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Capitolo 3 Un confronto tra Machiavelli, Spinoza e Hobbes

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Capitolo 3

Un confronto tra Machiavelli, Spinoza e Hobbes

1. Interpretare il conflitto: l’esempio di Roma

Il riferimento alla storia di Roma rappresenta un passaggio obbligato per numerosi pensatori politici e gli autori considerati in questa indagine non fanno eccezione. Le differenti valutazioni della storia romana in Machiavelli, Spinoza e Hobbes si manifestano soprattutto nel diverso modo di interpretare il conflitto.

Partiamo dal giudizio di Machiavelli. Il conflitto viene elogiato dal Segretario fiorentino come forza espansiva e creatrice: la lotta fra patrizi e plebei, la loro “disunione”, ha consentito a Roma di diventare uno Stato libero e potente1. Machiavelli è polemico contro coloro che ritengono che i tumulti abbiano causato la rovina della repubblica romana:

Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ romori e alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano2.

                                                                                                               

1 Cfr. N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 4: Che la disunione della Plebe

e del Senato romano fece libera e potente quella republica.

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Lungi dall’essere considerato uno sconvolgimento dell’ordine costituito o un fattore di disordine, il tumulto è interpretato come luogo d’origine della forza e dell’energia di uno Stato. L’importanza del tumulto, da cui scaturiscono effetti positivi per lo sviluppo dello Stato, viene messa in luce in vari luoghi da Machiavelli3.

Contrariamente a ciò, la quiete è da rigettare in quanto fonte di debolezza. La stabilità non è un valore interamente positivo, poiché viene accostata dal Fiorentino alla fissità e all’immobilismo delle strutture statali, che portano con sé degli inconvenienti. La quiete impedisce a Roma di espandersi, di estendere il raggio d’azione delle sue conquiste, come descrive acutamente Machiavelli:

Ma venendo lo stato romano a essere più quieto, ne seguiva questo inconveniente, ch’egli era anche più debile, perché egli si troncava la via di potere venire a quella grandezza dove ei pervenne: in modo che volendo Roma levare le cagioni de’ tumulti, levava ancora le cagioni dello ampliare4.

Togliere le cause dei tumulti significa imporre una battuta di arresto alla dinamica politica5, poiché eliminando le cause del conflitto si rimuovono nello stesso tempo quelle della sua grandezza e della sua potenza6.

Soprattutto nei capitoli iniziali dei Discorsi Machiavelli mette in luce gli effetti positivi dei conflitti, che rendono possibile l’introduzione del cambiamento e della

                                                                                                               

3 Discorsi, I, 6, p. 77: «Considerando adunque tutte queste cose, si vede come a’ legislatori di Roma era necessario fare una delle due cose, a volere che Roma stesse quieta come le sopradette republiche: o non adoperare la plebe in guerra, come i Viniziani, o non aprire la via a’ forestieri, come gli Spartani. E loro feciono l’una e l’altra: il che dette alla plebe forze e augumento, e infinite occasioni di tumultuare». 4 Discorsi, I, 6, p. 77.

5 F. DEL LUCCHESE, La città divisa: esperienza del conflitto e novità politica in Machiavelli, in

Machiavelli: immaginazione e contingenza, a cura di F. Del Lucchese, L. Sartorello, S. Visentin, ETS,

Pisa 2006, p. 19.

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novità all’interno dello Stato. Tuttavia, non è vero che tutti i conflitti politico-sociali sono interpretati positivamente da Machiavelli: ad esempio, le lotte dell’epoca comunale a Firenze sono state dannose per il vivere libero di questa città, così come i conflitti scatenatisi a Roma al tempo dei Gracchi, dopo la legge agraria.

Il conflitto che pone a confronto plebe e aristocrazia romana, dopo la cacciata dei re, è giudicato positivamente da Machiavelli per il fatto che le due forze in gioco sono riuscite a far pesare le rispettive volontà e a raggiungere in tal modo un equilibrio, che ha tolto ai grandi le occasioni per sopraffare la plebe e alla plebe le occasioni per comportarsi con assoluta licenza7. Questo tipo di conflitto è moderato e la violenza è contenuta entro certi limiti: per questi motivi è da considerarsi positivo8.

A Firenze, la lotta politica è negativa poiché ha come unica finalità la conquista esclusiva del potere e non il mutamento dell’equilibrio politico nell’ambito della stabilità istituzionale. Dato che l’obiettivo delle fazioni fiorentine è quello di instaurare il proprio regime e non di modificare l’equilibrio nei rapporti – come accade, invece, a Roma tra plebe e Senato – il conflitto politico è senza esclusione di colpi: non si esercita attraverso modi ordinari e legali, ma con mezzi illegali e straordinari, cioè con un uso sconsiderato dell’esilio e con violente uccisioni9. È ciò che Machiavelli sancisce a chiare lettere nel proemio delle Istorie fiorentine:

In Roma, come ciascuno sa, poi che i re ne furono cacciati nacque la disunione intra i nobili e la plebe, e con quella infino alla rovina sua si mantenne. Così fece Atene; così                                                                                                                

7 N. MATTEUCCI, Alla ricerca dell’ordine politico. Da Machiavelli a Tocqueville, il Mulino, Bologna 1984, p. 88.

8 Su questo tema ha riflettuto in modo originale F. DEL LUCCHESE, “Disputare” e “combattere”. Modi

del conflitto nel pensiero politico di Niccolò Machiavelli, «Filosofia politica», XV, 2001, 1, pp. 71-95.

9 Le differenze tra il conflitto a Roma e a Firenze sono indicate da N. MATTEUCCI, op. cit., pp. 89-91. Alcuni cenni sulle differenze tra Roma e Firenze si trovano anche in F. DEL LUCCHESE, La città

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tutte le altre republiche che in quelli tempi fiorirono. Ma di Firenze in prima si divisono intra loro i nobili, di poi i nobili e il popolo, e in ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti, rimasa superiore, si divise in due. Dalle quali divisioni ne nacquero tante morti, tanti esili, tante destruzioni di famiglie, quante mai ne nascessero in alcuna città della quale si abbia memoria. E veramente, secondo il giudicio mio, mi pare che niuno altro esemplo tanto la potenza della nostra città dimostri, quanto quello che da queste divisioni depende, le quali arieno avuto forza di annullare ogni grande e potentissima città10.

Il conflitto è da rigettare non soltanto perché diviene violento e distruttivo, ma anche perché divide la città in fazioni11, che combattono per il loro interesse privato. Si tratta di un genere di conflitto che non stimola l’energia espansiva della città, ma annulla qualsiasi possibilità di conservazione, perché sottende la nascita di antagonismi e di profonde scissioni all’interno delle forze politico-sociali della città. Un simile conflitto non serve a riequilibrare le forze in gioco, bensì piuttosto ad introdurre sempre nuove e laceranti divisioni.

La prospettiva adottata da Machiavelli è del tutto distinta da quella di Hobbes e Spinoza che, consci dei possibili esiti sanguinari delle lotte, tentano di estirpare alla radice le cause del conflitto, predisponendo uno Stato ben ordinato e arginando le possibilità di mutamento. I filosofi seicenteschi tendono a privilegiare ordine e stabilità all’interno dello Stato; ferma restando quest’analogia nell’interpretazione del conflitto,                                                                                                                

10 N. MACHIAVELLI, Istorie fiorentine e altre opere storiche e politiche, a cura di Alessandro Montevecchi, in ID., Opere, UTET, Torino 1986, vol. 2, Proemio, p. 281.

11 Il principio per cui le sette danneggiano lo Stato è ribadito da Machiavelli all’inizio del libro settimo delle Istorie fiorentine. Cfr. Op. cit., VII, 1, p. 641: «Vera cosa è che alcune divisioni nuocono alle repubbliche e alcune giovono. Quelle nuocono che sono dalle sette e da partigiani accompagnate, quelle giovano che sanza sette e sanza partigiani si mantengono. […] Le inimicizie di Firenze furono sempre con sette e perciò furono sempre dannose; né stette mai una setta vincitrice unita, se non tanto quanto la setta inimica era viva; ma come la vinta era spenta, non avendo quella che regnava più paura che la ritenesse né ordine infra sé che la frenasse, la si ridivideva».

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va da sé che Spinoza e Hobbes lo temono per ragioni diametralmente opposte. Se Spinoza è preoccupato dal fatto che il disordine spinga il popolo a concentrare il potere nelle mani di una sola persona e, quindi, a istituire un tiranno, Hobbes teme che il disordine spinga il popolo a legittimare il tirannicidio e, quindi, a destituire il tiranno.

Contro Machiavelli, Hobbes intende levare i conflitti dallo stato civile e relegarli nello stato di natura, dove regna il bellum omnium contra omnes12. Conflitto e politica si escludono: quando c’è conflitto non c’è ancora politica (è lo stato di natura) e quando c’è politica non c’è più conflitto (è lo stato civile teorizzato da Hobbes)13. Se Machiavelli è un convinto sostenitore della produttività della lotta sociale a Roma, Hobbes ne è profondamente critico. Mentre il Segretario fiorentino tenta di congiungere ordine e conflitto, per il filosofo di Malmesbury queste due dimensioni si escludono a vicenda: o c’è ordine o c’è conflitto. Dal punto di vista hobbesiano, ordine e conflitto non si possono tenere saldamente congiunti, pena la dissoluzione dello Stato14.

Molteplici sono i motivi che inducono Hobbes a valutare negativamente l’esempio di Roma. Un primo motivo dell’ostilità hobbesiana nei confronti di Roma è legato all’aggressività di cui questo popolo è emblematica espressione, come si legge nell’incipit dell’epistola dedicatoria del De Cive, a William Cavendish, conte del Devonshire:

Il popolo romano, ostile ai re per il ricordo dei Tarquini e per l’ordinamento dello Stato, teneva per massima (mio eccellentissimo signore), pronunciata per bocca di Marco Catone il Censore, che tutti i re appartenessero al genere delle belve feroci. Ma quale                                                                                                                

12 G. BORRELLI, Il lato oscuro del Leviathan. Hobbes contro Machiavelli, Edizioni Cronopio, Napoli 2009, p. 247.

13 Su questo punto ha insistito R. ESPOSITO, Ordine e conflitto in Machiavelli e Hobbes, in ID., Ordine

e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, Liguori, Napoli 1984, p. 187.

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belva era lo stesso popolo romano, che aveva depredato quasi tutto il mondo, per mezzo degli Africani, degli Asiatici, dei Macedonici, degli Acaici, e degli altri cittadini che avevano ricevuto un soprannome dalle genti spogliate?15

La brama di conquista del popolo romano è avversata da Hobbes, che giunge a paragonarla ad un’aggressività ferina, che non si è ancora elevata alla razionalità umana. Anche la tradizione antimonarchica rappresentata da Roma è profondamente osteggiata da Hobbes: la predilezione per il governo popolare manifestata dagli scrittori Greci e Romani ha contribuito a diffondere un sentimento di avversione – del tutto ingiustificato agli occhi del pensatore inglese – nei confronti della monarchia. Oltre a ciò, i libri degli autori antichi istigano alla sedizione; questo costituisce indubbiamente un ulteriore fattore di ostilità nei confronti dell’esempio romano. In qualità di libri dai contenuti velenosi, essi devono essere eliminati o, quantomeno, emendati e corretti.

Più sfumata rispetto a quella hobbesiana è la valutazione di Roma fornita da Spinoza. Su alcuni punti il filosofo olandese è convinto che il modello romano non sia da seguire. Ad esempio, valuta negativamente le guerre espansionistiche romane, poiché, dal suo punto di vista, la guerra deve essere soltanto difensiva16. Spinoza prende inoltre le distanze da alcune istituzioni politiche tipiche della storia romana. L’istituzione del Tribunato della plebe, celebrata da Machiavelli come guardia della libertà, è criticata da Spinoza per aver generato numerose rivolte popolari17. Sulla carica del dittatore Spinoza è più incerto. Da un lato, apprezza l’esempio romano a proposito della nomina del dittatore non a data fissa, ma soltanto nelle situazioni di emergenza. Dall’altro lato, si rende conto che il potere dittatoriale, configurandosi come un potere                                                                                                                

15 T. HOBBES, De Cive, p. 63.

16 Su questo punto si veda V. MORFINO, op. cit., p. 128. 17 TP, X, 3, p. 221; TTP, cap. XVIII, p. 453.

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regio, «non si può conferire a un singolo senza intaccare la forma dello stato»18. Roma non costituisce sempre un modello negativo, da guardare con sospetto e diffidenza, anche se l’esempio romano – come del resto, anche l’esempio ebraico – è da rimodellare e da ripensare. È evidente, tuttavia, che nei testi spinoziani non si ritrova la critica feroce, che si rinviene in Hobbes, verso le fonti antiche, le dottrine sediziose e antimonarchiche dei Greci e dei Romani.

2. Diversi concetti di libertà

La soluzione hobbesiana per uscire dallo stato di natura prevede che gli uomini trasferiscano il loro potere a un solo uomo (o a un’assemblea di uomini), in modo tale da consentire la costituzione di un corpo artificiale – lo Stato – che detenga il potere supremo e rappresenti un’unica volontà. Dopo la stipulazione del patto, gli uomini diventano sudditi, mentre il sovrano detiene un potere assoluto. In questo contesto, la libertà del suddito è ridotta alla sfera non soggetta al controllo della suprema potestas e viene definita come «assenza di opposizione»19, assenza di impedimenti esterni. La libertà dei sudditi, quindi, si identifica con ciò che il sovrano permette nel regolare le loro azioni:

Infatti, visto che non esiste stato al mondo in cui ci siano regole scritte sufficienti per regolare tutte le azioni e le parole umane (perché è una cosa impossibile), ne segue

                                                                                                               

18 TP, X, 1, p. 219.

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necessariamente che in ogni genere di azione tralasciata dalle leggi gli uomini hanno la libertà di fare ciò che la loro ragione suggerirà come più proficuo per se stessi20.

Hobbes riconosce a ciascun individuo il diritto di conservare la propria vita, che implica la libertà di difendere il proprio corpo contro le aggressioni (anche contro quelle legittime) e l’impossibilità di autoaccusarsi21. Come precisa Hobbes: «nei casi in cui il sovrano non ha prescritto regole, il suddito ha la libertà di agire o di non agire a propria discrezione»22.

Fino a quando il sovrano è in grado di garantire la sicurezza ai suoi sudditi, essi sono obbligati nei suoi confronti. Quando, invece, il sovrano fallisce nell’adempiere al suo compito più importante, i sudditi sono svincolati dall’obbedienza. Nei suoi testi politici Hobbes elenca i pochissimi casi in cui i sudditi sono sollevati dall’obbedienza al sovrano23. Quando un suddito viene preso prigioniero in guerra o esiliato, di conseguenza il vincolo che lo legava al sovrano si scioglie; lo stesso vale quando il sovrano divenga suddito di un altro oppure svincoli deliberatamente dal governo sé stesso e i suoi eredi.

Mediante la definizione di libertà Hobbes intende sgombrare il campo da fraintendimenti a proposito di un concetto spesso confuso. Secondo il pensatore inglese, le ambiguità di significato che da sempre caratterizzano il concetto di libertà sono da imputare agli scrittori Greci e Romani, i cui testi sono stati fonte di confusione. Gli scrittori antichi sono soliti elogiare la libertà dei sovrani, non quella dei singoli

                                                                                                               

20 L., II, cap. XXI, §6, p. 347.

21 Questi casi sono previsti da Hobbes: cfr. L., II, cap. XXI, §§11-17, pp. 355-357. 22 L., II, cap. XXI, §18, p. 359.

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individui24: dato che non mettono in luce le differenze tra questi diversi generi di libertà, essi contribuiscono – intenzionalmente, secondo Hobbes – a creare fraintendimenti.

Nel pensiero di Spinoza si riscontra un concetto di libertà dal contenuto diverso rispetto a quello hobbesiano25. Nel capitolo XX del Trattato teologico-politico Spinoza mette in luce in maniera chiara quali siano gli effettivi diritti dei cittadini al momento della stipulazione del patto con la suprema potestas. Dopo il patto, i contraenti non rinunciano al diritto di ragionare e di giudicare, quanto piuttosto al diritto di agire sulla base della propria decisione:

Quindi, ognuno rinunciò soltanto al diritto di agire secondo il proprio decreto, ma non al diritto di ragionare e di giudicare; e perciò, salvo restando il diritto delle somme potestà contro il cui decreto nessuno può agire, ognuno può pensare e giudicare, e dunque anche parlare, senza restrizione alcuna, e purché si limiti semplicemente a parlare e a insegnare, difendendo le sue tesi con la sola ragione e non con l’inganno, con l’ira, con l’odio, né al fine di introdurre novità nella repubblica in base all’autorità del proprio decreto26.

È possibile, nell’ottica di Spinoza, esercitare la libertà di giudizio e di pensiero, difendendo le proprie tesi attraverso l’uso della ragione. È proprio la ragione a costituire l’elemento discriminante: per sostenere le proprie tesi non è permesso ricorrere all’inganno. In questo modo il filosofo olandese pone in contrapposizione la chiarezza della ragione all’opacità dell’inganno e questa precisazione già segnala i limiti della                                                                                                                

24 Cfr. L., II, cap. XXI, §8, pp. 349-351: «La libertà, che viene menzionata di frequente e con onore nella storia e nella filosofia degli antichi Greci e Romani e negli scritti e nei discorsi di coloro che da essi hanno tratto tutto ciò che sanno sulla politica, non è la libertà degli uomini singoli, ma la libertà dello stato, che coincide con ciò che ognuno dovrebbe avere se non ci fossero né leggi civili né stato».

25 Sul concetto di libertà si veda un importante saggio di E. GIANCOTTI, Necessità e libertà. Riflessioni

sui testi spinoziani, in EAD., Studi su Hobbes e Spinoza, a cura di D. Bostrenghi e C. Santinelli,

Bibliopolis, Napoli 2005, pp. 57-80. 26 TTP, cap. XX, p. 483.

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libertà di giudizio. Il contenuto spinoziano di libertà non coincide, beninteso, con la licenza assoluta di dire e fare quello che si vuole: il limite è posto dalla correttezza del procedimento razionale; altrimenti si scivolerebbe nell’inganno, che è invece da evitare27.

Naturalmente, vi sono modi differenti per esprimere la propria opinione: Spinoza considera come esempio il caso dell’abrogazione di una legge ingiusta. Se un cittadino, ritenendo ingiusta una legge, dimostra la necessità di abrogarla sottoponendola al giudizio della sovrana potestà, si deve considerare un cittadino onesto. Se, al contrario, l’iniziativa del cittadino è soltanto un pretesto per accusare il magistrato, metterlo in cattiva luce e indebolire così la sua posizione, allora quest’uomo è da considerarsi, a conti fatti, un ribelle28. Se, nel primo caso, la libertà di opinione rappresenta una condizione del tutto desiderabile, poiché permette al cittadino di esporre correttamente le sue ragioni nel rispetto della legge vigente e dell’autorità sovrana, nel secondo caso, questa stessa libertà non è auspicabile, perché si rivela utile ad attuare uno stratagemma sedizioso, al fine di ostacolare e mettere in difficoltà chi detiene il potere supremo.

La libertà di giudizio teorizzata da Spinoza non è illimitata, poiché il diritto di pensare liberamente non si estende alle opinioni sovversive. Secondo la definizione spinoziana, è sovversivo tutto ciò che, al suo stesso manifestarsi, è tale da annullare il patto. Spinoza riporta alcuni esempi di opinioni sovversive:

                                                                                                               

27 La volontà di porre un limite alla libertà è già esplicitata da Spinoza in TTP, cap. XX, p. 481: «Ora ci spetta dunque il compito di valutare entro quali limiti questa libertà possa e debba essere concessa a ognuno, salvi restando la pace della repubblica e il diritto delle somme potestà».

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Ad esempio, se qualcuno ritiene che la potestà non sia di proprio diritto sovrana, o che nessuno debba mantenere le promesse, o che ognuno debba vivere secondo il proprio arbitrio (o altre analoghe opinioni, tutte direttamente in contrasto con il patto suddetto), costui è un sovversivo; ma non tanto a causa di tale giudizio e di tale opinione, quanto per la conseguenza che tali giudizi implicano, in quanto, per il fatto stesso di avere questa opinione, egli si svincola dalla fedeltà che aveva tacitamente o espressamente assicurata alla sovrana potestà29.

Sono sovversive le opinioni che implicano azioni contro lo Stato. Esse sono volte direttamente a distruggere le basi su cui è fondato lo Stato, vale a dire, in ultima battuta, il vincolo di fedeltà tra sudditi e sovrano, scaturito dal patto. Al contrario, tutte quelle opinioni che non mirano a rompere il patto possono essere liberamente espresse30. Infine, occorre precisare che a fronte della libertà di pensiero, difesa e celebrata da Spinoza, l’azione compiuta dai cittadini deve essere sempre conforme alla legge31.

La differenza di contenuto del concetto di libertà proposto dai due autori non può considerarsi marginale. Se Hobbes definisce per i sudditi la libertà da impedimenti esterni, ma non prevede la libertà di pensare e fare – vale a dire una libertà dal contenuto positivo –, Spinoza teorizza la libertà di pensiero e di parola (di cui il Trattato

                                                                                                               

29 TTP, cap. XX, p. 485.

30 Cfr. TTP, cap. XX, p. 485: «Parallelamente, le altre opinioni, che non determinano atti quali la rescissione del patto, la vendetta, l’ira ecc., non sono sovversive, se non forse in uno Stato in qualche modo corrotto, laddove cioè i superstiziosi e gli ambiziosi, i quali non possono tollerare gli uomini liberi, abbiano acquisito un tale prestigio che, presso la plebe, la loro autorità ha più valore di quella delle somme potestà». Su questo punto insiste anche E. GIANCOTTI, Realismo e utopia. Limiti delle libertà

politiche e prospettiva di liberazione nella filosofia politica di Spinoza, in EAD., Studi su Hobbes e Spinoza, cit., p. 139.

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teologico-politico intende essere il manifesto32), che va a costituire lo strumento della critica nei confronti degli eventuali arbitrii del potere costituito33. La libertà di giudizio e di parola consente di mettere in discussione la validità di certe leggi e principi e di promuoverne la modificazione, ma non compromette la stabilità dello Stato finché la critica non si traduce in azioni contro di esso34.

3. Parole e azioni

In merito al rapporto tra azione e opinione, il principio generale che Spinoza considera valido è quello per cui le azioni debbano essere, in base al diritto dello Stato, perseguibili, mentre le parole non debbano essere punite35, eccetto, naturalmente, le opinioni sovversive, che vengono trattate come azioni36.

Il motivo per cui le azioni debbano essere separate dalle opinioni è legato in larga parte alle controversie religiose, come esplicitamente ammesso da Spinoza nella prefazione al Trattato teologico-politico. Di fronte agli interventi del potere politico in materia di opinioni, le controversie tendono a degenerare in sedizioni:

                                                                                                               

32 Sulla molteplicità dei significati sottesi alla libertas philosophandi e via via emersi nel corso del TTP si interroga F. BIASUTTI, Prospettive su Spinoza, Verifiche, Trento 1990, pp. 100-101.

33 E. GIANCOTTI, Individuo e Stato nelle prime teorizzazioni dello Stato moderno. Hobbes e Spinoza a

confronto, in D. Bostrenghi, C. Santinelli (a cura di), Pagine sul Seicento. Per Emilia Giancotti,

Centrostampa, Urbino 1994, p. 66.

34 E. GIANCOTTI, Libertà, democrazia e rivoluzione in Spinoza. Appunti per una discussione, «Giornale critico della filosofia italiana», LVI, 1977, 3-4, p. 367.

35 Questo principio è ribadito in vari luoghi da Spinoza. Cfr. TTP, cap. XX, p. 495: «Concludiamo perciò (come nel Capitolo XVIII) che nulla è più sicuro per la repubblica del fatto che […] il diritto delle somme potestà – sia in materia sacra che profana – si applichi soltanto alle azioni: per il resto, sia concesso a ognuno di pensare quel che vuole e di dire quel che pensa».

36 Sulla punizione degli atti sediziosi e non delle dottrine cfr. J. PRÉPOSIET, Libéralisme et sédition.

Note sur le chapitre XX du Tractatus theologico-politicus, «Giornale critico della filosofia italiana», LVI,

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Per ciò che attiene alle sedizioni suscitate in nome della religione, esse certamente nascono dalla promulgazione di leggi concernenti questioni di carattere speculativo, e dal fatto che le opinioni vengono incriminate e condannate alla stregua di delitti, e i loro difensori e sostenitori immolati, non alla salute pubblica, ma all’odio e alla crudeltà degli avversari. Se invece, secondo il diritto dello Stato, “fossero perseguibili soltanto le azioni, mentre le parole restassero immuni da sanzioni”, simili sedizioni non potrebbero ammantarsi di alcuna apparenza di diritto e le controversie non si trasformerebbero in sedizioni37.

È verosimile che Spinoza approdi alla distinzione tra la sfera dell’opinione e quella dell’azione attraverso la tradizione ebraica dell’ortoprassi, che nasce come una traduzione della fede sul piano dell’azione e consiste nel retto agire, nel retto operare. L’azione corretta si può affrancare dall’autenticità dell’opinione e dall’effettivo credere nell’azione compiuta; in tal modo, l’ortoprassi, il retto operare, diviene un elemento basilare del vivere civile, separandosi dalle convinzioni religiose.

Spinoza giunge così a sostenere il principio per cui soltanto le azioni – e non le opinioni – debbano essere punite. Su questo punto un solco profondo divide le posizioni di Spinoza e Hobbes, che nel Leviatano attribuisce al sovrano la facoltà censoria sulle opinioni dei sudditi. Per il pensatore inglese le azioni degli uomini discendono necessariamente dalle loro opinioni e per questo motivo le dottrine contrarie alla pace devono essere eliminate o corrette nell’interesse della concordia e della conservazione dello Stato. Nei suoi testi politici Hobbes individua alcune dottrine sediziose e insiste che è compito del sovrano estirpare le dottrine false e insegnare le opinioni compatibili con la pace e la sicurezza dello Stato. In materia di educazione dei cittadini e di                                                                                                                

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controllo delle opinioni, il ruolo esercitato dal sovrano è, dal punto di vista hobbesiano, assolutamente decisivo. Nei casi di dissoluzione dello Stato, il responsabile della crisi è, in prima battuta, il sovrano stesso che ha fallito nel suo compito di mantenere la sicurezza all’interno dello Stato e che non è stato in grado di identificare i germi della decadenza. Dato che «la lingua dell’uomo è una tromba di guerra e di sedizione»38, Hobbes prevede che il detentore del potere supremo abbia anche «il diritto di giudicare quali opinioni e dottrine siano ostili alla pace, e di vietare che siano insegnate»39. Attraverso i compiti del sovrano, il filosofo di Malmesbury mira a fondare una teoria politica che serva a contenere qualsiasi forma di dissenso.

A differenza di Hobbes, un potere che si esercita sull’animo dei cittadini viene profondamente avversato da Spinoza. Come spiega in un passo del Trattato teologico-politico, un potere violento si configura come una forma di usurpazione:

Ne consegue, perciò, che un potere che si esercita sugli animi sia considerato violento, e che la somma maestà sembri offendere i sudditi e usurparne il diritto, quando intende prescrivere a ciascuno cosa ammettere come vero e cosa respingere come falso, nonché da quali convinzioni l’animo di ciascuno debba essere mosso nella devozione verso Dio40.

Per Spinoza il diverso ruolo svolto dalla summa potestas è ciò che distingue uno stato violento da uno moderato:

                                                                                                               

38 De Cive, cap. V, §5, p. 126. 39 De Cive, cap. VI, §11, p. 134. 40 TTP, cap. XX, p. 479.

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Violentissimo sarà dunque quello Stato in cui sia negata a ognuno la libertà di dire e di insegnare ciò che pensa, mentre sarà invece moderato quello in cui questa stessa libertà sia concessa a ciascuno41.

Su questo punto si segnala una profonda differenza tra Hobbes e Spinoza. Per il filosofo inglese non vi è alcuna violenza nelle prerogative sovrane; anzi, proprio all’interno dei compiti del sovrano si ritrovano le contromisure per evitare la decadenza dello Stato, il ritorno nello stato di natura e nella violenza originaria42. Per questo motivo si rende necessario stabilire un potere assoluto:

Infatti, gli uomini che sono governati in maniera tanto negligente da osare di prendere le armi per difendere o per introdurre un’opinione, sono ancora in armi per paura degli altri, e vivono come se fossero continuamente in procinto di battaglia. Appartiene dunque a chi detiene il potere sovrano la prerogativa di essere giudice o di nominare tutti i giudici delle opinioni e delle dottrine, come una cosa necessaria per la pace, tramite cui prevenire la discordia e la guerra civile43.

Come si evince da questo passo del Leviatano, fa parte delle prerogative sovrane giudicare le dottrine e controllare in tal modo le opinioni dei sudditi, stabilendo quelle ammesse. Il corretto svolgimento di questa funzione non soltanto è auspicabile, ma è necessario per il mantenimento della pace. Il giudizio e il controllo delle opinioni sono strumenti nelle mani del sovrano contro le minacce che possono insorgere in seno allo Stato. L’esercizio di questa stessa funzione è considerato da Spinoza tipico di una forma                                                                                                                

41 TTP, cap. XX, p. 481.

42 La violenza nello stato di natura è provocata dal fatto che tutti gli uomini sono caratterizzati dalla volontà di nuocersi a vicenda. Cfr. De Cive, cap. I, §3, p. 83: «La causa della paura reciproca consiste in parte nell’uguaglianza naturale degli uomini, in parte nella volontà di nuocersi l’un l’altro».

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di potere violento, invadente, lesivo dei diritti dei sudditi. Nell’ottica spinoziana un potere violento è destinato a non conservarsi, poiché la durata e la stabilità del potere sono strettamente legate alla sua moderazione44.

Spinoza è ben consapevole del fatto che la libertà di opinione possa causare degli inconvenienti45: in particolare, gli svantaggi che potrebbero nascere dalla libertà di espressione sono paragonabili ai mali che scaturiscono dall’invidia, dall’avidità o dal lusso. Nonostante questi mali costituiscano indubbiamente dei vizi, non possono essere proibiti dalla legge, sia perché non tutto può essere regolamentato sia perché i vizi, una volta vietati, verrebbero stimolati piuttosto che corretti. Allo stesso modo in cui è insensato emanare leggi contro il lusso e l’inoperosità, promulgare leggi intorno alle opinioni è un procedimento non soltanto inutile, ma addirittura svantaggioso per i cittadini onesti.

La libertà di giudizio non soltanto non è un vizio, ma, al contrario, è una virtù, perché funge da stimolo per la promozione delle scienze e delle arti, che «vengono coltivate con successo solo da coloro che hanno un giudizio libero e del tutto privo di preconcetti»46

. Il filosofo olandese giudica instabile un regno che predisponga leggi intorno alle opinioni, poiché, in questo modo, viene inevitabilmente circoscritta la libertà di pensiero e di opinione, appartenente a ciascun individuo. Dal suo punto di vista, inconvenienti maggiori si hanno negli Stati in cui la libertà di giudizio non viene riconosciuta. Lo scenario immaginato da Spinoza si incentra sulla possibilità che sorga una discrepanza tra ciò che si pensa e ciò che si dice: è questa una condizione pericolosa                                                                                                                

44 Si vedano le citazioni di Seneca in TTP, cap. V, p. 137: «Come dice Seneca tragico, nessuno conserva a lungo poteri violenti, mentre quelli moderati hanno lunga durata» e TTP, cap. XVI, p. 383: «Infatti, come dice Seneca, “nessuno ha mai conservato a lungo un potere fondato sulla violenza”».

45 TTP, cap. XX, p. 487: «Indubbiamente – lo ammetto – da una tale libertà nascono talora degli inconvenienti; ma cosa mai fu istituito in modo tanto saggio che non ne sia potuto derivare alcun inconveniente? Chi vuol determinare tutto per legge, stimolerà i vizi piuttosto che correggerli».

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perché l’apparente armonia tra le opinioni dei sudditi e le direttive dei sovrani potrebbe nascondere un profondo scollamento tra le azioni esteriori compiute dai sudditi e le convinzioni interiori del loro animo. Questo possibile rischio viene tratteggiato in un passaggio spinoziano:

Ma si supponga che questa libertà possa essere repressa, e che gli uomini possano venire a tal punto dominati da non osar nemmeno mormorare senza il permesso delle somme potestà: anche in tal caso, non potrà mai accadere che essi pensino esclusivamente quel che vogliano le somme potestà, e perciò necessariamente ne seguirebbe che gli uomini penserebbero ad una cosa, ma ne direbbero sempre un’altra; per conseguenza, la buona fede – assolutamente necessaria in una repubblica – si corromperebbe, e verrebbero incoraggiate l’abominevole adulazione e la perfidia, da cui scaturiscono le frodi e la corruzione di tutti i buoni costumi47.

La corruzione dei costumi è l’effetto inevitabile di uno Stato in cui non sia permesso di pensare liberamente: in un caso simile, le azioni dei cittadini si conformano esternamente alle leggi civili, mentre le loro opinioni e convinzioni personali possono discostarsene. Spinoza sta qui mettendo in discussione l’idea che lo Stato abbia il potere di controllare e veicolare le opinioni dei cittadini, poiché in uno Stato di questo genere è incoraggiata l’attitudine ad ingannare, piuttosto che a fare uso della ragione.

Per Spinoza un valido esempio, in cui il principio della separazione tra sfera dell’opinione e sfera dell’azione è pienamente rispettato, è rappresentato dalla città di Amsterdam, dove è di primaria importanza rispettare le leggi e vivere onestamente,

                                                                                                               

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senza considerare le credenze religiose o le convinzioni personali48. Agli occhi di Spinoza, è possibile che gli uomini vivano nella concordia, agendo nel rispetto della legge civile, sebbene siano caratterizzati da opinioni, credenze e convinzioni differenti e addirittura opposte49.

Mentre Spinoza pone una cesura netta tra opinioni e azioni, Hobbes le vede in continuità: per il filosofo olandese soltanto le azioni – non le parole – devono essere perseguibili, mentre per il filosofo inglese il sovrano ha il dovere di controllare le opinioni, poiché «il buon governo delle azioni degli uomini consiste nel buon governo delle loro opinioni»50. Anche nel Behemoth Hobbes insiste sul ruolo potenzialmente sovversivo esercitato dalle opinioni: dato che gli uomini seguono le loro volontà e opinioni, la sovranità trova necessariamente il suo fondamento nelle credenze del popolo51. Perché si mantengano ordine e pace nello Stato, la suprema potestas non può consentire al popolo di credere che ogni singolo individuo mantenga anche nella società civile il diritto di giudicare privatamente, di cui gode necessariamente nello stato di natura. Nel passaggio alla società civile, il cittadino perde – a vantaggio del sovrano – la sua illimitata possibilità di giudizio, tipica dello stato di natura, e si sottomette alle leggi civili. Tuttavia, spesso manca questa consapevolezza nei cittadini, che, ignorando i loro                                                                                                                

48 TTP, cap. XX, p. 491: «In questa fiorentissima repubblica e insigne città, tutti gli uomini, di qualunque nascita e setta essi siano, vivono infatti nella massima concordia, e per concedere un prestito a qualcuno, si preoccupano soltanto di sapere se questi sia ricco o povero, e se solitamente agisca in buona fede o con dolo. Per il resto, la religione o la setta non li preoccupa affatto, perché dinanzi al giudice essa non serve né ad assolverlo né a condannarlo». Un riferimento alla libertà come caratteristica principale della città di Amsterdam è ravvisabile anche nella prefazione del TTP, p. 9.

49 A proposito della molteplicità di opinioni fra gli uomini Spinoza ricorre spesso all’immagine delle differenze fra i palati, ad indicare differenze di gusti: cfr. TTP, cap. XX, p. 479. Cfr. anche Etica, I, appendice, pp. 73-75: «Sebbene infatti i corpi umani abbiano tante cose in comune, in moltissime altre differiscono, e perciò quello che ad uno pare buono pare cattivo all’altro; ciò che per l’uno è ordinato, è confuso per un altro, ciò che è gradito ad uno, è sgradito ad un altro […]. È infatti sulla bocca di tutti che tante sono le teste quanto le opinioni, che di sentenziare chiunque è capacissimo, e che non ci sono meno differenze tra i cervelli che tra i palati».

50 L., II, cap. XVIII, p. 293.

51 W. R. LUND, Hobbes on opinion, private judgment and Civil War, «History of Political Thought», XIII, 1992, 1, p. 72.

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diritti e doveri, sono naturalmente predisposti a fraintendere le prerogative sovrane e ad arrogarsi diritti che non hanno realmente. A differenza di Spinoza, Hobbes è preoccupato che dalla sfera dell’opinione possano derivare molti inconvenienti, come le false credenze o le dottrine sediziose, che possono divenire cause di dissenso. È per questo motivo che garantire ai cittadini un’estesa libertà di espressione significa irreversibilmente perdere il controllo sulle loro azioni.

4. Salus populi tra Machiavelli, Spinoza e Hobbes

Il principio della salus populi suprema lex costituisce un valore condiviso da Machiavelli, Spinoza e Hobbes. Nel pensiero machiavelliano, qualsiasi giudizio di valore sulle modalità in cui la salvezza del popolo viene raggiunta è subordinato al principio supremo della conservazione dello Stato. È questo il ragionamento che emerge chiaramente in un passo dei Discorsi:

[…] perché dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà52.

La salute dello Stato, intesa come conservazione delle istituzioni politiche e come mantenimento – se già raggiunta – della libertà dei cittadini, è posta in primo piano da

                                                                                                               

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Machiavelli. È lo stesso principio della preservazione della struttura statale che giustifica le azioni intraprese al fine di salvaguardare le istituzioni.

Anche nel pensiero di Hobbes e Spinoza il principio della salus populi è di primaria importanza. Nel Trattato teologico-politico Spinoza sostiene che «il bene del popolo è legge suprema cui tutte [le cose, ndr], tanto le umane che le divine, debbono conformarsi»53. Nel puntare l’attenzione su questo principio, Spinoza si richiama ai testi machiavelliani, riprendendo direttamente l’esempio, citato in vari luoghi dei Discorsi54, di Manlio Torquato, che ha anteposto il bene della patria alla pietà verso il figlio55.

Hobbes ribadisce in tutte le sue opere che il principio della conservazione dello Stato è imprescindibile: tutti i compiti del sovrano si possono riassumere nel principio della salus populi suprema lex. Il pensatore inglese insiste su questo punto nel De Cive, quando si occupa dei doveri di chi detiene la suprema potestas56, dove specifica che per

salute del popolo «non si deve intendere soltanto la conservazione della vita, a qualsiasi condizione; ma una vita per quanto possibile felice»57. La salute del popolo non coincide con la mera sopravvivenza, ma con la garanzia ai sudditi del benessere e della sicurezza58. È nell’interesse degli stessi governanti assicurare ai cittadini benessere e

                                                                                                               

53 TTP, cap. XIX, p. 465.

54 Questo punto è mostrato chiaramente da V. MORFINO, Il tempo e l’occasione, cit., pp. 94-95. L’esempio di Manlio Torquato è citato da Machiavelli in vari luoghi dei Discorsi. Ad esempio, cfr. N. MACHIAVELLI, Discorsi, I, 16; III, 22; III, 34.

55 TTP, cap. XIX, pp. 463-465: «La pietà verso la patria è indubbiamente la più alta che un uomo possa dimostrare. Fuori dello Stato, infatti, non può esistere nulla di buono, e tutto viene messo in crisi mentre – con grande terrore di tutti – regnano soltanto l’ira e l’empietà; ne consegue che in favore del prossimo non può essere compiuta alcuna pia azione che non sia empia, ove ne derivi un danno per l’intero Stato, e che – al contrario – a danno del prossimo non può essere commessa alcuna empietà che non si ascriva a pietà, ove la si sia compiuta al fine della conservazione dello Stato. […] È per questo che viene celebrato Manlio Torquato: perché in lui il bene del popolo prevalse sulla pietà verso il figlio».

56 De Cive, cap. XIII, §2, p. 194: «Poiché i poteri sono stati costituiti in vista della pace, e la pace è ricercata per la salute, chi ha il potere, se lo usa altrimenti che per la salute del popolo, agisce contro le ragioni della pace, cioè contro la legge naturale».

57 De Cive, cap. XIII, §4, p. 194.

58 Questa è una costante del pensiero hobbesiano, ribadita anche nell’ultima opera politica, dove il principio della salus populi è considerato una legge fondamentale. Cfr. Behemoth, II, pp. 79-80: «né per

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sicurezza, perché in tal modo si evitano conflitti e ribellioni dovuti al malcontento e all’insoddisfazione dei membri del popolo59. È un concetto che Hobbes delinea chiaramente negli Elementi di legge:

[…] questi tre elementi: 1) la legge sovrastante coloro che detengono il potere sovrano; 2) il loro dovere; 3) il loro profitto, sono una medesima cosa contenuta nella sentenza Salus populi suprema lex60.

Se è vero che il principio della salus populi rimane un punto fermo delle teorie politiche di Hobbes e Spinoza, tuttavia, tra le loro dottrine si pone una differenza rilevante a proposito del fine ultimo dello Stato.

Nella teoria politica di Hobbes, il fine dello Stato consiste esclusivamente nel garantire la sicurezza individuale. La garanzia della sicurezza costituisce senza dubbio il fulcro dell’intera teoria politica hobbesiana, e il motivo principale per cui gli uomini stipulano il patto che dà origine allo Stato61. Il concetto di sicurezza rappresenta un punto cruciale della riflessione hobbesiana, poiché la stessa costruzione dello Stato intende eliminare una conflittualità senza limiti che è insita nella natura dell’uomo, sia considerato come singolo individuo sia considerato nelle relazioni interumane. Il concetto di sicurezza si innesta su un’antropologia negativa: è l’eguaglianza naturale tra                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    

un re c’è altra legge fondamentale che questa: salus populi, cioè la sicurezza e il benessere del suo popolo».

59 Questo punto è sottolineato anche da D. BAUMGOLD, Hobbes Political Theory, Cambridge University Press, Cambridge 1988, p. 107.

60 Elementi di legge, II, cap. IX, §1, p. 250.

61 Cfr. L., cap. XVII, §1, p. 275: «La causa finale, il fine o il disegno degli uomini (che per natura amano la libertà e il dominio sugli altri) nell’introdurre ciò che esercita su di loro quel controllo sotto il quale li vediamo vivere negli stati, è la previsione della propria conservazione e, con questo, di una vita più appagante, vale a dire la previsione di sottrarsi a quella miserabile condizione di guerra, che è necessariamente conseguente (come si è mostrato nel tredicesimo capitolo) alle passioni naturali degli uomini, quando non c’è un potere visibile che li tenga in soggezione e che, con la paura della punizione, li vincoli all’adempimento dei loro patti e all’osservanza delle leggi di natura».

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gli uomini a far crescere, oltre alla sensazione di reciproca diffidenza, la paura della morte violenta e il timore di continui pericoli62.

All’atto di fondazione dello Stato attraverso il patto, il sovrano assume il compito di procurare la sicurezza del popolo: questo rappresenta per lui un obbligo dettato dalla legge di natura63. Nello stato civile la sicurezza deve essere garantita dal sovrano attraverso «provvedimenti generali a livello della pubblica istruzione», oltre che «facendo e rendendo esecutive delle buone leggi»64. La garanzia della protezione e della sicurezza è ciò che lega i sudditi al sovrano e che mantiene valido il patto: se, infatti, il sovrano non è più in grado di assicurare al popolo la sicurezza, allora lo Stato si considera, a tutti gli effetti, dissolto. Di fronte alla dissoluzione dello Stato, insiste Hobbes, «ognuno è libero di proteggere se stesso a propria totale discrezione»65. Con la disgregazione dell’unità dello Stato, rappresentata dal sovrano, si scioglie il patto e si ritorna, di fatto, allo stato di natura, in cui ciascuno cerca di conservare la propria vita nel modo che ritiene più opportuno.

Nella teoria politica elaborata da Spinoza, si ritrova sviluppato il concetto di sicurezza, ma come precondizione del raggiungimento del vero fine dello Stato che è la libertà. Per comprendere a fondo questo punto, occorre ragionare brevemente della dottrina spinoziana dell’identificazione tra jus e potentia, vale a dire tra diritto naturale e potenza. È la potentia di ciascuno, definita come capacità di potere esistere e operare66 secondo la propria determinazione, a costituire il fondamento del diritto naturale individuale. Il meccanismo situato alla base del patto è il trasferimento del proprio diritto naturale a qualcuno. Se il diritto naturale di ciascuno è determinato dalla potenza,                                                                                                                

62 Cfr. L. NOCENTINI, Il luogo della politica. Saggio su Spinoza, ETS, Pisa 2001, p. 301. 63 L., II, cap. XXX, §1, p. 543.

64 L., II, cap. XXX, §2, p. 545. 65 L., II, cap. XXIX, §23, p. 543.

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da ciò consegue che quanto della sua potenza ciascuno trasferisce ad un altro, altrettanto cede necessariamente del suo diritto. Cosicché chi ha il supremo diritto su tutti è colui che ha la suprema potestà. Attraverso l’identificazione tra jus e potentia, Spinoza stabilisce come qualsiasi trasferimento del diritto dipenda da un principio cardine, secondo cui nessuno può trasferire la sua potenza e, di conseguenza, il suo diritto, al punto tale da cessare di essere un uomo67. In altre parole, proprio perché l’individuo non può mai cedere interamente il proprio diritto naturale e cioè la propria potenza, la natura umana non può mai essere interamente costretta68. Il principio dell’impossibilità di un trasferimento integrale è rispettato nel momento stesso in cui Spinoza riconosce che ciascun individuo si riserva almeno una parte del suo diritto, facendo in modo che questa stessa parte dipenda soltanto dalla sua personale decisione e non da quella altrui69.

Dall’identificazione operata da Spinoza tra jus e potentia discende la tematica della libertà. Il principio secondo cui nessun individuo può trasferire interamente a un altro il proprio diritto naturale trova concreta espressione nel preservare la propria capacità di ragionare e di giudicare liberamente. Il fine ultimo dello Stato per Spinoza è liberare gli uomini dalla paura e garantire loro la sicurezza necessaria alla vita, non costringerli e tenerli a freno con il terrore e le minacce. In ultima istanza, l’edificio statale è finalizzato a consentire agli uomini di conservare nel miglior modo il diritto naturale ad esistere e operare, affinché essi possano vivere usando liberamente la propria ragione. È giustamente celebre il brano tratto dal capitolo conclusivo del                                                                                                                

67 Cfr. TTP, cap. XVII, p. 398: «Infatti, nessuno potrà mai trasferire in altri la sua potenza, e conseguentemente nemmeno il suo diritto, al punto da cessare di essere un uomo».

68 Bove utilizza questo principio come perno per giustificare la capacità individuale di resistenza nel pensiero di Spinoza. Cfr. L. BOVE, Il diritto di non essere comandati. Moltitudine e antropogenesi, in

Spinoza: individuo e moltitudine, Atti del convegno internazionale (Bologna, 17-19 novembre 2005), a

cura di R. Caporali, V. Morfino, S. Visentin, Il Ponte Vecchio, Cesena 2007, pp. 79-91.

69 Cfr. TTP, cap. XVII, pp. 398-400: «Si deve dunque ammettere che ogni individuo riservi per sé molti dei propri diritti, i quali perciò non dipendono dalla decisione di alcuno, ma unicamente dalla propria».

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Trattato teologico-politico:

Come ripeto, lo scopo della repubblica non consiste nel trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o in automi, ma invece nel far sì che le loro menti e i loro corpi adempiano in sicurezza alle loro funzioni, e che essi stessi facciano uso della libera ragione, senza rivaleggiare nell’odio, nell’ira e nell’inganno, e senza fronteggiarsi con animo iniquo. Scopo della repubblica è dunque, in realtà, la libertà70.

Se per Hobbes, è la sicurezza dei cittadini, intesa come garanzia delle condizioni di tutela della loro conservazione fisica, a legittimare l’esistenza dello Stato e le decisioni prese dal sovrano, per Spinoza, la sicurezza e la pace sono precondizioni che favoriscono il raggiungimento della libertà, ma non costituiscono il fine ultimo – e più ambizioso – cui deve mirare lo Stato.

5. La resistenza allo Stato: indignatio e follia della moltitudine

Le teorie politiche esposte da Spinoza e Hobbes possono essere lette in chiave di ricerca della stabilità e dell’eliminazione del conflitto. La rivolta e la guerra civile sono i sintomi di uno Stato malato, già in fase di decadimento71: su questo punto Hobbes e Spinoza sono concordi. Nonostante alcuni evidenti punti di vicinanza fra questi pensatori, essi risponderebbero in modo differente ad un’altra questione, sempre legata al tema della decadenza, vale a dire se sia legittima la resistenza allo Stato. L’atto di

                                                                                                               

70 TTP, cap. XX, p. 483.

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resistenza esercitato dai sudditi si definisce, in primo luogo, come atto di disobbedienza alla legge72.

Analizziamo in primo luogo le riflessioni di Spinoza sul caso dell’indignazione generale dei cittadini. In un passo del Trattato politico Spinoza spiega che quando il sovrano si discredita moralmente, perdendo cioè la credibilità del popolo, egli suscita, in quello stesso momento, l’indignazione dei cittadini. Di fatto, con questo atteggiamento, il sovrano si trova a legittimare una rivolta contro di lui: la rivolta si configura come legittima, perché è il sovrano stesso a calpestare le ragioni che garantivano l’obbedienza dei cittadini73. Questo nodo problematico è messo in luce chiaramente da Spinoza in un passaggio del Trattato politico:

In effetti per chi governa lo stato non è meno impossibile, al tempo stesso, darsi ubriaco o nudo a scorribande con le prostitute, fare il commediante, violare e calpestare pubblicamente le leggi da lui stesso promulgate, e intanto conservare la regalità, di quanto sia impossibile essere e non essere allo stesso tempo; gli eccidi di sudditi, le spoliazioni, i rapimenti di ragazze e simili misfatti, mutano il timore in indignazione, e volgono di conseguenza lo stato di civiltà in stato di ostilità74.

Ai crimini attuati dal sovrano e, più in generale, a un atteggiamento profondamente irrispettoso del patto, fa seguito un mutamento del timore dei cittadini in indignazione, che è una passione che si scatena in reazione all’abbandono della razionalità da parte di

                                                                                                               

72 Sulla coincidenza tra disobbedienza e ribellione insiste S. GOYARD-FABRE, Loi civile et obéissance

dans l’État-Léviathan, in Thomas Hobbes. Philosophie première, théorie de la science et politique, a cura

di Y.C. Zarka e J. Bernhardt, puf, Parigi 1990, p. 298.

73 P. F. MOREAU, È legittima la resistenza allo Stato?, «Quaderni materialisti», V, 2006, pp. 61-62. 74 TP, IV, 4, p. 75.

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chi detiene il potere supremo75. L’indignazione muta lo stato civile in stato di guerra e mette in moto la resistenza dei cittadini nei confronti del sovrano. Lo stato civile lascia spazio allo stato di guerra proprio a causa dell’eccessiva ambizione, della brama di dominio e della perdita di razionalità del sovrano, che si spinge oltre il limite di ciò che i sudditi sono in grado di sopportare. In altre parole, sono gli atti del sovrano, che ormai è degenerato in tiranno, a trasformare il timore e il rispetto (che i sudditi di norma devono avere nei confronti dello Stato) in indignazione76. Spinoza insiste sul fatto che la civitas debba sempre mantenere vive le condizioni del rispetto e del timore, altrimenti si dissolve77, poiché, quando le condizioni del rispetto e del timore non sussistono più, si apre un varco per la naturale reazione di resistenza dei cittadini al sovrano. La trasformazione del timore comune in indignazione porta con sé la rivolta e, in ultima battuta, la rottura del patto78. Quando il patto si scioglie, il ritorno allo stato di natura è inevitabile.

Ragioniamo ora più a fondo sul concetto di indignazione, definito nell’Etica come «odio verso qualcuno che ha fatto del male ad altri»79. A partire da questa definizione, gli interpreti si sono interrogati sul ruolo dell’indignatio nei casi di resistenza allo Stato. Per alcuni interpreti, tra cui Bove e Del Lucchese80, l’effetto dell’indignazione generale non è la dissoluzione dello Stato, bensì, piuttosto, la sua totale riorganizzazione. Una visione di questo tipo si giustifica con il fatto che è l’opera del tiranno a provocare la dissoluzione dello Stato, avendo il dominio tirannico un                                                                                                                

75 Cfr. E. GIANCOTTI, Realismo e utopia cit., p. 143; sul tema dell’indignazione si veda anche D. BOSTRENGHI, Varium multitudinis ingenium: pratica politica e pratica delle passioni in Spinoza, in

Spinoza: individuo e moltitudine, cit., pp. 61-77.

76 Questo è sottolineato da L. BOVE, La strategia del conatus. Affermazione e resistenza in Spinoza, Ghibli, Milano 2002, p. 304 e sgg.

77 TP, IV, 4, p. 75.

78 È la prospettiva che Spinoza descrive in TP, IV, 6, p. 77. 79 Etica, III, definizione XX, p. 223.

80 L. BOVE, La strategia del conatus, cit., pp. 310-314; F. DEL LUCCHESE, Tumulti e indignatio, cit.,

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impatto distruttivo sulle istituzioni politiche. Se questo è vero, allora l’indignazione è la passione che mette in moto il processo di ricostruzione e rigenerazione dello Stato, stimolando la resistenza attiva dei cittadini ai soprusi del sovrano. L’interpretazione sostenuta, invece, da Matheron e Moreau81, a mio avviso più convincente, tende a sfumare le capacità riorganizzative dell’indignatio. Essendo una forma di odio e, quindi, una passione triste, l’indignazione non può svolgere una funzione positiva, attiva, quanto piuttosto un ruolo decostruttivo, demolitore. Di conseguenza, l’indignazione permette di sopprimere un sovrano, ma non garantisce la ricostruzione o il riassestamento, in positivo, delle strutture statali.

Quando annovera l’applicazione delle punizioni tra i compiti del sovrano, Hobbes sfiora il problema dell’indignazione della moltitudine. Se è vero che lo scopo della punizione non è e non deve essere la vendetta, è vero anche che le punizioni possono fungere, a livello pubblico, da monito e da deterrente. I crimini più pericolosi devono essere puniti più severamente; in questa categoria di crimini Hobbes elenca, oltre a quelli che si originano da forme di disprezzo nei confronti della giustizia o del governo, «quelli che provocano l’indignazione di molti»82. Sono crimini pericolosi non perché particolarmente efferati o violenti, ma per l’impatto che hanno per l’opinione pubblica. Si tratta di crimini che indispongono il popolo nei confronti di chi detiene il potere supremo:

L’indignazione porta gli uomini non solo contro gli attori e gli autori dell’ingiustizia, ma anche contro ogni altro potere ugualmente stabilito per proteggerli, come nel caso di                                                                                                                

81 A. MATHERON, L’indignation et le conatus de l’état spinoziste, in Spinoza: puissance et ontologie, Actes de Colloque (13-15 Mai 1993, Sorbonne), Kimé, Parigi 1994, passim; P.F. MOREAU, È legittima

la resistenza allo Stato?, cit., p. 62.

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Tarquinio, che fu scacciato da Roma per un atto insolente di uno dei suoi figli, causando la fine della monarchia stessa83.

L’indignazione è una passione che spinge gli uomini a rivoltarsi contro il potere costituito, dando origine a un moto che va a colpire anche chi non è realmente o direttamente colpevole.

Se in Spinoza vi sono luoghi in cui il dissolvimento della civitas va di pari passo con la possibilità da parte dei cittadini di resistere allo Stato – e, in particolare, di opporsi a un sovrano che viola il vincolo pattizio –, in Hobbes si legge il tentativo di spiegare il sovvertimento sociale come un tipo di contagio affettivo, la cosiddetta follia della moltitudine84.

Ad esempio, anche se l’effetto che ha la follia su quelli che sono posseduti dall’opinione di essere ispirati, non si manifesta sempre in un solo uomo con un’azione molto stravagante, prodotta da questa passione, tuttavia, se molti di essi cospirano insieme, la rabbia dell’intera folla è abbastanza visibile. Perché quale argomento di follia può essere più grande del gridare, colpire e tirare pietre ai nostri migliori amici? Tuttavia, questo è ancora meno di quello che farà una folla: essi grideranno, lotteranno e distruggeranno proprio quelli da cui sono stati protetti e preservati da ingiurie per tutto il tempo precedente85.

In questo passo del Leviatano Hobbes descrive l’azione della folla che, come in preda ad un impeto di furore, è in grado di sovvertire lo Stato, noncurante e insensibile nei                                                                                                                

83 Ibidem.

84 Su questo tema cfr. T. STOLZE, “Il mugghiare del mare”. Hobbes e la follia della moltitudine, «Quaderni materialisti», III-IV, 2004-2005, pp. 127-146.

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confronti di coloro che si sono occupati della sua protezione e conservazione. Nel pensiero hobbesiano, il sovvertimento dello Stato può verificarsi per effetto della follia collettiva, anche se il sovrano continua a comportarsi rettamente e non perde la credibilità di fronte ai sudditi.

All’interno del quadro storico-politico affrescato nel Behemoth, Hobbes identifica l’intero corso degli eventi e dei disordini avvenuti in Inghilterra tra il 1640 e il 1660 come un rivolgimento, una rivoluzione, caratterizzata da un’abbondante dose di follia86. Sin dalle prime pagine del dialogo il filosofo di Malmesbury è alla ricerca dei “seduttori” che sono riusciti a condizionare e influenzare il popolo inglese al punto tale da indurlo alla guerra civile. Tra coloro che hanno tentato di sedurre il popolo per rivolgerlo contro il re, Hobbes annovera i ministri di Cristo, i papisti, gli indipendenti, gli anabattisti e i membri di altre sette religiose. A questi si aggiungono tutti coloro che si sono formati sui testi classici dei greci e dei latini e che sono stati pesantemente influenzati da queste letture di tendenze antimonarchiche. Un’altra categoria di seduttori è formata da coloro che, spinti dal desiderio di novità e dall’imitazione delle nazioni vicine, sono rimasti affascinati dalla ribellione dei Paesi Bassi al re di Spagna al punto tale da volerne seguire l’esempio. Hobbes è perfettamente consapevole del fatto che le suggestioni esercitate da questi seduttori non avrebbero avuto successo se il popolo inglese non avesse ignorato i suoi doveri e i suoi diritti. I seduttori, quindi, hanno gioco facile nell’opera di persuadere il popolo quando questo confonde i suoi obblighi e i suoi diritti con quelli di chi detiene il potere supremo. I seduttori svolgono un ruolo simile a                                                                                                                

86 Si confronti l’incipit del primo dialogo del Behemoth, p. 5: «Se per il tempo come per lo spazio si potesse parlare di alto e basso, credo davvero che la parte più alta del tempo sarebbe quella compresa tra il 1640 e il 1660. Chi, infatti, da quegli anni, come dalla montagna del diavolo, avesse guardato il mondo, ed osservato le azioni degli uomini, specialmente in Inghilterra, avrebbe potuto avere un panorama d’ogni specie d’ingiustizia e d’ogni specie di follia che il mondo era capace di offrire, e constatare com’esse erano prodotte dalle loro madri, ipocrisia e presunzione, delle quali l’una è doppia iniquità, l’altra è doppia follia».

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