e stanchi. E’ quasi l’alba.

Ah, io bevo e a mia madre so scippare dal suo fodero d’abete un po’ di vita ancora - miserabile calore.

(2)

E di te grido, amore, allo stellato incerto a un’alba di cotone. Ebbra è l’aria e io

posassi la tua mano – penso – sulla mia fronte la tua mano, quanta morte darei

per un massacro vano. Ma resto solo e vivo, picchio la testa, come vedi scrivo:

fossero viole le voci, sarei di primavera!

Mi allontano invece, deraglio dalla vita.

Posassi la tua mano – non più per solitudine per amore infine saprei farla finita.

*

Appendice a “un tu non ipotetico e caro”

Devo dirti che non l’acqua mi manca o il pane o il letto dove sfinirsi.

Neppure una donna a seni e alghe.

Non la strada rivoltosa mi manca o il caffè delle chiacchiere intonate.

Né il privilegio di oziare in contemplazione mentre fuori la stagione trascolora

e l’edera attecchisce con astuzia senile.

Ho voglia di cose disamorate e vive - non sogni tastiere evocative – poiché l’amore, l’imponderabile non vivono che in te, trafugati e spenti.

È dentro il tuo viso che nasce la devozione della mia solitudine. Non m’assolvesti

quando un’esenzione chiedevo da quel grumo d’angoscia in cui sono innestato.

Non è l’amore un ragazzo cieco, violentato:

c’è una logica del profitto anche in amore.

Così per amore torno a contraddirmi.

*

D’un coglitore di carta stagnola

a Giorgio Orelli che ha ripescato questi versi Ho raccolto per strada solo qualche viso, io

che cerco carta stagnola e bottiglie col culo. Davvero la vita non mi è amica. La strada

era tutta pulita, incatramata di persone e pneumatici.

Il mio è un mestiere come un altro

vecchio come gli zingari. L’importante – si dice - è avere fortuna… – Ma chi ne ha? -

si sospira: segno che il discorso non fila.

Mia moglie che ho vinto a una lotteria con una bottiglia di spumante, lei ha una sua fortuna: è sorda. Perciò

(3)

non ascolta sciocchezze. Tira dritto con la sua faccia intarsiata. A me

che ne sento tante non va più di parlare.

In silenzio ci si intende meglio. Liberassero i manicomi ci sentiremmo tutti un po’ meno soli.

Comunque io mi faccio il mio mondo, lei si cresce i miei figli. Mi sono abituato

a volerle bene anche. La vita così dà meno fastidi.

Da tempo morire non stupisce più nessuno.

*

La casa rossa

Non c’è più la casa rossa dov’era sfollato mio padre e mia madre quasi in un presagio spiava la morte. Pure quanta vita ancora e voglia di crescere per gioco un bambino!

Dante Arfelli era un giovane e sapeva l’inglese:

vennero gli alleati e sorridendo accendeva le sue luckystrikes…

Quando vidi “Accattone” da una cabina di proiezione - poca gente in sala e un’idea di benessere ai piedi nelle scarpe all’inglese coi buchi – ero appena ragazzo, piangevo. ‘ Gisto l’operatore, ma vieni domani – imprecava – che danno i cowboys… Fu il mio modo

di sentirmi comunista, sentendomi controluce.

La prima ragazza che ebbi io non l’amavo.

Ma aveva i seni duri sotto il grembiule di scuola.

Fu un pomeriggio ai campi. Arrivammo nel sole

in bicicletta: ricordo un odore di lacca e di sete, d’ascelle.

Il batticuore mi seccava la gola. Sapevo di ridere male.

Lei era svelta e triste se diceva “mi ami?”

Non c’è più la casa rossa e vivere è ormai necessario.

Arfelli scrisse “I Superflui” che io ero dentro mia madre.

Adesso che ci parliamo e so quanto sia chiuso quel libro e agro, cosa fu la vita – mi dico – quegli anni

di mia madre e di me, dentro di lei, un’estate del quarantotto. Come un romanziere allora vorrei fingerla morta…

*

I morti amici

Ben presto verranno a sapere (tu forse dimenticando…) la solitudine cos’è se disarma

(4)

in un sopore d’animule.

Ma saranno mai soli, sapranno mai cos’è una passione?

Dondola a un vento il canale, e tu che ringhi

………andrò via, me ne andrò – lo so: non ci credono.

Qui sepolto ti vedono, solo, con l’arroganza d’averci creduto.

1985

*

Risvegli

Non sempre sono i migliori.

Ma se appena l’onda defluisce in risacca, imperversando con ira.

Più dei tarli s’imbestiano, dei topi lancinando la notte e il tepore stremato d’una stanza.

Sono morti con lena attrezzando la tua vita al gelo ai rimorsi - e ridevano, ah, ridevano

così di rado, ma se un amico grandeggiava o una tromba spezzandosi…

Se ne sono andati per sempre;

spariti senza morire.

Ma basta un tocco di melodramma, una cialtroneria di gemme in fiore per riapparire trionfanti.

Non sono morti mai veramente.

E quello che tu chiamavi «il migliore»

per garbo e abnegazione da fighter, ancora soppesa un fulgore

dell’accidia d’un sabato sera.

Da una risacca o riverbero di trapassanti fervori.

Da un sipario d’amanti più o meno venali un sabato sera.

Neve su neve spezzandosi i rami.

E tace tace una tromba

l’ulcera smangiante della gioventù.

Arriva sul tardi con una camicia

bianca. Si mette a parlare come un soldato in licenza o un adolescente in gita scolastica.

Ride solo così facendo risaltare

(5)

un silenzio enorme di lago o vallata.

Sono sul punto d’andarmene

……….- ribatto - lasciami coricare con una trafittura

o una rabbia piuttosto ben oltre la ridda spettrale e i patemi.

Ho un gran sonno; lasciami andare.

……….Nevica. Ho bevuto.

*

Verso il venti d’aprile

Precipitando allucciolava la Senna.

Prima dei suoi corvi d’abisso.

Con uno spolverio di neve che c’era o no furiosamente scrosciando in acquitrini.

Ma un fardello c’era galleggiava tra tomaie e pastrani

- o fu solo un chauchemar giù gettarsi

la morte in auge come un’elegia sig. Paul Celan

*

I giorni ricontati

La gioventù che riarde qui svuotata non travolta

in un sole di novembre attardatosi dalla casa ventosa ai crocicchi diramantisi al mare.

Al mio “ti amo” vorrei rispondessi anch’io mille volte – da

rammemorare ogni volta che si muore blandamente per pigrizia, noia.

Vetroso il fogliame ai passi.

E non è solitudine – non solo desolazione vuoto.

“Hai l’età di un padre morto per un eccesso di narciso”.

Non altrimenti un dileggiante passato prossimo e

Où t’es-tu glissée tendre jeunesse?…

Mai vissuta – potrei ribattere – intravista patita forse da un perplesso voyeur.

“Nascodile queste cose” luciferino

(6)

sibila il poeta – altrove mettano radici spiritate in carte purgatoriali tra piccole spoglie lapidate.

Il mare (controluce) un fruscio che agli svolti, allo squero risale,

alle falene dei lumi per una stretta del cuore.

Del resto la gioia cos’era se non una falsa partenza per sprintare bruciando bellezza, amore?

Ma basta. Non barattare la tenerezza con il compianto della carne, stanco di parvenze il non distrutto cuore.

*

A mia insaputa

Vorrei per una volta tutti

della mia vita i volti s’affollassero, e uno in particolare contro l’invetriata senza desideri.

Sorridono e all’implorante

“Vi aspetto, tornate!” - socchiuso lasciano il battente, neanche spettasse a me seguirli (chi qua chi là scomparendo) e fossi dei loro già, senza saperlo.

*

L’inverno dopo

(a Fortini) Dicembre senza grazia senza

l’amata neve cara a Boris Pasternak.

Dai cavi una voce che s’impenna

strozzandosi, e ingenuamente, nello sforzo di spezzare il sibilo faticoso

prima per sempre di farsi silenzio.

Contando, ahi, ricontando quanti inverni per una strada di Firenze

(la spolverina il basco) imbozzolato nella rosa di una poesia claustrale

a margine

(a margine?) del tuo “comunismo speciale”.

Non interrotto il dialogo le

(7)

(ma canute altere) provocazioni - da un ultimo inverno

afono,

non finisce qui – ti dico – e sciupato infante rauco, “addio”:

il modo tuo d’accomiatarti.

*

Piazza del lago

«Anni d’amore per noi di nuovo?».

Avrebbe riso forte scagliando in ardore un turbamento.

Ma non è rimpianto non solo perduto rossore tra tenerezza e ira…

Moriva un inverno innevando Germignaga Agra e più su Casciago.

Luoghi di fedeltà che un vuoto ma senza rimedio ringavagna rigando la vita come un vetro.

*

Saskia

No; non da una poesia.

Una notte di neve non origliava la cucina insonne… Ah no, niente di strenuo adornava la camera un po’ sottosopra.

Una (non più giovanissima) donna – smunta, sovente amara – bassissima la voce,

come da un’icona cantilenava.

Saskia al suo seno e un latte (una luna) di non remoti fuochi.

*

La solita meravigliosa

La solita meravigliosa cosa, e bête: un tuffo del cuore.

Ai margini di un’estate; certo.

(8)

(Lo intuivo dalla gola di lei, dalla vergogna degli amici morti.) Temporeggiava l’inverno che ora mi spreme a metà del suo freddo.

Avvisaglie di ricci e castagne;

biancospini dalla bruma acciecati.

Ma lei che sapeva di guerra,

che sa di sigarette e guerra – riappare viva livida e bara

togliendo vita ai bari, alle certezze.

*

Cattività

T’allontani in uno scatto

di fianchi lussuosi a me lasciando di caffè in caffè una congettura d’improvvisi malanni, la tortura dei conciliaboli dolciastri.

Nell’attesa non mi rimane

che medicare i patemi carezzando un cane assaporando

di mestizia in languore una fame di prigionia e abbandono.

*

Canzoncina

Canicola in presagio d’autunno.

Pure un’ombra serpeggia e s’insinua, ma non diradare i tuoi passi.

Lasciami un bricco di caffè e rum per quando non ci sei e una gloria s’infoltisce di sterpi e foglie.

Verrà un crepacuore d’inverno.

Il tuo tailleur pesante che sa di verdeamaro squillante.

Ma lasciami lagrimare diradando i tuoi passi

– non esimermi da un sole svenato, dall’insonnia, dalla calvizie.

*

(9)

La camera

Ti vedevo un’ultima volta

venirmi incontro dalla specchiera attraversare il poco d’ombra fino alla spalliera del letto – di lì guardare lungamente

le droghe sul comodino dei farmaci e in una mezza luce qualcosa di simile a un coccio una ciocca…

Ronzava l’estate non un alito tappati gli scuri scalfiva la calura.

… Difficile dire se proprio tu o un’iride avvelenava la mia camera ne minacciava il sonno a colpi di tosse percuotendolo con amore.

*

Tenerezze terribili

Specie se da giorni e giorni piove tanto da dimenticare

come irresistibilmente un vicolo lustra in un piangente chiarore,

non t’abbigliare di un tremito.

Manchi il sole o no l’insensatezza ha fatto di noi una tenerezza postuma; una ciocca ritrovata.

*

Dopo i baci e i silenzi

Per una congiunzione dei tuoi con i miei vocativi ci rivedemmo una passeggiata d’inverno

neppure nebbiosa tra una bordata di lumières prenatalizie…

Oscillando te ne andavi mossa da uno scirocco inospitale – dai tacchi agli occhi scollinavo di lontano fino a un’altura ove supplice una voce

schweigen schweigen m’intimava.

Ma era una gola triste di capelli

(10)

fatti a pezzi in punto d’addio.

*

Da un mare laconico E se tu fossi la candela piangente un poco losca su cui fanno naufragio ricorrenti d’un soffio le mie tenebre?

Oh, tu non sai, d’accordo:

giochi d’anticipo tu, con le ombre!

Nuvole – sia pure – maculanti dei tuoi ciottoli la ferinità.

Del resto non c’è più vita nella lucciola murata in un bicchiere?, in una stanza infreddolita più spessore o scorza del sussiegoso, del ligneo intarsio con ira sfarinato dalle tarme.

*

La rondine successiva

Di burrasca il mare. Il vento (lo so) centrare vorrebbe spengere la puerile favilla – quella

scheggia di fiammifero. Ottenebrandomi, ottenebrando l’anima cosiddetta.

Ma dormi. Ravviva se dormi dai rischiacqui melmosi d’uno Stige in controluce un terrazzo, palpitante. E noi due dietro quell’apoteosi,

non proprio illesi – non dimeno trasognati.

*

I giorni ricontati

La gioventù che riarde qui svuotata non travolta

in un sole di novembre attardatosi dalla casa ventosa ai crocicchi diramantisi al mare.

Al mio “ti amo” vorrei rispondessi anch’io mille volte – da

(11)

rammemorare ogni volta che si muore blandamente per pigrizia, noia.

Vetroso il fogliame ai passi.

E non è solitudine – non solo desolazione vuoto.

“Hai l’età di un padre morto per un eccesso di narciso”.

Non altrimenti un dileggiante passato prossimo e

Où t’es-tu glissée tendre jeunesse?…

Mai vissuta – potrei ribattere – intravista patita forse da un perplesso vojeur.

“Nascondile queste cose” luciferino sibila il poeta – altrove

mettano radici spiritate in carte purgatoriali tra piccole spoglie lapidate.

Il mare (controluce) un fruscio che agli svolti, allo squero risale,

alle falene dei lumi per una stretta del cuore.

Del resto la gioia cos’era se non una falsa partenza per sprintare bruciando bellezza, amore?

Ma basta. Non barattare la tenerezza con il compianto della carne, stanco di parvenze il non distrutto cuore.

*

Reperti in limine

Tenerezza dalle palpebre viola.

Un cigno che muore

piuma a piuma d’intorno. (Valium).

Sorgiva l’acqua della Sorgue di linda pena cresimanda.

Notti. Buio massiccio – vocii dai corpicini esalanti blanditi dagli oppiacei.

Varecchina e talco (tanto) la tristezza irredimibile

per quei lenzuoli subito calati.

Bianchi (ripetevo) bianchi.

Tenerezza. Tenerezza.

Presto la luce del faro suadente – molto presto potrai rivederla (la luce) delle vetrate più in là nel corridoio.

Dove tra passi sillabati – brusii l’impudicizia

mia medicavi, lenivi.

(12)

Più in là. Viva.

Tra pigiami flosci, rachitichi esulanti. E le ciel est par-dessus les

(le ciel).

Non un cenno di croce. Un amen.

Momenti (forse) per la gatta le calze tue smagliate scarpe fradicie degli inverni; e i baci, quelli di una vita. Dei miei ansiti non un soffio saliva al soffitto.

*

Anni di prostrazione e reparto (…) Furono il mio lager tanto che venutone fuori (dimesso) d’ogni cosa ebbi paura:

tornare tra la follla che si urta, le ombre surrogare nella mia.

Da allora nient’altro che un romanzo l’azzurro

non riferibile alle nuvole più larvali presso il tuo sonno

nella camera del cordone ombelicale.

Notti e giorni al riparo dall’esistere.

E sfinimento seme riverberi d’abbracci

allarmati da un treno, una sirena.

All’alba (nella camera accanto) quando roca non senza grazia allo specchio ti ossidavi –

secco un colpo di tosse (ematico?) un capogiro erano presagio di sconfessata vita un libera nos dall’estetica

delle consunzioni domestiche.

*

L’agnello della notte

Due vescicole le pupille

verdi in un mortaio – scongiuri (“la pressione compensa bene”) massiccio non sia lo svenamento.

Finchè, deterso, l’infaticabile tua berceuse mi coagula in una bonaccia o risciaquìo.

Qui meno stagnante il patema,

(13)

sonnolento un sole mi sopisce in un gibigianna di

chiatte chete, bacili, balsami.

Non inciampassi in dislalie – la vita ch’è mia per la tua superba dolorosamente…

Oh ma non questo vorresti con la luce gemmea dei lillà, quel sogno di piedini sopra il cuore nudi freddi, sfiorati dalla neve.

*

Nel mutismo domestico

T’avviluppi, t’accartocci.

Tra lenzuola guanciali scialli, attorcigliate le ciocche, arse da una fiamma calma.

Bocca e labbra balbettano non soppesate dalla bocca né disciolte dalle labbra.

Non ad altro pareva nata la sera temendo di turbarli

ninnoli forse i tuoi capezzoli.

*

Augurandomi requie

Congesta in desolanti manoscritti inesistenti – questa (che mi dimora) vecchiezza con il gusto

della scena vuota, delle slabbrate scarpe di non so quali percorsi più.

* (Kavafis)

Cosa c’è tra questo paese e me (tra questo involucro)

che tacitato infine non sia confinato dentro un cortile.

Immagine io stesso di una camera (piccola morgue di febbricole) chiusa dal di dentro.

Invece d’un vetro una crepa – stucco sui ragnateli dell’intonaco.

(14)

Ma l’anima costipata tossisce, specie di notte, non so se d’amore.

*

Donna che piange

Ma il pianto che nasce irrefrenabile senza un perchè – il tuo

che non ha inizio né fine, ti affila e tu non gli appartieni, sola che nulla può raggiungerti, nessuno come te vive se piange.

*

Dal belvedere

Le blandizie tue sulle palpebre:

non altro degli anni giovani. O (ricordi?) quel fuoco dell’addio:

“Scompari tra le cose. Essere stati amati e molto molto avere amato”.

Torna alto il silenzio. S’invola.

Non vano il disfiorire non indolore dell’autunno che dilania suonando un’aria di morte trecce.

Rimorde sfrattata la primavera, irruvidito non si placa il cuore.

*

Inverno in chiaroscuro

Resta una matita tra le pagine.

Inchiostri interrotti a un capoverso.

Non cambierà il paesaggio, o in peggio.

Forse è tempo di giungere al faro struggere del suo baleno,

rientrare prima che la notte revochi la certezza di vederti sfilate le calze cercare meno effimero un vuoto nel vuoto tra le braccia.

*

Restano le nubi

Nello scarto tra tempo e presagio l’istante che ti illumina.

L’attimo in cui dividi vita da vita

(15)

lo specchio dagli occhi

vividi come in un vento d’erba, e ne muori già

ne stai morendo

– non fosse per l’abisso d’avere male vissuto invano.

*

Più tenero e lento

L’ultima pupilla della notte tra fanali oleosi rabbrividiva e il nero latte dell’alba in una stazione di ritorno.

Più tenero più lento tra passi di suole assillate bagagli tardi l’amore irrimediabile gualcito il verde

non fulminante delle aiole.

*

Nel lume del tuo corpo Sapere quel che rimane dopo, di noi dentro di noi.

Giunge in sordina

strana d’esilio una pacatezza per il volto dilavato i

seni spenti innocenti i sorrisi insensati, la pietà di una notte sfebbrata nel lucore fosco dell’eclisse.

*

La tua eco

Non c’è nuca più triste

se dietro lo specchio non riappari sfumata moltiplicandoti

suturando il graffio della gillette mitigando

gli scrosci delle gronde, lo spavento.

*

(16)

Dormeuse

Nel sogno infante d’un dopoguerra ripetute tenere prolungate

le paure di una madre. Scalfitture di bambina con secchiello sola davanti al mare.

(Dovevo nascere con due linee tiepide di febbre).

*

Città piccola

Caliginoso approdo-placenta di cui appena rinvenivi chilometri a monte cangiante l’allucciolio del faro.

(Ebbra la mia scialuppa, mai più sarei stato lo stesso).

Ti rivedevo nella sembianza a me più cara

di limpida falda di neve nuova.

Quando un giorno poche ore prima preferisti cereo scilinguare

di un remoto mio innamoramento.

“È solo una bambina, e anche tu.

Ma troppo solo. Oh, Giovanna, lei”…

Strepitio illacrimato ma di lei

solo parlando d’amore parlavi, parlavi.

Impastato, anche, terreo parlottando.

Un giorno o due prima ti chiudessi gli occhi.

Ancora ignoravo d’entrare dal fondo di un’adolescenza nella stagione effimera del mio

male hanté non di meno provinciale.

*

Un dubbio

Non ho risorse abbastanza per sentire (non orecchi mani olfatto gusto) se qui, in questa mucosa, il filo di ferro del tuo corpo non trafigga – intriso della tenebra dei trapassati – la bestia il cancro che il cuore può patire quando dormi miniaturizzata e bleu mourant è il nome dei colori.

(17)

* Egizia

Tra rossori autunnali.

Neanche rivivessi le tue fughe nel vapore dei mattini incontro ai tuioi grilli –

ti penso un passo più in là oltre gli escrementi del cuore.

La frangetta sugli occhi morati.

Vuotocolma di te innamorata tutto finisce qui tra

pensieri d’infortunio e un giorno spento nella nebbia.

*

Stazione al commiato

Ritroverai mi dico (o per me una voce) con le musiche scialbe un volto non gli anni fuggiti in altre labbra.

Scompariva solitario un treno.

Oltre lo sterpacuore, all’ultima mezzanotte di un dicembre tra cinguettii di buona sorte, un batter di denti di bicchieri.

*

A mia insaputa

Vorrei per una volta tutti

della mia vita i volti s’affollassero, e uno in particolare contro l’invetriata senza desideri.

Sorridono e all’implorante

“Vi aspetto, tornate!” – socchiuso lasciano il battente, neanche spettasse a me seguirli (chi qua chi là scomparendo) o fossi dei loro già, senza saperlo.

*

A mio padre

(18)

Neanche con te che ora mi sorridi con occhi nuovi in sogno

tra il viola delle nubi il giallo asfissiante dei crisantemi – lo slancio d’un volo ch’è finito, neanche con te troverebbe ali.

E mentre t’allontani (rimuori) timido come da una riva ti guardo, ti sorrido, dopo quanti anni?

*

E i volti i volti

Chi vita m’ha dato non è più.

E i volti perduti amati, i volti fiammelle d’incanti

grigi smorti di terrestri orti dissecati. Mai udito, mai:

de toi de moi si peu que rien…

Mai da te dolente come a un crocefisso.

Non hanno onniveggenza futura i morenti – ritorneranno

sfiorandoci

metafore di uno smisurato loro non più esserci.

Sonnambuli ci accompagneranno fino alla spiaggia

livida sovranamente degli inverni.

*

Simmetrie mortali

Ho l’età di mia madre – i suoi rossori e come lei l’amore amo con spasimante devozione molto parsimoniosa. Non da lei diversamente vigilo l’anima tra federe lenzuola al cuscino accanto avvinghiata. E i morti sparuti simmetrici ordinati evocati da un mio silenzio fino al particolare del ciuffo dei negri capelli che spunta da una coperta o da una bianca di liscivia coltre d’obitorio.

(19)

*

Dolcezze maritali

Non inverno ancora, non ora (gemme di gioventù intempestiva), amore mio crollando nel tuo sonno m’illudeva

la non vecchiezza dei dormienti.

Come privo d’un braccio, del volto – ahi figlia non cesserai mai di nascere ruscellando le ciglia le selve –

non ho vita che per tenerti in vita.

*

Nella notte materna

Sul ghiaccio tra i barconi torvo nella fumea lungo l’acqua nera (dormono i cani nei cuori e chi ricorda più di te che rammendi la sua anima)

– “Vieni figliolo sul seno che tanto hai sospirato” – calda una nenia dilaniando.

*

Dell’età breve

“Oltre l’amore c’è sempre l’amore”.

Allora volevo cadessi in piume:

eri sul terriccio nel barlume del dormiveglia un tremito.

Visino visino di bisbiglii segreti e strazi mentre la neve cadeva della luna lattea attraverso i vetri.

Tra lampada e catino.

Ancora ignoro se in questa mucosa di bambino-bocca potrò rivederne il collo la

gola aggallare da uno specchio.

Ah, sembiante di lei che riappare (un soffio)

(20)

a sopire i malanni, la pena – fanciullina di silenzi china a raccogliere il vuoto tra le mani.

*

Ultime a G.

Impossibile credere a quel nome ch’è scritto tra marmi

sconci cari a un iddio – e dirlo tuo, mio. Ritorna impietrato l’addio indicibile ogni volta che dubitoso di sé, indifeso mi spacca il cuore, remissivo.

Oh, la morte di cui vociferi dal fondo dei deserti inverni!

In un blu di fiaccola o di larva.

Anche se talora tra lingua e labbro ich liebe dich,

prendendoti gioco della verosimiglianza della eco, degli specchi.

*

Un sonno

Aisha anche non mi riconosce.

Del resto se vedo vivere il mio buio, quanta, tenebrando, lontananza dal tempo giovane, e arsa fede.

Fosse vero che i morti ingentiliscono.

Oh, dai vetri agitandomi – lei l’esile gioia che era un astro mi avrebbe preso per un’ombra rapida nel riverbero di un cero.

*

Notizia d’addio

– “Ferruccio, Ferruccio”…

Dal tuo profilo spigoloso di grazia il pigolio.

Odoravi d’ascelle. Di bucce

(21)

di mele aspre, lisce.

Assonnati gli occhi in prestito un giorno solo alla terra.

– “Ferruccio, Ferruccio”…

Aspettavi tra i binari ridendo.

Ridendo fuggivi in una folata lumescente di liquidi vetri.

(Sia pure su un treno spettrale, sparisti).

E io (io) non così vecchio, roso dallo sconforto, dall’ebbrezza di un giorno rivederti.

Oltre la porta, nella sera strofinata di fiammiferi il tempo franava aizzando un etilismo di rimpianti.

*

Guarda – mi dico

Guarda – mi dico senza un filo di voce come se ne è andata tempo prima della neve, quanta di sé sgomenta dignità se mai qualcuna ce n’è nel distogliere lo sguardo dal meriggio di luglio.

Verso lo sprofondo delle ombre fino a chiuderli per sempre perduti gli occhi ai dintorni dei riflessi opachi.

E quanta – pensa – neve è caduta sui cipressi poi sulle graniglie – ghetto dai dimenticati libri per il sogno d’una rosa nella sera accesa da una folla orfica di lumi.

*

Novembre

Spesso quando la notte s’insacca e dietro il muro nel freddo inorriditi fremono gli amanti, l’alba è nel rintocco

dei bidoni del latte per sterrati radenti l’acquitrinio del cuore.

Ma tu resta coricata

sul fianco accanto all’ombra

(22)

infatuata che ti sfiora se altrove (due tre stipiti più oltre) postumi gli inchiostri, le chiose.

*

Di trasparente tristezza

Vacillando in un torpore credi davvero di intravedere

tracce delle suole di vento nel torrido di polvere e di sabbia?

“Noi per sempre siamo là,

in un tempo che non ha memoria”.

Ma è un congetturare dissimile troppo dalla gioia – precipitando godere d’un pianto d’amorose lagrime, d’estate due stelle cadenti sfavillando.

(Lucciole di recidiva gioventù.)

“Non esistono che in sogno quelli che preghi (cui credi) consolandoti!”

– irritandomi con fastidio ribatto.

Nel mentre non ti accorava la sera le immemori sere tormentose tra le braccia all’addiaccio.

Altro tempo. Un’ombra infine obliosa con gli anni s’è posata.

Altre anche più vaghe nuvole (tardi con gli anni ravvivandosi) – non altrimenti gli dei inesistenti.

*

Passata l’età

Nel brivido che m’intenebra come il topicida di cui mi cibasti degradandomi a un’ombra di cane – non un segnacolo un’anima viva l’alta notte desolando.

Quanto a te – ti ho amato tanto – le sole infine mie parole. Le ossa del commiato.

*

Vento di marzo

Mi trascini a fine inverno in un diluvio

(23)

(sgrondano gl’incerati negli androni), la neve che non è più rivedo;

ancora ritardano le gemme.

Dimmi non sarà derisorio il vento di marzo per carità di un demone tormento

ridicolo di lucciola. Ah, tu, presto una mattina vattene.

Lasciami. Dopotutto so di avere ricevuta in aggiunta alla morte la vita. Potrei

renderla in qualunque momento svenata del suo incanto.

Non nel vento di marzo quando macera una grazia sugli alberi, pavide gocciano le foglie.

Non nel vento di marzo.

Anche se da ieri i tuoi occhi di un giorno muoiono raggiando.

*

Per una fine d’inverno

Fatti una ragione della tua pena – s’infuria il cuore – non c’è una stagione sola. Torna

con gli anni non più verdi, rimorde al fondo di un inverno si anima inesausta una speranza. Ma intirizzite le arterie lo sguardo risucchiato un pulviscolo fissa oltre le dune scomparendo non più fertile il mare.

*

Il muro dopo

Ho curato le passioni

segrete, i picchi d’ansia minimali tra il calorifero e il letto

presso una finestra –

stupefatta una eco rimandava della sazietà del mondo…

(Pure un plenilunio mi sorprese o fu di lei un miraggio, di lei nella prostrante clausura?)

Ma nemmeno importa claudicando sul piastrellato in attesa

del colpo di spugna, di qualcosa d’eternamente senza ritegno più.

(24)

*

Un addio prossimo Chi apra le mie carte e sulla polvere soffiando legga lessici, neve

cartilagini

di un inverno freddo senza stelle – non altro lo sguardo implorando che una sepoltura

d’aprile tra lavanda rosmarino – d’altra neve in attesa

morbida come un gattino morto

……

*

Tra la folla

o nella solitudine delle viottole diamanti bui farsi gli amanti.

Con non altri che questi miei occhi lustri l’acqua (l’estasi) e – in filigrana – mucida la valva vischiosa con i suoi veleni.

Ma ai vetri millimetrati sul petto i fiocchi

dei lillà bianchi spetalantisi.

*

Di che cosa

Nell’inverno che ritarda (e gabbani gabbiani) a sfinirsi, dunque prima di me sta per morirne un altro – de quoi souffres – tu rauca d’orgoglio, l’erba

innanzi a me in rovina, di che cosa soffri?

Dell’irreale molto

infantilmente intatto dentro un reale devastato.

Senza una storia plausibile.

Attimi che fummo – ombre semivive dissipate sulla soglia di una improrogabile cecità.

*

(25)

La stanza

La diversità della nostra nell’uguale di tutte le storie marginali – è un tepore di paglia.

Non altro ovattandomi il cuore che un sogno d’uovo covato deposto con mesta puntualità.

Del resto a metà di un vivere surrogato

quanto più desiderio mi strugge dai muri della camera verde.

Ferruccio Benzoni è stato un grandissimo poeta del secondo novecento che però ancora fatica ad essere riconosciuto completamente. Impeccabile nella forma, rotonda per eccellenza, comunica una malinconia di fondo che è stata sostanzialmente la sua malattia. La solitudine. Benzoni pur sposandosi con una donna (tra l'altro tedesca, quasi a sottolineare la distanza) non è mai guarito da questa ossessione che era il sentirsi solo. Una delle cose che più lo hanno ossessionato, e che forse causò questa sua malattia, fu la morte di Giovanna, la madre, che lui spesso cita nelle sue poesie.

Uno degli elementi più caratteristici in Benzoni è la musicalità e la capacità di cambiare velocità nei testi.

Fatti una ragione della tua pena – s’infuria il cuore – non c’è una stagione sola. Torna

con gli anni non più verdi, rimorde al fondo di un inverno si anima inesausta una speranza. Ma intirizzite le arterie lo sguardo risucchiato un pulviscolo fissa oltre le dune scomparendo non più fertile il mare.

Come vedi possiamo riconoscere due velocità:

Fatti una ragione della tua pena – s’infuria il cuore – non c’è una stagione sola. Torna

con gli anni non più verdi, rimorde al fondo di un inverno si anima inesausta una speranza.

Qui il verso spezzato crea una lettura sincopata, difficile, ruvida. Quel non c'è a fine verso, proprio per la sua posizione, assume un connotato e un significato fortissimo. Notare inoltre l'allitterazione

verdi – rimorde – inverno quanto l'assonanza

inesausta – speranza

(26)

che fa a sua volta allitterazione con anima

a indicare un'apertura del concetto all'universale. E non a caso ritorna la a immediatamente ma la velocità del testo cambia, nonostante sia spezzato appare più rotondo e fluido

Ma intirizzite le arterie lo sguardo risucchiato un pulviscolo fissa oltre le dune scomparendo non più fertile il mare.

Qui abbiamo prima un'allitterazione nella s e poi nella m, a indicare prima qualcosa di sibilante, insinuante, poi di più arreso.

Se ti va commentami i testi e dimmi che ne pensi. Secondo me possono essere affini a te.

Riferimenti

Documenti correlati

Per capire quanti passi avanti deve fare dovrà però seguire queste indicazioni:. 1° indizio: il numero da scoprire è

quanto riguarda le ‘riammissioni passive’, a guidare la classifica c’è proprio l’Italia dove nel 2013 sono state rimpatriate 3.460 persone che erano entrate in Europa

Margara, Il carcere in Europa fra reinserimento ed esclusione, relazione al convegno dell’Associazione degli avvocati democratici europei (AED), Pisa, 29 febbraio 1

INDICATIVO FUTURO viaggeremo

Per avere però la complessità dell’algoritmo “globale” che, dato in input un intero n>1, calcoli la sua funzione di Eulero, si dovrebbe sommare anche la complessità di

na 'avuto Gappernito all'estero, c|(D! —— Valeva preverbiaimente co: Ribd non nollfato nelle capitali di [me Îl punto nevenligo dellintezio: fitto 1 ‘mondo

Indicare in modo preciso la denominazione e la sede dell’Azienda/Ente, il periodo svolto (indicando giorno/mese/anno di inizio e fine servizio), la tipologia

Punti Caldi: Egitto (guerra contro militanti islamici ramo Stato Islamico), Libia (guerra civile in corso), Mali (scontri tra esercito e gruppi ribelli), Nigeria (guerra contro i