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Categoria della inammissibilità. Nel giudizio di cassazione. (Maria Vessichelli)

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Categoria della inammissibilità. Nel giudizio di cassazione.

(Maria Vessichelli)

1. Mi è stato affidato il tema riguardante la categoria della inammissibilità del ricorso e le sue implicazioni nel giudizio di legittimità.

Un tema di particolare centralità per il lavoro e la strategia dei flussi della cassazione ed anche di speciale attualità, avendo formato oggetto dell’ultima delle camere di consiglio delle Sezioni Unite. Peraltro non poco complessa come vedremo tra poco.

Nel dare sviluppo al primo punto della relazione, cioè, è opportuno avere contezza del fatto che il “valore” della analisi che ci accingiamo ad affrontare e cioè quella relativa al “quando si è in presenza di inammissibilità del ricorso?” ( Prospettiva della analisi strutturale del fenomeno), per essere compreso appieno, necessita di essere contestualizzato in una Prospettiva funzionale.

1.1. Occorre cioè aver chiara l’importanza che il fenomeno dei ricorsi inammissibili assume nella gestione dei flussi in Cassazione.

Una importanza enorme dal punto di vista della strategia del controllo dei flussi, atteso che i ricorsi inammissibili rappresentano oltre il 50% delle sopravvenienze che, a loro volta sono costituite da circa 50000 ricorsi l’anno solo per il penale, ragione per la quale è stata apprestata una sofisticata macchina processuale (rappresentata dagli uffici spoglio sezionali e dalla Speciale sezione per l’esame di tali ricorsi, la c.d. VII penale di cui all’art. 169 bis. disp. att. c.p.p., istituita nel 2001), macchina volta ad intercettare i detti ricorsi e ad inviarli alla Sezione VII per una trattazione semplificata ai sensi dell’art. 611 c.p.p. ed anche de plano.

Il lavoro che compiono i consiglieri della corte, all’uopo incaricati del Primo Presidente che così attua il proprio individuale potere ex art. 610, comma 1, c.p.p., per la preliminare individuazione del ricorso inammissibile ha costituito il tema sviluppato dalla collega Petruzzellis e si inquadra nella produttività dei c.d. Uffici spoglio sezionali.

1.2. Il mio compito, tuttavia, non è tanto e non solo quello di illustrare come si giunge ad individuare un ricorso inammissibile, quanto quello di offrirvi una visione

“plurifocale” della nozione di inammissibilità del ricorso in cassazione e delle implicazioni che essa ha quando incrocia determinate situazioni processuali, con la conseguenza che possono mutare le formule di chiusura del processo.

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1.3. Prima di affrontare il tema centrale della relazione - che poi è anche il tema trattato nell’ultima camera di consiglio delle SSUU - e cioè quello di come si atteggia il ricorso inammissibile quando si cala in situazioni processuali in cui vengono in considerazione possibili, diversi epiloghi decisori, intendo ripassare con voi sommariamente taluni aspetti e profili critici per la individuazione delle diverse cause di inammissibilità, perché sono il frutto non già della lettura piana di norme processuali, ma di un percorso sempre più affinato compiuto dalla giurisprudenza di legittimità sia a sezioni semplici che a sezioni unite: non sempre lineare e comunque di non intuitiva comprensione.

I° PARTE

2.1.Procederò, dunque, a ricordare solo succintamente, in apertura di questa trattazione, che l’inammissibilità del ricorso per cassazione può ricorrere per motivi solo formali (quelli “originari” previsti dall’art. 591 cpp per tutti i mezzi di impugnazione - compreso l’appello - ai quali va aggiunta la “rinuncia” che è causa di inammissibilità sopravvenuta), o anche per uno dei motivi espressamente indicati dal legislatore in riferimento al ricorso per cassazione all’art. 606, comma 3, cpp, tra i quali sono compresi quelli solitamente più ricorrenti: la manifesta infondatezza e la illustrazione di motivi diversi da quelli consentiti dalla legge ossia dall’art. 606 c.p.p..

La manifesta infondatezza (assente in riferimento alle categorie della inammissibilità che la corte di appello può rilevare con ordinanza extra-dibattimentale anche di ufficio) non va confusa con la genericità del motivo che invece è compreso nell’art.

591 ( col rimando all’art. 581).

2.2. Infatti, l’apprezzamento della genericità del motivo attiene ad una rilevazione semplice ed ictu oculi: il motivo di ricorso è “generico”

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quando non indica in modo specifico le ragioni in fatto e in diritto a sostegno della richiesta ( così si esprime l’art.

581 lett. d) c.p.p.) ed altresì - come precisato da una giurisprudenza ormai consolidata

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quando non si confronta in modo puntuale con le principali argomentazioni poste a fondamento della decisione impugnata (c.d. aspecificità intrinseca).

Vorrei citare, al riguardo, non necessariamente per condividerla ma per una riflessione con voi, la sentenza della Sez. 2 della Cassazione Rv. 277518 del 2019, con la quale si è affermato che “il ricorrente che intende denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ha l'onere - sanzionato a pena di a-specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso - di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione. (In motivazione, la Corte ha precisato che, al fine della valutazione dell'ammissibilità dei motivi di ricorso, può essere considerato strumento esplicativo del dato normativo dettato dall'art. 606 cod. proc. pen. il

"Protocollo d'intesa tra Corte di cassazione e Consiglio Nazionale Forense sulle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia penale", sottoscritto il 17 dicembre 2015)”.

Ecco, sotto questo ultimo profilo, vi inviterei ad essere assolutamente cauti, apparendo davvero eccessivo affidare la attuazione del parametro normativo della inammissibilità – come se fosse una norma in bianco – ad una fonte sub normativa ed anzi attinente alla autonomia privata delle parti .

Con riferimento al caso della presentazione dell'impugnazione prima del deposito della motivazione, voglio poi ricordare lo stato della giurisprudenza che – in base ad

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un orientamento - l’ammette limitatamente ai casi in cui le censure dedotte si riferiscano ad aspetti della decisione evincibili inequivocabilmente dal solo dispositivo ed il vizio denunciato sia apprezzabile senza necessità di fare riferimento alla motivazione. ( Rv 271331). Ma con

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orientamento ben più corposo, la nega perché ne rileva la genericità, osservando che non è consentito che l'ammissibilità di un gravame possa essere valutata "ex post", richiedendosi, invece, che i relativi requisiti siano apprezzabili in presenza del provvedimento gravato nel suo insieme e costituito tanto dalla parte dispositiva, quanto da quella motivazionale (Rv 277669).

Vi è poi l’interessante caso su cui si sono espresse SSUU Fruci del 2009 Rv 243416: si afferma ormai uniformemente in giurisprudenza cioè che è inammissibile il ricorso per genericità del motivo quando la parte che eccepisce l'inutilizzabilità di atti

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processuali non indichi gli atti specificamente affetti dal vizio e non ne chiarisca la incidenza sul complessivo compendio indiziario già valutato, sì da potersene inferire la decisività in riferimento al provvedimento impugnato.

2.3. L’apprezzamento della manifesta infondatezza implica invece l’ingresso nel merito delle contestazioni del ricorrente ed il giudizio è più penetrante.

La manifesta infondatezza viene pronunciata quando le ragioni in fatto o in diritto illustrate dal ricorrente sono in modo evidente contrarie agli accertamenti fino a quel momento accreditati, senza adeguata confutazione da parte della difesa oppure, altresì, quando viene prospettata una tesi in diritto contraria alla giurisprudenza consolidata, magari anche con l’avallo delle SSUU, e senza rappresentare alcuna ragione valida per superare quell’indirizzo (che, in conclusione, deve ritenersi semplicemente o ignorato dal ricorrente o contrastato senza valide ragioni).

E’ anche utile mettere in evidenza che la enucleazione della categoria della “manifesta infondatezza” rispetto a quella della infondatezza semplice ( che non può sostenere la declaratoria di inammissibilità del ricorso, ma solo il rigetto) è talvolta difficile e si presta a interpretazioni differenziate in concreto.

E tale evenienza è fonte di perplessità tra gli osservatori, posto che la declaratoria di inammissibilità per manifesta infondatezza dei motivi è foriera di conseguenze assai sfavorevoli per l’imputato, come si vedrà di qui a poco. Ed anche la Corte costituzionale (sentenza n. 25 del 2019) ha qualificato come "scivoloso" il crinale della distinzione tra manifesta infondatezza e mera infondatezza dei motivi di ricorso e della conseguente costituzione, o meno, del rapporto processuale di impugnazione.

Quando giudichiamo, dunque dobbiamo dedicare dunque particolare sensibilità al tema, anche perché la dottrina giustamente ci bacchetta quando scopre che dichiariamo la inammissibilità del ricorso, ad esempio, a fronte di un motivo di ricorso al quale la giurisprudenza attuale dà risposte contrastanti tra loro. Così in Penale, Diritto e Procedura, rivista online, del 15 giugno 2020, in un articolo si critica una sentenza della V penale che ha concluso con la declaratoria di inammissibilità un procedimento in cui si deduceva un aspetto della inutilizzabilità delle intercettazioni oggetto di decisioni che evidenziano non uniformità della giurisprudenza di legittimità. Anche la giurisprudenza più avvertita di questa Corte ha enunciato un principio del genere di quello fin qui raccomandato: “In tema di declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione, è manifestamente – e non meramente- infondata la questione che si riveli "ictu oculi" priva di ogni consistenza perché si limita a riproporre pedissequamente una questione già dichiarata infondata, in difetto di fatti nuovi che possano indurre a modificare la precedente decisione. (In applicazione

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del principio, la Corte ha escluso la declaratoria di inammissibilità del ricorso nel caso in cui la definizione presupponga la risoluzione di un problema oggetto di contrasto nella giurisprudenza di legittimità)” (Rv. 276062).

Sul punto val la pena ricordare incidentalmente che una modifica apportata all’art.

618 c.p.p. con la riforma del 2017 (aggiunta del comma 1 bis), non consentirebbe al giudice della sezione semplice di dissentire dal principio di diritto affermato dalle Sezioni unite senza argomentare una critica adeguata e senza rimetterla nuovamente al supremo collegio (parziale vincolatività del principio di diritto delle Sezioni unite penali, che in tale prospettiva, sono state omologate al funzionamento delle Sezioni unite civili ex art. 374 c.p.c.).

Ancora voglio segnalare una sentenza della Sez. 2, Rv 276916 del 2019 ove si tenta una definizione della casistica della manifesta infondatezza, proprio nell’ottica di sfuggire alle critiche della dottrina e a possibili rilievi della Corte edu riguardo alla adozione di una formula decisoria che tanto può condizionare, in sfavor, le sorti del ricorrente.

Si è precisato cioè che “Il ricorso per cassazione

a) che deduca inosservanza od erronea applicazione di legge è inammissibile per manifesta infondatezza ove sia connotato da evidenti errori di diritto nell'interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso, come accade allorché si invochi una norma inesistente nell'ordinamento

b) o si disconosca l'esistenza o il senso assolutamente univoco di una determinata disposizione di legge,

c) ovvero ancora si riproponga una questione già costantemente decisa dalla Corte di cassazione in senso opposto a quello sostenuto dal ricorrente, senza addurre motivi nuovi o diversi;

d) mentre il ricorso che deduca vizi di motivazione è inammissibile per manifesta infondatezza se muove censure o critiche sostanzialmente vuote di significato in quanto manifestamente contrastate dagli atti processuali, come avviene nel caso in cui si attribuisca alla motivazione della decisione impugnata un contenuto letterale, logico e critico radicalmente diverso da quello reale.

2.4. Differente, ancora, è la inammissibilità per avere dedotto “ motivi diversi da quelli consentiti dalla legge” , locuzione ( presente nell’art. 606 , comma 3 , c.p.p.) alla quale si ricorre in sentenza quando debbono essere censurati i motivi c.d. “in fatto” ossia quelli che, discostandosi del tutto dalle tipologie descritte nell’art. 606 c.p.p., in realtà rappresentano il tentativo del ricorrente di sollecitare un giudizio di merito da parte della cassazione. Un terzo grado di merito che non è previsto dalla legge, dunque

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sarebbe antisistema rispetto alla configurazione del giudizio di legittimità che è invece limitato alla rilevazione di errori in diritto commessi dal giudice di merito oppure all’apprezzamento di una motivazione – così come illustrata nel provvedimento impugnato – che si presenti o del tutto mancante, o illogica. Ma in modo “manifesto”, sicchè semplici aporie non rilevanti o errori marginali mai potrebbero integrare il motivo di ricorso di cui all’art. 606 lett. e) c.p.p.

2.5. Va ricordata anche la inammissibilità derivante da reiterazione di questione già risolta , ovviamente nell’ambito dello stesso processo o procedimento.

Afferma la giurisprudenza, con orientamento consolidato, che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (tra le molte. v. Rv. 277710). In realtà, se ben si osserva, questo è un caso da ricondurre a quello più generale, e sopra ricordato, di inammissibilità per “genericità” del motivo ossia di inammissibilità derivante dal fatto che il ricorso finisce, così, per non confrontarsi con le principali argomentazioni poste a fondamento della decisione impugnata, argomentazioni che semplicemente ignora e bypassa.

Vi è però almeno una vistosa eccezione a tale approdo e riguarda la decisione in sede di esecuzione: come riconosciuto da Sez. U del 2010, Beschi, rv 246651, si può cioè reiterare il motivo di ricorso già proposto al GE e rigettato quando vi sia stato un mutamento di giurisprudenza favorevole, intervenuto con decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione. Si è ritenuto cioè che questo mutamento (nel caso concreto le ssuu avevano ritenuto applicabile l'indulto anche alle persone condannate all'estero e trasferite in Italia per l'espiazione della pena), integrando un nuovo elemento di diritto, rendesse ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell'indulto in precedenza esclusa dalla Cassazione con rigetto del ricorso. Ma ciò si è potuto affermare in quanto si è ritenuto che la declaratoria di inammissibilità o rigetto, nel caso descritto non avesse dato luogo ad un giudicato.

Si è cioè osservato che la fase esecutiva di una condanna è disciplinata da regole, per così dire, flessibili, che tengono conto della dinamica connessa alla funzione rieducativa della pena e alla risocializzazione del condannato (si pensi all'accesso alle misure alternative alla detenzione), con l'effetto che deve escludersi qualunque preclusione in una situazione in cui una precedente decisione negativa di applicazione dell'indulto, non coperta da giudicato in senso proprio, riposi su una lettura della corrispondente normativa, riconosciuta, in seguito, non in linea con norme internazionali pattizie, nonché lesiva del diritto fondamentale della persona alla

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libertà. In tale ipotesi s'impone, alla luce del novum interpretativo, diventato "diritto vivente", la rivalutazione della posizione del condannato.

2.6. Da segnalare – perché frutto esclusivamente della elaborazione giurisprudenziale - è infine la inammissibilità per “non autosufficienza” del ricorso. Si tratta di una categoria elaborata dapprima in sede civile, per espungere quei ricorsi che non consentono al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all'esame del fascicolo processuale e che quindi impone l'indicazione espressa degli atti processuali o dei documenti sui quali il ricorso si fonda specificando anche in quale sede processuale il documento risulti prodotto.

In sede penale è stata utilizzata soprattutto dopo la riforma c.d. “Pecorella” ossia quella che nel 2006, ha introdotto tra i casi di ricorso per vizio di motivazione ex art.

606 lett. e) c.p.p., quello della “contraddittorietà” della sentenza con “atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame” (c.d. travisamento della prova).

Da allora si è formato l’orientamento abbastanza uniforme ormai, per cui l’autosufficienza del ricorso si traduce nell'onere di puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l'allegazione o comunque di integrale riproduzione nel ricorso. In mancanza, il ricorso si dichiara inammissibile per difetto di autosufficienza.

3.1. La declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione si effettua – diversamente da quella dell’appello - senza dover fare distinzioni sul rito ( camerale non partecipato o camerale partecipato o udienza pubblica) e sulla tipologia di provvedimento decisorio ( ordinanza, tipica della VII sezione , o sentenza).

3.2. Si effettua anche “ora per allora” ossia quando in Cassazione si rileva la inammissibilità dell’appello, in una delle forme che si sarebbero potute dichiarare fuori udienza, con ordinanza: in tal caso, come statuito dall’art. 591, comma 3, c.p.p., la inammissibilità per uno dei vizi indicati dal precedente comma 1, può essere dichiarata anche in Cassazione, previo annullamento senza rinvio della sentenza di secondo grado che risulterà emessa – dunque - irritualmente sul presupposto di un appello inammissibile ( caso deciso da SSUU del 2018, Avignone, Rv 273650)

4.1. Già questa prima illustrazione ci permette di comprendere che, se è innegabile, da un lato, che l’apparato delle ragioni che conducono alla declaratoria della

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inammissibilità del ricorso è orientato ad una evidente finalità deflattiva del carico della Corte (la pervenienza è di circa 50.000 ricorsi l’anno per il solo settore penale, con un organico di circa 150 magistrati), dall’altro va detto che lo è senza superficialità o sommarietà: attraverso, piuttosto, una penetrante valutazione del ricorso , volta ad impedire che quelli non rispettosi in modo evidente dei requisiti minimi richiesti dalla legge, possano giungere ad ingolfare il meccanismo estremamente articolato e complesso che è il giudizio presso le sezioni ordinarie della cassazione, con chiaro spreco di preziose risorse umane ed organizzative.

4.2. Dunque, per converso, è da escludere che la valutazione della inammissibilità possa risolversi in una modalità per “liberarsi del processo”. Perché se così fosse, ci troveremmo esposti ai rilievi delle Corti europeee , come puntualmente è avvenuto con la sentenza del 5 ottobre 2021, nel caso Succi contro Italia e preceduta dalla sentenza nel caso Willems e Gorjon c. Belgio del 21 settembre 2021 ( vi ricordo che siete destinatari dei report che il Gruppo per l’attuazione dei protocolli europei predispone in relazione alla principali sentenze delle corti europee , comprese quelle appena citate, report che l’URI dirama a tutti i consiglieri. Se non li ricevete, chiedete all’Uri di integrare l’indirizzario).

La sentenza “Succi”, per vero emessa relativamente ad una inammissibilità dichiarata dalla Cassazione civile italiana, ha riconosciuto da un lato che la inammissibilità del ricorso dichiarata per il mancato rispetto del principio di autosufficienza del ricorso è, in linea di principio, uno strumento processuale valido e legittimo. Tuttavia, nel caso concreto, è stato usato male. Ha portato, cioè, alla integrazione della violazione dell’art. 6§1 CEDU, sotto il profilo della lesione del diritto di accesso al giudizio di legittimità, avendo la Corte di Cassazione dichiarato inammissibile il ricorso per difetto di autosufficienza, nonostante che dallo stesso fosse possibile comprendere l’oggetto e lo svolgimento dei giudizi di merito, la portata e il contenuto delle critiche alla sentenza impugnata.

Questa contingenza deve dunque sollecitarci ad un uso dello strumento della inammissibilità per non autosufficienza, molto rigoroso e assolutamente fedele alle previsioni di legge oltre che ai diritti fondamentali del cittadino.

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II° parte

5. Si entra ora nel vivo di quella che è la seconda tematica della relazione: quella della interrelazione del ricorso inammissibile con altre e diverse patologie rilevabili a carico della decisione rimessa al vaglio del giudice di legittimità.

La inammissibilità del ricorso è essa stessa una “patologia” che afferisce al ricorso e, secondo una lunga e consolidata tradizione giurisprudenziale a Sezioni unite - gli impedisce di esistere come atto giuridicamente capace di produrre effetti.

Specificamente, l’effetto tipico, che è quello di aprire, cioè di dare vita alla fase del giudizio di legittimità.

Ricordiamo SSUU Ricci del 2015 Rv 266818; SSUU del 2005, Bracale, Rv 231164; SSUU del 2011 Cavalera, rv 219531; SSUU De Luca del 2000 rv 217266; SSUU Piepoli del 1999, Rv 213981: L'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi oppure a motivi non consentiti o alla denuncia di violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello, o ad altre cause, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione.

E’ utile precisare in questo punto della trattazione che la inammissibilità è una patologia irreversibile e non sanabile del ricorso, come è ulteriormente dimostrato dal fatto che l’art. 585 , comma 4, II parte c.p.p. impedisce al ricorso inammissibile di essere “rivitalizzato” con motivi nuovi i quali, per quanto ben fatti ed eventualmente anche fondati, se accedono ad un ricorso inammissibile, patiscono la stessa patologia (Rv 278387).

Da notare che questa è una situazione diversa da quella della inammissibilità dei motivi aggiunti per essere, gli stessi, non attinenti ai capi o punti devoluti con l’atto principale e in tal senso davvero NUOVI.

Questa condotta processuale è vietata dall’art. 167 disp. att. c.p.p. ( Rv 272821) La valutazione della inammissibilità del ricorso è di tipo relazionale, perché non sarebbe sufficiente apprendere i motivi che determinano la patologia, se poi non sappiamo calare questa patologia nella sequenza dei segmenti processuali interessati dal ricorso. Per comprendere quali sono le conseguenze.

5.1. Il primo e più evidente effetto processuale è che il processo si conclude, cioè diviene “definitivo” o comunque dà luogo a “cosa giudicata” al momento della pronuncia di merito che poi è stata impugnata con ricorso inammissibile.

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In tale senso debbono farsi due precisazioni.

5.1.1. La prima è che la sorte che ho appena evocato non riguarda, in realtà, l’intero processo, ma il “capo” della sentenza aggredito con ricorso inammissibile (ossia la parte di processo connotata da una contestazione di reato e un imputato) o i capi nella stessa condizione.

Questo vuol dire che se un processo è formato da diversi capi (perché più sono gli imputati o più sono i reati contestati ad un unico imputato) ciascuno di tali capi ha una sorte autonoma e indipendente da quella degli altri.

Dimodoché, se un motivo di ricorso riguardante un capo è fondato e capace di far scattare la prescrizione e altro motivo riguardante altro capo è inammissibile, la prescrizione scatta solo per il capo con motivo non inammissibile.

E’ ciò che è stato affermato da Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016 Ud. (dep. 2017 ), Aiello, Rv. 268966 secondo cui in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa, che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, l'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l'ammissibilità dell'impugnazione per uno dei reati possa determinare l'instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello.

In conclusione, può aversi una sentenza che dichiara la prescrizione per alcuni reati (capi) sul presupposto della non manifesta infondatezza dei motivi che li riguardano e dichiara contemporaneamente inammissibili i motivi di ricorso relativi ad altri reati ( autonomi capi).

5.1.2. Attenzione deve farsi poi, a che la declaratoria di inammissibilità relativa ad ogni singolo capo/reato, sia però completa nel senso che mostri di avere preso in considerazione – esplicitamente o implicitamente - tutti e ciascuno dei motivi di ricorso proposti dall’imputato.

Infatti con sentenza della Corte EDU del 6 febbraio 2020, nel caso Felloni c. Italia, siamo stati condannati proprio perché, secondo la prospettiva accreditata dalla Corte europea, la Corte di Cassazione italiana, nel dichiarare in VII sezione la inammissibilità di un ricorso, avrebbe ignorato il motivo relativo alla applicazione retroattiva della legge n. 125 del 2008 (che ha introdotto il divieto di riconoscere le attenuanti generiche solo per la incensuratezza del prevenuto e quindi si atteggia come norma

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di sfavore, di cui è vietata la applicazione retroattiva) e pertanto il processo non è stato ritenuto equo.

5.2. La seconda precisazione è che quanto sopra affermato, riguardo al consolidarsi del giudicato, è il frutto di una lunga e uniforme elaborazione giurisprudenziale che deve porsi a confronto con la norma del codice di rito che definisce un concetto diverso dal “giudicato”, ma apparentemente molto vicino: quello della

“irrevocabilità” della sentenza, di cui parla l’art. 648 c.p.p.

La sentenza ricorribile diviene irrevocabile (e, come recita l’art. 650 c.p.p., acquisisce

“forza esecutiva”) quando

- o è scaduto il termine per impugnarla

- è stata pronunciata ordinanza o sentenza che riconoscono la inammissibilità del ricorso.

Il concetto di “irrevocabilità” ci restituisce quello di formazione del titolo esecutivo, ossia di “giudicato in senso formale”.

Ora, come si legge in Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, Salatino (che richiama Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera), l’assetto normativo appena richiamato ci fa comprendere, in primo luogo, che vi è un caso di inammissibilità del ricorso ( quello derivante dall’art. 591 cpp in relazione all’art. 585 c.p.p., corrispondente al primo dei casi appena ora citati in riferimento all’art. 648) che dà luogo al “giudicato formale”, ed è, appunto, il ricorso tardivo, ossia proposto dopo la scadenza del termine per impugnare.

Il ricorso tardivo non è altro che un "simulacro di gravame" sicché il provvedimento giudiziale di inammissibilità che ne consegue, per la sua natura dichiarativa, non fa altro che rimuoverlo dalla realtà giuridica fin dal momento della sua origine. Ben può affermarsi che ci si trova in presenza di un atto inidoneo ad introdurre il giudizio di impugnazione ed alla instaurazione di un valido rapporto processuale. Ne consegue, ad esempio, come affermato da Sez. U, Butera del 2015, Rv. 265106, che se il ricorso è inammissibile per tardività, non può trovare spazio neppure la rilevazione di uffici di una pena illegale, la quale andrà dedotta dinanzi al G.E.. Ne consegue altresì che la presentazione di un impugnativa tardiva non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza, la quale, pertanto, deve essere necessariamente eseguita a cura del pubblico ministero, anche prima della pronuncia dichiarativa dell'inammissibilità dell'impugnazione (Sez. U, Butera, Rv. 265107) -

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Al secondo caso sopra indicato (art. 648 comma 2 cp: è stata pronunciata ordinanza o sentenza che riconoscono la inammissibilità del ricorso) va ricondotta l’ipotesi della rinuncia al ricorso validamente proposto. Tale rinuncia, come affermato da Sez. U, n.

12602 del 17/12/2015 (dep. 2016 ), Ricci, Rv. 266821 – 01, in quanto esercizio di un diritto potestativo dell'avente diritto, determina l'immediata estinzione del rapporto processuale, cui consegue l'immediato passaggio in giudicato della sentenza all'atto della dichiarazione di inammissibilità dell'impugnazione.

5.3. Ma prima del momento della esecutività del titolo, vi è altro momento in cui, ancora non formato un titolo per la esecuzione, tuttavia si è consolidato un “giudicato sostanziale”.

E’ il momento, appunto, della pubblicazione della sentenza ( di merito) seguita da un ricorso inammissibile per tutte le ragioni diverse dalla tardività.

Si rimanda ancora una volta alla sentenza Sez. U, Salatino, ove viene affermato che a partire da Sez. U, n. 21 del 11/11/1994, dep. 1995, Cresci, Rv. 199903, per poi proseguire con Sez. U, n. 11493 del 26/06/1998, Verga, Rv. 211469, e Sez. U, n. 30 del 30 giugno 1999, Piepoli, Rv. 213981, nonché Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 e Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera, Rv. 219531; concludendo da ultimo con Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164 e Sez. U, n. 12602, 17/11/2015, Ricci, Rv. 266818 ( che della Bracale costituisce la fedele reiterazione), la giurisprudenza di legittimità si è mossa nel solco di una ricostruzione degli effetti della inammissibilità del ricorso svincolata dallo schema delineato dall'articolo 648 cod.

proc. pen.: uno schema, quest'ultimo, reputato idoneo soltanto a regolamentare il giudicato formale per dare avvio alla fase esecutiva.

Si tratta, in particolare, - degli effetti che scaturiscono , in particolare, dalla analisi del rapporto della apprezzata inammissibilità con l'obbligo che l'articolo 129 cod. proc.

pen. pone a carico del giudice, di rilevare in ogni stato e grado del processo le cause di non punibilità. Un rapporto che, come si vedrà, in linea generale è stato ricostruito come tale da assicurare prevalenza alla declaratoria di inammissibilità, ma con talune vistose eccezioni.

La giurisprudenza cui ci si richiama fà leva sulle norme che regolano le impugnazioni ed in particolare sugli artt. 581, 591, 606, comma 3, cod. proc. pen. - nei quali sono elencate le diverse tipologie di cause di inammissibilità, da considerarsi unitariamente - ritenendole capaci di supportare, tutte allo stesso modo, una pronuncia soltanto dichiarativa, con effetti esclusivamente processuali: quelle cause, in ragione della loro essenza che attiene sempre geneticamente all'atto, impediscono il passaggio alla fase successiva dell'impugnazione.

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La rigorosa tipizzazione delle modalità di ingresso nel giudizio di legittimità ha indotto a ritenere che la pronuncia di inammissibilità (compresa quella per manifesta infondatezza) ha sempre natura dichiarativa ed è meramente ricognitiva della mancata instaurazione del giudizio di cassazione poiché rileva un vizio che affligge geneticamente l'atto. Al riguardo è opportuno comunque sapere e non dimenticare che nelle prime sentenze delle SSUU si era distinto fra le cause originarie e quelle sopravvenute di inammissibilità (assicurando questa forza di prevalenza solo alle prime) e poi progressivamente si è superata tale distinzione ( assicurando indistintamente a tutte le cause di inammissibilità la forza della prevalenza).

Categoria di inammissibilità a parte è sempre stata comunque la "rinuncia" al ricorso che rimane da ascriversi alle cause di inammissibilità sopravvenute ed è direttamente finalizzata alla formazione del giudicato formale.

In particolare, vanno menzionate la sentenza del 2000, n. 32 , De Luca (Rv 217266) che segnò una decisa svolta nello sviluppo di questo costrutto interpretativo perchè, ribaltando le conclusioni raggiunte dalla precedente sentenza delle Sez. U, n. 15 del 1999, Piepoli , Rv. 213981, giunse ad affermare che non solo le evidenti cause originarie di inammissibilità del ricorso (ad esempio la genericità dei motivi o le altre dettate dall’art. 591 cod. proc. pen.) ma anche quella dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consentono il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e precludono, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen. .

Tale constatazione si compendia nella rilevazione che la proposizione di un atto di impugnazione non consentito dà luogo alla formazione di un giudicato che attende di essere formalizzato con le modalità previste dall'articolo 648 cod. proc. pen. e, per distinguersi da questo, viene definito "sostanziale" ma che, ciò nondimeno, produce l'effetto di rendere giuridicamente indifferenti fatti processuali come l'integrazione di cause di non punibilità precedentemente non rilevate perché non dedotte oppure integrate successivamente al giudicato stesso.

6.1. Dunque, per effetto di tale ragionamento, se è presentato un ricorso inammissibile, non può dirsi che il processo “pende” ed è impedita la rilevazione della prescrizione maturata dopo la sentenza che è impugnata con ricorso inammissibile (Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001, Rv. 219531, Cavalera).

6.2. Quel genere di ricorso impedisce altresì (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015 (dep.

2016) Rv. 266818, Ricci) di rilevare d'ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609 comma

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secondo, cod. proc. pen., l'estinzione del reato per prescrizione maturata prima della pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso. La ragione è sempre la stessa: l'art. 129 cod.

proc. pen. (che impone la rilevazione immediata delle cause di non punibilità) non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, attribuendo al giudice dell'impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione.

6.3. In occasione della entrata in vigore del d. lgs. n. 36del 10 aprile 2018, che introdusse la condizione della procedibilità della querela per taluni reati prima perseguibili di ufficio prevedendo anche una interlocuzione con la persona offesa per la eventuale presentazione della querela in relazione ai fatti pregressi, le Sez. U, Salatino del 2018, Rv. 273551 hanno ancora una volta riconosciuto che l'inammissibilità del ricorso era ostativa a tale interlocuzione.

Interessante evidenziare che nella motivazione si spiega come la giurisprudenza e la dottrina abbiano inquadrato la querela come istituto da assimilare a quelli che entrano a comporre il quadro per la determinazione dell'an e del quomodo di applicazione del precetto, ai sensi dell'art. 2, quarto comma, cod. pen. (v., in tema di procedibilità d'ufficio per i reati di violenza sessuale, Sez. 5, n. 44390 del 08/06/2015, R., Rv. 265999 e Sez. 3, n. 2733 del 08/07/1997, Frualdo, Rv. 209188; in tema di procedibilità a querela introdotta per il reato di cui all'art. 642 cod. pen., Sez. 2, n.

40399 del 24/09/2008, Calabrò, Rv. 241862), giungendo per via interpretativa, quando non vi ha provveduto il legislatore con una specifica norma transitoria, alla conclusione della applicazione retroattiva dei soli mutamenti favorevoli (sostituzione del regime della procedibilità di ufficio con quello della procedibilità a querela), senza però che possa superarsi il giudicato già formato.

Se ne è inferito che, allo stesso modo, non potrebbe superarsi la inammissibilità del ricorso.

La ratio di tale conclusione interpretativa sta nel fatto che è la parte interessata ad essere onerata di attivare correttamente il rapporto processuale di impugnazione con la conseguenza che il mancato rispetto delle regole processuali paralizza i poteri cognitivi del giudice e non vengono perciò in considerazione l'equità o la razionalità del processo.

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7. Come sopra anticipato, la stessa giurisprudenza delle SSUU si è trovata a sperimentare casi in cui il principio appena enunciato non tiene. Si tratta delle eccezioni alla regola della prevalenza della inammissibilità come sopra ricostruita.

Sono più d’una.

7.1. La prima è data dalla duplice ipotesi dell’abolito criminis o abrogazione e dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale

della norma incriminatrice

.

Si potrebbe mai far prevalere la inammissibilità del ricorso sul fatto che, nelle more del giudizio, la norma incriminatrice è stata abrogata dal legislatore o espunta dall’ordinamento con declaratoria di illegittimità della Corte costituzionale?

La risposta delle SSUU è sempre stata negativa. I detti eventi giuridici sopravvenuti, in base al disposto dell’art. 673 c.p.p., hanno pacificamente effetto ex tunc, travolgendo anche il giudicato formale e il GE è investito del potere-dovere di dichiararlo (v. Sez.

U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca e n. 23428 del 22/03/2005, Bracale; più di recente Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera).

Ora, l’art. 673 non è altro che lo strumento processuale (individuazione della sede, nell’incidente di esecuzione) per dare attuazione sia a quanto disposto dall’art. 2, secondo comma, cod. pen. , che regola il solo fenomeno abrogativo, a mente del quale “ nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato e se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. Sia - quanto alla seconda ipotesi - a quanto previsto dall’art. 30, quarto comma, della l. n. 87 del 1953 ( Norme sul funzionamento della Corte costituzionale) in base al quale “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”.

7.2.E’ possibile ricercare anche una copertura convenzionale al primo principio.

In realtà, ciò che rinveniamo nella giurisprudenza della Corte edu è un principio più ampio, e cioè la costante l’affermazione che l’articolo 7 § 1 della Convenzione ( che afferma solo la irretroattività della nuova norma incriminatrice e del trattamento penale di sfavore) non sancisce solo quello che afferma esplicitamente, ma anche, e implicitamente, e in generale, il principio della retroattività di ogni legge penale meno severa (ad es. sulla pena).

Questo principio, declinato dalla Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo

"Scoppola C. Italia" del 2009, in tema di modulazione della diminuzione per abbreviato, si traduce nel precetto secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima

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della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato .

Come si vede, la giurisprudenza sovranazionale eleva a diritto fondamentale e riconduce al principio della proporzione e prevedibilità delle sanzioni, la retroattività generale della lex mitior, ma non pretende la applicazione di questa regola superando un giudicato già formato.

7.3. Nel nostro ordinamento, la regola posta dal codice penale con legge ordinaria ( art. 2, commi primo e secondo, cod.pen.) che consentono la infrazione del giudicato quando viene meno la norma incriminatrice per abolitio o illegittimità costituzionale, non ha una copertura costituzionale diretta, diversamente da quanto accade per il divieto di applicazione retroattiva della legge che configura un reato.

Il divieto di applicazione retroattiva della legge che configura un reato è un diritto assoluto e inderogabile discendente dall’art. 25 Cost. che recita appunto: nessuno può essere unito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.

Invece si deve alla elaborazione della Corte costituzionale (v. sent. n. 236 del 2011 e seguenti) il riconoscimento del principio di retroattività in mitius ossia del mutamento del regolamento applicativo di fattispecie, in favor ( basato sul principio di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.), sia pure con la possibilità diintrodurre deroghe o limitazioni alla sua operatività, quando siano sorrette da una valida giustificazione.

Questo è un diritto bilanciabile.

7.4. Tornando al tema principale, la giurisprudenza nazionale ha compiuto l’ulteriore passo, ritenendo che le due evenienze sopra ricordate (abrogazione e illegittimità di norma incriminatrice) sono idonee, per ragioni di economia processuale, a superare anche lo sbarramento della inammissibilità del ricorso: quello che può fare il G.E., può a maggior ragione deciderlo la Cassazione nell’ultimo grado del giudizio di cognizione.

7.5. Per comprendere plasticamente il tema del rapporto tra inammissibilità, causa di non punibilità ex art. 129 c.p.p. e sopravvenienza di incostituzionalità della norma incriminatrice, si pensi al caso che ha dato vita alla sentenza della C. Cost. n. 25 del 2019.

Era accaduto che con sentenza delle SSUU del 2017, Paternò, vi era stato un overturning favorevole in materia di reato ex art. 75 comma 2 d. lgs n. 159 del 2011.

Cioè le SSUU, innovando la precedente giurisprudenza avevano affermato che il reato in questione non sussiste quando la condotta contestata consista nella violazione di prescrizioni troppo generiche quali “vivere onestamente “e “rispettare le leggi”.

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Non trattandosi però di una abolitio criminis sopravvenuta per successione di legge nel tempo o di declaratoria di illegittimità costituzionale, ma di mera interpretazione giurisprudenziale più favorevole per il ricorrente, una sezione semplice della Corte di cassazione (Sez. 2, ord. n. 49194 del 2017, ric. Sorresso) – successivamente adita- si era trovata nella impossibilità di dichiarare insussistente il reato dal momento che era stata investita da un ricorso inammissibile, e operava su un segmento processuale allo stato coperto dal giudicato sostanziale.

Altrimenti detto, il ricorso inammissibile di per sé non consente di rilevare nulla e tantomeno il cambio di giurisprudenza sia pure nel senso della insussistenza del reato.

La Corte Cost. ha condiviso questo ragionamento – che andava ad integrare e chiarire quale fosse il punto della rilevanza della questione rimessa ad essa- ed ha alfine dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. citato (per contrasto con i principi affermati nella sentenza De Tommaso contro Italia); dimodoché la sezione della cassazione rimettente ha potuto superare la inammissibilità del ricorso e rilevare la intervenuta incostituzionalità della norma incriminatrice.

8. Vi sono poi altre ipotesi da analizzare nel rapporto con la inammissibilità del ricorso: quella della estinzione del reato per morte dell'imputato, nonchè la ipotesi della illegittimità costituzionale e delle modifiche normative sopravvenute volte - non ad eliminare il reato - ma ad incidere , attenuandola, sulla pena. Vi abbiamo sopra già fatto qualche richiamo.

8.1. Tale ultimo caso si sdoppia, dunque, in due sotto-ipotesi: una è data dalla dichiarata illegittimità costituzionale e l’altra dalle modifiche normative sopravvenute, entrambe volte - non ad eliminare il reato - ma ad incidere , attenuandola, sulla

pena.

Cosa accade in questo caso: è destinata a prevalere la inammissibilità del ricorso o si supera il giudicato sostanziale per dare attuazione alle innovazioni sopravvenute? La risposta, è stata, ancora una volta, per la seconda soluzione. Il giudicato sostanziale cede alla novità.

8.1.1. Quanto alla prima ipotesi, va ricordata la sentenza delle Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264207. Intervenendo sugli effetti della dichiarazione di incostituzionalità, dovuta a sent. Corte cost. n. 32 del 2014, riguardante il trattamento sanzionatorio introdotto per le cosiddette "droghe leggere" dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, ha affermato che il nuovo e più favorevole assetto normativo derivante da quella declaratoria rendeva “illegale” la pena inflitta in base al previgente disposto normativo e tale illegalità doveva prevalere sulla inammissibilità del ricorso (salvo

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quello tardivo), nel senso che la Cassazione avrebbe dovuto rilevarla di ufficio, annullando.

Ma va ricordata anche la giurisprudenza uniforme della sezione VII che , pur in presenza di ricorso inammissibile, rileva di ufficio la illegalità sopravvenuta ( rispetto alle pronunce antecedenti, dunque al 2018) delle pene accessorie fallimentari ( per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018) ed annulla con rinvio, per la relativa rideterminazione .

L’antecedente logico e storico di questi approdi va ricercato in precedenti sentenze delle Sezioni unite in punto di illegalità della pena sopravvenuta per effetto di declaratoria di illegittimità costituzionale e poteri del G.E.. Si trattava della sentenza Sez. U, 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697, che aveva riconosciuto, con riferimento al potere del GE, la superabilità del giudicato quando interviene la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio (in quel caso era intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma, cod. pen. , sul divieto di prevalenza della attenuante ex art. 73 comma 5 legge stup., in presenza di recidiva reiterata: Corte cost. n. 251 del 2012) .

Ma, ancora prima, Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258649, sempre in tema di poteri del GE, a fronte di un caso di pena applicata in base a disposizione dichiarata incostituzionale dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna (ergastolo in abbreviato), avevano affermato che il divieto di dare esecuzione ad una sanzione penale, contemplata da una norma dichiarata incostituzionale dal Giudice delle leggi, esprima un valore che prevale su quello della intangibilità del giudicato e trova attuazione nell’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 ( evidentemente interpretato in modo estensivo, dato che, letteralmente, si riferirebbe alla retroattività della sola pronuncia che riguardi la norma incriminatrice).

In questi casi, si è registrata, ad opera della giurisprudenza, un’interpretazione estensiva del principio di retroattività - proprio della declaratoria di illegittimità di norma incriminatrice - anche alla declaratoria di illegittimità di norma sul trattamento sanzionatorio, in tal modo ponendo al centro dell’intero ragionamento la ragione della illegalità.

8.1.2. La seconda ipotesi tra quelle sopra preannunciate, richiede una apposita riflessione sui principi generali in punto di rapporto fra modifica normativa in melius riguardante taluni elementi del reato oppure il trattamento sanzionatorio, da un lato, e il giudicato, dall’altro.

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Uno dei principi generali in materia dovrebbe essere quello posto dall’art. 2 cod. pen.

che, mentre al proprio comma secondo prevede il necessario superamento del giudicato nel caso di legge posteriore abrogativa della fattispecie incriminatrice ( come sopra già ricordato), nell’odierno comma quarto prevede che invece il giudicato non sia superabile quando sopravvenga una “legge più favorevole al reo”: comma che è sempre stato interpretato come riferito non solo alla specie ed entità della pena, ma anche ad esempio al mutamento che riguardi soltanto la imputabilità, la antigiuridicità, la colpevolezza, i presupposti per configurare il tentativo punibile o il concorso di persone nel reato (v. Cass., Sez. 6, n,. 3435 del 1979), o l’incidenza sulla prescrizione e sugli altri effetti penali; la procedibilità .

Invece, l’attuale comma terzo dell’art. 2, come introdotto con legge n. 85 del 2006, prevede formalmente una eccezione alla suddetta regola per il caso che , dopo la condanna a pena detentiva, intervenga una legge che preveda, per quello stesso reato, una pena pecuniaria. Tale disposizione stabilisce che la pena detentiva inflitta si converta immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria. In tal modo rapportando il mutamento in melius del regime sanzionatorio alla modalità di intervento sul giudicato prevista dal comma primo dell’art. 2 (superamento del giudicato) anziché al comma quarto ( ostatività del giudicato).

Insomma, il tema che ha avuto un approccio per nulla univoco in giurisprudenza è, stato non solo, quello- analizzato sopra - di come debba rapportarsi al giudicato formale e al giudicato sostanziale ( quindi il riferimento è il potere del giudice della cassazione al quale sia proposto un ricorso inammissibile) il mutamento in melius del trattamento sanzionatorio di un reato, quando sia intervenuto per effetto di una declaratoria di illegittimità costituzionale.

Ma anche quello che riguarda il rapporto tra giudicato ( formale e sostanziale ) e il fenomeno della successione delle leggi nel tempo concernente la sola pena.

Infatti, per riassumere quanto sopra detto, il comma quarto dell’art. 2 indurrebbe a pensare che il giudicato sia immodificabile e insensibile, mentre il comma terzo della stessa norma, offre spunti per affermare il contrario.

Ed in effetti, prima dell’intervento delle Sezioni Unite , la giurisprudenza di legittimità aveva fatto registrare un evidente contrasto sulla possibilità che lo jus superveniens favorevole in punto di pena ( ad esempio in materia di stupefacenti) potesse “vincere”

sull’ormai formato giudicato anche solo sostanziale (v. , per il no, Rv. 260734; per il si, Rv. 260673).

Sono quindi intervenute le Sezioni Unite, avallando il secondo orientamento ed aggiungendo un vincolo in più per il giudice della cognizione.

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In altri termini, riconoscendo il diritto fondamentale dell’imputato a vedersi irrogata una sanzione discendente dalla nuova e più favorevole cornice edittale, le Sezioni Unite hanno affermato che tale diritto, che per altro verso può definirsi come diritto al riconoscimento di una pena “legale”, prevale sul giudicato e può farsi valere sia dinanzi al G.E. che, prima ancora, nella fase della cognizione ed anche in pendenza di un ricorso inammissibile.

Tale nuovo orientamento ha cioè creato una nuova fattispecie di cedevolezza del giudicato, sia quello formale (modificabile in sede di esecuzione) sia quello sostanziale (modificabile in sede di cognizione, anche in presenza di ricorso inammissibile).

Questa è la “cifra” della sentenza Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv.

265111. In essa si afferma che in tema di successione di leggi nel tempo, la Corte di cassazione può, anche d'ufficio, ritenere applicabile il nuovo e più favorevole trattamento sanzionatorio per l'imputato, anche in presenza di un ricorso inammissibile, disponendo, ai sensi dell'art. 609 cod. proc. pen., l'annullamento sul punto della sentenza impugnata pronunciata prima delle modifiche normative "in melius".

Il caso sottoposto al loro esame era quello di una imputazione in materia di sostanze stupefacenti che era stata nuovamente disciplinata con decreti-legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, e 20 marzo 2014, n. 36, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 maggio 2014, n. 79.

Le Sezioni Unite, nella sentenza citata, hanno inquadrato il motivo come

"costituzionalmente imposto" ex artt. 1 cod. pen., 25, secondo comma e 117, primo comma, Cost. nonché 7 § 1, CEDU.

9. 1. Il tema della “pena illegale” ci porta però ancora più lontano, nella ricerca del suo rapporto col ricorso inammissibile.

Infatti, la giurisprudenza fin qui ricordata si è preoccupata di riconoscere la cedevolezza del giudicato quando la “pena” già irrogata (e comunque parliamo di quella ancora non eseguita, come ben sottolineato nella sentenza SSUU Gatto) diventa “illegale” per effetto del fenomeno della illegittimità costituzionale e della successione delle leggi nel tempo. Ma la stessa cosa si può dire con riferimento alla applicazione di una pena “illegale” per effetto di un errore commesso dal giudice “ab origine”?

Il caso tipico è quello della irrogazione di una pena inferiore al minimo edittale o superiore al massimo o di specie diversa da quella irrogabile, come avviene per i reati

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di competenza del GdP in relazione ai quali si disponga la pena originariamente prevista per la competenza del tribunale.

Viceversa, la pena non è illegale ma solo illegittima quando ad esempio comprende errori di calcolo.

Nel solo primo caso, quando nessuna delle parti abbia posto il motivo di impugnazione, può la Cassazione di ufficio, rilevare tale patologia della pena, annullando anche in presenza di un ricorso inammissibile? O prevale la inammissibilità del ricorso e quindi la formazione del giudicato sostanziale?

In ordine a tale problematica si registrano contrasti nella giurisprudenza di legittimità:

per la seconda soluzione Rv 257612, Rv. 229812; Rv. 230636; per la prima soluzione Rv. 262108 e Rv. 225693, le quali fanno leva sulla funzione rieducativa della pena, imposta dall’art. 27, comma 3, Cost., ma anche sui poteri officiosi della Cassazione ex art. 609 comma 2 c.p.p.

Vi sono state, sul tema, le Sez. U, Butera del 2015 che si sono pronunciate su una parte soltanto del quesito: e cioè sul caso in cui la inammissibilità del ricorsi derivi da tardività, stabilendo che in tale ipotesi il ricorso è un simulacro e nessun rilievo di ufficio sui capi della sentenza può essere ulteriormente ammesso.

E negli altri casi di inammissibilità? Ad esempio nel caso di inammissibilità derivante da ricorso presentato personalmente dall’imputato? Allo stato, sul tale aspetto vi sono solo pronunzie delle sezioni semplici nel senso della prevalenza della pena illegale sulla inammissibilità (Rv. 280538).

Permane un certo contrasto, soprattutto nella materia delle sanzioni per i reati di competenza del GdP.

E’ stata dunque rimessa alle Sezioni Unite – dall’ufficio spoglio della Sez. V penale - la seguente questione: «se, in presenza di ricorso per cassazione, inammissibile per ragioni diverse dalla tardività, sia consentito alla Corte di cassazione rilevare ex officio la illegalità della pena, qualora sia stata irrogata in specie diversa da quella legale o in misura superiore al massimo edittale, e non si tratti di illegalità determinata da sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale di norma sul trattamento sanzionatorio e/o da mutamento normativo in melius».

L’udienza è stata celebrata il 31 marzo scorso.

La soluzione non si presentava semplice perché i valori in gioco erano, da un lato la tenuta della nozione di giudicato sostanziale, già incrinata in via di eccezione dalle pronunzie delle SSUU sopra indicate, ma in ragione di meccanismi normativamente

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previsti dal legislatore ( si trattava, come ho già ricordato, degli art. 673 cpp, art. 30 comma 4 della l. n. 87 del 1953, l’art. 2 comma 4 c.p.p.); dall’altra la assoluta rilevanza costituzionale della nozione di pena legale, condizionata dai principi di legalità ( art.

25 Cost.) e proporzionalità ( art. 27 Cost.), che mai, secondo i sostenitori della tesi, potrebbe e dovrebbe essere oscurata dal fatto che il giudice si trova al cospetto di un giudicato.

La sentenza delle SSUU Butera aveva già risolto questa antinomia affermando che entrambi i valori sono da tutelare, ma in sedi diverse: il giudicato inibisce la pronuncia della cassazione e la illegalità della pena può trovare “odience” presso Il G.E..

Tuttavia, dalle informazioni provvisorie, apprendiamo che è stato sovvertito in parte qua l’assetto fino ad ora determinato dalle pronunce delle Sezioni unite è si è affermato- al contrario- che pur in presenza di ricorso inammissibile, spetta alla Corte di cassazione, in attuazione degli artt. 3, 13, 25, 27 Cost., il potere di rilevare la illegalità della pena determinata dalla applicazione di sanzione ab origine contraria all’assetto normativo vigente. Evidentemente in questo caso o il giudicato è stato ritenuto superabile o si è ritenuto che nonostante la inammissibilità determinata dai motivi di ricorso, la patologia abnorme della pena ha radicalmente impedito su quel punto la formazione del giudicato.

L’unica osservazione possibile, peraltro, è che mentre nei casi sopra ricordati, il superamento del giudicato era sempre stato rapportato a meccanismi processuali alternativi e normati, nel caso discusso da SSUU il 31 marzo si è andati oltre è si è contrapposta tout court la elaborazione giurisprudenziale del giudicato sostanziale alla elaborazione, pure giurisprudenziale, della immediata precettività di taluni principi costituzionali in tema di habeas corpus e di libertà fondamentali.

Mi viene da chiedere se questa ricostruzione consenta di salvare oppure no, la affermazione che fino ad ora appariva granitica, per cui il ricorso tardivo è l’unico caso in cui nessuna altra patologia processuale può più essere rilevata. Ed invero, se l’ancoraggio della soluzione deriva dalla diretta operatività dei principi costituzionali sulla legalità della pena, non escludo che qualche interprete possa sostenere che questa operatività non può trovare ostacolo in alcuna forma di giudicato, compresa quella da tardività della impugnazione.

Come seconda riflessione rispetto al semplice contenuto della informazione provvisoria – e salve diverse riflessioni quando conosceremo il percorso argomentativo a sostegno della decisione - vorrei evidenziare che l’ancoraggio di questa anche all’art. 27 Cost. evoca come parametro di riferimento, appunto, la norma che statuendo in punto di capacità rieducativa del trattamento sanzionatorio

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rispetto al condannato, viene comunemente accreditata di statuire in punto di

“proporzionalità della pena”.

Ebbene, può sorgere il dubbio a questo punto, che la soluzione adottata dalle Sezioni unite ( e cioè quella per cui di ufficio queste sono tenute a riportare la pena entro i limiti edittali ) possa per taluno aprire il tema della necessaria constatazione della violazione non solo del limite massimo ( in favor del condannato) ma anche del limite minimo.

E’ indubbio che non rispondono al criterio della proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato come apprezzata dal legislatore, tanto la pena che viola il limite edittale massimo, quanto quella che viola il limite edittale minimo.

Si pensi al caso del giudice che irroghi ad esempio, per l’omicidio doloso e premeditato, la pena dell’omicidio colposo. Sono casi di scuola, è vero, esattamente però come sono “casi limite” quelli che comportano la violazione del massimo edittale.

Verosimilmente la cassazione NON potrebbe correggere di ufficio la pena violativa del minimo edittale, non fosse altro perché a mente dell’ultima riforma dell’art. 593 comma 1 c.p.p. ( dovuto a d. lgs. n. 11 del 2018) neppure al PM è dato più il potere di appellare su tale punto la sentenza di condanna, sicchè il legislatore ha sostanzialmente optato per la formazione di una preclusione processuale non ritenuta in collisione con alcuno dei principi costituzionali.

Vero è però che questo modo di procedere comporta la attuazione “asimmetrica” del principio costituzionale di proporzionalità della pena.

9.2. Il tema della illegalità della pena (diverso, come sopra detto, da quello della illegittimità della pena) deve essere indagato anche perché definisce anche il confine tra ammissibilità e inammissibilità del ricorso avverso sentenza di patteggiamento.

Recita l’art. 448, comma 2 bis, c.p.p. (introdotto dalla riforma Orlando del 2017) che ammissibile è il ricorso contro sentenza ex art. 444 c.p.p., quando si faccia valere la

“illegalità della pena”.

Vi è un primo caso da esaminare che si riallaccia alle ipotesi sopra evocate: la illegalità sopravvenuta della pena che dipenda dalla declaratoria di illegittimità costituzionale del precetto che detta i parametri edittali.

Per tale fattispecie valgono i principi affermati dalla sentenza SSUU Jazouli del 2015, Rv. 264206 secondo cui il patteggiamento fondato sulla norma dichiarata incostituzionale è nullo e sia che venga proposto ricorso per cassazione sul punto, sia

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che invece il ricorso sia presentato per altri motivi, inammissibili, la Cassazione non può esimersi dal rilevare anche di ufficio la detta illegalità sopravvenuta, annullando il patto.

Proseguendo sulla disamina del tema, prescindendo da ipotesi di declaratoria di illegittimità costituzionale, concordo con la giurisprudenza che afferma che rientra nella nozione di pena illegale "ab origine" quella che si risolve in una pena diversa, per specie, da quella stabilita dalla legge, ovvero quantificata in misura inferiore o superiore ai relativi limiti edittali (Rv. 255197; Rv.266080; Rv. 255729 e molte altre).

Ne consegue che non dovrebbe configurare un'ipotesi di pena illegale "ab origine" la sanzione che sia complessivamente legittima ma determinata secondo un percorso argomentativo viziato (ad esempio, erroneo aumento della pena per le circostanze aggravanti, pur muovendo da una pena base corretta). E conseguentemente, dovrebbe risultare inammissibile il ricorso contro la sentenza di patteggiamento che intenda far valere simili errori di calcolo.

Tuttavia, nella giurisprudenza della Corte, su tale tema si registra il fiorire di affermazioni contrastanti.

Così vi sono sentenze che escludono la ricorribilità della sentenza di patteggiamento quando si faccia valere un errore nel bilanciamento fra circostanze (Rv. 282104; Rv.

276509) e sentenze che invece la ammettono (Rv. 280626; Rv. 259894); fra sentenze che la escludono quando si contesta il mancato aumento per continuazione (Rv.

279080; Rv. 250966) e circostanze che l’ammettono a condizione che l’errore determini una pena univocamente mancante di un aumento (Rv. 278970); la maggioranza delle sentenze poi la escludono quando si denuncia un erroneo computo della recidiva (Rv. 275915) e più in generale quando si contestino i calcoli intermedi ma non può definirsi illegale il risultato finale(Rv. 233185; Rv. 257151).

Ebbene, con riferimento al tema della configurabilità o meno di “pena illegale” nel patteggiamento quando si contesta il bilanciamento tra circostanze eterogenee, è stata rimessa la questione alle Sezioni Unite, dalla V Sezione. Ancora da fissare.

10. Altro caso in cui il ricorso inammissibile non produce l’effetto del giudicato sostanziale è quello della dichiarazione di estinzione per remissione di querela, perfezionatasi in pendenza del ricorso per cassazione, appunto inammissibile (Sez. U, n. 24246 del 25/02/2004, Chiasserini, Rv. 227681). Il supremo Collegio, in tal caso, ha voluto differenziare il trattamento della remissione di querela rispetto a quello delle altre cause di non punibilità di cui all’art. 129 cod. proc. pen. in ragione della disciplina

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dettata dall'art. 152, 3 comma, c.p., a norma del quale essa "può intervenire solo prima della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti" e va configurata come diritto potestativo della persona offesa che aveva determinato l’avvio del processo con querela. Qui la inammissibilità del ricorso NON prevale sulla causa estintiva del reato

11. Va infine considerata la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen., richiesta in regime transitorio dinanzi alla Cassazione: causa che le Sezioni Unite (n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266593) hanno ritenuto rilevabile anche in presenza di ricorso inammissibile rimarcandone la capacità di operare come una depenalizzazione in concreto .

In tutti i casi menzionati, la inammissibilità del ricorso viene “vinta”, cede, di fronte al dovere di rilevare con priorità che il reato è stato abrogato, che il reato è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, che vi è stata una modifica normativa o una pronuncia di illegittimità costituzionale sul trattamento sanzionatorio che abbiano reso la pena illegale; che il reato è estino per morte dell’imputato o per remissione di querela, che la condotta è divenuta ( in regime transitorio) non punibile ex art. 131 bis c.p.; che la pena era ab origine illegale.

12. Perché fosse più chiaro il panorama nel quale ci muoviamo, ho voluto richiamare a valle di questo excursus e all’esito della illustrazione dei casi in cui la elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni Unite ha ora imposto, ora escluso la prevalenza del giudicato sostanziale su talune cause di non punibilità ex art. 129 e sullo jus superveniens in tema di pena, il caso oggi in auge nelle sedi di confronto e commento, riguardante la nuova causa di improcedibilità introdotta dalla riforma Cartabia con l’art. 344 bis c.p.p.

Che rapporto è ravvisabile tra la nuova causa di improcedibilità della azione penale ( che scatta se la fase della cassazione è superiore a un anno) e la avvenuta presentazione di un ricorso inammissibile?

Vi risparmio i tanti articoli di “dottrina” comparsi sull’argomento, articoli che talvolta tendono a sostenere che il fondamentale diritto all’oblio e alla ragionevole durata del processo costituenti la ratio della improcedibilità, imporrebbero di ritenere la detta declaratoria non condizionabile da incidenti quali la inammissibilità del ricorso.

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Si tratta tuttavia di un argomento che la giurisprudenza di legittimità non può che affrontare con gli strumenti ermeneutici fino a qui rievocati e secondo gli schemi logici che si sono venuti delineando.

Sicchè, ancor una volta appare difficile allontanarsi dal percorso ermeneutico secondo cui la inammissibilità del ricorso non consente di apprezzare alcun evento processualmente rilevante che si sia verificato dopo la pronuncia della sentenza di merito impugnata col ricorso.

In tal senso si è espressa la sola sentenza della cassazione ( rectius Ordinanza perché emessa dalla VII sezione, n. 43883 del 2021) che ha toccato l’argomento:

richiamandosi alle sentenze delle SSUU sul rapporto tra inammissibilità e prescrizione, ha affermato che la rilevata inammissibilità del ricorso osta alla declaratoria di

"improcedibilità".

In altri termini, non deve trarre in inganno il disposto dell’art. 129 comma 1, cpp che impone la immediata rilevazione delle cause di non punibilità (tra le quali quella della improcedibilità). La norma va infatti calata nella fase, come avvertito da tutte le Sezioni Unite sopra riportate e dunque opera nella sola misura in cui la fase lo consente. Se la fase del giudizio di cassazione non si è mai aperta per effetto di un ricorso inammissibile, il 129 non può operare.

13. Altra implicazione da sondare è quella tra ricorso inammissibile ed effetto estensivo della impugnazione proposta da coimputato.

La giurisprudenza di legittimità riconosce che l'inammissibilità dell'impugnazione non è di ostacolo , per l’imputato, ad avvantaggiarsi dell’effetto estensivo ; non impedisce, in altri termini, la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione qualora un diverso impugnante – coimputato nel medesimo reato - abbia proposto un valido atto di gravame, lucrando per se la prescrizione e sempre che i motivi di ricorso di quest’ultimo non fossero personali.

Vuol dirsi che l'effetto estensivo dell'impugnazione produce i suoi effetti anche con riferimento all'imputato (non ricorrente o) il cui ricorso sia inammissibile ed indipendentemente dalla fondatezza dei motivi dell'imputato validamente ricorrente, purché di natura non esclusivamente personale, sia quando la prescrizione sia maturata nella pendenza del ricorso, sia quando sia maturata antecedentemente. E’

cioè successo nella pratica che uno degli imputati avesse proposto un motivo di ricorso riferito al momento consumativo del reato e la Corte, nell'accoglierlo, ha dichiarato la prescrizione, estendendo la declaratoria al coimputato il cui ricorso era

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