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OGNISSANTI LIBRETTO PASTORALE / NUMERO VENTI DELL UNITÀ PASTORALE DI ARZIGNANO CENTRO - APRILE 2021

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O G N I S S A N T I

PASQUA 2021 PASQUA 2021

foto - marco calderato foto - marco calderato

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“Ho desiderato ardentemente mangiare questa Pasqua con voi“ sono le parole amicali di Gesù che introducono la Pasqua con i suoi discepoli; vorrei quest’anno condividere con voi un pensiero sul desiderio ardente.

Mentre scrivo queste righe non si sa ancora come potremo celebrare la prossima Pasqua e se sarà in solitudine come quella dello scorso anno. Ricordo bene come abbiamo celebrato, soltanto noi preti, nel Duomo completamente vuoto e con le altre chiese desolatamente chiuse.

Quest’anno vorrei vivere l’esperienza che, lungo il cammino, ha fatto ardere il cuore dei discepoli di Emmaus alla luce della parola di Gesù e della sua vicinanza ancora nascosta ai loro occhi. L’ardore del cuore bene illumina e caratterizza l’unicità di questa Pasqua.

Penso alle migliaia e migliaia di persone che hanno sperimentato la fatica, il dolore, per un cuore che faticava a battere dentro ai polmoni che faticavano a respirare. Vorrei sentirmi vicino a tutti loro.

Vorrei sentire, come nella loro carne,

il desiderio di un fuoco interiore che Lavanda dei piedi - Monastero di Bose

risana il respiro; vorrei poter desiderare, allo stesso modo, un fuoco ardente dello Spirito che fa crescere la presenza del Signore dentro di me.

Vivere una Pasqua di desiderio: far ardere in noi il desiderio di comunione con il Signore. Vorrei che tutti ci unissimo a quelle semplici parole di Gesù sulla croce, parole che madre Teresa di Calcutta poneva sempre vicino all’immagine del crocifisso: “Ho sete“. Vorrei aver sete anch’io, desidero sentire il Signore che fa battere il nostro cuore. 

L’esperienza della pandemia ci ha tolto tante cose visibili: gli abbracci, la vicinanza, la compagnia, le carezze, le feste; ci ha chiesto di sviluppare le cose invisibili: il pensiero, la fantasia, i sentimenti, gli sguardi.

Perché non far crescere in noi il desiderio della comunione con Dio, di un amore verso il prossimo fondato sul rispetto, sulla contemplazione della sacralità dell’altro, sull’armonia fra pensieri, desideri e azioni che rendono fecondo lo Spirito in noi che produce “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”? (Gal 5,22)

Ecco perché mi preparo ad una Pasqua un po’ diversa: se da una parte mi chiude gli spazi, dell’altra mi spalanca gli orizzonti. Sentirò presenti non soltanto quelli che fisicamente condivideranno le liturgie pasquali ma il mio pensiero, il mio cuore, raggiungerà anche quanti nelle loro case sono uniti dal desiderio di celebrare ardentemente la Pasqua.

Sarò unito a quanti negli ospedali, nelle case di riposo e nelle nostre case sono crocifissi nei letti e hanno sete di speranza, sete di presenza, sete di amore, sete di Dio.

Pasqua 2021

Gesù nell’ultima cena, secondo l’evangelista Giovanni, ha compiuto quel gesto unico, irripetibile e imponderabile di lavare i piedi dei suoi discepoli per renderli puri. È un gesto di grandissima umiltà, intimità, grandezza divina. È questo gesto che desidero far entrare nelle nostre case per questa Santa Pasqua: le sue mani che toccano la nostra umanità, nel segno dei piedi che sorreggono la nostra persona, siano la forza che sostiene tutta la nostra vita. Buona Pasqua!

Don Mariano Lovato

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Etty (Esther) Hillesum era nata il 15 gennaio 1914 a Middelburg (Paesi Bassi) da famiglia ebrea, figlia di un insegnante di lingue classiche e di una russa scampata ai  pogrom. Laureata in giurisprudenza e iscrittasi poi alla facoltà di lingue slave, coltivò la passione per la lettura e gli studi di filosofia e psicologia. Ad Amsterdam, in cui passò la maggior parte della sua vita, Etty insegnò russo e condusse un’intensa

vita relazionale, vissuta comunque come arricchimento e ulteriore stimolo di una intensissima vita interiore. Di quest’ultima sono testimonianza i suoi diari (dal marzo 1941 al settembre 1943), e le lettere scritte agli amici, in gran parte da Westerbork, campo di smistamento e anticamera per Auschwitz, situato al confine tra i Paesi Bassi e la Germania, dove Etty si trovò come prigioniera dal giugno del ’43 (dopo avervi lavorato con possibilità di allontanamento e avere avuto quindi più volte l’occasione, da lei rifiutata, di fuggire). Il 7 settembre 1943 si trovò anche lei come tutti sul treno merci per Auschwitz, assieme ai genitori e ad uno dei due fratelli. La data della morte di Etty è il 30 novembre 1943.

ETTY HILLESUM:

Pensieri “pasquali”

di una giovane donna

Ho voluto che fosse Etty Hillesum quest’anno a farci riflettere sulla forza e la lucentezza della Pasqua, centro imprescindibile della fede di ogni cristiano. Il tempo in cui lei è vissuta, le sofferenze e il dramma che si stavano consumando, la guerra, i campi di sterminio, lo scempio della violenza verso gli ebrei e verso i diversi... un’umanità in frantumi alla ricerca di speranza e di un punto di svolta: tutto questo mi ha fatto pensare a lei, a questa giovane donna dalla mente brillante, dal futuro promettente. Una donna in ricerca continua di autenticità, di senso, di verità, di affetto.

1. Pasqua: Vita da tener in Vita e da diffondere Mi sembra di custodire un prezioso pezzo di

vita, con tutta la responsabilità che me ne viene. Mi sento responsabile per quel grande e bel sentimento della vita che mi porto dentro, devo cercare di mantenerlo intatto in questo tempo per poterlo trasmettere a un tempo migliore. È l’unica cosa che conta e ne sono pienamente cosciente. Ci sono dei momenti in cui penso che dovrei rassegnarmi e soccombere, ma ogni volta ritrovo quel senso di responsabilità nei confronti della vita che in me va veramente tenuto vivo.

(E. Hillesum, 

Diario, Adelphi, p. 726.)

3. Pasqua: salviamo un pezzo di Dio in noi stessi L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: (…) tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi.”

(Etty Hillesum,  Diario 1941-1943, Adelphi 1996, p. 170)

2. Pasqua: non far morire il Risorto dentro il cuore di ognuno

“Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi.

Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi.

(Etty Hillesum,  Diario 1941-1943, Adelphi, p. 169)

Sia Pasqua così... in noi... tra noi....

per tutti: poche cose possiamo fare, poche ne possiamo cambiare. Siamo fragili e impotenti, siamo poca cosa...

Ma una cosa la possiamo regalare al mondo: la nostra umanità, assunta in pieno dal Risorto...

Umanità trasfigurata e redenta, resa nuova da Colui che ha vinto la morte e ora vive in eterno...in mezzo a noi!

don Gigi Fontana Tre suoi pensieri per noi in questo tempo di Pasqua

di pandemia, di crisi del “si è sempre fatto così”... Tre pensieri lucidi, penetranti, mai pesanti o perentori...

Tre perle, tre frecce, tre pietre da cui lasciarci colpire...

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L’ISTITUTO A LUI DEDICATO

Si ripara quasi all’ombra della torre campanaria giottesca di Ognissanti, appena uscendo sulla destra del “broléco”, la ben nota via Cavour.

L’Istituto San Giuseppe di Arzignano merita ancora una volta, e soprattutto in quest’anno, che la sua storia venga raccontata.

L’attuale Centro Socio-Educativo è oggi un servizio diurno che accompagna la crescita di molti bambini e bambine, ma non è sempre stato solo così e occorre partire da molto tempo prima

.Nel 1917, durante il terribile periodo della Grande Guerra, ad Arzignano la signora Antonia Zampiva concedeva all’Arciprete di Ognissanti Mons. Riccardo Rizzetti la sua abitazione privata in via Cavour per l’assistenza di molti malati e infermi che non trovavano facilmente posto nell’ospedale civile locale. Con

ciò, lo stesso Arciprete fece appello a tutte quelle donne che avessero desiderato prestare il loro servizio ai malati facendo parte della Compagnia delle Orsoline dell’Ordine di Sant’Angela Merici.

L’iniziativa prese avvio e vennero introdotte anche le Orsoline infermiere, giovani ragazze intorno ai 20 anni, in quella che venne presto denominata la “Pia opera delle infermiere”, inaugurata definitivamente nel luglio del 1923 dal Vescovo di Vicenza Mons. Ferdinando Rodolfi.

Nell’anno seguente, il 1924, si pensò di allargare la realtà dell’Opera anche per la cura e la crescita di quelle giovani fanciulle che si trovavano orfane dei genitori e, sempre per volontà dell’Arciprete, vennero quindi accolte le prime tre orfanelle, che, nel 1930, arrivarono ad essere più di cinquanta. Erano bambine soprattutto di Arzignano, ma anche provenienti dai Comuni limitrofi, che frequentavano le classi elementari presso la scuola delle Madri Canossiane poco

più su del Ponte del Mella e che poi venivano educate dalle Orsoline al lavoro di sartoria, maglieria, confezione di particole e ricamo, fino ai 18 anni.

Il loro progressivo aumento portò però ad un bisogno maggiore di spazio nei locali della Casa in via Cavour e fu così che Mons. Rizzetti, sostenuto dalla popolazione e dall’appoggio di diversi benefattori e degli ingegneri Vignati e Biasin, riuscì a restaurare, ampliare e modernizzare il luogo.

Con il passare degli anni gli spazi si fecero ugualmente sempre meno idonei, dal momento che l’educazione delle fanciulle era opportuno avvenisse in separata sede dall’assistenza delle infermiere ai malati. Nell’ottobre del 1950 la missionaria Suor Marilina Biasin donava la sua casa in Arzignano, poco lontana dalla Casa delle Orsoline, con tanto di giardino e orto. Questo spazio, che agli inizi fu adibito a pensionato, vide nascere successivamente un fabbricato destinato finalmente alle giovani orfanelle.

A seguire il progetto di costruzione fu ancora una volta l’ingegner Vignati e come impresario venne incaricato l’ingegner Felice Righetto.

I lavori iniziarono il 13 agosto 1952 e l’inaugurazione della struttura avvenne il 27 dicembre 1953 dal Vescovo di Vicenza Mons.

Carlo Zinato, alla presenza sempre dell’ormai anziano e malato Arciprete Rizzetti, il quale, molto devoto alla figura di San Giuseppe, chiese esplicitamente che l’edificio fosse intitolato al Santo Custode della Sacra Famiglia.

Di questi precisi particolari, come stenografa per le Orsoline nella stesura e nella compilazione di lettere e documenti vari, ne conserva oggi il ricordo nitido la signora Annamaria Brentan, classe 1939, residente ad Arzignano, la quale, dopo aver studiato all’Istituto Farina in giovane età e prima di svolgere il ruolo di impiegata alle Officine Pellizzari di Arzignano, prestò il suo servizio volontario seduta alla macchina da scrivere, per le Orsoline, tra le quali vi era, come Vice superiora, la zia Lisetta Marzotto.

Nell’anno di San Giuseppe...

La città di Arzignano devota al Custode della Sacra Famiglia

L’Istituto San Giuseppe come si presenta oggi

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8 9 A seguito della morte dello stesso Mons. Riccardo

Rizzetti, avvenuta nel 1955 all’età di 83 anni, dopo diversi anni dall’arrivo del suo successore Mons. Emilio Gemo, nel 1967 le Orsoline, iniziando a diminuire nel numero e sempre più impegnate nel servizio infermieristico nella Casa Madre di via Cavour, si rivolsero alle Suore Dorotee di Vicenza, ordine fondato dal Vescovo Giovanni Antonio Farina, perchè si assumessero il compito di seguire l’orfanotrofio.

Le Suore Dorotee erano ben conosciute dagli arzignanesi. Infatti, fin dal 1883, erano presenti ad Arzignano dapprima nell’impegno presso il primo ospedale “Marco Miazzo”, poi nella prima Casa di riposo “Scalabrin”, quindi all’Asilo Giardino di Villa Mattarello, intitolato a Vittorio Emanuele II, come educatrici.

Alla richiesta avuta da parte delle Orsoline, le Suore Dorotee accettarono l’incarico di seguire l’orfanotrofio, che da quel momento avrebbe cambiato la sua denominazione da

“Orfanotrofio San Giuseppe” (così voluto da Rizzetti) in “Istituto San Giuseppe”, del quale ricevettero l’incarico effettivo di gestione il 29 agosto 1967.

Reverendissimo Monsignore,

Ella sarà certamente a conoscenza come le Suore Orsoline della Compagnia di S. Angela, proprietarie dell’immobile sede dell’Orfanotrofio femminile “S. GIUSEPPE” abbiano voluto farne donazione a questo Istituto allo scopo di conservare l’istituzione dell’orfanotrofio voluta fin dalla fondazione.

L’esiguo numero di soggetti nella loro Congregazione non ne assicurava la continuità.

Noi l’abbiamo accettata non senza sacrificio perché anche per noi l’attuale momento non è semplice né facile. Iddio ci aiuterà a non venir meno agli impegni assunti così da non deludere l’aspettativa delle buone Suore Orsoline che hanno alimentato l’opera fin dal suo nascere, con tanti sacrifici.

Sono certa, Rev.mo Monsignore, che Ella vorrà benevolmente accogliere le Religiose di questo Istituto che per la metà di settembre saranno ad Arzignano e sostenerne e benedirne l’opera che, con l’aiuto di Dio, darà frutti di bene.

Con l’occasione La prego gradire i distinti ossequi di questo Consiglio generalizio ed i miei personali, particolarmente devoti.

Sr. Irma Zorzanello

In un primo momento, furono tre le Suore Dorotee che iniziarono il loro servizio al San Giuseppe e l’anno seguente al loro arrivo, nel 1968, fu ampliato l’edificio, con una nuova sala per la ricreazione, una cucina, due aule per il doposcuola e un miglioramento della zona dormitorio, con relativi servizi igienici.

Da allora, molte sono state le ulteriori trasformazioni nell’ambito generale dell’Istituto, prima fra queste l’introduzione dell’educazione anche per i bambini maschi e la scelta di istituire rapporti non solo con chi viveva situazioni gravi in famiglia, ma anche con quei genitori che per motivi di lavoro non erano in grado di dare ai propri figli un’attenta e completa educazione. Oggi infatti, i bambini di qualunque ceto e qualunque etnia, vengono accolti e accompagnati nell’età scolare.

Per i cinque giorni settimanali (dal lunedì al venerdì) le Suore, le insegnati laiche e il personale presenti si impegnano nell’obbiettivo di far crescere i piccoli nella relazione sociale e cristiana, garantendo loro un ambiente sereno e familiare. Al mattino molti vengono La signora Annamaria Brentan con Marco

Calderato

Così veniva scritto dalla Madre Generale delle Suore Dorotee all’Arciprete Mons. Emilio Gemo:

“ ”

accompagnati a scuola e poi rientrano all’Istituto per la pausa pranzo e per il pomeriggio, ricco di attività formative, di svolgimento dei compiti per casa e anche di un po’ di svago e gioco.

Il Centro socio educativo, che dai primi anni

‘70 ha accolto centinaia di bambini che qui hanno imparato a crescere nei valori cristiani e nella responsabilità per la costruzione del bene comune, accoglie piccoli dai sei agli undici anni e ragazzi dei primi due anni della scuola secondaria di primo grado. Ancora vigila con costanza sulle trasformazioni e sulle esigenze della società arzignanese, ispirandosi al carisma di San Giovanni Antonio Farina, fondatore della famiglia religiosa delle Dorotee e protetto dalla paterna intercessione di S. Giuseppe e dalla tenerezza di sette Suore: Suor Annamaria, la Madre Superiora, Suor Gemma, Suor Gaetana, Suor Letizia, Suor Cesarina, Suor Floriana e Suor Maria Grazia, le quali, anche per la Parrocchia di Ognissanti, donano il prezioso servizio di catechiste e ministri dell’Eucaristia.

Marco Calderato (con Sr. Albarosa Ines Bassani)

Le Suore Dorotee dell’Isituto San Giuseppe, nella foto con Marco Calderato

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Me lo immagino così quest’anno il Gesù risorto:

sorridente, che danza e gioca.

Dio ride… «ridere è una cosa seria».

Dopo una Quaresima, che questo giro non è stata di quaranta giorni ma che dura da un anno, da quando il Covid-19 ci ha rovinato la vita, desidero vivere la mia fede con un Gesù gioioso e che porta fiducia e speranza.

Mi ha stimolato a questo desiderio una bella espressione di Franco Battiato nella canzone “Prospettiva Nevski”, là dove canta: “Nel deserto rimase… E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”.

Attualizzando l’espressione si può dire che nei momenti difficili della vita dobbiamo imparare da Colui che ha fatto dei nostri deserti la sua dimora e a vedere nella notte le prime luci della Pasqua.

E di deserti interiori e di notti oscure in questa difficile Quaresima ne abbiamo visti tanti, troppi. Ma Dio c’era, non ci ha abbandonati.

Gesù risorto certamente era sorridente, non poteva avere il broncio o il muso duro.

Mentre sto scrivendo, alla televisione trasmettono la preghiera di papa Francesco dal sito archeologico di Ur in Iraq, il luogo di nascita di Abramo.

Mi lascio trasportare da questa immagine contemporanea e vedo che è proprio uno sguardo sorridente e autoironico che spinge la Bibbia a raccontare la nascita di Israele non con il pianto delle doglie, ma attraverso il riso.

Ride Abramo, nostro padre nella fede, davanti al Signore dell’universo, quando questi gli annuncia un figlio nella sua vecchiaia; e ride anche Sara, nostra madre, che origlia, da dietro la tenda, i discorsi tra i messaggeri divini ed il marito.

Anche Dio ride: ed il figlio della promessa, Isacco, porterà questo riso divino inscritto nel suo nome.

A Pasqua Dio vive e...

ride, danza e gioca!

Il sorriso di Dio è iscritto anche nei nostri nomi, nelle nostre persone…

Noi tutti, figli di Abramo, discendenti di quella coppia originaria, siamo figli di una risata, allo stesso tempo umana e divina.

Tutta la Bibbia è una scuola di sorrisi e di ironia, che ci educano a discutere con Dio.

E nello stesso tempo, anche Dio è ironico con noi perché ci prospetta punti di vista differenti, mette il nostro mondo sotto-sopra, così che “gli ultimi saranno i primi”!

Il sorriso è un antidoto ai fondamentalismi perché prende le distanze, insegna a guardare il mondo da altre angolazioni, libera dallo sguardo depresso o rancoroso.

“Il senso dell’umorismo è una grazia che io chiedo tutti i giorni, perché ti solleva, ti fa vedere il provvisorio della vita e prendere le cose con uno spirito di anima redenta. È un atteggiamento umano, ma è il più vicino alla grazia di Dio”

(Papa Francesco)

Insomma, per dirla con Rabelais, «ridere è una cosa seria».

Credo che perdiamo troppo tempo dietro ad un una spiritualità di tristezza, dolore, macerazione, tesa fra bastone e carota.

Questi atteggiamenti pieni di pessimismo sono il tradimento di un Dio che è Padre della gioia del mondo.

All’inizio egli «Vide che tutto era molto buono»

e fu felice.

E la sua allegria l’ha donata agli umani con Gesù.

La storia della salvezza dall’inizio della creazione fino all’annuncio del vangelo della gioia portato da Gesù e affidato ai suoi discepoli, quindi anche a tutti noi.

«Se qualcuno ha deciso di essere felice – afferma Agostino – deve assicurarsi ciò che rimane per sempre e non ci può essere tolto da nessuna circostanza sfortunata. E se Dio è eterno e non viene mai a mancare, chi ha Dio con sé è felice»

(De vita beata, 2,11).

«Rallegrati, piena di grazia», annuncia l’angelo a Maria all’alba di una nuova storia.

L’allegria si spande nell’annuncio e nei segni compiuti da Gesù.

Non un’allegria ridanciana e superficiale, che nasconde tristezza interiore, ma luce nelle tenebre, forza nel cammino, speranza certa negli occhi.

Quando l’allegria “acchiappa” la vita, i giorni si fanno sereni dentro, la vita contagia, le difficoltà sono prese su di loro da Gesù e da tanti altri che ci accompagnano nei nostri giorni.

«Cos’altro sono i servi di Dio, se non quasi suoi giullari, che debbono levare in alto i cuori degli uomini e muoverli alla letizia spirituale?» si domandava Francesco d’Assisi.

«Si guardino i frati dall’apparire fuori ravvoltati e ipocritamente tristi – aggiungeva ancora – ma sempre si mostrino allegri nel

Dio danza… pieno di gioia e di allegria: «la danza dei Tre».

Blu di cielo - Kandinskij

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Signore, sorridenti e gai, e convenevolmente graziosi».

Il volto del cristiano dovrebbe essere quello di uno abitato dall’allegria.

Abita come tutti il tempo che gli è dato, le sofferenze, i mali del mondo, il travaglio della morte. Ma il suo cuore è sereno e contagia l’allegria, il volto vero del cristianesimo per tanto tempo dimenticato.

«Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto:

siate lieti», afferma l’Apostolo Paolo (Fil 4,4).

L’ amore della Trinità, dentro la quale Gesù ha portato anche noi, è una danza: “la danza dei Tre”, come dice il monaco Albert Lassus.

Albert Einstein scrisse all’amico Max Born una lettera in cui dissentiva dalle sue teorie e tra l’altro scrisse una famosa espressione che ancora oggi fa discutere sul fatto che fosse credente o meno.

Questa è la storica frase che dal liceo porto ancora con me: “E comunque sono convinto che Dio non gioca a dadi”.

Dio gioca…

«E comunque sono convinto che Dio non gioca a dadi».

Non di rado in teologia si è ricorsi proprio al simbolo del gioco e della creazione artistica per parlare di Dio.

Ricordo dagli studi di teologia, i concetti di “analogia estetica” sviluppata dal teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, oppure di quella “ludica” (cioè legata all’immagine del gioco) suggerita dall’americano Harvey Cox.

Il gioco puro, senza l’inquinamento dell’interesse o della violenza come avviene oggi in certi sport, il gioco innocente e libero del bambino può essere un’analogia, cioè un modo umano adatto a descrivere la divinità, la felicità di Dio e in Dio.

Il libro dei Proverbi (8,22-31) parlando della Sapienza ha splendide espressioni sul gioco di Dio:

“Quando stabiliva al mare i suoi limiti,

così che le acque non ne oltrepassassero i confini,

quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice

ed ero la sua delizia ogni giorno:

giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre,

ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”.

Nelle distese immense dei cieli, negli spazi mirabili della natura Dio sembra del tutto immerso in un atto creativo libero e appassionato, un po’ come accade al bambino quando sta giocando.

Mi piace immaginare Dio che crea gli astri e sembra giocare con i palloncini, come un bambino.

Tutte le sue energie intellettuali e fisiche sono assorbite in quel piacere intimo e totale.

È ciò che si ripete per l’artista quando è coinvolto nella sua attività creatrice: nulla lo distrae e il suo spirito e il suo corpo sono totalmente consacrati all’opera che sta uscendo dalle sue mani.

Come è bello questo Dio che gioca con il creato… e si diverte anche!

Fa ancora così anche con noi; ci vuole contenti, gioiosi, innamorati del creato e della natura.

Il Cristo risorto gioca ancora, non a dadi per barare… ma ci fa sentire importanti come lo è ogni bambino per il padre e la madre.

Dopo il silenzio “eloquente” nel campo di concentramento di Auschwitz, Papa Francesco durante la messa finale della Giornata mondiale della Gioventù a Cracovia nel 2016, utilizza la metafora digitale: “Fidatevi del ricordo di Dio: la sua memoria non è un disco rigido che registra e archivia tutti i nostri dati, ma un cuore tenero che gioisce nel cancellare definitivamente ogni nostra traccia di male”.

Dice ancora: “Installate la connessione più stabile, la tristezza è un virus che infetta e blocca tutto”.

Come se Dio fosse un bambino che gioca alla playstation…

Se le ultime parole dei Vangeli sono: pace, allegria, perdono, lode, allora iniziamo a parlare di queste realtà, della risurrezione di Gesù, che è stata condivisa con tutti noi.

È da notare che le ultime parole in assoluto della Bibbia sono:

«La grazia del Signore Gesù sia con tutti»

(Apocalisse 22,20);

dove quel tutti è inclusivo di tutta l’umanità.

Non ha aggettivi né specificazioni né qualificativi.

Tutti è tutti senza esclusioni di razza, sesso, religione o cultura… Buoni e cattivi (Mt 5,45;

Lc 6,35).

Don Renato Dovigo

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Festival Biblico 2021

“siete tutti fratelli” (Mt 23, 8)

L’ edizione 2021 del Festival Biblico riprendendo parte delle parole di Gesù Cristo attestate in un versetto nel Vangelo di Matteo cap.23, ha per tema «siete tutti fratelli».

Sottolineare il tema della fraternità universale (come, ispirandosi a Francesco d’Assisi, ha fatto papa Francesco con l’enciclica Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale) ci è parso significativo e necessario in un tempo come quello che stiamo vivendo.

Nelle cosiddette culture occidentali il tema sembra non essere nuovo, ma oggi esso non è scontato. Non si può infatti non osservare come ai nostri giorni la fraternità e la fratellanza universali, così spesso retoricamente affermate, nell’effettività di tante vite risultino spesso marginali e irrilevanti, se non assenti.

Dei tre elementi emblematicamente proclamati dalla rivoluzione francese (libertà, uguaglianza, fraternità), elementi non esenti anche da echi biblici e cristiani pur secolarizzati, la fratellanza non ha avuto la stessa

fortuna della libertà e (in parte) dell’uguaglianza. Ne è riprova il fatto che oggi ci sembra importante essere liberi, ma facciamo facilmente a meno della fraternità. Di fatto, in un’epoca tendenzialmente contrassegnata da un pluralismo senza confini, le differenziazioni e le singolarità rischiano di diventare talmente tante che presso i loro latori può persino cadere nell’oblio la coscienza dell’appartenenza comune a un’unica umanità. A questo si aggiunge che non siamo ancora in grado di ben discernere le ricadute che su tutto questo potrà avere la situazione inattesa e inedita creatasi con la pandemia che affligge gran parte della Terra, la quale oltre a rivelare la nostra fragilità ha giocoforza creato le condizioni per un isolamento sanitario e sociale che incide e inciderà sugli stili e le scelte di vita individuali e sociali.

A fronte di tutto ciò riprendere e riaccreditare la condizione di fratellanza universale rappresenta una risorsa vitale per la qualità umana della vita degli umani

dal 11 al 13 Giugno 2021

nel mondo. Essa si può meglio comprendere cogliendo come viva in due dimensioni che meritano di essere approfondite e di cui sarebbe interessante indagare le connessioni e contaminazioni.

Come principio laico che figura nel primo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (“Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti.

Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.”

essa è sicuramente legata, anche se non esattamente coincidente, alla nozione di fraternità, ed entrambe hanno a che fare con il legame naturale tra chi nasce nella stessa famiglia. Se la parola fratellanza riferisce chiaramente ad una sorta di parità di diritti tra tutti gli esseri

umani e al vincolo e dovere che ne consegue, il termine fraternità, con gli avverbi e gli aggettivi derivati, indica atteggiamenti e rapporti all’insegna di una origine comune.

L’idea di fratellanza come emerge dalla vita e dall’insegnamento del Cristo – e da come è affiorata in alcune vicende rilevanti della tradizione spirituale e sociale cristiana ispirate alle Scritture ebraico-cristiane - fa chiaramente riferimento all’idea di figliolanza di tutti gli esseri umani, raccolti dalla paternità di Dio, da cui deriva la relazione fraterna tra di loro.

Anche se spesso si parla di fratellanza/

fraternità per indicare la parità, bisogna ricordare – come la Bibbia racconta in molti luoghi e modi sia nel Primo che nel Nuovo Testamento - che essere tutti fratelli implica la

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Una bella consuetudine della nostra Unità Pastorale riguarda i tempi di Avvento e Quaresima. Per alcune sere ci mettiamo in ascolto della Parola di Dio, che ci aiuti a vivere più intensamente questi tempi liturgici. Ci facciamo aiutare da qualcuno, che abbia compiuto qualche passo in più, e che possa

darci uno sguardo nuovo su testi che ascoltiamo spesso, e a cui magari non prestiamo molta attenzione.

Quest’anno, a causa della pandemia (che tra ottobre e dicembre è riesplosa in modo feroce) abbiamo scelto di sospendere gli incontri di Avvento, mentre stiamo vivendo (nel momento in cui scrivo, inizio marzo) quelli di Quaresima.

A differenza degli scorsi anni, non ci stiamo concentrando sui brani evangelici delle domeniche di Quaresima, ma stiamo ripercorrendo tutto il rito della Messa.

Potrebbe essere qualcosa di scontato,

di già noto… è vero tuttavia che il lockdown prima e la nuova edizione del Messale poi, ci ha spinti tutti a riflettere proprio sulla celebrazione eucaristica. Per tutti è stata una grande sofferenza non poter partecipare alle Messe nei primi mesi di Covid19 ed è stato realmente bello potersi ritrovare a celebrare insieme, quando è stato possibile.

Il nuovo Messale ha portato (come sappiamo) alcune modifiche alle preghiere, magari disorientando qualcuno.

Il nostro desiderio è quello che non ci fermiamo all’estetica (“Perché hanno messo la rugiada dello Spirito?”;

“Non mi piace il Kyrie eleison!”…), ma cerchiamo di ritornare alle radici,

Ai piedi della Santa montagna

Qualche riflessione sul cammino di Quaresima

differenza oltre che l’uguaglianza:

salvo casi particolari essere fratelli/

sorelle significa, ad esempio, avere differenza di genere, di età, di posizione nella famiglia, di interessi, di compiti. Fratellanza dunque non significa semplicemente uguaglianza, ma assunzione della differenza, e chiede la capacità di far crescere un’umanità che si caratterizza come diversità riconciliata. Ed è proprio la differenza tra i fratelli/sorelle che – pur con tutte le difficoltà, i conflitti e i fallimenti che la cosa può portare con sé - consente di imparare la relazione buona che è sempre relazione con l’alterità, con qualcuno che pur essendo come me, tuttavia è altro e diverso da me.

La fraternità che ci unisce e unisce il mondo riguarda pertanto tutti gli esseri umani, non solo alcuni o alcune. Li riguarda (e mi riguarda) sia per la comune appartenenza alla famiglia umana, sia per la figliolanza di tutti nella paternità di Dio.

Dunque essa, nelle sue implicanze individuali e sociali, non ammette

«scartati» e non si radica solo su

legami di sangue o familiari o su colleganze di gruppo. Con essa è piuttosto in gioco l’appartenenza e il contributo di ciascuno alla comune umanità. Inizia con atteggiamenti e azioni che s’improntano al rispetto e al riconoscimento di ogni altro e della dignità della sua vita e, oltre ogni divisione, giudizio e indifferenza, evolve e matura nella giustizia, vicinanza, responsabilità e solidarietà praticate da chi – singolo o società con le proprie diverse strutture (personali e comunitarie;

psicologiche, giuridiche, economiche, culturali ecc.) - sa

rispondere e risponde effettivamente all’appello che la vita dell’altro, ogni altra vita umana a cominciare da quelle più deboli, sempre gli lancia convocandone la libertà: «Fa’ che io viva!». Con ciò si tratta di pensarci insieme e insieme alla Terra e ne va della qualità umana della vita mia e di ogni altro, ad un tempo appellante e appellato.

Il festival biblico, nel nostro territorio, si svolgerà dal 11 al 13 Giugno 2021.

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al fondamento delle nostre liturgie, per capire che non è “una bella cerimonia”, che magari ti “ricarica”, né tutta la Messa dipende da quanto bella è la predica del don che capita, o da quanto “lungo” è.

Riprendere i vari passaggi del rito della Messa ci può allora aiutare a vivere con uno spirito rinnovato ogni celebrazione, e accorgerci che quanto noi viviamo a Messa non è finto, perché “quello che conta è la vita”… quando andiamo a Messa non scappiamo dal mondo pieno di problemi e difficoltà, e ci rifugiamo nel rito, lasciando la vita fuori dalla porta della chiesa! Noi portiamo la vita all’interno della Messa e lì scopriamo che Dio agisce, anche nella nostra vita, anche nei nostri

E lì scopriamo che non è stata una nostra idea, non siamo andati a messa perché “me la sentivo” o “ne avevo bisogno per ricaricarmi”, ma perché abbiamo risposto a una chiamata, la chiamata del Signore, che ha convocato ciascuno di noi e noi riconosciamo di essere alla sua presenza, tracciando su di noi il segno della croce; e quando compiamo l’atto penitenziale, non ci stiamo soffermando solo su quanto siamo peccatori, ma contempliamo l’infinita misericordia di Dio, che ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio per noi.

Durante la Liturgia della Parola siamo invece chiamati ad ascoltare.

Molto spesso ci sentiamo più a nostro agio con il foglietto, su cui possiamo seguire il testo; oppure a volte ci viene chiesto di proclamare una delle letture e siccome il libro che c’è sull’ambone ci spaventa, preferiamo salire i gradini e tirare fuori dalla tasca il foglietto, molto più rassicurante…

Ma quel libro che è già lì, l’Evangeliario (il libro dei Vangeli), assieme all’incenso e le candele ci ricordano qualcosa di molto importante: la Parola di Dio è puro dono, di cui non possiamo disporre.

Il libro è già lì, segno che la Parola ci precede ed è più grande di noi;

l’Evangeliario viene posato sull’altare non perché è un bel tavolo su problemi e nelle nostre sofferenze.

I riti di introduzione sono un esempio meraviglioso di quanto sostengo.

Potremmo chiederci “quando”

comincia la Messa… quando il prete fa il segno di croce? Oppure quando, dopo aver suonato la campanella, il prete esce dalla sacrestia e si avvicina all’altare? Oppure ancora quando il coro inizia il canto?

In verità, tutti questi gesti (l’avanzare del prete, il canto, il segno di croce), sono come la conclusione di un cammino, che ciascuno di noi ha compiuto, a partire dalle proprie case; allora potremmo dire, senza timore di esagerare né di essere irriverenti, che la Messa comincia quando usciamo di casa, per andare in chiesa.

cui appoggiare tutto, ma perché dall’altare il Signore risorto presiede ogni liturgia; l’incenso ci ricorda che noi ci mettiamo in relazione con il Signore non solo con le orecchie (ascoltare la sua parola), ma anche con gli altri sensi (sentire il suo profumo, gustare il pane…).

In questo modo ogni liturgia della parola diventa esperienza di rivelazione. Ogni volta che ascoltiamo la Parola di Dio, essa è sempre nuova e sempre parla a noi, sempre Cristo parla alla sua chiesa.

Un tasto dolente… l’omelia! Oppure, come si dice di solito, la “predica”…

Spesso si sceglie la messa con quel prete “perché predica bene”, o si evita la messa con quell’altro “perché le sue prediche sono lunghe”… al di là di ogni discussione, l’omelia dovrebbe servire a “spezzare” la Parola ascoltata, per calarla nella realtà concreta. La Parola può parlare in un modo a New York, mentre la medesima Parola può dire altre cose ad Arzignano, o a Sydney… al prete spetta il compito di cogliere quanto accaduto nella propria comunità cristiana, e capire come la Parola interpella, ogni domenica.

… alla prossima puntata!

Don Davide

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Alla scoperta della Via Crucis

di Chiampo

A pochi chilometri da Arzignano, nell’oasi francescana della Pieve di Chiampo, è possibile immergersi in un cammino dove si contempla e si ricorda l’ultimo tratto della vita di Gesù. Un tratto duro e doloroso ma attutito dalla bellezza della natura che circonda questo luogo. Qui è stato realizzato un parco botanico che comprende ben 350 specie di piante diverse tra cui il cedro del Libano e l’olivo. L’opera, voluta dai Frati e progettata dall’Ingegner Ferruccio Zecchin, viene inaugurata nel 1989.

Le stazioni della via dolorosa sono realizzate da 6 scultori diversi e con l’apporto finale del Beato Claudio perché, nel sepolcro, è collocata una copia in bronzo dorato della sua opera scultorea “Cristo Morto” il cui originale in marmo, realizzato nel 1941, si trova nella chiesa di San Francesco a Vittorio Veneto.

Il complesso ha trovato la sua collocazione ideale con l’ingresso all’inizio del viale dell’Incoronata e l’uscita del percorso sacro nelle vicinanze della Grotta di Lourdes.

Tutti i gruppi scultorei appaiono al pellegrino sempre all’ultimo momento, celati da una curva o da una siepe e si snodano lungo un percorso in leggera salita che avrà, al suo apice, la deposizione per poi scendere al sepolcro e terminare con l’annuncio dell’Angelo alle donne che Cristo è risorto.

Ci soffermeremo solo su alcune stazioni, le più significative dal punto di vista artistico.

Lo scultore Padre Nazzareno Panzeri apre il percorso introducendo, con forte spiritualità, la via Crucis con l’immagine di San Francesco che riceve le stimmate sopra la riproduzione del “Sasso Spicco”

della Verna, uno spuntone di roccia sotto il quale il Santo si ritirava a meditare sulla passione di Gesù.

Francesco viene sorretto da Cristo nelle sembianze di Serafino alato a formare un corpo unico con a fianco scolpite le parole “Vorrei percorrere il mondo piangendo la passione del mio Signore”. (foto 1)

Foto 1

Uno sguardo alla stazione numero tre dove troviamo la prima caduta opera di Padre Tito Amodei. Qui Gesù cade per la prima volta sotto il peso della croce. (foto 2) Mentre cade pesantemente al suolo tende la sua mano in cerca di aiuto e il soldato romano sembra lasciarsi intenerire sorreggendo la croce. (foto 4) Il dolore squarcia il petto del Cristo

con una profonda ferita e la grande, sproporzionata mano dell’altro soldato, sembra voler fermare la scena. (foto 3)

Proseguendo nel cammino doloroso incontriamo, dopo un po’, la sesta stazione, opera del Prof. Renato Ischia. (foto 5)

Qui Cristo incontra la Veronica.

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Foto 4 Foto 2

Foto 3

La donna è rappresentata quasi completamente priva di corpo umano perché in essa è racchiusa tutta l’umanità che riceve la redenzione da Gesù. Sopra di lei un angelo crea un potente vortice in mezzo al quale esce la figura del Cristo che, oppresso dalla croce, non ha la forza di alzare lo sguardo ma con l’indice della mano indica la strada che deve ancora percorrere per arrivare al luogo del supplizio. La cosa più bella, anche se difficile da scorgere se non si osserva con attenzione, è il piccolo ramo che sta nascendo alla base del legno della croce che rappresenta la speranza di un mondo migliore. (foto 6)

Percorrendo un altro tratto ed incontrando altre stazioni, vicino ad un grande abete si innalza la stazione numero nove, la terza caduta, che forse è una delle più drammatiche di tutto il percorso. (foto 7)

L’opera, sempre del Prof. Renato Ischia, mostra un Cristo prono a terra, schiacciato dal peso della croce con gli occhi socchiusi piegato dal dolore mentre con la mano sinistra raccoglie le ultime forze per indicare il tratto di strada che resta prima del Golgota.

(foto 8) Da una parete alle sue spalle esce la figura di una madre che sembra voler portargli aiuto, abbracciarlo, mentre il bambino squarcia il velo che rappresenta l’indifferenza umana.

Le stazioni undici (la crocifissione), dodici (la morte in croce) e tredici

Foto 6

(la deposizione) , tutte opere di Padre Nazzareno Panzeri, oltre ad essere le più drammatiche, sono vissute in chiave francescana perché vengono introdotte le figura di S. Francesco e di S. Chiara.

In queste stazioni Francesco assiste

Foto 7 Foto 5

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il Cristo condividendo le sue sofferenze. Nell’undicesima stazione un Francesco in disparte sembra voler fermare il carnefice. Cristo, immagine straziante del dolore, è posato sopra il legno della croce. (foto 9)

Fatti pochi passi si assiste alla dodicesima stazione. (foto 10) Una scena corale dove un Cristo dalle lunghe braccia, che avvolgono tutto il mondo per redimerlo, è quasi abbracciato da S. Chiara, qui raffigurata come Maria, che raccoglie gli ultimi sussulti di vita mentre Francesco sorregge un lebbroso scheletrico che rappresenta l’umanità redenta. (foto 11)

La tredicesima stazione ci mostra Gesù accolto tra le braccia da S. Chiara che rappresenta la Madre mentre Francesco, nelle vesti di S. Giovanni, osserva la scena con grande dolore.

Interessante notare il ginocchio del Cristo, in posizione innaturale per un cadavere, che preannuncia la

Foto 8

Foto 9

Foto 10 Foto 11

resurrezione di lì a tre giorni.(foto 12) Dopo una veloce discesa si arriva ad un’immagine che descrive perfettamente il luogo dove venne sepolto Gesù così come raccontato nei Vangeli. Circondato dagli ulivi il sepolcro scavato nella roccia con la pietra che scivola a chiudere la sepoltura. (foto 13) All’interno la copia in bronzo dorato, opera di Frà Claudio Granzotto. Il volto è sereno.

Tutto si è compiuto e si attende la Resurrezione. (foto 14)

Pochi passi più in là una stazione che non si trova nelle Via Crucis tradizionali ma che ci dà la speranza e l’annuncio che Cristo è risorto ed è vivo in mezzo a noi. Padre Nazzareno Panzeri crea un gruppo composto dall’Angelo che annuncia alle donne di non cercare tra i morti colui che è vivo e con la mano indica la chiesa dove Cristo è presente nell’Eucarestia, custodita in essa. (foto 15)

Emma Bacigalupi

Foto 13

Foto 14

Foto 15

Tratto ed elaborato da La Via Crucis un’altra meraviglia alla

Pieve di Ferruccio Zecchin Foto 12

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GLI OSPEDALI DI ARZIGNANO

Un anno fa scoppiava la pandemia e uno dei problemi più sentiti era:

“Ce la faranno i nostri ospedali a curare tutta la gente contagiata?”.

Una domanda che non si erano fatti i nostri bisnonni quando l’influenza spagnola fece, soltanto in Italia, 375.000 morti. E nemmeno con l’Asiatica che alla fine degli anni cinquanta ne fece qualche milione.

Molte persone della nostra valle manco sapevano dove si trovasse l’ospedale, mentre oggi si va in crisi se

ci rimandano a casa appena sfebbrati.

Penso sia, perciò, interessante un breve excursus sulla storia dei nostri ospedali, soffermandoci su quello attuale, bello e spazioso, che dovrà presto lasciare il posto al neonato nosocomio emisferico di Montecchio.

A metà dello scorso millennio c’era un piccolo hospitale – e si vede ancora da corso Mazzini nell’edificio a due piani a sinistra della chiesetta di San Gaetano.

osp. San Gaetano - 1425

Nel 1603 fu creata anche in Ognissanti la Congregazione di San Girolamo i cui Confratelli raccoglievano delle elemosine porta a porta per assistere gli ammalati nel corpo e nell’anima.

Qualche tempo dopo, ricevuta una donazione, fu creato un edificio in via Rio Torto, cui più avanti si affiancò l’attuale chiesetta di San Girolamo. Ci pensò l’era napoleonica a cancellarlo e a farlo tornare a san Gaetano che si allargò con altre due stanze per i poveri e i bisognosi.

Nel 1869 le donazioni della famiglia Miazzo diedero origine in Campo Marzio a un ospedale più ampio e funzionale dei precedenti. Ma non poté rimanervi molto, essendo adiacente alla roggia e circondato da concerie e dalla filanda Bonazzi

che l’avevano oscurato, rendendolo tetro e umido, inadatto al recupero della salute. Tutti d’accordo nel creare una nuova struttura: progetti e studi esigevano, però, tanti soldi.

Come al solito una donazione risolse i problemi.

Arrivò da Bucarest grazie alla generosità di Teodora Radu, vedova del Cav. Luigi Cazzavillan, garibaldino e grande giornalista, tenendo fede alla promessa fatta al marito morto a soli 51 anni, in Romania ma con il cuore ad Arzignano. Alle sue 160.000 lire si aggiunsero altri soldi dal comune e dalla signora Rossettini Zampiva che diedero vita a un moderno ospedale ai margini dell’abitato – dove ora sorge la scuola media “Motterle” – pieno di aria e di luce. Il 27 giugno 1907

osp. Marco Miazzo in Campo Marzio - 1869

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entrò in funzione coi suoi 30 posti letto (!) che diventarono il doppio 23 anni più tardi dopo l’aggiunta della chirurgia e altri ampliamenti.

Se all’inizio del secolo la media delle presenze giornaliere era di appena 12 persone, nel secondo dopoguerra non era già più adatto alle nuove esigenze.

Così la storia si concluse negli anni sessanta con l’entrata in funzione del nuovo complesso ospedaliero sul colle delle Costeggiole, semi sbancato da decine e decine di volontari che lo spianarono e vi costruirono le due strade d’accesso, dopo il paziente lavoro di mediazione del sig. Sante Dal Maso (“el paròn Contin”) che mise d’accordo i tre proprietari di quei 54.000 m² di terreni.

All’inaugurazione il prof. Ettore Motterle ricorderà che ai molti nomi che avevano contribuito all’opera, si devono aggiungere tutti gli arzignanesi con le loro doti morali e

l’ininterrotta tradizione di solidarietà umana e del loro più profondo ed evangelico senso religioso: non erano venuti meno allo spirito dei padri e all’essenza della loro storia, la storia delle Opere Pie e degli Ospedali di Arzignano.

Col vescovo Zinato - ing. Vignati, il suo segretario, i 3 cappellani di Ognissanti, e in alto i medici. Al top il prof. Volpato

1961 ospedale e panorama

Giuseppe Corato Sintetizzando le date certe e le realizzazioni del secolo scorso:

1907: entra in funzione il primo ospedale “Cazzavillan”;

1930: i posti letto, da 30 sono portati a 60;

1950: entra in carica l’Amministrazione Vignati, favorevole al nuovo ospedale;

1952: l’avv., Francesco Perazzolo con un gruppo di cittadini forma il Comitato Pro Nuovo Ospedale;

inverno 1952-53: iniziano i lavori di sbancamento e costruzione delle vie d’accesso al colle;

1954: progettazione del nuovo complesso e posa solenne della prima pietra;

21 febbraio 1955: appalto del primo lotto di lavori;

18 novembre 1961: Inaugurazione con le autorità civili e religiose e moltissimi cittadini entusiasti: l’on. Mariano Rumor Ministro dell’Agricoltura che taglia il nastro, l’on. Fornale, il vescovo Zinato e tutti i preti di Ognissanti, i primari Coltro e Volpato con i medici e tutto il personale sanitario;

31 maggio 1969: benedizione della statua bronzea della Madonna, nel piazzale dell’ospedale;

1975: la Regione approva la realizzazione di una nuova ala;

1978: la nuova ala è terminata:

1990: iniziano ulteriori lavori di ampliamento che si completeranno in fasi successive.

1907

il vecchio Cazzavillan

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Nel precedente articolo di Pasqua 2020 abbiamo visto che con l’acqua benedetta, somministrata nel Fonte battesimale, il cristiano entra a far parte nella grande Famiglia della Chiesa cattolica. Ma per l’acqua non è certo quell’unico solenne momento che accompagna la vita religiosa delle persone perché essa punteggia molti altri momenti dell’esistenza.

Il grande industriale di Arzignano, Giacomo Pellizzari, affermava che

“L’acqua è d’oro”. Lui certamente voleva sottolineare che era anche l’elemento fondamentale per il lavoro, ma ovviamente sottintendeva che lo era anche in senso spirituale.

Per questo tutti i fedeli, nel momento di entrare in chiesa per mettersi in contatto con Dio attraverso la preghiera, si fanno il Segno della Croce essendosi prima bagnate le punte delle dita dentro l’acquasantiera, oggetti che si trovano proprio all’ingresso, accanto alle porte.

Possono essere rustiche bacinelle in pietra o in marmo come si usava un tempo, o anche artistiche sculture dove il bacile è sorretto da una slanciata colonnina.

Forse non sono mai state descritte, anche se sono sempre davanti agli occhi di tutti e quindi seguiamo la loro presenza nelle chiese della nostra Unità Parrocchiale.

Le acquasantiere delle nostre chiese

SONO OGGET TI UN TEMPO SEMPRE PRESENTI NON SOLO NELLE CHIESE MA ANCHE NELLE CASE PRIVATE; OGGI SONO CADUTE UN PO’ DI DISUSO ANCHE COME CONSEGUENZA DEL COVID19.

Acquasantiera Chiesa di Ognissanti n.1

Chiesa di Ognissanti

Il nostro Duomo presenta in fondo alla navata centrale in posizione comoda per l’uso, una coppia di artistiche pile dell’acqua Santa in marmo cinerino conformate con un alto stelo scolpito sul quale poggiano le eleganti e grandi coppe per l’acqua benedetta: sono alte cm 132 x 80,mentre le due sculture del

Battista sono di cm 55 x 17/18 (figg.

1 e 2). Le due statue del Battista si innestano al centro delle coppe:

egli regge nella mano destra una conchiglia, simbolo del battesimo. La scultura di destra (nel corso del 2005) è stata oggetto di furto sacrilego per cui è stata sostituita da una copia identica eseguita da maestranze di Chiampo. Le due coppe in origine e per molti anni sono state coperte da due artistiche sculture lignee eseguite in bassorilievo che negli ultimi anni erano state tolte. Ma in questi giorni il parroco mons. Mariano Lovato ha deciso, molto opportunamente, di rimetterle. Le scene riprodotte sviluppano un’efficace catechesi sacramentale: in una si illustra il Sacramento del battesimo come vittoria sul male (Scena della caduta di Satana, scacciato dall’arcangelo Michele, Raffigurazione di una Messa di prima comunione, Cristo pastore);

nell’altra coppa vi sono scene della vita di Mosè (Mosè salvato dalle acque,

Acquasantiera Chiesa di Ognissanti n.2

Coppa costolata in marmo nero

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Consegna dei dieci comandamenti, Mosè seduto al pozzo di Madian).

Sono opere singolari ed interessanti eseguite nel 1920 dal maestro artigiano vicentino Gaetano Murat, il cui nome si legge inciso su entrambi i piatti, autore anche di altre opere presenti in Duomo (figg.3/ 4).

Alle porte laterali (che sono recuperi dell’antica chiesa quattrocentesca) ci sono due belle coppe costolate in marmo nero, che da occhio esperto è ritenuto di tipo

‘bardiglio nuvolato di Carrara’ (fig.5).

San Rocco, San Gaetano, San Girolamo, Altri Oratori:

Anche negli Oratori sono presenti le acquasantiere che hanno in genere forma di scodella murata. Alcune sembrano piuttosto antiche come quella di S. Gaetano (fig.6) che in marmo rosato di provenienza da cave del veronese, un materiale, che è stato sempre molto utilizzato. A San Rocco, oltre a questa rossa a scodella (fig.7) c’è un’acquasantiera a stelo molto interessante, sia perché è inusuale questa presenza in una chiesa votiva, sia perché è molto antica (fig.8). Sempre in marmo rosso scuro è composta di due pezzi:

una coppa in parte un po’ consunta

Acquasantiera S. Gaetano Le due coperture delle acquasantiere con i

bassorilievi

dall’uso e un grande piede a base quadrata che appare di fattura più recente. Le dimensioni sono di circa cm 90x120 mentre il lato del quadrato di base è di cm 5x88 ca dello stelo.

L’ipotesi più probabile è che sia l’antica acquasantiera quattrocentesca di Ognissanti qui trasportata e riutilizzata come il vecchio pavimento.

Chiesa di Castello

Nella navata si trova una bella acquasantiera sulla tipologia di quelle di Ognissanti e cioè con un grande bacile in marmo sorretto da una slanciata colonna.(cm 85x120) (fig.9)

Acquasantiera Chiesa di Castello

Acquasantiera S. Rocco grande Acquasantiera S. Rocco piccola

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Nelle due porte laterali sono invece presenti due acquasantiere certamente recuperate dalla precedente chiesa:

Una piccola incastrata nel muro dentro una delle due porte ed una seconda collocata nel vano che si apre dietro il grande portale: questa è in

pietra bianca e ci sembra composta da due antichi recuperi: è alta circa un metro e sarebbe da osservare con maggiore attenzione. (fig.10)

Chiesa di San Bortolo

In questa chiesa neogotica ci sono 5 piccole acquasantiere a coppa murate sulle pareti accanto agli ingressi.

Tre sono semplici bacili di pietra;

due sono due coppe a forma di conchiglia murate accanto alla porta principale(figg.11 e 12)

Acquasantiera Chiesa di Castello porta laterale

Acquasantiera S. Bortolo a conchiglia

Acquasantiera S. Bortolo

Acquasantiera S. Zeno bussola

Chiesa di San Zeno

In questa chiesa, come a S. Bortolo, le tre acquasantiere sono murate nei vani d’accesso delle porte d’ingresso.

Una è una semplice coppa però di un bel marmo composito (fig.13), altre due sono identiche e poste nella bussola della porta principale:

raffigurano due cherubini in rame molto ossidato che reggono una piccola coppa a forma di conchiglia (fig.14)

Chiesa del Michelucci al Villaggio Giardino

In questo edificio non si riscontrano acquasantiere ma è presente il bel locale del Battistero già descritto con queste strutture.

Altri Oratori

Certamente ci saranno piccole acquasantiere anche negli oratori ora non visitati (Canossiane, Madonna Pellegrina, Conche, Casa Scalabrin, San Girolamo ecc.). Spero che altri fedeli di Arzignano possano colmare queste lacune inviando le relative immagini fotografiche.

Antonio Lora Acquasantiera S. Zeno

porta laterale

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A 150 anni dalla sua nascita Arzignano ricorda

ACHILLE BELTRAME

“Aveva l’aspetto di un anziano signore contegnoso e riservato, alquanto insolito per la barbetta a Mefistofele, i cappelli a tese larghe vagamente bohèmiennes, che contrastavano col restante abbigliamento, il quale era sempre accuratissimo, signorile, serio, preciso.”

Così lo racconta Dino Buzzati che lo incrociava nella sede del Corriere della Sera. Infatti, Beltrame compariva in redazione ogni lunedì mattina per discutere e scegliere insieme con il Direttore il soggetto delle illustrazioni da stampare nel successivo numero della “Domenica del Corriere”.

Era nato a Arzignano, il 19 marzo di 150 anni fa. La sua numerosa famiglia lo sostenne sempre e lo incoraggiò a sviluppare la propria naturale inclinazione al disegno.

Compì gli studi prima ad Arzignano, poi a Vicenza ed infine all’Accademia di Brera a Milano.

Rivelò subito un considerevole temperamento pittorico, tanto che nel 1890, ancora studente, vinse il prestigioso premio Mylius con il dipinto Fracta Virtus, conservato

tuttora nell’Accademia di Brera.

Nel 1891 si presentò alla prima Triennale di Brera con Praeludium.

Alla seconda Triennale del 1894 espose Canova nel suo studio, che gli valse il premio della fondazione Gavazzi.

Nel 1892, appena uscito dall’Accademia, partì per il Montenegro alla ricerca di cose

Alpini scalano il monte Bianco di Achille Beltrame

nuove da dipingere e quel viaggio fu decisivo per la sua vita di artista.

Lì conobbe Edoardo Ximenes, inviato dell’Illustrazione italiana, che richiese al Beltrame qualche tavola per il suo giornale.

All’Illustrazione italiana  l’artista collaborò fino al 1898, quando venne chiamato da Luigi Albertini e da Eugenio Torelli Violler alla nuova rivista illustrata del Corriere della Sera, La Domenica del Corriere.

Dai tempi in cui non esisteva ancora un vero e proprio reportage fotografico fino a periodi più recenti, in cui sembrava che la fotografia stesse per dare il colpo di grazia al mestiere di illustratore, le tavole a colori di Beltrame, in ragione di due alla settimana, continuarono ad offrire per quarantasei anni una visione precisa degli avvenimenti d’Italia e del mondo.

Egli non si muoveva da Milano, eseguiva i suoi disegni basandosi sulla descrizione dei cronisti ed avvalendosi di un archivio fotografico che si era andato formando nel suo studio di corso Garibaldi.

Disegnatore di tradizione ottocentesca, dall’ispirazione sempre viva e feconda, si distinse perché seppe mantenere un ideale di decoro, equilibrio e buon gusto anche nella descrizione dei fatti più tragici, “seppe cioè essere vero senza essere verista e sincero senza essere brutale” (Possenti), riuscendo a

colpire l’immaginazione dei lettori, che gli restarono sempre fedeli.

Esaminando le sue tavole ci si accorge subito che era un giornalista nato. La sua fantasia era maggiormente stimolata quando la carica giornalistica dell’episodio era maggiore. I fatti di cronaca nera erano il suo cavallo di battaglia, gli incendi, gli scontri ferroviari, i salvataggi da brivido e gli eventi della guerra.

“Ho continuato ogni settimana a dipingere scene e paesaggi che non avevo mai visti. Le mie tavole, in milione di copie, sono andate per tutto il mondo. Io sono rimasto attaccato alla Madonnina. Non ho mai visto una ferrovia sotterranea, una miniera di carbone, un indigeno della Papuasia.

Ho assassinato sulla carta centinaia di persone, saccheggiato città, distrutto intere regioni, io che sono l’uomo più pacifico del mondo”

Casa Natale di Achille Beltrame

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