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Le grottesche nelle arti applicate Capitolo V

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Academic year: 2021

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Le grottesche nelle arti applicate

5.1 Il ruolo delle incisioni

La decorazione a grottesche, grazie alle peculiarità che la caratterizzavano, si prestava ad ornare qualsiasi superficie, perciò presto si diffuse il suo utilizzo anche nelle arti applicate. La stampa ebbe un ruolo fondamentale contribuendo al successo di questo decoro: presto la conoscenza delle grottesche si propagò in tutt’Italia e giunse in Europa; interessati all’acquisto di tali incisioni erano sia gli eruditi collezionisti di cose antiche, sia gli artisti che le usavano per trarvi spunto per nuove opere.

Tra i primi incisori ad interessarsi alle grottesche fu Nicoletto da Modena, il quale certamente ebbe l’opportunità di vedere di persona le antiche pitture parietali della Domus Aurea, infatti, all’interno della residenza è stata rinvenuta la sua firma accanto alla data 15071. Nelle incisioni di Nicoletto da Modena sono comunque compresenti riferimenti anche a grottesche o motivi vegetali ripresi da diverse opere; egli è inoltre tra i primi incisori ad utilizzare il motivo dei satiri incatenati tratto dalla Volta Gialla e che godette di grande popolarità nella decorazione a grottesche per tutto il XVI secolo. Spesso le sue calcografie constano di una scritta in latino incorniciata dal nostro decoro che, di fatto, non presenta alcun legame iconografico con la didascalia ma serve solamente come ornamento “all’antica” (figg. 1-2).

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Un altro artista che contribuì alla diffusione delle grottesche tramite le sue incisioni fu Giovanni Antonio da Brescia; anch’egli fu a Roma attorno al 1517 e portò l’ornato ad assumere forme più libere che sembrano risentire dell’influenza delle creazioni del Signorelli nel Duomo di Orvieto2 (fig.3).

Tra i più importanti incisori di grottesche della seconda metà del Cinquecento fu Enea Vico, del quale poco è noto riguardo la sua formazione e si ipotizza possa esser stato allievo del Parmigianino poiché questo è ciò che induce a pensare il suo soprannome, sebbene la città natale dell’incisore possa essere una già valida spiegazione di tale nomignolo. Ben presto il Vico si dedicò allo studio dell’Antico e tale interesse, ben lungi dal rappresentare solo una fase del suo percorso, lo portò a divenire un antiquario che godeva di grande stima da parte di illustri committenti. Attorno al 1540 Enea Vico giunse a Roma e nella Città Eterna, come molti artisti prima di lui, cominciò uno studio oculato delle antichità romane; ma al contempo, ebbe l’opportunità di conoscere importanti editori che gli permisero di stampare le sue incisioni.

Nella città del Papa, infatti, il Vico entrò in contatto sia con Lafrery che con Tommaso Barlacchi: quest’ultimo, fu l’editore della prima serie di calcografie firmate dall’autore che consta di ventiquattro tavole ed è nota col nome di Leviores et

(ut videtur) extemporaneae picturae quas grotteschas vulgo vocant quibus romani illi antiqui ad triclinia aliaque secretiora medium loca exornanda utebantur e pluvi. concamerationib. Parietibusque antiquis variae desumptae ac summa fide diligentiaque in unum redactae. Di fatto, questa serie assunse il nome, spesso

abbreviato e limitato alla prima parola, dalla didascalia esplicativa presente nel primo foglio: come si evince da questa, si tratta di incisioni di grottesche liberamente ispirate a quelle presenti nella Domus Aurea. Innanzi tutto, occorre precisare che non esistono documenti che comprovino il passaggio di Enea Vico all’interno della residenza neroniana, perciò è difficile stabilire se l’artista abbia o meno studiato le

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113 pitture antiche dal vero; d’altronde, anche nella didascalia si fa riferimento a delle rielaborazioni (figg. 4-5-6).

Forse il Vico trasse spunto anche dagli affreschi contemporanei che riproponevano la decorazione a grottesche sotto una nuova veste, più in linea con il gusto del fruitore cinquecentesco; di certo, l’ornato che compare nella serie Leviores presenta una ricerca della teatralità tipicamente manierista. Gli studiosi, a proposito delle calcografie del Vico, hanno evidenziato una chiara influenza dalle incisioni di Marcantonio Raimondi ed in genere degli artisti della sua cerchia, come Agostino Musi detto il Veneziano e Marco Dente da Ravenna; la compresenza di diverse matrici giustapposte sembra d’altronde caratterizzare proprio lo stile incisorio dell’artista parmense3

.

Le incisioni di motivi a grottesca si diffusero anche in Francia dove Jacques I Androüet Du Cerceau fu autore del Livre de Petites Grotesques pubblicato nel 1562 e del Livre de Grandes Grotesques del 1582 (fig. 7): con le sue acqueforti contribuì alla diffusione di questo ornamento in Europa ed Étienne Delaune, con le grottesche a serpentina, proseguì il suo cammino4.

Infine, parte importante della diffusione delle grottesche in territorio europeo l’ebbero gli incisori fiamminghi, tra cui spicca in modo particolare il nome di Cornelis Floris5.

3 Bodon 1997, pp. 12-34 e 54-56. 4 Zamperini 2007, pp. 188-191.

5 Per approfondimenti sul tema dei pittori e degli incisori fiamminghi che diffusero le grottesche in Belgio vedi Dacos 1964.

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5.2 La maiolica

Anche nell’ambito della maiolica non è raro trovare la decorazione a grottesche, che con l’andar del tempo venne elaborata, rivisitata con una notevole quantità di varianti che determinerà poi anche decorazioni diverse: un esempio ne sono le cosiddette “raffaellesche” (fig. 8). Ma questa variante, com’è facilmente intuibile, pur derivando sempre dagli studi inerenti il ritrovamento della Domus Aurea, trovano un più ampio spazio nell’ambito del territorio dello Stato Pontificio, in particolare nel Ducato d’Urbino.

Per quel che concerne invece più strettamente la Toscana, credo sia interessante soffermarsi brevemente sugli acquisti documentati dagli inventari della famiglia Medici, specie per quel che riguarda Cosimo I e il suo primogenito Francesco. Grazie agli studi oculati condotti da Spallanzani oggi siamo a conoscenza dei gusti in materia del secondo Duca di Firenze e, successivamente, Granduca di Toscana; le sue commissioni si orientano prevalentemente in due direzioni: maiolica italiana e porcellana cinese6. Per quel che concerne la maiolica, buona parte degli acquisti riguardarono Venezia7, Faenza e Urbino. Sebbene gli inventari non ci restituiscano una descrizione esatta dei manufatti che possa permetterci una identificazione certa dell’oggetto presente nella guardaroba medicea con manufatti che sono giunti fino a noi, senz’altro sappiamo che un cospicuo ordine di maioliche a grottesche venne richiesto nel 1573 dal Principe Francesco. Egli, infatti, commissionò a Flaminio Fontana e alla sua bottega urbinate “due vasi grandi, due minori, due mezzinette, due scodellette, un bacile e un’ampolla”8

tutte decorate con grottesche (fig. 9).

La decorazione “ a grottesche”, presente anche nelle maioliche montelupine, è stata suddivisa dal Berti9 in quattro tipologie, basate sugli ultimi ritrovamenti dal 1973 in

6

Spallanzani Ceramiche nelle raccolte medicee, in Le Arti del Principato Mediceo, 1980, pp. 73-94. 7

Un documento del 1544 attesta che vennero comprate ben 380 maioliche veneziane da Eleonora da Toledo come dono per suo padre, il Viceré di Napoli. Vedi Spallanzani 1980, op. cit., p. 79.

8 Spallanzani 1980, op. cit., p. 83.

9 F. Berti, Le ceramiche da mensa dal 1480 alla fine del XVIII secolo, in Storia della ceramica di

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115 poi nel noto centro di produzione toscano. Queste quattro categorie sono differenziate dalla cromia utilizzata per gli sfondi, individuando quindi: la “grottesca su fondo blu”, la “grottesca su fondo rosso, giallo e blu”, la “grottesca su fondo bianco” ed, infine, la “grottesca su fondo arancio”.

La grottesca su fondo blu è presente anche a Faenza, dove però è tipicamente costituita da delfini stilizzati, oppure a Gubbio, dove è formata da palmette stilizzate. A Montelupo sono presenti tutti questi motivi, ma con un diverso cromatismo e lo stemma mediceo centrale. Questo tipo di grottesca era molto diffusa soprattutto nei primi decenni del XVI secolo. In particolare, vediamo un versatore del 1520-’30 (figg. 10-11), con delle grottesche su fondo blu composte da targhe, uccelli, tendaggi, volute vegetali e una figura centrale alata che sostiene sul capo un’anfora biansata. L’intensità dell’insieme è dovuto non tanto agli inserti in rosso e giallo, quanto piuttosto alla tecnica usata per la campitura delle figure che procede per velature di colore, sempre con l’ossido di cobalto, in modo da ottenere un effetto notturno. F. Berti sostiene che il manufatto è assegnabile alla bottega che marca i suoi prodotti con la sigla “LO” per due motivi: innanzitutto, sul piede appare un “nodo graffito” che è un tipo di decorazione ben attestato in questa fornace, inoltre, sotto la targa in giallo sui fianchi del versatore c’è una sigla incompleta ma comunque riconducibile a questa bottega.

La grottesca su fondo rosso, giallo e blu offre la possibilità di osservare uno dei piatti più belli, a mio avviso, presenti al Museo della Ceramica di Montelupo ( fig. 12), ed anche uno dei suoi più recenti acquisti (è stato acquistato dal sopraccitato Museo nel 2004, dopo esser stato parte della collezione Gustave Rotschilde poi Alain Moatti). Il piatto è decorato a grottesche fin dal centro racchiuso in una umbonatura come una ghirlanda dove compare la testa di un putto con due cornucopie, simbolo dell’abbondanza, e un cesto di frutta che un grande uccello sta beccando. Proseguendo dal centro verso l’esterno, dopo la ghirlanda gialla profilata in blu, abbiamo una fascia decorata con teste di putti, delfini, cornucopie e tralci vegetali su fondo rosso, profilate in blu, mentre le figure sono lumeggiate in giallo. Vediamo poi una fascia con “armi e trofei” con la targa SPQR, su fondo arancio, di un cromatismo

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molto simile a quello senese. Infine sulla tesa del piatto, le grottesche sono su fondo tricromato: blu, giallo e rosso. Qui, una coppia di putti sostiene con una mano un filo di perle mentre con l’altra regge un bastone dalla testa zoomorfa, al centro della rappresentazione speculare c’è nuovamente la targa SPQR e sotto compare un granchio. Secondo la mia opinione il granchio qui presente è un riferimento astrologico al simbolo del cancro, probabilmente il segno zodiacale del committente del piatto. Dei quattro granchi presenti nella decorazione, due sostengono la targa SPQR, mentre due SPQF alternativamente, con chiaro riferimento al popolo fiorentino. Dalle ali dei due putti si materializzano due delfini dalla cui bocca sgorgano geni che, a loro volta, si voltano a sfamare i delfini. Sopra i geni dei putti alati compare una tartaruga che con la bocca regge un cartiglio arancio. Questo splendido piatto maiolicato, a parer mio, meriterebbe degli studi più approfonditi dato che, soprattutto a livello iconografico, potrebbe rivelarci interessanti sorprese nel futuro. Infine, F. Berti sottolinea la vicinanza dei temi decorativi di questo manufatto con quelli del pavimento di Palazzo Petrucci a Siena. Sia il piatto che il pavimento sono datati 1509. Inoltre, il particolare della grottesca che sostiene il cesto di frutta che un uccello va a beccare trova chiaro riferimento al pavimento Petrucci. Dato che lo studioso ha inserito questo piatto nella produzione montelupina, se ne deduce un’ipotesi da parte del Berti, non apertamente esposta, il quale sembra voglia indurci a pensare che forse anche il pavimento possa essere di origine montelupina. Anche se, sottolineerei, che l’ipotesi sembra un po’ bizzarra, visto che già Siena vantava nello stesso periodo una rinomata tradizione ceramica. Tra i pavimenti maiolicati a grottesca di più sicura produzione montelupina spicca quello conservato ancora in loco nella Villa nota come la Casarotta a San Casciano in Val di Pesa (fig. 13).

La grottesca su fondo bianco, invece, è presente a Montelupo così come in altri centri di produzione ceramica italiani dello stesso periodo. Per questa tipologia vediamo un piatto con lo stemma della famiglia toscana Del Troscia (Fig. 14).

La grottesca su fondo arancio presente a Montelupo si ispira senz’altro alle fasce campite di arancio tipiche senesi, ma da queste si differenzia per una andamento più

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117 corsivo e spigliato. In questo caso si pone ad esempio un piatto campaniforme su cui è dipinto il simbolo della pace: due mani che si stringono sopra il cartiglio “FEDE” (fig. 15). Questo manufatto viene attribuito alla produzione montelupina per la presenza di rosette puntinate, dei rombi apicati in rosso ed, infine, per la forma a campana attestata in questa zona.

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