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1. L’AZIENDALIZZAZIONE DEGLI ENTI LOCALI

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1. L’AZIENDALIZZAZIONE DEGLI ENTI LOCALI

1.1 Le caratteristiche delle pubbliche amministrazioni

Le amministrazioni pubbliche, statali, regionali, provinciali e comunali hanno il compito di gestire le risorse reperite dalla collettività nel miglior modo possibile. I cittadini, infatti, destinano parte della loro ricchezza allo Stato, inteso come complesso di unità organizzative che si inserisce nel contesto economico nazionale, con l’obiettivo di ricevere in cambio prodotti e servizi che siano in grado di soddisfare le proprie esigenze.

Tuttavia spesso valori quali uguaglianza, equità ed assistenza, irrinunciabili per uno Stato che voglia assolvere adeguatamente la propria funzione sociale, sono stati utilizzati per giustificare un utilizzo discutibile delle

risorse collettive1.

Una simile tesi è evidentemente errata per due ordini di motivi. In primo luogo, perché le amministrazioni pubbliche devono tendere al raggiungimento

dell’equilibrio economico avvalendosi di una gestione efficiente ed efficace2

1 Così anche Mussari (1994: p. 33): “Socialità, equità, pari opportunità, tutti valori promossi dal

modello di «Stato sociale», non possono e non devono coincidere con spreco, inefficacia, malfunzionamento ed utilizzo inefficiente delle risorse”.

2 Della stessa opinione è Anselmi (2003: p. 114): “le amministrazioni pubbliche sono istituzioni

per quanto riguarda il formarsi della loro volontà strategica, ma dovrebbero comportarsi come aziende per tutto ciò che riguarda la produzione dei servizi che esse mettono a disposizione dei cittadini”.

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come ciascuna unità elementare operante sul mercato3. In questo modo si

supera altresì la tradizionale convinzione che contrappone le aziende di produzione, unità private aventi scopo di lucro, a quelle di erogazione, entità non-profit dedite al soddisfacimento dei bisogni della collettività.

A tal proposito Anselmi ribadisce che “oramai sono cadute le grandi contrapposizioni di fine, di rischio e di forma giuridica tra aziende «private» ed aziende «pubbliche» e mai come in questi anni si ha il pieno ricongiungersi

delle varie «membra» del fenomeno aziendale ad unità”4.

In secondo luogo, perché le amministrazioni pubbliche - in particolare gli enti locali, oggetto principale di questo studio - finirebbero per perdere di credibilità agli occhi del proprio soggetto economico, ossia la collettività, non gestendo al meglio le risorse affidate loro.

Infatti, se per le aziende assoggettate alla disciplina del diritto fallimentare il continuo riproporsi di situazioni di diseconomicità porta al fallimento, non è possibile pensare che una simile patologia possa essere priva di effetti per gli enti pubblici. Le conseguenze della stessa si manifesteranno sotto altre forme, certamente meno evidenti, ma ugualmente devastanti per il futuro dell’amministrazione.

A riguardo appare estremamente lucida e condivisibile l’opinione di Mussari, il quale sostiene che “il «fallimento» della P.A. è la sua

3 Per la definizione completa di azienda si rimanda a Giannessi (1960).

4 Anselmi (2003: p. 55). Inoltre per una trattazione organica delle varie differenze si rimanda

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delegittimazione”5. Anche Ferrara evidenzia che “il sistema tradizionale appare,

inoltre, minato nella sua sopravvivenza dal venir meno del necessario consenso collettivo a causa di una diffusa insoddisfazione da parte dell’utenza che, viceversa, è andata progressivamente assumendo caratteristiche di maggiore possibilità di spesa, capacità di valutazione e selezione dell’offerta, profonda consapevolezza dei propri diritti e delle necessità di un utilizzo razionale delle

sempre più scarse risorse collettive”6.

Merita a questo punto ricordare quali sono, secondo gran parte della dottrina, le principali cause che hanno progressivamente ridotto la fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato e portato la cosa pubblica ad essere sinonimo di mala gestio.

A tal proposito, si analizzeranno: la frequente sovrapposizione di ruoli fra politici e dirigenti, la posizione monopolistica delle pubbliche amministrazioni, la cultura di stampo burocratico e la scarsa attenzione alle variabili economiche. Quest’ultimo aspetto verrà affrontato in un paragrafo a sé stante per un inquadramento generale e successivamente sarà trattato nel terzo capitolo in relazione al Comune di San Miniato, oggetto del presente lavoro.

1.1.1 La confusione fra politica e amministrazione

5 Pensiero raccolto nell’opera di Mele e Popoli (1994: p. 267). 6 Ferrara (1997: p. 375).

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8 L’influenza delle scelte politiche sulla gestione è un aspetto che contraddistingue le pubbliche amministrazioni da ogni altra realtà economica e non potrebbe essere altrimenti se consideriamo il percorso che porta i soggetti di indirizzo al vertice di tali organizzazioni. I vari esponenti delle fazioni politiche, chiedendo il voto ai cittadini durante la campagna elettorale, si impegnano nei loro confronti a realizzare i punti del programma di mandato. Una volta eletti dovranno cercare di rispettare le promesse fatte, pena la loro delegittimazione e la perdita del consenso popolare.

Spesso questa influenza politica sulla gestione viene vista negativamente dalla collettività a causa dell’uso che ne è stato fatto e che ha reso negativo un tratto tipico ed indispensabile delle aziende pubbliche. Infatti, i vari presidenti, sindaci e assessori (per limitarci a figure regionali e comunali)

hanno spesso preferito perseguire fini individuali e clientelari7, orientando in tal

senso anche l’operato della sfera amministrativa (dirigenti e dipendenti), piuttosto che rispettare le promesse di mandato ed utilizzare con razionalità le risorse disponibili.

È senza dubbio molto attuale, anche se risale a più di un decennio fa, la riflessione di Garlatti e di Pezzani: “L’intervento pubblico nell’economia è stato più subordinato a logiche di tipo politico-assistenziale che non a criteri di

7 Anche Mele-Popoli (1994: p. 53): “Non pare che sussistano motivi che portino ad escludere

l’assunto egoistico [...] quale chiave interpretativa del comportamento degli uomini politici.” E ancora: “Il problema della congruenza dell’obiettivo si pone dunque in termini di coincidenza tra interessi collettivi e interessi propri degli uomini politici”.

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9 razionalità economica quindi orientato alla raccolta del consenso e al

compattamento delle compagini di governo nei differenti livelli istituzionali”8.

Lo Stato non deve rinunciare al proprio ruolo di welfare in favore del

rigido rispetto dei criteri economici; al contrario i politici devono continuare ad influenzare la gestione nel senso positivo del termine, ossia adempiendo adeguatamente le proprie funzioni di indirizzo e controllo.

Al tempo stesso, si può quindi esigere che ciò avvenga nella maniera più economica possibile, ovvero senza sprechi ed inefficienze, perché razionalizzare l’uso delle risorse consente di erogare, a parità delle stesse, più

servizi alla collettività9.

In chiave aziendale i ruoli e le aree di competenza delle sfere in esame – politica e amministrativa – devono essere ben chiare e distinte al fine di evitare la formazione di figure ibride dato che “questo scambio di funzioni e ruoli che sembra abbastanza comune nel nostro paese è certamente motivo di indebolimento dell’azione pubblica e ha, d’altro canto, gran peso nel processo

di delegittimazione della P.A.”10.

In un simile contesto si sono trovati ad operare dirigenti pubblici di fatto privi della necessaria autonomia che dovrebbe essergli riconosciuta,

8 Garlatti-Pezzani (2000: p. 7).

9 Cfr. Garlatti-Pezzani (2000: pp. 126-127) e Mele-Popoli (1994: pp. 192-193). 10 Mussari (1990: p. 284).

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10 deresponsabilizzati e demotivati dalla costante ingerenza dei politici nell’attività

gestoria11.

Questa confusione di ruoli deve lasciar spazio a un modello non tanto dicotomico, poiché una netta separazione fra politica e amministrazione si è rivelata impossibile oltre che sconsigliabile, ma piuttosto aziendale, in cui le due

sfere dialogano e collaborano per il raggiungimento economico di fini sociali12.

Quindi, concludendo, i rappresentanti eletti dal popolo dovranno:

a) indirizzare l’operato dell’ente verso gli obiettivi previsti dal

programma di mandato;

b) affidare la gestione ai dirigenti, i quali dovranno ispirare il proprio

operato ai principi dell’economia aziendale;

c) controllare, non solo ex-ante (attraverso l’approvazione dei

documenti autorizzatori), che gli obiettivi siano stati raggiunti o quantomeno perseguiti.

1.1.2 La posizione monopolistica

11 Pozzoli (2001: p. 29), ricorda che: “Il sovrapporsi di ruoli, per altro, continua a manifestarsi in

tutta evidenza nei comuni di minore dimensione, dove il sindaco normalmente è in grado di seguire l’intera attività dell’ente e tende quindi ad affidare agli assessori [...] una attività di tipo dirigenziale. Da qui un inevitabile conflitto con chi dirigente lo è davvero”.

12 Per una trattazione esaustiva del tema esposto si vedano Mussari (1994: pp. 119 e ss) e

Mele-Popoli (1994: pp. 192 e ss). Inoltre Del Bene (1993: p. 55), ricorda che: “Integrazione e cooperazione non significano però confusione di ruoli come spesso è accaduto, [...] in situazioni nelle quali i politici hanno superato i limiti istituzionali posti alla loro azione, ingerendosi in questioni tipicamente gestionali o, viceversa, i tecnici hanno ritenuto conveniente [...] la commistione con tematiche politiche in modo da allargare la propria sfera di potere”.

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11 Un altro aspetto che certamente ha influenzato la gestione delle aziende

pubbliche13 è stata la posizione monopolistica ricoperta per anni in molti settori

(trasporti pubblici, poste, telecomunicazioni, telefonia, elettricità, istruzione, sanità, ecc.). Ciò ha portato lo stato ad assumere atteggiamenti di chiusura e autoreferenzialità che, in un arco temporale di lungo respiro, certamente non hanno giovato ai cittadini. Infatti, mentre lo scenario economico è mutato velocemente, richiedendo nuove soluzioni per gli emergenti bisogni della collettività, le aziende pubbliche hanno riproposto per anni un modello gestionale obsoleto: “il fatto che le aziende pubbliche operano in posizione di monopolio, seppure spesso apparente, rende assai frequente la tendenza alla

conservazione [...] piuttosto che quella al rinnovamento”14.

Questa situazione è stata rafforzata dalla modalità di reperimento delle risorse propria degli enti pubblici, ossia il prelievo coattivo; infatti, a differenza

13 Secondo Farneti (1995: p.9) “Quando il soggetto aziendale, costituito dalle persone che

dominano l’attività dell’azienda e che si qualificano come suo punto di riferimento, appartiene ad un soggetto pubblico, allora l’azienda è pubblica ed il soggetto economico si situa esternamente alla gestione operativa, allocandosi presso gli utenti-consumatori che in quanto tali perdono ogni possibilità diretta di gestione e controllo delle operazioni che li coinvolgono, potendo concorrere come cittadini soltanto alla nomina degli organi volitivi degli enti gestori. Di più, i bisogni che le aziende di erogazione pubblica devono soddisfare non sono riconducibili ad una remunerazione attesa, ma alle esigenze della vita sociale: la sicurezza, l’istruzione, l’assistenza sanitari, lo sviluppo economico, la tutela dell’ambiente, ecc”. Per D’Alessio (1989: p.40) “Sono aziende di erogazione pubbliche quelle dirette e governate nel nome di un soggetto giuridico pubblico [...]. Lo Stato è un’azienda di erogazione divisa e, al suo interno, si possono riscontrare varie realtà aziendali di erogazione, di tipo pubblico territoriale, istituzionale ed unità produttive con personalità giuridica di diritto privato (le partecipazioni statali) governate da un soggetto economico pubblico”.

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12 delle realtà private, gli utenti sono anche contribuenti e, in quanto tali, soggetti alla tassazione prevista dalla legge.

Questo aspetto giuridico ha avuto notevoli ripercussioni anche a livello aziendale dato che le risorse finanziarie così ottenute non sono in alcun modo legate alla capacità di soddisfare i bisogni della clientela e, quindi, non

rispecchiano la qualità dei servizi offerti15.

Entrambi gli aspetti considerati – assenza di concorrenza e reperimento coattivo delle risorse – hanno ridotto progressivamente l’attenzione delle realtà pubbliche verso il principio economico dell’efficienza. Infatti, è evidente che nel quadro delineato non ci siano reali stimoli a gestire in maniera ottimale le risorse di cui si dispone, dal momento che non si rischia di essere scalzati dai

competitors e le entrate sono comunque assicurate16.

Per concludere occorre ricordare che negli ultimi anni il legislatore si è proposto di risolvere la problematica analizzata introducendo una maggiore

competitività nell’erogazione dei servizi tradizionalmente pubblici,

privatizzandone e liberalizzandone la gestione. Questi aspetti, sebbene non siano da soli garanzia di successo, sicuramente rappresentano un valido strumento per riportare l’operato pubblico sulla via dell’efficienza.

15 Si veda anche Mussari (1994).

16 A riguardo Mussari (1994: p. 174): “L’azienda composta pubblica è, nella gran parte dei casi,

sottratta ad ogni forma di concorrenza diretta e tale circostanza, da un lato, riduce gli incentivi a contenere i costi e ad incrementare l’efficienza e, dall’altro, non genera una serie di informazioni (prezzi di mercato per esempio) disponibili per le imprese ed utili per il miglioramento delle performance e della qualità della prestazione erogata”.

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13 1.1.3 La cultura burocratica

Il termine burocrazia ha generalmente un’accezione negativa e significa “in senso astratto il potere assunto negli stati moderni [...] dalla massa dei funzionari” e, più precisamente, indica una “osservanza esagerata dei

regolamenti”17. Tale fenomeno è stato studiato in maniera approfondita

dall’economista Weber, il quale definisce la burocrazia come un “potere legale-razionale” basato “sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti, e del diritto di comando di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere [...] in base

ad essi”18. Secondo lo studioso l’apparato amministrativo burocratico –

composto da funzionari specializzati, selezionati mediante un esame e organizzati in uffici nei quali vige una rigida distinzione fra competenze e

gerarchie – “è il modo formalmente più razionale di esercizio del potere”19.

Infatti, lo stesso Weber ricorda che l’amministrazione burocratica si ispira, fra gli altri, al principio della conformità agli atti, il quale assicura agli interessati (la collettività nel caso degli enti pubblici locali) “precisione, continuità, rigore,

affidamento”20.

Sebbene inizialmente fosse nata per garantire la rispondenza dell’operato dei pubblici funzionari alle leggi vigenti, la burocrazia ha finito per

17 Definizione tratta dall’Enciclopedia Treccani: http://www.treccani.it/vocabolario/burocrazia. 18 Weber (1980: p. 210).

19 Cfr. Weber (1980: p. 215-217). 20 Weber (1980: p. 217).

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14 irrigidire la gestione degli enti a tal punto da compromettere la loro capacità di adeguarsi alle mutevoli esigenze dei cittadini. Anche Mussari rileva che “la meticolosa osservanza da parte dei burocrati di norme e regolamenti [...] è la causa prima della loro incapacità di apprendere ed adattarsi alle variate

situazioni d’ambiente” 2122.

In un contesto del genere anche l’attività di controllo ha cambiato il proprio oggetto d’indagine; essa, invece di indagare sulle cause di scostamento fra obiettivi e risultati (ruolo che tradizionalmente riveste), si concentra sulla correttezza formale degli atti, sull’attività amministrativa e sulla necessità di

adempiere agli obblighi legislativi23.

La logica burocratica, infatti, focalizza l’attenzione del personale “sugli aspetti formali, prevalentemente di stampo giuridico-amministrativo, ritenendo non prioritari gli aspetti di organizzazione, gestione e rilevazione, tipici della

cultura e delle competenze dell’economia aziendale moderna”24. Questa

modalità di operare è in netto contrasto con i principi aziendali che il legislatore

auspica – sin dall’emanazione della lontana legge n. 142/9025 – possano essere

fatti propri dalle pubbliche amministrazioni.

21 Mussari (1994: p. 20).

22 Sul tema anche Miolo Vitali (1997: p. 368): “Le numerose leggi, circolari, regolamenti hanno

prodotto [...] «una macchina burocratica» farraginosa, inefficace e costosa che agisce per se stessa”.

23 Cfr. Farneti (1999/2). 24 Miolo Vitali (1997: p. 368).

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15 L’interpretazione dello stesso dettato normativo viene portata avanti secondo il criterio adempimentale, ovvero considerando le innovazioni introdotte come degli obblighi da assolvere con il minor dispendio possibile di energie per rimanere “arroccata su sistemi di gestione e modelli di

comportamento vetusti” 26.

Tutti questi aspetti, congiuntamente considerati, contribuiscono a spiegare perché il processo di aziendalizzazione degli enti locali, iniziato oltre

un ventennio fa, sia ancora tutt’altro che completato27.

26 Mussari (1990: p. 277). Inoltre si veda la stessa opera per una sintesi degli effetti che la

cultura burocratica ha sulla gestione delle pubbliche amministrazioni.

27 Ricordano, a tal proposito, Mele-Popoli (1994: p. 56): “Si assiste così ad aziende pubbliche

ove vengono introdotte la programmazione, la contabilità analitica, ecc. – magari definendo strumenti tecnico-contabili ineccepibili – ma queste, lungi dallo svolgere un ruolo incisivo sulle condizioni di efficacia ed efficienza, scadono, nel totale disinteresse dei vertici aziendali, a meri fattori di appesantimento burocratico dell’organizzazione”.

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16 1.2 La contabilità finanziaria e la scarsa attenzione ai risultati economici

Come già anticipato, si riserva a questa criticità delle pubbliche amministrazioni un’attenzione privilegiata poiché rappresenta la tematica di maggior interesse a livello economico-aziendale. Nel presente paragrafo si introduce il tema a livello generale, per poi approfondirlo, nel terzo capitolo, in relazione al Comune di San Miniato.

Le pubbliche amministrazioni hanno tradizionalmente trascurato il lato economico della gestione concentrandosi sulle grandezze finanziarie che

stanno alla base del sistema di contabilità pubblica28. Questa prevede una serie

di rilevazioni, imposte dalla legge, che consentono di monitorare il ciclo delle entrate, il quale si suddivide in accertamento, riscossione e versamento, e quello delle spese, le cui fasi sono impegno, liquidazione, ordinazione e

pagamento29.

La contabilità pubblica a base finanziaria (d’ora in poi per brevità Co.Fi.),

unitamente agli altri documenti del sistema informativo di bilancio30, è stata

introdotta negli enti per assolvere prevalentemente una funzione autorizzativa e di garanzia. Essa infatti consente di vincolare i dirigenti alle decisioni prese in

28 D’Aries (1997/8: p. 427) precisa che “più che di contabilità si dovrebbe parlare di rilevazioni

finanziarie, dato che non si fa uso di conti, di scritture doppie, ma di rilevazioni a partita semplice”.

29 Per una sintetica descrizione delle singole fasi si veda Pozzoli (2001: pp. 89-91).

30 Tale sistema comprende, fra gli altri, la Relazione Previsionale e Programmatica, il Bilancio di

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17 fase di programmazione e, di conseguenza, tutelare i cittadini circa l’utilizzo delle risorse pubbliche.

Pozzoli, per sottolineare quanto la contabilità pubblica abbia condizionato l’operare dell’ente, sostiene che la stessa “non è soltanto un meccanismo di

rilevazione [...] ma è anche e soprattutto una modalità di gestione dell’Ente”31.

Questa, infatti, basandosi sulle rigide fasi giuridico-amministrative ricordate in precedenza, è stata utilizzata più come strumento per limitare la discrezionalità

dei dirigenti che come utile supporto informativo32.

Relativamente al processo di spesa, la funzione vincolistica del bilancio si estrinseca nel definire “a priori sia il tetto massimo delle risorse che possono essere impegnate, sia la loro destinazione rispetto alle specifiche voci di

uscita”33. Infatti, negli enti locali non è possibile spendere delle somme per le

quali non sono previste coperture in ossequio al principio di equilibrio finanziario sancito dalla legge.

Tuttavia occorre precisare che le entrate, cui sono collegate le spese, sono stabilite sulla base di previsioni fondate sostanzialmente sui trend storici e, quindi, non sono affatto certe. È per questo che gli enti, nonostante i vincoli normativi previsti per l’impegno delle spese, sovente chiudono l’esercizio in squilibrio non tanto perché abbiano speso più delle somme programmate

31 Pozzoli (2001: p. 86).

32 Cfr. Zuccardi Merli (2005: pp. 266-270). 33 Sforza (2006: p 12).

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quanto perché le entrate accertate risultino, spesso, inferiori a quelle previste34.

Alla luce di questa evidente criticità insita nella logica di fondo del sistema contabile c’è chi sostiene che “la gestione del bilancio diviene un rito da

celebrare per fede e non in forza di un’utile e necessaria razionalità”35.

Tornando ai motivi che hanno spinto gli enti locali alla sottovalutazione dell’aspetto economico sono necessarie alcune riflessioni.

Innanzitutto occorre ricordare l’assenza di un mercato concorrenziale e, soprattutto, l’applicazione ai servizi erogati di prezzi politici. Con tale termine s’intendono quei corrispettivi richiesti agli utenti che non vengono definiti

secondo la logica, tipicamente industriale, del mark-up – applicazione di un

ricarico sul costo pieno – ma, piuttosto, accontentandosi di ottenere una

percentuale (inferiore al 100%) di copertura del costo36.

Così facendo risulta evidente come i ricavi conseguiti finiscano per non essere rappresentativi della capacità dell’ente di soddisfare i bisogni dei cittadini-utenti; effetto che invece si ottiene nelle imprese, dove il profitto è una

buona sintesi dei risultati gestionali37.

34 A tal proposito Mele-Popoli (1994: p. 262): “La garanzia del pareggio finanziario si ha, infatti,

non soltanto con il rispetto dei limiti di spesa ma con il conseguimento degli stanziamenti previsti nell’entrata. Purtroppo, invece la spesa viaggia indipendentemente dalla realizzazione dell’entrata e solo a posteriori è possibile constatare, ma ormai troppo tardi, che ci si trova di fronte ad un disavanzo finanziario”.

35 Mele-Popoli (1994: p. 254).

36 Sulla necessità di isolare i riflessi economici delle scelte politico-sociali sui risultati dell’ente si

veda l’attenda analisi di Del Bene (1993: pp. 60 e ss).

37 Del Bene (2009: p. 71) ricorda che nelle pubbliche amministrazioni il prezzo “non fa

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19 Oltre a ciò bisogna ricordare che la maggior parte delle entrate di un ente locale è di origine tributaria – imposte, tasse e contributi – e non deriva perciò dal normale incontro fra domanda e offerta che si forma sul libero mercato.

Questi aspetti sicuramente hanno ridimensionato il ruolo del profitto all’interno delle amministrazioni locali, tuttavia occorre fare alcune precisazioni.

Per considerare l’aspetto economico nel suo complesso si deve analizzarlo anche da una prospettiva interna alla compagine aziendale. Infatti, se i ricavi riassumono – in estrema sintesi – l’efficacia dell’attività aziendale, i costi rappresentano un valore indispensabile per verificare l’efficienza del processo produttivo. Limitare l’analisi a un solo aspetto - ricavi o costi - porta inevitabilmente a valutazioni errate, in quanto l’equilibrio economico si realizza esaminandoli congiuntamente.

Ricorda a tal proposito Farneti che nelle aziende pubbliche spesso “si confonde [...] la mancanza dell’obiettivo del profitto con la mancanza del fine

stesso dell’economicità”38.

Perciò, anche se certamente i ricavi hanno una minore valenza segnaletica rispetto al privato, l’efficacia dovrà essere ugualmente perseguita e successivamente valutata utilizzando altri indicatori (magari di natura qualitativa, come i questionari di gradimento).

sociali che informano questa decisione)” ed è perciò “non remunerativo dei fattori produttivi impiegati”.

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20 Alla luce delle riflessioni sopra esposte, l’efficienza dovrà quindi assumere un ruolo centrale all’interno degli enti ed essere costantemente monitorata attraverso sistemi informativo-contabili che non si limitino a

considerare la sola manifestazione finanziaria delle operazioni concluse39.

Infatti, negli anni, l’evoluzione normativa e le mutate condizioni economiche e sociali hanno imposto agli enti di dotarsi di idonei strumenti di cost accounting e cost management in grado di valutare e perseguire l’efficienza della gestione. A tal proposito numerosi studiosi ribadiscono, da tempo, l’importanza di introdurre nelle realtà pubbliche sistemi analisi e gestione dei costi che producano informazioni di supporto al processo

decisionale40 e che, conseguentemente, possano impattare positivamente sulle

iniziative di contenimento della spesa pubblica (tematica sempre più al centro dell’attenzione mediatica e collettiva). Lo stesso Anselmi ricorda che le pubbliche amministrazioni “hanno deciso senza conoscere preventivamente, e spesso, neppure susseguentemente, il costo delle singole decisioni assunte [...]: non stupisce che in queste condizioni la gestione non potesse essere stata efficiente”41.

39 Per ribadire il ruolo dell’efficienza nel settore pubblico Del Bene (1993: p. 73-74) ricorda che

sebbene siano i cittadini a sostenere gli oneri impropri della gestione (legati al perseguimento di fini assistenziali e sociali) ad essi “non possono essere addossate le perdite derivanti da inefficienze gestionali e non dipendenti da alcuna direttiva politica”.

40 Cfr. Anselmi (1997: p. 25). 41 Anselmi (2003: p. 107).

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21 Non è pensabile, pertanto, che l’obiettivo dell’economicità venga escluso dalle aziende pubbliche solamente perché il profitto non misura correttamente l’efficacia della gestione. Al contrario dovranno essere “ricercate le condizioni di efficienza ed efficacia della produzione attraverso indicazioni quali-quantitative che, non potendosi concentrare in un’unica misura, devono essere predeterminate, per formare il «modello» al quale uniformare la propria attività”42.

Screditata la tesi che giustifica l’assenza di grandezze economiche all’interno del sistema contabile pubblico, si riassumono i tratti critici dello stesso:

 rilevazione dei soli flussi finanziari – entrate e spese – e incapacità di

fornire un quadro completo della gestione che, invece, deve essere valutata anche nei suoi aspetti economici;

 rigida strutturazione giuridico-amministrativa che, invece di agevolare il

conseguimento dell’efficienza e dell’efficacia, focalizza l’attenzione dell’ente sulla correttezza formale delle singole operazioni limitando l’autonomia dirigenziale.

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22 1.3 L’evoluzione normativa degli anni Novanta

Prima di analizzare il contenuto delle riforme occorre fare una breve ma

importante premessa: nessuna norma può cambiare il modus operandi delle

pubbliche amministrazioni. A tal proposito anche Mussari sostiene che “se il processo di rinnovamento del quale abbisognano le aziende composte pubbliche potesse realmente ridursi ad un’attività di imitazione/importazione,

tale cambiamento avrebbe già avuto luogo”43. Pertanto, ritenere che sia

sufficiente impiantare nelle realtà pubbliche soluzioni nate e consolidatesi in

ambito privato per risolverne le criticità appare estremamente ottimistico44.

È indispensabile che la volontà di mutare lo status quo sia condivisa

dalle persone che operano all’interno degli enti per evitare che la normativa diventi un mero obbligo cui adempiere passivamente.

Pozzoli esprime lo stesso concetto avvalendosi di un’efficace metafora; sostiene infatti che con l’imposizione di concetti privatistici “non si farebbe altro che tentare di far indossare ad una persona l’abito di un altro [...]. Per quanti

43 Mussari (1994: p. 190).

44 Anche Garlatti-Pezzani (2000: p. 19) ribadiscono che l’introduzione del controllo e della

rendicontazione negli enti locali “non può basarsi su un puro trasferimento di tali tecniche derivandole dall’esperienza delle aziende di produzione ma richiede un adattamento ad una realtà, quella pubblica, che ha elementi di forte differenziazione rispetto alle aziende di produzione.” Gli stessi autori concludono sostenendo che “i sistemi di controllo di gestione hanno un carattere strumentale e non finalistico e la loro funzionalità è legata alle condizioni di contesto in cui devono operare ed a cui devono essere adattati”.

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23 sforzi potremmo fare il nostro amico sembrerà comunque ridicolo e, appena

possibile, tornerà ai suoi consueti, seppur logori, vestiti”45.

Gli enti locali, interpretando il dettato normativo solo in chiave formale, non hanno saputo cogliere la portata innovativa degli strumenti introdotti, in

particolare della contabilità economico-patrimoniale46. Inoltre gli enti non hanno

sfruttato l’autonomia concessa loro dal legislatore, come se non avvertissero l’esigenza di aggiornare il proprio modello gestionale e soprattutto culturale per

stare al passo con il contesto economico e sociale47.

Nel ripercorrere l’evoluzione normativa dagli anni Novanta a oggi, si analizzeranno quelle leggi che hanno, o avrebbero potuto, innovare profondamente l’operato delle amministrazioni locali: la legge 142/90 e il d.lgs. 77/95.

1.3.1 La legge 142 del 1990: la contabilità economica

L’ordinamento delle autonomie locali, emanato l’8 giugno del 1990, è stato il primo e più importante tentativo effettuato dal legislatore per introdurre le logiche economiche nel settore pubblico.

45 Pozzoli (2001: p. 24).

46 Questa tematica, qui solamente accennata, verrà ampiamente trattata nelle pagine seguenti. 47 A tal proposito scrive Del Bene (1993: p. 77): “nel silenzio della legge, è l’iniziativa dell’ente

locale che gioca un ruolo fondamentale al processo di cambiamento, secondo il principio cui ciò che non è vietato è permesso (anzi talvolta, come nella problematica in oggetto, indispensabile)”.

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24 La norma in esame – universalmente nota come legge 142/90 – si rivolgeva all’apparato statale nella sua accezione locale (province, comuni e aree metropolitane) e introduceva importanti novità dal punto di vista gestionale. Infatti, il dettato normativo, che richiamava i concetti di efficienza ed efficacia, sembrava rispecchiare la necessità di un’inversione di tendenza

avvertita da numerosi accademici ed esperti del settore48.

Ricordiamo adesso gli articoli della 142/90 più rilevanti ai fini della presente trattazione.

Circa le modalità di gestione dei servizi pubblici, l’art. 22 prevedeva che

essi potessero essere erogati, oltre che attraverso le forme tradizionali49,

tramite aziende speciali e società per azioni a capitale prevalentemente pubblico. Relativamente alle prime, l’articolo successivo concedeva loro piena autonomia e disponeva che le stesse dovessero informare “la loro attività a

criteri di efficacia, efficienza ed economicità50”.

Dall’altro lato le S.p.A. garantivano agli enti sia la maggioranza del capitale – e quindi la possibilità di influire in maniera determinante sulle scelte

48 Scrivono in merito Anselmi-Pavan-Reginato (2012/1: p. 55-56 ): “la scarsa penetrazione di

idee e comportamenti «aziendali» all’interno del settore pubblico [...], insieme alla crescita ipertrofica dello Stato-Provvidenza, aveva determinato palesi sintomi di disfunzione e reso critica la situazione delle finanze pubbliche già verso la fine degli anni ’80 e più ancora nei seguenti”.

49 Per forme tradizionali si intendono: la gestione in economia, la concessione a terzi e

l’istituzione.

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25 strategiche – sia uno strumento gestionale collaudato in ambito privatistico e potenzialmente efficiente.

Quindi, con le aziende speciali e con le S.p.A. miste pubbliche, emergeva chiara la volontà del legislatore di enfatizzare il ruolo di indirizzo

strategico dell’ente51 – soprattutto per i servizi di rilevanza imprenditoriale –

separandolo da un’erogazione economica e in linea con le forme previste. Il tema della distinzione delle funzioni veniva ripreso dall’art. 51, comma 2, che stabiliva chiaramente le competenze degli organi di governo e di quelli amministrativi; ai primi venivano riservati poteri di indirizzo e di controllo, invece ai secondi spettava l’esclusività della gestione.

Secondo questa logica i rappresentanti politici avrebbero dovuto definire gli obiettivi, affidarli ai dirigenti e controllare che fossero perseguiti; dall’altra parte gli amministratori, autonomi e responsabili dei risultati conseguiti, avrebbero dovuto gestire l’ente in maniera tanto efficace quanto efficiente.

Con una simile ripartizione il legislatore sperava di risolvere la tradizionale sovrapposizione di ruoli fra politica e dirigenza che per molti anni ha caratterizzato gli enti locali e della quale si è già discusso nelle pagine precedenti.

Il comma sesto dell’articolo 55, denominato “bilancio e programmazione finanziaria”, presentava una delle innovazioni più importanti della 142/90: “I

(22)

26 risultati di gestione sono rilevati mediante contabilità economica e dimostrati nel rendiconto comprendente il conto del bilancio e il conto del patrimonio”.

Sebbene la disposizione potesse sembrare ambigua52, metteva al

servizio degli enti locali uno strumento indispensabile alla misurazione dell’efficacia e dell’efficienza richiamate negli articoli precedenti. Il legislatore, quindi, riconosceva implicitamente i limiti informativi della contabilità pubblica basata su grandezze finanziarie ed incapace di cogliere pienamente i riflessi della gestione.

Il temine contabilità economica doveva essere interpretato in senso lato, anche alla luce dell’ultimo comma dell’art. 57, il quale stabiliva che lo statuto potesse prevedere forme di controllo economico interno della gestione.

Infatti non sarebbe stato possibile fermarsi all’introduzione della sola contabilità economica generale se per controllo economico interno si fosse intenso quel processo atto a verificare l’efficacia e l’efficienza della gestione e dei singoli servizi erogati. Al contrario sarebbe stato necessario affiancare alle

rilevazioni economiche generali la contabilità analitica, budgets contenenti

obiettivi espressi in termini di costi e ricavi e un sistema di indicatori qualitativi e

quantitativi53.

52 Come ricorda Del Bene (1993: p. 95): “non si comprende come possa ricavarsi il conto del

bilancio visto che quest’ultimo è composto da quadri riassuntivi delle spese impegnate e delle entrate accertate [...]. Risulta infine incomprensibile il mancato riferimento ad un conto economico consuntivo”.

(23)

27 Purtroppo la possibilità concessa dall’art. 57 non è stata sfruttata e si è proceduto, nella migliore delle ipotesi, ad accostare la contabilità economica generale alla tradizionale contabilità finanziaria.

1.3.2 Il decreto legislativo 77 del 1995: il controllo di gestione e la contabilità analitica

Il “nuovo ordinamento finanziario e contabile” è stato emanato sia per risolvere alcuni dubbi interpretativi lasciati dalla 142/90 sia per fornire agli enti locali nuovi strumenti gestionali.

A dimostrazione della sua importanza, quindici anni dopo la sua pubblicazione, è stato abrogato in favore del Testo Unico degli Enti Locali (TUEL) che ne ha riproposto quasi integralmente il contenuto.

Il d.lgs. 77/95 ridefiniva la struttura e i principi del sistema di bilancio abolendo le previsioni di cassa, applicando i criteri di veridicità e pubblicità e

immettendo una nuova classificazione delle entrate e delle spese54. Inoltre l’art.

11 introduceva il Piano Esecutivo di Gestione (PEG), un nuovo documento programmatico che, seppure esclusivamente finanziario, si avvicinava – e si

avvicina tuttora – alla logica dei budgets privatistici. Con il PEG, infatti,

attraverso un’ulteriore articolazione del bilancio di previsione, si potevano attribuire obiettivi e risorse ai dirigenti, responsabilizzandoli sui risultati conseguiti. Tale processo, se correttamente avviato, avrebbe consentito di

(24)

28 raggiungere anche l’obiettivo della separazione delle competenze – strategiche e gestorie – auspicato dall’art. 51 della 142/90.

Già da queste innovazioni emergeva chiaro l’intento del legislatore di trasformare il sistema di bilancio da uno “strumento costruito secondo logiche incrementali e finalizzato a limitare ed autorizzare l’attività dei protagonisti della

vita aziendale”55 a un valido supporto per la programmazione e il controllo.

Tuttavia l’innovazione più importante del decreto va ricercata negli articoli

39, 40 e 4156 che, superando l’ambiguità dell’art. 57 della 142/90, imponevano

l’applicazione del controllo di gestione. Quest’ultimo era definito come “la procedura diretta a verificare lo stato di attuazione degli obiettivi programmati e, attraverso l’analisi delle risorse acquisite e della comparazione tra i costi e la quantità e qualità dei servizi offerti, la funzionalità dell'organizzazione dell'ente, l'efficacia, l'efficienza ed il livello di economicità nell'attività di realizzazione dei

predetti obiettivi”57.

All’art. 40 si individuavano le fasi del controllo di gestione58 e si

specificava che lo stesso venisse eseguito per centro di costo, per singolo servizio e, ove possibile, per unità di prodotto. Evidentemente, per valutare l’efficienza e l’efficacia della gestione in relazione ad oggetti di costo così

55 Giovanelli (1997: p. 204).

56 Le stesse disposizioni si ritrovano nel TUEL agli art. 196, 197 e 198. 57 D.lgs. 77/95, art. 39, comma 2.

58 Che corrispondevano alle seguenti: predisposizione di un piano dettagliato degli obiettivi,

rilevazioni dei dati relativi ai costi e ai proventi e, infine, valutazione dell’efficienza, efficacia ed economicità dell’azione intrapresa.

(25)

29 specifici, non erano sufficienti né la contabilità economica generale (prevista già dalla 142/90) né, tantomeno, la contabilità pubblica finanziaria. Al contrario, sarebbe stata necessaria una contabilità economica di tipo analitico in grado di fornire ai dirigenti informazioni dettagliate mediante accurate ripartizioni dei costi e dei proventi.

L’attivazione di un controllo economico interno, discrezionale nella 142/90 e puntualmente disattesa, veniva quindi riproposta come obbligatoria nel 1995.

Inoltre, l’art. 69 inseriva fra i documenti del rendiconto il conto economico, colmando così la lacuna lasciata dalla legge 142. Questo

documento, al quale doveva essere affiancato un prospetto di conciliazione59,

aveva il compito di evidenziare “i componenti negativi e positivi dell’attività dell’ente secondo criteri di competenza economica”.

Infine l’art.74, intitolato “contabilità economica”, prevedeva che gli enti adottassero il sistema contabile più idoneo alle loro esigenze ai fini della predisposizione del rendiconto della gestione.

Questa disposizione, alquanto equivoca, ha affievolito la portata innovativa dell’intero decreto; infatti, gli enti, estraendo l’articolo dal contesto in cui era inserito e interpretandolo in maniera formale, hanno preferito redigere

59 Tale prospetto, secondo il comma 9 dell’art. 71 “partendo dai dati finanziari della gestione

corrente del conto del bilancio, con l’aggiunta di elementi economici, raggiunge il risultato finale economico”.

(26)

30 documenti economici alla fine del periodo amministrativo piuttosto che dotarsi di un sistema di rilevazioni periodiche.

(27)

31 1.4 Gli ostacoli al processo di aziendalizzazione

Dopo aver illustrato il contenuto della legge 142/90 e del decreto 77/95 si analizzano le principali cause che hanno ostacolato la loro diffusione nelle realtà locali.

Come già sottolineato, le norme menzionate, attualmente riprese dal TUEL, hanno tentato di risanare la pubblica amministrazione attraverso l’introduzione di logiche e strumenti aziendali. Questo sforzo tuttavia non ha raggiunto i risultati sperati sia per la resistenza al cambiamento che caratterizza molti enti, sia perché il dettato normativo è spesso contradditorio e poco chiaro. Relativamente al secondo aspetto occorre ricordare, per completezza di analisi, quali sono state le principali critiche mosse al legislatore.

Quest’ultimo, secondo alcuni, soffrirebbe di “riformite”60, patologia che lo

porterebbe ad un’attività normativa continua, inorganica e incapace di incidere effettivamente sui comportamenti poiché priva di un’approfondita analisi dei problemi da risolvere. Tralasciando questa diagnosi drastica ed eccessivamente accusatoria, analizziamo le principali responsabilità imputabili al legislatore.

Muovendo dalle riflessioni del paragrafo precedente si può affermare che l’errore più rilevante compiuto a livello normativo sia stato il mancato passaggio definitivo alla contabilità economico-patrimoniale. A tal proposito scrivono

(28)

32 Battezzato e Ropolo: “l’innovazione forse più coraggiosa è stata la «non innovazione», quella cioè di mantenere la centralità del bilancio finanziario [...]. Sarebbe certo stato più semplice e anche più risolutivo se [...] si fosse scelta la strada di applicare decisamente e definitivamente le regole civilistiche [...],

assumendo a supporto la contabilità a competenza economica”61. Lasciando gli

enti liberi di scegliere il sistema più idoneo alle loro esigenze (ex art. 74 del d.lgs. 77/95 e adesso art. 232 del TUEL) si è finito, di fatto, per rinviare

l’adozione62 della contabilità economica a data da destinarsi. Infatti, nonostante

alcuni si siano dotati di sistemi contabili integrati, solo la contabilità finanziaria avrà un “effettivo impatto comportamentale, mentre quella economica resterà

un mero adempimento”63.

L’integrazione fra i due sistemi, molto distanti fra loro per logica e finalità, comporta un aggravio di lavoro per gli operatori, invia al management segnali

contrastanti e sembra, pertanto, un compromesso non soddisfacente64.

In più la previsione di rendiconti di natura economica, affiancati da sistematiche rilevazioni finanziarie, ha creato “una profonda contraddizione di sistema, perché da una parte pretendiamo dagli amministratori che decidano e

61 Battezzato-Ropolo (1999/11: p. 542).

62 Per adozione si intende l’elaborazione e l’utilizzo delle informazioni economiche e patrimoniali

a supporto del processo decisionale e non il solo sfruttamento delle stesse ai fini della redazione del conto economico.

63 Pozzoli-Mazzotta (2012/1: p. 79). Sul tema si veda anche Battezzato-Ropolo (1999/11),

Adinolfi (2005/1) e Ricci (2012/1).

(29)

33 agiscano secondo logica finanziaria, dall’altra prevediamo che gli stakeholder

[...] giudichino l’operato dell’ente locale secondo logica economica”65.

Un’altra scelta poco condivisibile del legislatore, che accrescerà il livello di incertezza circa l’utilizzo concreto delle informazioni economiche, è quella messa in evidenza dai recenti sviluppi normativi in cui si prevede un potenziamento della funzione del bilancio di cassa. La legge n. 39 promulgata nel 2011 modifica la precedente legge n. 196 del 2009 che prevedeva l’abbandono della competenza finanziaria in favore di un ritorno alla

competenza di sola cassa66. Ciò, oltre a confermare un processo normativo

assai confuso, ribadisce la centralità dell’aspetto finanziario a discapito di quello economico.

Tuttavia ritengo che le principali cause, alla base dell’insuccesso delle riforme, si debbano ricercare altrove. Le norme, sebbene un po’ controverse, hanno messo a disposizione degli enti metodologie e strumenti che non sono

stati sfruttati o lo sono stati parzialmente67. Scrive in merito Del Bene: “Il

problema quindi, non è tanto nella insufficienza degli strumenti a disposizione delle aziende pubbliche, quanto nel cambio di mentalità necessario affinché

vengano utilizzati adeguatamente”68.

65 Pozzoli (2004/4: p. 256).

66 Per approfondimenti si veda Anselmi-Pavan-Reginato (2012/1) e Ricci (2012/1).

67 Nel TUEL si ribadisce spesso l’importanza dell’economicità della gestione, in generale, e

dell’analisi dei costi, in particolare. A tal proposito si vedano gli articoli: 147, 151, 196, 197 e 232.

(30)

34 Ben più gravi delle lacune normative appaiono, quindi, i limiti insiti nelle amministrazioni locali e centrali che hanno contribuito a svuotare le leggi della

loro portata innovativa traducendole in un mero appesantimento burocratico69.

Al fine di evidenziare come le interpretazioni errate del dettato normativo abbiano ridimensionato le ambizioni del legislatore e rallentato il processo di riforma si riportano i risultati di alcune ricerche.

Innanzitutto, l’analisi condotta da Farneti70 nel 2006, confermando una

tendenza preoccupante degli enti locali, evidenzia che la predisposizione dei documenti avviene secondo la cosiddetta logica dell’adempimento. Infatti, molte realtà locali esaminate dall’autore utilizzano gli strumenti contabili e redigono i report gestionali solamente nei loro aspetti autorizzativi, allo scopo di soddisfare le previsioni legislative, senza essere realmente convinte della loro utilità. Ne è un esempio il controllo di gestione che, nelle amministrazioni locali oggetto d’indagine, non viene sfruttato adeguatamente. Esso, infatti, effettuato con cadenza annuale e privato dell’analisi degli scostamenti, perde la sua funzione di guida e d’indirizzo della gestione. Similmente la contabilità economico-patrimoniale viene spesso rifiutata e sostituita dal prospetto di conciliazione;

69 Sul tema anche Farneti (1995: p. 163) sostiene che gli strumenti previsti dalla legge “debbano

essere applicati nella pienezza dei loro contenuti, con professionalità, da parte di individui che conoscano e si propongano di rendere operanti i principi dell’Economia aziendale” e non “sostanzialmente disattesi attraverso un’interpretazione esclusivamente formalistica delle norme”.

(31)

35 mentre quella analitica, prevalentemente finanziaria, non può in alcun modo supportare scelte strategiche e decisioni politiche.

Farneti71, nello studio del 2007, ricerca le possibili cause delle criticità

emerse e individua fra le principali ragioni del mancato processo di aziendalizzazione l’assenza di stimoli al cambiamento, le scarse competenze degli amministratori e dei dirigenti e il sostanziale disinteresse degli organi politici nei confronti dei risultati perseguiti dall’organizzazione. Tali aspetti sono in linea con il quadro evidenziato dal presente lavoro poiché sostanzialmente coincidenti con le peculiarità delle pubbliche amministrazioni richiamate a inizio capitolo. Relativamente all’insensibilità dei politici ai risultati conseguiti, lo

stesso autore, in un’indagine precedente72, sottolinea come questi vedano nel

controllo di gestione non tanto uno strumento utile all’amministrazione quanto un limite alla propria discrezionalità; questo perché il controllo e i vari strumenti contabili che lo alimentano, se correttamente impostati, sono in grado di suggerire alla collettività una condotta poco economica dell’ente.

Un altro aspetto, indicato da alcuni come possibile ostacolo alla diffusione dei valori economico-aziendali negli enti locali, è la presenza di figure apicali con una formazione giuridica. A sostegno di ciò si evidenzia come una formazione economica, sebbene non sia garanzia di economicità,

inevitabilmente influisca sul modus operandi del soggetto73. A riguardo, lo

71 Cfr. Farneti (2009/4). 72 Farneti (1992).

(32)

36

studio di Levy Orelli e Visani74 sottolinea che l’82% dei segretari generali e il

32% dei direttori generali degli enti presi in esame abbiano un profilo giuridico e possano quindi incontrare maggiori difficoltà nell’implementare logiche e strumenti aziendali.

Nonostante, nella maggioranza delle ricerche condotte, gli enti non abbiano saputo sfruttare appieno le potenzialità degli strumenti introdotti dalle riforme, le criticità emerse non si possono attribuire indistintamente a tutte le amministrazioni locali nazionali. Infatti, alcune realtà sono riuscite a modificare il proprio schema gestionale, aggiornandolo ai principi di efficienza, efficacia ed economicità, come auspicato dal legislatore. Le esperienze positive riportate

nelle opere di Bellesia e Marani75, Castellani e Grattoni76 e Ruffini77 confermano

che l’inversione di tendenza, se supportata da un impegno attivo e costante del personale, non è affatto irrealizzabile. Gli enti esaminati nelle ricerche ricordate sopra hanno investito risorse umane, tecniche e monetarie per implementare sistemi contabili in grado di alimentare – mediante l’elaborazione di grandezze economiche – il controllo di gestione e supportare, quindi, le decisioni prese dal management. 74 Levy Orelli-Visani (2004/4). 75 Bellesia-Marani (1999/1). 76 Castellani-Grattoni (2005/10). 77 Ruffini (2006/11).

(33)

37 1.5 Uno sguardo internazionale

Il tema dell’aziendalizzazione delle pubbliche amministrazioni è stato affrontato, non senza difficoltà, anche a livello internazionale. Tale fenomeno,

noto come New Public Management (NPM), sta a identificare una serie di

iniziative volte a indirizzare governo ed enti pubblici verso l’economicità della gestione. Tra i propositi di questa riforma troviamo l’introduzione, nel settore pubblico, di tecniche manageriali tipicamente privatistiche, la creazione di

meccanismi di mercato e il riconoscimento dell’autonomia alle unità locali78.

Un altro punto centrale del NPM è il passaggio dalla cash accounting

all’accrual accounting, la quale rientra nella financial accounting. Il termine anglosassone financial non si riferisce alla contabilità adottata tradizionalmente dalle amministrazioni pubbliche italiane che segue l’esecuzione del bilancio di

previsione annuale ed è denominata budgetary accounting. Al contrario la

financial accounting è una contabilità economica a tutti gli effetti in quanto registra i fatti di gestione esterna sulla base di idonei documenti (ad es. fattura)

memorizzando sia l’aspetto finanziario sia quello economico79.

Inoltre occorre precisare che la base contabile “è accrual quando i fatti amministrativi si registrano al momento in cui si realizzano mentre è cash

78 Hyndman-Connolly (2011/22: p. 37).

79 Sulle capacità informative della financial accounting (o external accounting) si vedano

(34)

38 nell’ipotesi in cui la registrazione avvenga solo al momento in cui si incassa o

paga”80.

I pregi universalmente riconosciuti all’accrual accounting si riferiscono ai potenziali benefici che l’introduzione della stessa porta al management e agli stakeholders. Infatti, i primi potranno disporre di informazioni in grado di

supportare l’attività di budgeting e allocazione delle risorse finanziarie, le

decisioni di outsourcing, la valutazione dei costi e l’accountability interna81. I

secondi, invece, saranno in grado di verificare le modalità di impiego delle risorse analizzando documenti che, in maniera chiara e trasparente, mettano in evidenza crediti, debiti, costi e ricavi della gestione.

Confrontando le varie esperienze internazionali e analizzando come i

concetti di efficacia, efficienza, trasparenza e accountability siano stati recepiti

dai vari paesi si è provveduto a raggruppare quelli che hanno avuto un

“percorso aziendale” simile82.

Nella prima fascia troviamo l’Australia, la Nuova Zelanda, gli Stati Uniti e il Regno Unito, nazioni accomunate dall’aver fatto propri i valori del NPM in maniera tempestiva e puntuale. Relativamente ai primi due preme sottolineare come in tali nazioni tutte le aziende siano considerate entità economiche fra loro assimilabili per logiche e finalità a tal punto che i principi contabili adottati dal settore pubblico sono gli stessi di quello privato (sector-natural accounting

80 Mussari (2003/10: p. 596).

81 Arnaboldi-Lapsley (2009/4: p. 813).

(35)

39 standards). Questo fa dell’Australia e della Nuova Zelanda due modelli da seguire dal momento che negli altri paesi questa condivisione di principi non è avvenuta e si continuano a prevedere modalità contabili differenti fra pubblico e privato.

Nella seconda fascia sono state inserite l’Austria, l’Italia, la Germania, la Francia e l’Irlanda, paesi nei quali il processo di riforma ha incontrato alcune difficoltà ad affermarsi nonostante sia stato avviato da molti anni.

Infine fra i low-intensity adopters troviamo la Grecia, il Giappone e la

Spagna dove il percorso di aziendalizzazione è ben lontano dall’essersi concluso.

Gli elementi che hanno frenato la diffusione del NPM a livello internazionale sono in gran parte gli stessi riscontrati negli enti italiani.

La ricerca condotta da Lapsley e Wright83 su 258 organizzazioni

pubbliche scozzesi mostra che la principale causa della diffusione delle pratiche manageriali è riconducibile non tanto a una reale volontà di cambiamento, quanto alla necessità di uniformarsi alle previsioni normative (questo vale per il 67% dei casi).

Dallo studio effettuato da Arnaboldi e Lapsley84 sulle unità locali del

Regno Unito, paese in cui si è passati definitivamente all’accrual accounting, emerge una diffusa volontà degli intervistati di tornare alle tradizionali logiche

83 Si veda Lapsley-Wright (2004/15). 84 Arnaboldi-Lapsley (2009/4).

(36)

40 finanziarie. Questo dato conferma che la resistenza al cambiamento e l’avversione nei confronti del nuovo non siano problemi esclusivamente italiani.

Hyndman e Connolly85 hanno esaminato il processo di affermazione del

NPM in Irlanda e nell’UK, confrontando il diverso impatto che questo fenomeno ha avuto nei due paesi. Infatti, sebbene il processo fosse stato avviato nello stesso periodo in entrambi gli stati, il NPM ha avuto un maggior successo nel Regno Unito. I due studiosi hanno, quindi, individuato le possibili cause del gap negli aspetti seguenti: il minor entusiasmo con cui le riforme sono state accolte, l’eccessiva rigidità delle scelte compiute, le differenze culturali e la debole spinta ideologico-culturale ricevuta dalle amministrazioni centrali.

Un altro aspetto frequentemente riscontrato nelle ricerche è la generale sfiducia che i soggetti operanti nelle pubbliche amministrazioni hanno nei confronti della contabilità economica. Infatti, come vediamo da un intervistato, le potenzialità di quest’ultima vengono puntualmente messe in discussione: “In reality I am not sure if it hasn’t just introduced a lot of unnecessary complications. There are additional complexities that don’t add very much value at all” o ancora “The concept is wonderful, this idea of matching things…But I don’t really believe it has made any great difference to the way we manage our

finance”86.

85 Hyndman-Connolly (2011/22). 86 Hyndman-Connolly (2011/22: p. 40).

(37)

41

Tickell87 sostiene che l’accrual sia un concetto semplice da capire ma

difficile da mettere in pratica e, in proposito, ricorda le difficoltà incontrate dal governo delle Isole Fiji nell’introduzione della contabilità economica. L’autore individua le cause principali di tali difficoltà nelle scarse competenze dei ragionieri pubblici – incapaci di comprendere le motivazioni alla base della “cash-to-accrual accounting migration” – e negli ingenti costi necessari per adeguare il sistema informativo alla nuova base contabile.

L’Italia non è, quindi, l’unico paese ad aver incontrato qualche ostacolo nel processo di aziendalizzazione; al contrario, questa problematica si è riproposta a qualsiasi stato che abbia tentato di riformare la pubblica amministrazione. Infatti, come dimostrano le indagini nazionali ed estere, efficacia, efficienza e trasparenza, pur essendo valori fondamentali per ciascuna azienda pubblica o privata, non possono essere trasmessi agli enti locali attraverso una norma ma hanno bisogno di tempo per radicarsi nelle realtà pubbliche ed essere condivisi dai soggetti che vi operano.

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