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CAPITOLO II 1. IL CONTRIBUTO DELLA CONVENZIONE DI AARHUS

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CAPITOLO II

1. IL CONTRIBUTO DELLA CONVENZIONE DI AARHUS

Vincoli al legislatore statale e regionale possono provenire da fonti internazionali1: la Convenzione di Aarhus, ad esempio, impone agli Stati Parte di garantire la partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia ambientale e in attuazione della Convenzione, ratificata anche dall’Unione europea, sono state adottate delle direttive europee che impegnano gli Stati membri a prevedere occasioni di confronto con i cittadini per determinati procedimenti.

La Convenzione di Aarhus rappresenta la più compiuta codificazione dei diritti procedurali in ambito ambientale a livello internazionale e la sua attuazione contribuisce, senza dubbio, al rafforzamento del principio di partecipazione. Essa segna un momento di svolta importantissimo nel campo del diritto internazionale ambientale: un traguardo, ma anche un punto di partenza.

La progressiva affermazione del diritto a vivere in un ambiente salubre è avvenuta attraverso un processo lento e problematico, tanto che oggi non è ancora del tutto pacifico se esista o meno, a livello internazionale, un autonomo diritto umano all’ambiente2. Quando sono stati contratti i principali accordi generali sui diritti umani3 infatti, l’ambiente non era ancora inserito tra le priorità dell’agenda globale. Successivamente, anche grazie all’evoluzione giurisprudenziale, è stato riconosciuto espressamente un legame fra protezione dell’ambiente e diritti umani fondamentali ma, ad oggi, il diritto umano all’ambiente salubre si trova ancora allo stato embrionale e usufruisce di una tutela giuridica ibrida che attinge, da un lato, alla protezione dei diritti dell’uomo e dall’altro a quella del diritto ambientale.

1 Si veda l’art. 117, co. 1, Cost., secondo cui «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle

Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».

2

Cfr. A. Angeletti (a cura di), Partecipazione, accesso e giustizia nel diritto ambientale, op. cit., pp. 3 ss.

3 La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948; la Convenzione Europea per i Diritti

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In questo processo si è rivelata di importanza cruciale la Convenzione di Aarhus; essa prende il nome dalla cittadina danese che nel 1998 ha ospitato i delegati dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite preposti alla tutela dell’ambiente. Il fine ultimo era quello di garantire una protezione dell’ecosistema quanto più larga possibile. Nel preambolo si legge infatti che «un’adeguata tutela dell’ambiente è indispensabile per il benessere umano e per il godimento dei diritti fondamentali, compreso il diritto alla vita» e che «ogni persona ha il diritto di vivere in un ambiente atto ad assicurare la sua salute e il suo benessere e il dovere di tutelare e migliorare l’ambiente, individualmente e collettivamente, nell’interesse delle generazioni presenti e future».

La Convenzione di Aarhus, entrata in vigore il 30 ottobre 2001, è stata firmata il 25 giugno 1998 sotto l’egida dell’United Nations Economic Commission for

Europe (UNECE) e in particolare in seno alla quarta Conferenza ministeriale

«Ambiente per l’Europa»4. Ad oggi è stata ratificata da 45 Paesi, comprese l’Unione Europea e l’Italia che l’ha ratificata con legge 16 marzo 2001, n. 108. La Convenzione di Aarhus segue due linee direttrici: da un lato, l’affermazione di un diritto individuale all’ambiente contemplato fra i diritti umani fondamentali e, dall’altro, la codificazione del contenuto procedimentale del diritto stesso, destinato a tradursi nella tutela di quelli che vengono comunemente chiamati “public participation rights”.

Per vigilare sul rispetto degli obblighi assunti dagli Stati membri, la Convenzione ha previsto la creazione di un meccanismo di controllo sull’osservanza del Trattato (compliance review).

L’art. 15 disciplina la procedura di controllo, la quale è facoltativa, extragiudiziale, non contenziosa e consultiva. Essa deve essere stabilita per consenso dal Meeting of Parties (MoP) 5 e deve garantire un’adeguata partecipazione del pubblico prevedendo, eventualmente, l’esame delle comunicazioni dei membri del pubblico su questioni attinenti alla Convenzione.

4 Il processo «Ambiente per l’Europa» si prefigge di migliorare gli standard ambientali in Europa

ed è stato avviato dai Ministri dell’ambiente nel 1991 a Dobris (Repubblica Ceca).

5

La Conferenza delle Parti è disciplinata dall’art. 10 ed è il principale organo decisionale. Oltre ad avere un ruolo di monitoraggio sull’applicazione della Convenzione, svolge compiti importanti volti a favorirne la progressiva attuazione: istituisce organi ausiliari, adotta Protocolli ed emendamenti, elabora decisioni e documenti che agevolino la comprensione del Trattato.

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Il procedimento si basa soprattutto sull’operato del Compliance Commettee6 il quale svolge un ruolo di intermediazione tra gli Stati Parte, il MoP e il pubblico. Esso è composto da nove esperti di livello internazionale scelti in base alle loro competenze e vale la pena sottolineare che tali esperti non sono rappresentanti dello Stato cui appartengono. Benché debbano possedere la nazionalità di uno Stato Parte, essi non rappresentano il loro governo, ma operano in modo imparziale e indipendente7. Dato che i membri del Comitato sono liberi di agire senza dover rendere conto ai propri governi e senza essere mossi da obiettivi politici e diplomatici, il procedimento acquisisce una certa flessibilità, a maggior ragione se si pensa che gli stessi possono essere nominati non soltanto dagli Stati membri, ma anche dalle organizzazioni non governative di protezione ambientale ammesse agli incontri in qualità di osservatori8.

Nello svolgimento delle sue funzioni, il Comitato è affiancato dal Segretariato9, il quale ha anch’esso il compito di monitorare l’osservanza della Convenzione. Tale compito si esplica attraverso l’esaminazione dei rapporti nazionali presentati periodicamente dalle Parti e la predisposizione di rapporti sullo stato di attuazione della Convenzione che poi sottopone al MoP.

La procedura di controllo della conformità rispetto alle previsioni del Trattato può essere attivata tramite un’istanza presentata dallo stesso Segretariato, oppure da uno Stato membro. Inoltre, la Convenzione di Aarhus ha introdotto un meccanismo di verifica che possono attivare direttamente i privati, realizzando così un significativo balzo in avanti, nella direzione di un rafforzamento della democrazia partecipativa.

Lo Stato interessato ha a disposizione cinque mesi, a partire dalla ricezione della comunicazione da parte del Segretariato, per trasmettere delle note scritte, o i documenti necessari a chiarire la sua posizione. Nel frattempo, il Comitato svolgerà l’attività istruttoria che riterrà opportuna per accertare il livello di inosservanza della Convenzione. Terminate le verifiche, il Comitato indice la

6 Il Comitato di controllo è attivo dal 2003 e si occupa di vigilare costantemente sullo stato di

osservanza della Convenzione da parte degli Stati membri.

7 «They serve in their personal capacity» si legge al par. 1, Decisione I/7. Per approfondimenti è

possibile consultare la guida pubblicata nel 2010 dall’UNECE reperibile all’indirizzo internet http://www.unece.org/env/pp/compliance/CC_GuidanceDocument.pdf.

8 Cfr. art. 10, par. 15.

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discussione sul caso in una sessione aperta al pubblico, dopodiché, in una sessione a porte chiuse, prepara una bozza di decisione – che può anche prevedere l’adozione di misure e raccomandazioni – e la trasmette alle parti in modo che possano formulare le proprie osservazioni. Nell’attesa che il MoP si riunisca, di comune accordo con la parte inadempiente, il Comitato può prevedere misure temporanee per consentire allo Stato di intraprendere le attività necessarie a risolvere la situazione di non conformità. Una volta elaborata la decisione finale, il Comitato la trasmette alle parti, la pubblica sul sito internet dell’UNECE e il MoP decide se adottarla, in tutto o in parte.

La decisione finale della Conferenza delle Parti non costituisce un generico invito ad adeguarsi alle disposizioni di Aarhus, ma impone allo Stato inadempiente di adottare rimedi puntuali. Inoltre essa può arrivare a prevedere la comminazione di sanzioni pecuniarie e/o la sospensione di diritti e privilegi derivanti dall’adesione alla Convenzione.

Nonostante ciò, è bene precisare che la decisione finale del MoP non è giuridicamente vincolante, in quanto si tratta di un atto di soft law, eppure vi è un forte incentivo all’applicazione di tale decisione, proprio in considerazione della procedura di controllo che viene attuata. Questo sistema sta dimostrando che è possibile gestire tali situazioni (non compliance) in modo aperto e trasparente e la partecipazione del pubblico non ha comportato alcun inconveniente; al contrario, ha contribuito a rafforzare il meccanismo.

Infine è importante precisare che il meccanismo di controllo sull’osservanza della Convenzione di Aarhus costituisce una novità: da un lato, la particolare composizione del Comitato – volta a garantirne la competenza tecnica e l’indipendenza – ne rafforza l’autorevolezza; dall’altro, l’ampia accessibilità da parte del pubblico rende la procedura altamente garantista, contribuendo così ad una crescente affermazione della democrazia ambientale10.

Per concludere, è opportuno ammettere che, pur avendo un’ispirazione internazionale, la Convenzione di Aarhus ha ancora un ambito di applicazione piuttosto limitato che include quasi tutta l’Europa centrale e occidentale, più alcuni Paesi sorti dopo la dissoluzione del regime sovietico. Questo spiega perché,

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da qualche anno, si stiano compiendo sforzi per creare i presupposti idonei a favorire l’adesione di altri Stati, compresi quelli non appartenenti all’UNECE.

1.1. Il pilastro della partecipazione nella Convenzione di Aarhus

La Convenzione si regge su tre pilastri teleologicamente integrati: il primo è costituito dall’accesso alle informazioni in materia ambientale; il secondo è la partecipazione ai processi decisionali; il terzo è l’accesso alla giustizia in materia ambientale. È palese che nell’ordine dei pilastri si possa rinvenire una logica: prima si acquisiscono una quantità sufficiente di informazioni, poi si partecipa e infine, eventualmente, si reagisce in difesa dell’ambiente. Coerentemente con l’oggetto di questa tesi, il pilastro su cui si concentra il presente capitolo è il secondo.

Nell’evoluzione del diritto internazionale ambientale possiamo distinguere due fasi: una prima fase è quella inaugurata dalla Conferenza di Stoccolma nel 1972 ed è quella definita del “funzionalismo ambientale”.

In questo periodo si concludono numerosi trattati di carattere settoriale basati sul principio di prevenzione del danno, ma benché iniziasse ad intravedersi un mutamento di prospettiva, il pubblico, in questa fase, restava ancora relegato ad un ruolo passivo.

Dopo la Conferenza di Stoccolma, con la risoluzione n. 2997 del 15 dicembre 1972, venne creato il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP). L’UNEP, che può adottare raccomandazioni e progetti di convenzioni ambientali da sottoporre alla ratifica degli Stati, è il primo organo internazionale, a carattere universale, con competenze specifiche nel settore ambientale.

Negli anni Ottanta vengono adottati dei documenti con cui si comincia a riconoscere al pubblico un ruolo più attivo anche se, perlopiù, si tratta di atti non giuridicamente vincolanti, poco più che dichiarazioni di intenti. Per fare alcuni esempi, nel 1980 viene adottata la Dichiarazione di Salisburgo sulla protezione del diritto di informazione e partecipazione e nel 1982 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta la Carta Mondiale della Natura, la cui Parte III si sofferma sull’importanza dell’educazione ecologica, dell’informazione e partecipazione

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della popolazione nella pianificazione ambientale e della possibilità di partecipare, individualmente o collettivamente, al processo di partecipazione alle decisioni concernenti l’ambiente. Si tratta sicuramente di un documento di importanza fondamentale, poiché questa è la prima dichiarazione intergovernativa con cui si afferma il rispetto della natura come principio basilare della protezione dell’ambiente. Inoltre essa contiene una visione progressiva delle strategie e delle politiche necessarie per ottenere un certo benessere ecologico, oltre ad elaborare una prima codificazione dei diritti di partecipazione dei privati che in seguito saranno sviluppati da altri strumenti giuridicamente vincolanti.

Infine, nel 1989, venne firmata, a Francoforte, la Carta Europea sull’Ambiente e la Salute con la quale si riconosce il diritto all’informazione e consultazione sullo stato dell’ambiente o sui piani, decisioni o attività che possono avere effetti sull’ambiente e sulla salute e il diritto alla partecipazione al processo di assunzione delle decisioni.

La seconda fase, quella del “globalismo ambientale”, si apre con la Conferenza di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo del 1992. È una fase caratterizzata da una maggior cooperazione internazionale sulle questioni ambientali globali, disciplinate da convenzioni a vocazione universale fondate sul principio di precauzione. Nell’ambito di questa Conferenza11, i diritti di partecipazione del pubblico ottengono un pieno riconoscimento12. In particolare, il Principio 10 della Dichiarazione di Rio riconosce l’importanza della partecipazione del pubblico ai fini di una tutela ambientale più efficace e individua quei diritti di partecipazione che poi verranno espressamente sanciti dalla Convenzione di Aarhus.

Prima di arrivare ad Aarhus però, troviamo alcune Convenzioni internazionali, di carattere vincolante, contenenti disposizioni circa la partecipazione del pubblico. Tra le più importanti ricordiamo la Convenzione di Espoo del 25 febbraio 1991, in materia di valutazione di impatto ambientale in ambito transfrontaliero, che

11 Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo (UNCED) tenutasi a Rio de Janeiro

dal 3 al 14 giugno 1992.

12 Per approfondimenti si rinvia a S. Marchisio, Gli atti di Rio nel diritto internazionale, in Riv.

Dir. Inter., 3/1992, pp. 581 ss. e L. Pineschi, La Conferenza di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo, in Riv. Giur. Amb., 1992, pp. 706 ss.

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obbliga lo Stato Parte in cui l’intervento ricada a prevedere forme di partecipazione13.

Nell’aprile del 1993 l’UNECE riceve mandato di elaborare una proposta volta a favorire la partecipazione del pubblico alle decisioni, ritenendo tale partecipazione la conditio sine qua non per l’attuazione di una strategia ambientale europea di lungo periodo. Di conseguenza, il 25 ottobre 1995, a Sofia, vengono approvate le Linee guida sulla partecipazione dei privati ai processi decisionali in materia ambientale.

A questo punto l’UNECE riceve l’incarico di tradurre il contenuto delle Linee guida in un documento giuridicamente vincolante: è così che ha visto la luce la Convenzione di Aarhus, che allo stesso tempo rappresenta, come abbiamo detto, un punto di arrivo e un nuovo inizio in materia di partecipazione del pubblico alle scelte concernenti l’ambiente.

In base alla Convenzione di Aarhus, il diritto di partecipazione dei privati alle decisioni pubbliche non si esaurisce al momento del voto, ma deve trovare applicazione in tutte le diverse fasi in cui si articola il processo di decision

making. Quella dei cittadini deve essere una partecipazione informata e l’autorità

pubblica ha due tipi di obbligo: da un lato, deve far conoscere al cittadino le scelte che compie, nonché tutti gli elementi di valutazione concernenti l’impatto ambientale, sanitario, economico e sociale di tali scelte; dall’altro, deve offrire al cittadino la possibilità concreta di intervenire nel processo decisionale.

Dal momento che essa contribuisce ad accrescere la trasparenza dell’operato dell’amministrazione pubblica, aumentandone così anche la responsabilità, la partecipazione è un elemento chiave per migliorare la qualità della decisione pubblica; ovviamente essa è efficace quando i cittadini abbiano una piena conoscenza dei loro diritti e una piena disponibilità degli strumenti necessari per esercitarli. Di conseguenza, gli Stati hanno il compito di prevedere misure idonee per promuovere l’educazione e la sensibilizzazione del pubblico in relazione alle problematiche ambientali.

La Convenzione di Aarhus dedica alla disciplina della partecipazione in materia ambientale gli artt. 6-8.

13 Per avere un quadro generale su tutte le Convenzioni di questo tipo, si veda A. Angeletti,

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Innanzitutto dobbiamo specificare che il diritto di partecipazione non è riconosciuto sempre con la medesima intensità, ma varia a seconda del tipo di attività che costituisce l’oggetto della decisione. Una partecipazione massima deve essere garantita quando la decisione sia relativa all’autorizzazione di specifiche attività che abbiano «effetti significativi» sull’ambiente 14 . Più precisamente va detto che l’art. 6 non si applica soltanto con riferimento all’autorizzazione di un’attività specifica, ma anche nelle ipotesi in cui l’autorità pubblica proceda al riesame o all’adeguamento delle condizioni di esercizio di una tale attività15.

Un diritto di partecipazione più “sfumato” lo troviamo invece in relazione all’adozione di piani e programmi in materia ambientale, fino a diventare una disposizione quasi meramente programmatica in riferimento a decisioni politiche. Tale gradazione si deve, con molta probabilità, al diverso interesse che il pubblico può vantare rispetto a decisioni di carattere differente.

Ogni Stato Parte, comunque, è chiamato di volta in volta a fare una valutazione e potrebbe arrivare ad escludere la partecipazione del pubblico nei casi in cui questa possa pregiudicare gli scopi di difesa nazionale16.

L’art. 6 sulla partecipazione del pubblico alle decisioni riguardanti l’autorizzazione di specifiche attività, a proposito dei soggetti titolari di tale diritto, parla di «pubblico interessato» intendendo con ciò tutte le persone che vantino un interesse specifico rispetto all’oggetto della decisione da assumere. La partecipazione deve essere garantita fin dall’inizio del processo decisionale, quando tutte le alternative sono ancora praticabili, compresa l’”opzione zero”, in modo che il pubblico sia davvero in grado di influenzare le scelte pubbliche. A tale scopo, la Convenzione di Aarhus raccomanda agli Stati membri di mettere a disposizione dei privati, in modo tempestivo, tutte le informazioni relative all’attività proposta: il tipo di decisione o il progetto da adottare, l’autorità pubblica decidente, le modalità, i tempi e i luoghi di svolgimento della procedura prevista17. 14 Cfr. art. 6. 15 Cfr. art. 6, par. 10. 16 Cfr. art. 6, par. 1. 17 Cfr. art. 6, par. 2.

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Per assicurare una partecipazione effettiva e consapevole, si prevede anche che il «pubblico interessato» possa disporre di una sintesi di tutte le informazioni avente un carattere non tecnico per renderle comprensibili anche a chi non è competente in materia18.

Infine, i cittadini devono avere la possibilità di presentare osservazioni, informazioni, analisi o pareri, in forma scritta o in occasione di un’audizione o di un’udienza pubblica, che dovranno essere presi «adeguatamente» in considerazione al momento della decisione il cui contenuto, corredato delle motivazioni, deve essere reso accessibile al pubblico19.

A differenza dell’art. 6, gli artt. 7 e 8 della Convenzione sono formulati in modo più generico e vago, pertanto devono essere ulteriormente sviluppati dalle legislazioni nazionali.

L’art. 7 disciplina la partecipazione in relazione all’adozione di piani, programmi e politiche ambientali. A tal proposito l’art. 7 detta i requisiti minimi, in modo che le procedure partecipative possano essere regolate con una certa flessibilità. Anche in questo caso però, per le varie fasi della procedura, si devono prevedere «tempi ragionevoli» in modo che il pubblico possa acquisire le informazioni necessarie e al momento della decisione si deve tener conto dell’apporto partecipativo del pubblico.

Manca invece una disposizione che obblighi l’autorità decidente ad informare il pubblico circa la decisione adottata e le relative motivazioni. Inoltre, non si parla più di «pubblico interessato», come si era fatto fino ad ora all’interno della Convenzione, ma semplicemente di «pubblico», lasciando così intendere che possa partecipare qualsiasi soggetto che sia informato della procedura. In realtà, è previsto che sia l’autorità pubblica competente a selezionare i soggetti che possono partecipare, tenendo però conto degli obiettivi di Aarhus; è il pubblico che deve essere coinvolto nel procedimento, non più il pubblico interessato, ma spetta agli Stati membri definire chi siano i soggetti ammessi alla partecipazione. Si tratta ad ogni modo di una norma ambigua, perché, da un lato, la categoria dei soggetti legittimati ad intervenire nel procedimento potrebbe essere ristretta rispetto a quella prevista nei procedimenti individuali, ma, dall’altro, si potrebbe

18 Cfr. art. 6, par. 6. 19 Cfr. art. 6, par. 7, 8 e 9.

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anche verificare un allargamento della platea dei partecipanti. La soluzione di tale problema dipende dall’esercizio del potere discrezionale da parte degli Stati membri, ma considerando la ratio della direttiva e il tipo di procedimento in questione, è possibile immaginare che a prevalere sia la seconda ipotesi20.

Per quanto riguarda infine la partecipazione all’elaborazione delle politiche ambientali, la Convenzione si limita ad invitare gli Stati Parte ad adoperarsi «nella misura opportuna» per coinvolgere il pubblico.

Soprattutto sul piano delle decisioni politiche, è giusto sottolineare come la Convenzione di Aarhus abbia sicuramente perso l’occasione di imporre garanzie più efficaci sulla partecipazione.

2. LA PARTECIPAZIONE NELL’ORDINAMENTO DELL’UNIONE

EUROPEA

L’obbligo per le amministrazioni di sentire i privati prima dell’adozione di una decisione è previsto anche negli ordinamenti giuridici sovranazionali come l’Unione europea, ma in questo caso la consultazione assume un significato diverso da quello tipico degli ordinamenti domestici.

Secondo Sabino Cassese, ciò avviene perché nell’arena sovranazionale non vi è una società civile in senso proprio: quei legami che solitamente un ordinamento giuridico rappresentativo ha con la collettività sono assenti o si affermano con difficoltà21. Questo comporta conseguenze rilevanti anche per quanto riguarda i rapporti amministrativi tra la collettività (o gli individui) e gli apparati sovranazionali. Anche negli ordinamenti giuridici sovranazionali troviamo norme sull’obbligo di consultazione, ma tale obbligo, piuttosto che gravare direttamente sull’apparato sovranazionale, grava solitamente su quello nazionale o sui soggetti che operano nell’arena nazionale in funzione globale.

Tra i principi su cui si fonda l’azione amministrativa europea, ci sono quelli che non trovano un riconoscimento espresso nei Trattati: non sono dotati di una

20

S. Ruina, La disciplina comunitaria dei diritti di partecipazione ai procedimenti ambientali, Milano, Giuffrè, 2008, p. 44.

21 Cfr. S. Cassese, La partecipazione dei privati alle decisioni pubbliche. Saggio di diritto

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cornice costituzionale, ma sono di origine giurisprudenziale. Sono quei principi a cui il giudice comunitario fa riferimento attingendo al patrimonio giuridico comune agli ordinamenti degli Stati membri. Tra di essi troviamo il principio del contraddittorio, la cui origine, come abbiamo già visto, riguarda i provvedimenti sanzionatori.

Il principio del diritto ad essere sentiti prima dell’adozione di una decisione sfavorevole è molto antico, infatti è al 1963 che risale il cosiddetto caso Alvis22, attraverso cui la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha affermato,per la prima volta, il principio del contraddittorio. Si trattava di un funzionario delle istituzioni europee colpito da sanzione disciplinare. La Corte ha affermato che, in base ad un principio del diritto amministrativo ammesso in tutti i Paesi membri dell’allora Comunità economica europea, la pubblica amministrazione, prima di adottare qualsiasi provvedimento disciplinare nei confronti dei suoi dipendenti, deve metterli nelle condizioni di difendersi dagli addebiti loro mossi. Tale principio trovava però un limite, poiché riguardava i soli provvedimenti afflittivi. In particolare, il giudice comunitario ha fatto ricorso a questo principio in due campi, ovvero quello del pubblico impiego e quello della concorrenza, dove la pubblica amministrazione arriva ad infliggere sanzioni nei confronti degli operatori economici.

Il principio del contraddittorio nasce e viene applicato con questa limitazione, ma successivamente la Corte ha cercato di superare questo stretto ambito applicativo. In particolare, lo ha fatto nel 1974 con il caso Transocean Marine Paint

Association nella cui sentenza23 ha chiarito che la notifica agli interessati deve contenere ogni informazione relativa alla decisione da adottare nei loro confronti, al fine di consentire loro di adottare per tempo le opportune strategie difensive. Nel caso di specie, alcune imprese private produttrici di vernici per navi avevano presentato ricorso contro la decisione della Commissione in cui, prorogando l’esenzione da un divieto di accordo restrittivo della concorrenza, imponeva loro l’obbligo di fornire una serie di informazioni specifiche sulla loro attività. Secondo la Commissione, dall’epoca dell’ultima concessione dell’esenzione,

22 CGCE, sentenza 4 luglio 1963, in causa C-32/62, Alvis c. Consiglio, in Raccolta 1963, p. I-49. 23 CGCE, sentenza 23 ottobre 1974, in causa C-17/74, Transocean Marine Paint Asoociation c.

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l’associazione era cresciuta di dimensioni ed importanza, pertanto occorreva una regolamentazione più stringente. La principale contestazione mossa dalle imprese ricorrenti faceva riferimento al fatto che i ricorrenti non avevano visto riconoscersi alcun diritto al contraddittorio prima che la decisione fosse presa. In altre parole, non era stata loro concessa la facoltà di spiegare alla Commissione le ragioni per cui una simile richiesta di informazioni sarebbe stata estremamente difficile, se non impossibile, da soddisfare.

Il giudice ha dato soddisfazione ai ricorrenti, spiegando, al punto quindicesimo della sentenza, che «qualora i provvedimenti della pubblica autorità ledano in maniera sensibile gli interessi dei destinatari, questi ultimi devono essere messi in grado di presentare tempestivamente le loro difese. Questa norma implica che le imprese devono essere inequivocabilmente informate in tempo utile dei punti essenziali delle condizioni cui dovranno sottostare onde ottenere l’esenzione. D’altro canto questa prassi consente loro di presentare tempestivamente eventuali osservazioni. Questo principio va particolarmente osservato allorquando le condizioni, come nella fattispecie, sono piuttosto gravose nei confronti dei destinatari».

Si tratta sicuramente di un caso che ha fatto giurisprudenza perché da qui si apre il cambiamento: una nuova corrente giurisprudenziale secondo cui a questo principio devono essere ispirati tutti i procedimenti a carico di una persona, anche quando manchi una normativa procedimentale ad hoc.

È un principio che è stato rafforzato nel corso del tempo e non solo a livello giurisprudenziale, presentando una stretta connessione con il principio riconosciuto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea all’art. 41; in esso viene codificato il diritto ad una buona amministrazione, ma intesa in chiave sempre difensiva, ovvero come strumento che deve guidare tutti i procedimenti amministrativi volti a concludersi con un provvedimento lesivo degli interessi dei suoi destinatari.

Fino agli anni Duemila, la partecipazione dei privati ai processi amministrativi era sempre intesa in chiave difensiva, per cui lo scopo era sempre quello di tutelare la pretesa del singolo di fronte all’amministrazione; a partire dall’inizio del nuovo secolo però, si prende atto del fatto che la partecipazione possa assolvere anche ad

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un’altra funzione (oltre la difesa). In particolare, l’ordinamento europeo inizia a prevedere, in determinati settori24, un altro scopo della partecipazione: far emergere, e quindi rappresentare, i vari interessi in gioco.

Si comincia a prevedere la partecipazione dei soggetti interessati oltre quei procedimenti in cui finora essa era ammessa (provvedimenti puntuali, rivolti ad un singolo destinatario, cosiddetti di adjudication) e si produce un allargamento della partecipazione ai procedimenti volti all’adozione di atti normativi e generali. In sostanza, la partecipazione diventa uno strumento per comporre i vari interessi in gioco.

Per esempio, le imprese possono dire la loro, partecipare ai procedimenti con una finalità diversa rispetto a quella prevista in passato: non perché stanno subendo una decisione, ma per esprimere gli interessi di categoria e definire le regole che poi verranno loro applicate. Negli anni Duemila, anche nel quadro giuridico comunitario, viene inaugurato quel modello che negli Stati uniti si chiama

rule-making.

Per i procedimenti volti all’adozione di atti normativi e generali, manca una normativa di riferimento, ma ci sono discipline settoriali, come la direttiva 2002/2/CE in materia di comunicazioni elettroniche, la quale prevede che gli Stati membri diano la possibilità di presentare osservazioni quando si adottano atti di regolazione, entro un termine prefissato.

Altrettanto importante è la direttiva 2003/87/CE, adottata il 25 ottobre 2003 in attuazione del Protocollo di Kyoto. Essa istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissione dei gas ad effetto serra nella Comunità europea prevedendo una procedura statale complessa incentrata su una doppia consultazione.

In base alla direttiva, ciascuno Stato membro deve elaborare un piano triennale (poi quinquennale) per stabilire le quote totali di emissioni da assegnare al gestore di ogni impianto per tale periodo, tenendo nella dovuta considerazione le osservazioni del pubblico (art. 9.1). La Commissione può accogliere, oppure respingere (tutto o in parte), il piano che ciascuno Stato le notificherà, dopodiché lo Stato deciderà se accettare le modifiche proposte dalla Commissione, ancora

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«tenendo nella dovuta considerazione le osservazioni del pubblico»25. Inoltre, in base al punto 9 dell’Allegato III, «il piano prevede disposizioni riguardanti le osservazioni che il pubblico può presentare e contiene informazioni sulle modalità con le quali si terrà conto delle suddette osservazioni prima di adottare una decisione in materia di assegnazione delle quote».

Il Tribunale delle Comunità europee, I Sezione, il 23 novembre 2005 si era pronunciato sulla partecipazione del pubblico prevista in questa direttiva. Si trattava della causa T-178/05 con la quale il Tribunale ha annullato la decisione, relativa al piano britannico, della Commissione. La Commissione pretendeva infatti che le osservazioni del pubblico, formulate nel corso della seconda consultazione, potessero servire soltanto per modificare i dati ed eventualmente assegnare le quote nel limite del quantitativo totale e non per aumentare il quantitativo complessivo. Secondo il parere del Tribunale, la pretesa della Commissione era illegittima perché «lo Stato membro è obbligato, ai sensi dell’art. 11.1, e del punto 9 dell’allegato III della direttiva 2003/87, a prendere in considerazione le osservazioni formulate dal pubblico dopo la notifica iniziale del piano e prima dell’adozione della decisione definitiva ai sensi dell’art. 11.1 della medesima direttiva. Tale consultazione del pubblico sarebbe inutile, e le osservazioni del pubblico puramente teoriche, se le modifiche al piano che possono essere proposte dopo la scadenza del termine di tre mesi previsto dall’art. 9.3 della direttiva 2003/87 o dopo una decisione della Commissione assunta in applicazione della stessa disposizione fossero soltanto quelle che ha indicato la Commissione».

Benché la consultazione sia prevista dal diritto comunitario, essa viene svolta dall’amministrazione nazionale, la quale opera in funzione comunitaria. Nel caso di specie però, la Commissione intendeva limitare la portata della seconda consultazione, allora il Tribunale ha inteso favorire una più ampia partecipazione anche nel corso della seconda consultazione. Anche se questa si realizza nell’ambito di un procedimento nazionale, il giudice europeo ha seguito un orientamento favorevole all’ampliamento della partecipazione, la quale si svolgerà in funzione di un interesse comune, codificato dalla disciplina comunitaria.

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Nonostante la scarsa disponibilità dei Trattati a riconoscere espressamente specifici diritti di partecipazione ai cittadini europei26, il Trattato di Lisbona ha previsto degli strumenti di democrazia partecipativa volti proprio a favorire la partecipazione dei cittadini, attraverso il «pubblico scambio di opinioni» (art. 11, par. 1, TUE), un «dialogo aperto, trasparente e regolare» tra le istituzioni e le associazioni rappresentative e la società civile (art. 11, par. 2, TUE), nonché mediante «ampie consultazioni» delle parti interessate ad opera della Commissione europea (art. 11, par. 3, TUE).

Inoltre, come strumento volto al rafforzamento della democrazia partecipativa nell’Unione europea, il Trattato di Lisbona ha introdotto l’iniziativa legislativa dei cittadini europei; si tratta di un istituto disciplinato nel dettaglio all’interno del regolamento n. 211/2011 adottato il 16 febbraio 2011 e applicabile dal 1° aprile 2012.

Tale istituto si configura come uno strumento di “pre-iniziativa” legislativa che lascia impregiudicato il potere discrezionale della Commissione nel valutare se tradurre le istanze dei cittadini in una vera e propria proposta di atto da presentare al Parlamento europeo e al Consiglio. Nonostante questa discrezionalità però, l’iniziativa legislativa dei cittadini dell’UE appare un meccanismo in grado di consentire una pur flebile incidenza dei privati sul processo decisionale europeo. Per contribuire al rafforzamento della partecipazione democratica dei cittadini alle questioni europee, l’art. 11, par. 4 del TUE disciplina l’iniziativa legislativa come strumento di democrazia “semi-diretta”27: «cittadini dell’Unione, in numero di almeno un milione, che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri, possono prendere l’iniziativa di invitare la Commissione europea, nell’ambito delle sue attribuzioni a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini dell’attuazione dei Trattati».

26 Si veda a tal proposito E. Grosso, Cittadinanza e vita democratica in Europa dopo il Trattato di

Lisbona, in A. Lucarelli e A. Patroni Griffi (a cura di), Il Trattato di Lisbona, Napoli, 2009, pp.

207 ss.

27 Cfr. R. Palladino, Iniziativa legislativa dei cittadini dell’Unione europea e democrazia

partecipativa: a proposito dell’iniziativa Right2Water, in Il diritto dell’Unione europea, 3/2014,

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79

L’art. 11 consente ai cittadini di presentare questa proposta, che può essere più o meno dettagliata, alla Commissione. La Commissione, una volta ricevuto l’articolato, prende posizione decidendo se dar seguito alla proposta dei cittadini oppure no.

In realtà, l’art. 11 disciplina soltanto alcuni aspetti, ad esempio si parla di un milione di cittadini di “vari” Stati membri28; per la disciplina di dettaglio si rinvia al regolamento di attuazione che poi è stato adottato nel 2011. La procedura si articola sostanzialmente in cinque fasi.

In primo luogo, a promuovere l’iniziativa deve essere un comitato promotore di carattere transnazionale, composto da almeno sette persone provenienti da sette Stati diversi. I componenti devono aver raggiunto l’età necessaria per acquisire il diritto di voto alle elezioni del Parlamento europeo e hanno il compito di presentare e registrare la proposta on-line, fornendo le informazioni relative all’oggetto e agli obiettivi dell’iniziativa. Ultimata la registrazione, entro un anno, devono essere raccolte almeno un milione di firme in almeno un quarto dei Paesi comunitari e in ogni Stato è prevista una soglia minima che varia in base alla consistenza demografica e al numero di europarlamentari29. Raggiunte queste soglie, la Commissione deve pubblicare l’iniziativa sul proprio registro web e ricevere gli organizzatori affinché possano esporre nel dettaglio le tematiche sollevate. Decorsi tre mesi dall’incontro tra i promotori e la Commissione, quest’ultima emana un atto in cui si dice se intende adottare la proposta, ovvero respingerla con le relative motivazioni. La comunicazione – da notificare agli organizzatori, al Parlamento europeo e al Consiglio, deve contenere le «conclusioni giuridiche e politiche riguardo all’iniziativa dei cittadini, l’eventuale azione che intende intraprendere e i suoi motivi per agire o meno in tal senso»30. Nel caso in cui la proposta venga respinta, è ammessa la possibilità di un’audizione presso il Parlamento europeo, ma non quella di presentare un ricorso contro la decisione della Commissione.

28

Non si specifica quanti Stati membri debbano essere.

29 In base all’art. 7, il numero minimo di cittadini che deve firmare la proposta in ciascuno Stato è

dato dal numero dei membri del Parlamento europeo eletti in quello Stato moltiplicato per 750.

(17)

80

Leggendo il regolamento ci si rende conto che raggiungere queste condizioni può sembrare estremamente difficile, ma d’altra parte il legislatore europeo intendeva così evitare che l’Unione europea venisse inondata di proposte partorite dai comitati più svariati. Anche per questo, l’art. 4, par. 2, del regolamento, ha previsto che la Commissione effettui uno screening preventivo: entro due mesi dalla ricezione delle informazioni da parte dei promotori, la Commissione procede alla registrazione dell’iniziativa, ma soltanto se lo ritiene opportuno. Si tratta di un filtro attraverso il quale la Commissione valuta che l’articolato sia ammissibile e compatibile con la normativa europea.

Ad ogni modo, la regolamentazione di questo istituto lascia aperti alcuni interrogativi e perplessità. Ad esempio, tra i soggetti titolari del potere di iniziativa legislativa, non si fa menzione dei cittadini di Paesi terzi che abbiano un legame stretto con l’Unione, come coloro che, da un consistente numero di anni, risiedono in uno degli Stati membri. Inoltre, non sembra del tutto chiaro il ruolo della Corte di giustizia in relazione all’ipotesi in cui la proposta sia ritenuta non rientrante nelle attribuzioni della Commissione.

Tracciare un primo bilancio sul funzionamento di questo istituto, trattandosi di un regolamento così recente, è particolarmente difficile. Nei primi due anni di applicazione del regolamento n. 211/2011, le iniziative ufficialmente registrare sono state numerose, ma la maggior parte di esse non sono riuscite ad ottenere il numero di firme sufficiente per essere sottoposte all’esame della Commissione. Tuttavia, il progetto Right2Water31, registrata il 10 maggio 2012, è stato la prima iniziativa legislativa dei cittadini dell’Unione europea ad aver raggiunto il numero minimo di firme per essere presentata alla Commissione. Le conclusioni adottate dalla Commissione in occasione di questo primo “banco di prova” potrebbe avere l’effetto di «“dissuadere” i cittadini europei dal ricorrere in futuro a tale strumento, atteso che le loro richieste non sono state, nel caso di specie, pedissequamente consegnate ad una proposta di atto normativo»32.

31

“Acqua potabile e servizi igienico-sanitari: un diritto umano universale! L’acqua è un bene comune, non una merce!”; si tratta dell’iniziativa presentata il 20 dicembre 2013.

32 R. Palladino, Iniziativa legislativa dei cittadini dell’unione europea e democrazia partecipativa:

(18)

81

Nonostante gli evidenti limiti strutturali dell’iniziativa legislativa dei cittadini dell’Unione europea, si tratta di uno strumento previsto dal Trattato di Lisbona in virtù di un rafforzamento della partecipazione democratica dei cittadini. Almeno in teoria, questo meccanismo dovrebbe consentire loro di incidere sul processo decisionale a livello europeo e di conseguenza, sugli sviluppi del processo di integrazione europea. D’altro canto non è possibile ignorare che, al momento, questo istituto è stato in grado di determinare un’incidenza troppo debole sul processo di formazione della legislazione europea per meritare una più ampia considerazione. Tanto più quando le iniziative proposte hanno ad oggetto materie particolarmente sensibili, quale ad esempio il diritto umano all’acqua.

2.1. Il ruolo della Convenzione di Aarhus nella giurisprudenza Ue

L’Unione europea risulta aderente al sistema configurato dalla Convenzione di Aarhus che l’ex Comunità europea ha firmato il 25 giugno 1998 e ha ratificato il 17 febbraio 2005. Sono Parti della Convenzione tutti gli Stati membri, ad eccezione dell’Irlanda.

Con forza sempre maggiore è emersa l’idea che la tutela ambientale possa essere più efficace attraverso il coinvolgimento del pubblico, inteso come singole persone fisiche e giuridiche, associazioni, comitati e semplici gruppi di persone ed è per questo che negli ultimi anni si è assistito ad un salto di qualità nella salvaguardia ambientale. La protezione dell’ambiente, infatti, non è più affidata esclusivamente all’attività delle amministrazioni pubbliche e all’osservanza da parte delle imprese di norme tecniche, finalizzate a garantire che la produzione sia rispettosa dell’ambiente, ma si è innescata un’evoluzione verso un modello di tutela ambientale in cui i protagonisti sono gli attori istituzionali, le imprese private e il pubblico. Gli strumenti che permettono un efficace intervento dei privati sono l’accesso alle informazioni in materia ambientale e la partecipazione del pubblico alle decisioni.

In attuazione dei tre pilastri della Convenzione, le Parti sono chiamate ad adottare tutte le misure legislative e regolamentari necessarie a garantire che il “pubblico” abbia accesso alle informazioni (primo pilastro), ai processi decisionali (secondo

(19)

82

pilastro) e alla giustizia in materia ambientale (terzo pilastro). È per questo che l’Unione europea si è impegnata a recepire la Convenzione di Aarhus nella normativa settoriale.

Il fatto che abbia seguito un percorso frammentato nell’attuazione delle norme della Convenzione, potrebbe far pensare che mancasse un progetto unitario tendente a rafforzare i diritti procedimentali dei cittadini europei. In realtà, anche se non si è scelta la via di un’unica direttiva che recepisca al suo interno i tre pilastri della normativa globale, le direttive 2003/4/CE e 2003/35/CE si inseriscono all’interno di un disegno organico, a cui dovrà aggiungersi in futuro la direttiva in materia di accesso alla giustizia33.

L’Unione europea ha declinato il primo pilastro nella direttiva 2003/4/CE concernente l’accesso del pubblico alle informazioni in materia ambientale. Alla luce della Convenzione di Aarhus e della Conferenza di Rio del 1992, l’Unione europea ha voluto rafforzare la libertà di accesso alle informazioni ambientali adottando, il 28 gennaio 2003, la direttiva 2003/4/CE del Parlamento europeo e del Consiglio il cui primo Considerando esplicita il collegamento tra il miglioramento dell’accesso alle informazioni e il rafforzamento della protezione dell’ambiente.

Sulla base di tale direttiva, l’accesso è garantito a qualsiasi persona fisica e giuridica, senza la necessità di dichiarare il proprio interesse e obbligando le autorità pubbliche a mettere a disposizione del richiedente l’informazione chiesta, mediante l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili34.

Il legislatore comunitario ha inteso estendere la nozione di “informazione ambientale”, in qualsiasi forma data, a tutto ciò che concerne lo stato dell’ambiente, i fattori, le misure o le attività che incidono o possono incidere sull’ambiente o che sono destinate a proteggerlo, le analisi costi-benefici e altre analisi economiche usate nell’ambito di tali misure e attività, nonché l’informazione sullo stato della salute e della sicurezza umana, compresa la contaminazione della catena alimentare, le condizioni della vita umana, i siti e gli

33 S. Ruina, La disciplina comunitaria dei diritti di partecipazione ai procedimenti ambientali, op.

cit., p. 21.

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83

edifici di interesse culturale, nella misura in cui essi siano o possano essere influenzati da uno qualsiasi di questi elementi.

Tale specificazione della nozione di informazione ambientale è anche il sintomo della volontà di allargare quanto più possibile la partecipazione democratica all’elaborazione delle decisioni pubbliche mediante una titolarità indifferenziata35. Invece con la direttiva 2003/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 maggio 200336, l’Unione europea ha dato implementazione al secondo pilastro, prevedendo la partecipazione del pubblico all’elaborazione di taluni piani e programmi in materia ambientale. Grazie al contributo della Convenzione di Aarhus infatti, l’ordinamento comunitario si è evoluto anche nel settore della pianificazione ambientale, poiché prima il diritto di partecipazione non era riconosciuto dalle direttive che prevedevano procedimenti di pianificazione per la tutela ambientale.

In particolare, la dir. 2003/35/CE modifica le precedenti direttive del Consiglio 85/337/CEE (che era la prima in materia di v.i.a.) e 96/61/CE relativamente alla partecipazione del pubblico e all’accesso alla giustizia. Tale direttiva, che all’art. 2 recepisce le disposizioni di Aarhus sulla partecipazione ai piani ambientali, definisce il pubblico coinvolto nella pianificazione e prevede una procedura articolata in diverse fasi per consentire la consultazione dei privati. La direttiva dispone anche che questa procedura venga applicata alle future normative in cui si prevederà l’elaborazione di piani ambientali.

A livello europeo, la partecipazione alle decisioni ambientali su attività specifiche era già stata prevista dalle direttive 85/337 e 96/61, ma di fatto la fase partecipativa non era stata disciplinata in modo dettagliato lasciando gli Stati membri liberi di darne una più precisa definizione.

Dalla Convenzione di Aarhus però, è derivato l’impulso a che le istituzioni europee si aprissero alla partecipazione dei privati ai procedimenti di pianificazione per la tutela ambientale. Con la direttiva 2000/60/CE, la Comunità aveva stabilito l’obbligo di consultazione del pubblico nell’elaborazione dei piani

35

Cfr. S. Rodriquez, Accesso agli atti, partecipazione e giustizia: i tre volti della Convenzione di

Aarhus nell’ordinamento italiano, in A. Angeletti (a cura di), Partecipazione, accesso e giustizia nel diritto ambientale, op. cit., p.81.

(21)

84

di gestione dei beni idrografici; con la direttiva 2001/42/CE sulla valutazione ambientale strategica, aveva previsto consultazioni del pubblico interne e transfrontaliere. Ma è soltanto con la dir. 2003/35 – e in particolare con l’art. 2 – che la Comunità recepisce le disposizioni della Convenzione di Aarhus sulla partecipazione ai piani e ai programmi ambientali.

L’art. 2 non contiene una disposizione di carattere generale: esso disciplina la partecipazione del pubblico soltanto per i piani e i programmi previsti da alcune direttive del settore ambientale. In particolare, l’All. I della direttiva include sei direttive a cui applicare l’art. 2: la dir. 75/442/CEE, relativa ai rifiuti; la dir. 91/157/CEE, relativa alle pile e agli accumulatori contenenti sostanze pericolose; la dir. 91/676/CEE, relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole; la dir. 91/689/CE, relativa ai rifiuti pericolosi; la dir. 94/62/CE, sugli imballaggi e rifiuti di imballaggio; la dir. 96/62/CE, in materia di valutazione e gestione della qualità dell’aria.

L’istituto della partecipazione dei privati al processo decisionale in materia ambientale svolge una serie di funzioni: consente un ampio controllo sull’operato della pubblica amministrazione e delle imprese, garantisce l’arricchimento della fase istruttoria propedeutica alla decisione, permette all’amministrazione di ottenere il consenso dei cittadini riducendo la conflittualità giudiziaria e assicura un miglior esercizio, da parte dei privati, dei diritti di difesa giurisdizionale contro le determinazioni amministrative. In sostanza, accresce il grado di democraticità delle procedure amministrative37.

Inoltre, in base alla Convenzione di Aarhus, la partecipazione in materia ambientale, assolve anche ad un ruolo pedagogico38 e questo emerge chiaramente dalla lettura del Considerando 3 della dir. 2003/35/CE, secondo cui «l'effettiva partecipazione del pubblico all'adozione di decisioni consente allo stesso di esprimere pareri e preoccupazioni che possono assumere rilievo per tali decisioni

37 S. Ruina, La disciplina comunitaria dei diritti di partecipazione ai procedimenti ambientali, op.

cit., p. 19.

38 Nel Preambolo della Convenzione si legge: «Desiderose di promuovere l’istruzione ecologica al

fine di fare capire meglio quello che l’ambiente e lo sviluppo durevole sono e di incoraggiare il grande pubblico a prestare attenzione alle decisioni che hanno delle incidenze sull’ambiente e lo sviluppo duraturo e di partecipare a queste decisioni […] Riconoscendo che è importante che i Governi tengano pienamente conto nei loro processi decisionali delle considerazioni legate all’ambiente e che le autorità pubbliche debbano quindi avere a propria disposizione informazioni esatte, dettagliate e aggiornate in materia ambientale».

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85

e che possono essere presi in considerazione da coloro che sono responsabili della loro adozione; ciò accresce la responsabilità e la trasparenza del processo decisionale e favorisce la consapevolezza del pubblico sui problemi ambientali e il sostegno alle decisioni adottate» e dalla lettura del Considerando 4, secondo cui «la partecipazione, compresa quella di associazioni, organizzazioni e gruppi, e segnatamente di organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell'ambiente, dovrebbe essere incentivata di conseguenza, tra l'altro promuovendo l'educazione ambientale del pubblico».

Da tutto ciò si evince come l’obiettivo della Convenzione sia quello di infondere nei suoi destinatari una mentalità ambientale che richieda un approccio razionale, volto alla salvaguardia dell’ambiente, ma senza frenare irragionevolmente lo sviluppo economico e infrastrutturale39.

Il coinvolgimento del pubblico nelle decisioni che possono avere ricadute sull’ambiente mira a responsabilizzare, da una parte, le amministrazioni pubbliche – sia in relazione alle garanzie procedurali, sia in relazione ad una buona gestione territoriale e ambientale – e, dall’altra, gli individui. Questi ultimi devono assumere un atteggiamento attivo che si traduce in una seria attenzione all’ambiente circostante e nella raccolta di informazioni utili alle autorità decidenti per operare le scelte migliori. La responsabilità dell’amministrazione e l’attivismo della popolazione sono alimentati da una sensibilizzazione alle questioni ambientali che soltanto una cultura ambientale può indurre negli attori pubblici e privati. Ecco che la funzione pedagogica della partecipazione ha proprio l’effetto di accrescere la sensibilità nei confronti delle questioni relative all’ambiente40.

Dunque il diritto di partecipazione ha molteplici risvolti. Non è semplicemente inerente alla dimensione procedurale, che in ogni caso, rimanendo il suo ambito tradizionale, è importante, ma in materia ambientale esso assume un quid in più rispetto alla sua solita funzione: «la partecipazione è un presidio dell’ambiente, è uno strumento strettamente connesso alla difesa dell’ecosistema. È presupposto e conseguenza dell’educazione ambientale, giacché intervenendo nei processi

39 Cfr. G. Pizzanelli, La partecipazione dei privati alle decisioni pubbliche, op. cit., p. 179. 40 S. Ruina, La disciplina comunitaria dei diritti di partecipazione ai procedimenti ambientali, op.

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decisionali il pubblico può entrare nel profondo delle problematiche ambientali e sviluppare nuove conoscenze e sensibilità»41.

Con la dir. 2003/35 si riconosce la legittimazione procedimentale alle persone fisiche e giuridiche e alle associazioni ambientaliste42 e gli Stati membri devono fare in modo di offrire al pubblico «tempestive ed effettive opportunità di partecipazione alla preparazione e alla modifica o al riesame dei piani ovvero dei programmi che devono essere elaborati a norma delle disposizioni elencate nell'allegato I»43. Inoltre, gli Stati membri devono preoccuparsi che il pubblico sia informato, «attraverso pubblici avvisi oppure in altra forma adeguata quali mezzi di comunicazione elettronici, se disponibili, di qualsiasi proposta relativa a tali piani o programmi o alla loro modifica o riesame, e siano rese accessibili al pubblico le informazioni relative a tali proposte, comprese tra l'altro le informazioni sul diritto di partecipare al processo decisionale e sull'autorità competente a cui possono essere sottoposti osservazioni o quesiti»44 e che esso possa far conoscere le proprie opinioni prima che vengano assunte decisioni sui piani o sui programmi, cioè quando tutte le possibilità sono ancora aperte.

Infine, gli Stati membri devono provvedere affinché siano tenute nella dovuta considerazione le risultanze della partecipazione al momento di adottare la decisione e sforzarsi di informare il pubblico circa la scelta effettuata, le motivazioni su cui essa è basata e il processo di partecipazione del pubblico. Una pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea45 ha riconfermato l’importanza, alla luce della Convenzione di Aarhus, di partecipare quando tutte le alternative sono ancora praticabili, compresa l’“opzione zero”: la partecipazione deve cominciare a monte ed è per questo che il pubblico deve avere accesso alle informazioni non appena esse siano disponibili.

Ammettendo la partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche anche – e soprattutto – nell’ambito dei procedimenti ambientali, si intende portare il

41 Ivi, p. 86.

42 Cfr. art. 2.1 in cui si legge che per “pubblico” si deve intendere «una o più persone fisiche o

giuridiche nonché, ai sensi della legislazione o prassi nazionale, le associazioni, le organizzazioni o i gruppi di tali persone».

43 Cfr. art. 2.2. 44

Ibidem.

45 Si veda la sentenza della CGUE del 15 gennaio 2013, in causa C-416/10 avente ad oggetto la

domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Najvyšší súd Slovenskej republiky (Slovacchia).

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dibattito ambientale all’interno delle istituzioni, con la possibilità di trovare soluzioni condivise e di aumentare l’efficacia dell’azione amministrativa46. In conclusione, la disciplina della partecipazione ai piani ambientali, così come configurata dalla dir. 2003/35, rappresenta il modello che si è diffuso in Europa per consentire ai soggetti privati di far sentire la propria voce nei procedimenti ambientali generali.

La sua struttura è semplice: sono previsti pochi obblighi, ma fondamentali. Gli Stati devono garantire l’informazione e la partecipazione quando tutte le alternative sono ancora praticabili, garantendo la presa in considerazione degli esiti della consultazione. Tuttavia, viene lasciato agli Stati un ampio margine di discrezionalità circa l’organizzazione delle consultazioni e le modalità di diffusione delle informazioni. Inoltre spetta a loro individuare il pubblico che può intervenire nel procedimento amministrativo.

Per quanto riguarda il terzo pilastro, invece, all’interno dell’Unione europea si è fatta sentire una maggiore resistenza: si tratta di un tema spinoso, gelosamente custodito dagli Stati nazionali, i quali, sulla base del principio dell’autonomia processuale, tendono a voler mantenere le proprie funzioni. Inoltre, all’interno dell’Unione europea, troviamo meccanismi giudiziari e modelli di giustizia molto diversi tra loro, di conseguenza sono emerse le opposizioni politiche rispetto alla configurazione di una riforma del sistema giudiziario che per alcuni ordinamenti potrebbe rappresentare un vero e proprio stravolgimento.

Aarhus chiede un ampio accesso alla giustizia in materia ambientale e che questo

non sia troppo oneroso; nel 2003 è stata presentata una proposta47 di direttiva per dare attuazione al terzo pilastro, anche nella direzione di un ridimensionamento delle spese procedurali, ma tale proposta si è presto arenata lasciando l’assetto normativo e l’organizzazione giudiziaria alla competenza dei singoli ordinamenti. Ad ogni modo, ogni Stato Parte deve tener presente che può essere condannato in caso di violazione delle direttive concernenti gli altri due pilastri.

46

Cfr. S. Cassese, Democrazia e Unione europea, in Lo spazio giuridico globale, Laterza, Bari, 2003, p. 82.

47 Cfr. la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull’accesso alla giustizia in

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88

In base all’art. 9.1 della Convenzione, la possibilità di presentare un ricorso davanti ad un organo giurisdizionale o un altro organo indipendente e imparziale, deve essere garantita a chiunque ritenga che la sua richiesta di informazioni sia stata ignorata, immotivatamente respinta o non abbia ricevuto adeguata risposta. L’art. 9.2 sancisce l’obbligo di garantire possibilità di ricorso per contestare la legalità sostanziale o procedurale di decisioni, atti o omissioni relativi alla partecipazione del “pubblico interessato” ai processi decisionali in materia ambientale. L’art. 9.3 infine, introduce la novità più significativa: il pubblico deve essere messo in condizione di poter intraprendere procedure amministrative o giudiziarie per impugnare gli atti o contestare le omissioni dei privati o delle pubbliche autorità compiuti in violazione del diritto ambientale nazionale.

Tale ultima disposizione tuttavia, incontra alcune difficoltà di applicazione soprattutto da parte dell’Unione europea, poiché nell’ordinamento comunitario, per poter presentare un ricorso di annullamento di un atto, una persona fisica o giuridica deve dimostrare che tale atto le sia indirizzato o la riguardi direttamente e individualmente e tale condizione non si combina certo bene con quanto richiesto dalla Convenzione. Per loro natura infatti, gli interessi ambientali sono comuni e condivisi, di conseguenza per i privati risulta difficile dimostrare di essere coinvolti in prima persona.

I destinatari delle disposizioni della Convenzione di Aarhus non sono soltanto le amministrazioni degli Stati membri, ma anche le istituzioni e gli organi comunitari. L’Unione europea ha infatti adottato il regolamento 1367/200648 per l’applicazione della Convenzione alle sue istituzioni e ai suoi organi, in base al quale qualsiasi organizzazione non governativa che soddisfi i criteri specificamente indicati può presentare una richiesta di riesame interno all’istituzione o all’organo dell’Unione europea che abbia adottato un atto amministrativo ai sensi del diritto ambientale o che avrebbe dovuto adottarlo. L’organizzazione non governativa che ha formulato la richiesta è poi legittimata a presentare ricorso alla Corte di giustizia.

A differenza di quanto disposto dalla Convenzione di Aarhus, la quale prevede l’accesso alle procedure per i membri del “pubblico”, la disciplina contenuta nel

48 Cfr. regolamento (CE) n. 1367/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 settembre

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regolamento riconosce tale accesso unicamente alle organizzazioni non governative che possiedono certi requisiti. Va detto che la totale esclusione dei singoli, dei gruppi e di altri tipi di associazioni dall’elenco dei potenziali soggetti legittimati, sembra minare lo spirito stesso della Convenzione49: la disciplina contenuta nel Regolamento prevede che le organizzazioni non governative possano promuovere un ricorso davanti al giudice comunitario soltanto quando dimostrino di essere destinatarie dell’atto o riguardate direttamente o individualmente, pertanto l’accesso alla giustizia in materia ambientale risulta maggiormente ridimensionato.

Benché l’ordinamento comunitario – che, tra gli altri, si ispira anche al principio dello sviluppo sostenibile – sia piuttosto evoluto sotto il profilo della protezione ambientale, la Corte ha confermato l’approccio rigido e restrittivo nell’interpretazione dei criteri di legittimazione in materia ambientale già emerso in occasione del caso Greenpeace50. A quel tempo la Corte aveva infatti affermato che un ricorrente, per dimostrare di essere individualmente riguardato da un atto della Comunità comportante la violazione di obblighi comunitari in materia ambientale, deve provare di aver subito personalmente un danno attuale o potenziale.

Nel caso Union de Pequeños Agricultores51, l’Avvocato generale Jacobs aveva proposto un’interpretazione evolutiva che ponesse l’accento sugli eventuali interessi del ricorrente pregiudicati dall’atto contestato. Secondo tale interpretazione, un soggetto deve essere individualmente interessato da un atto europeo quando, in virtù delle circostanze di fatto a lui peculiari, tale atto pregiudichi (o possa pregiudicare) i suoi interessi in modo sostanziale.

Un approccio simile lo ha seguito il Tribunale di primo grado nel caso

Jégo-Quéré e Cie SA52: anch’esso ha fornito un’interpretazione meno restrittiva secondo cui una persona fisica o giuridica deve essere ritenuta individualmente

49 Cfr. L. Iapichino, La Convenzione di Aarhus e il diritto dell’Unione europea, in A. Tanzi, E.

Fasoli, L. Iapichino, La Convenzione di Aarhus e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, CEDAM, 2011, Milano, p. 63.

50 CGCE, sentenza 2 aprile 1998, in causa C-321/95, Stiching Greenpeace Council e altri c.

Commissione, in Raccolta 1998, p. I-1651.

51

CGCE, sentenza 21 marzo 2000, in causa C-50/00, Union de Pequeños Agricultores c.

Consiglio, in Raccolta 2000, p. I-6677.

52 Trib. di primo grado, sentenza 3 maggio 2002, in causa T-177/01, Jégo-Quéré e Cie SA c.

(27)

90

riguardata da un atto comunitario qualora esso incida, in modo certo e attuale, sulla sua sfera giuridica, limitando i suoi diritti o imponendole degli obblighi. Malgrado questa apertura, la Corte si è poi arroccata sulle sue posizioni tradizionali mancando di accogliere le interpretazioni evolutive di cui si è dato conto. La formula tradizionale è stata riapplicata in occasione delle cause riunite

EEB e Stichting Natuur en Milieu concernenti questioni ambientali in cui i

ricorrenti invocavano la Convenzione di Aarhus53, in occasione del caso

International Air Transport Association e European Low Fares Airline Association54 e del caso Commissione c. Irlanda55.

Ad oggi, tale giurisprudenza restrittiva si è consolidata e neanche dopo l’entrata in vigore del regolamento 1367/2006 questo approccio così rigido è stato abbandonato. Lo dimostrano, ad esempio, il caso WWF-UK56 e Arcelor SA57. In fondo però, la dottrina ricorda58 che ciò non ci deve stupire se si considera che la Corte non ritiene che la Convenzione di Aarhus abbia efficacia diretta nel diritto dell’Unione europea59 ed inoltre, i principi che disciplinano la gerarchia delle norme nell’ordinamento comunitario ostano a che un atto di diritto derivato – nel caso di specie il Regolamento 1367/2006 – conferisca legittimazione ad agire ai privati che non soddisfano i requisiti indicati dal Trattato60.

Nel 2011, un’altra importante pronuncia della CGUE61, in merito alla diretta applicabilità del terzo pilastro, ha ricordato ancora che soltanto i membri del pubblico che soddisfino i requisiti previsti dal diritto nazionale possono

53

Si tratta del caso European Environmental Bureau (EEB) e Stichting Natuur en Milieu c.

Commissione, Trib. di primo grado, 28 novembre 2005, cause riunite T-236/04 e T-241/04, in Raccolta 2005, p. II-4945, punti 72-73.

54 Trib. di primo grado, sentenza 10 gennaio 2006, in causa C-344/04, International Air Transport

Association e European Low Fares Airline Association c. Department for Transport, in Raccolta

2006, p. I-403, punto 36.

55 Trib. di primo grado, sentenza 30 maggio 2006, in causa C-459/03, Commissione c. Irlanda, in

Raccolta 2006, p. I-4635, punto 82.

56

Trib. di primo grado, sentenza 5 maggio 2009, in causa C-355/08, WWF-UK c. Consiglio.

57 Trib. di primo grado, sentenza 2 marzo 2010, in causa T-16/04, Arcelor SA. c. Parlamento

europeo e Consiglio.

58 L. Iapichino, La Convenzione di Aarhus e il diritto dell’Unione europea, in A. Tanzi, E. Fasoli,

L. Iapichino, La Convenzione di Aarhus e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, Padova, Cedam, 2011, p. 66.

59 Si veda a tal proposito CGUE, sentenza 8 marzo 2011, in causa C-240/09, Lesoochranàrske

zoskupenie VLK c. Ministerstvo životného prostredia Slovenskej republiky, punti 44-45.

60

Si veda CGCE, sentenza 27 ottobre 1992, in causa C-240/90, Germania c. Commissione, in

Raccolta 1992, p. I- 5383, punto 42.

61 CGUE, sentenza 8 marzo 2011, in causa C-240/09, Lesoochranàrske zoskupenie VLK c.

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