Francesco P. Luiso
Voilà m'sieurs dames, les jeux sont faits! Giudicato a sorpresa e cultura del giusto processo.
1. La vicenda processuale. – 2. Giudicato a sorpresa. – 3. Separazione di cause e decisione in appello di rapporti sub judice in primo grado. – 4. Estensione del giudicato? – 5. L’equivoco della partecipazione e l’integrità del contraddittorio. – 6. Inapplicabilità dell’art. 336, c. 2 c.p.c. – 7. Domande implicite ed estensione dell’accertamento.
1. La vicenda processuale. – Tizio chiede, nei confronti di un Comune (causa A) e di alcuni suoi amministratori (causa B), il risarcimento dei danni per fatti illeciti ascrivibili a questi ultimi.
Il Tribunale rigetta con sentenza la causa A, relativa alla domanda proposta contro il Comune, fondando tale rigetto sull’allora prevalente opinione circa la irrisarcibilità dei danni da lesione di interessi legittimi; separa la causa B contro gli amministratori, e la rimette in istruttoria. Si noti fin da ora, dunque, che la sentenza sulla causa A è definitiva, mentre rispetto alla causa B non vi è alcuna sentenza, ma una semplice ordinanza: è la fattispecie esattamente prevista dall’art. 279, secondo comma, n. 5 c.p.c.
La causa A (contro il Comune) viene appellata, e l’appello è notificato anche agli amministratori “ai soli fini di conoscenza e di completezza del contraddittorio”.
Gli amministratori si costituiscono in appello, senza peraltro svolgere concreta attività difensiva, essendo evidentemente estranei alla controversia. Il giudice di appello conferma la sentenza di primo grado, avendo cura di precisare che “in questa sede l’esame resta circoscritto alla responsabilità del Comune”. A fondamento delle ragioni del rigetto, tuttavia, il giudice di appello pone (non già la irrisarcibilità dei danni da lesione di interessi legittimi, sibbene) la insussistenza degli illeciti addotti a fondamento della domanda risarcitoria.
Il rigetto della domanda contro il Comune diviene definitivo per rigetto del relativo ricorso per cassazione, mentre la causa B – contro gli amministratori – continua sempre a pendere davanti al Tribunale. Essa è infine decisa in primo grado
con accoglimento della domanda e accertamento della responsabilità degli amministratori. Segue l’appello di costoro.
Questo appello viene paradossalmente accolto (non per ragioni inerenti alla responsabilità dei convenuti, ma) sull’asserzione di un “precedente giudicato”, formatosi all’esito dell’impugnazione della sentenza relativa alla causa A (Comune), che avrebbe già esteso i propri effetti alla causa B (amministratori) imponendosi alle parti di questa: il definitivo rigetto della domanda contro il Comune avrebbe coinvolto la domanda proposta contro gli amministratori, sicché l’autonoma decisione del Tribunale avente ad oggetto diretto la responsabilità sarebbe ... inutiliter data.
Investita della questione, la Corte di cassazione ha confermato la sentenza asserendo che:
a) il giudizio sulla causa relativa alla responsabilità del Comune si è occupato anche della posizione dei suoi amministratori e ha finito per escluderne la responsabilità;
b) essi amministratori avevano preso parte all’appello ed avevano avuto “la possibilità di interloquire sul decisivo presupposto della domanda svolta contro il Comune”; pertanto nei loro confronti si era formato “un giudicato esplicito negativo” in un processo in cui essi erano rimasti
“formalmente e sostanzialmente parti ed anzi, tecnicamente ed a stretto rigore, controparti” degli attori;
c) è regola di sistema quella (presente nella giurisprudenza di legittimità) per cui “sono parti del giudizio, nei cui confronti fa stato l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, non soltanto quelle contro le quali la domanda sia stata formalmente proposta, ma anche quelle che, pur non dirette destinatarie della domanda stessa, non siano estranee alle questioni decise ed abbiano partecipato al giudizio con piena possibilità di far valere eccezioni e deduzioni contrarie a tutela dei propri interessi”;
d) non rileva l’intervenuta separazione delle cause e la disciplina delle
nei confronti del Comune non ha certo esorbitato dal suo oggetto, che comprendeva proprio l’accertamento, quale fatto costitutivo della pretesa, della perpetrazione di condotte penalmente rilevanti da parte dei componenti della commissione edilizia”.
Da queste premesse la Corte ha fatto scaturire il principio di diritto secondo cui
“costituisce antecedente logico-giuridico del rigetto di una domanda rivolta contro una P. A. per il risarcimento di danni da pretesa condotta penalmente rilevante di soggetti ad essa legati da rapporto di immedesimazione organica (nella specie:
componenti di commissione ediliza comunale in relazione al rigetto di istanze di privati) l’accertamento dell’esclusione di una tale condotta, operato all’esito di processo cui abbiano preso parte anche costoro: con la conseguenza che, proseguito il processo sulla connessa domanda rivolta direttamente nei soli confronti di quei soggetti per i danni prospettati dalle stesse condotte penalmente rilevanti, il giudicato sull’esclusione di tale condotta, la quale costituiva il presupposto della domanda contro la P. A. poi rigettata, si estende anche a detta domanda e ne determina il rigetto ”.
2. Giudicato a sorpresa. – E’ plausibile questa decisione (sul piano processuale, s’intende)? Nella testa del lettore le idee si affollano e confondono: su cosa ha deciso il tribunale nella causa che aveva rimesso in istruttoria? Non era riservata a tale organo la decisione? E l’appello di una sentenza in una causa diversa ha prodotto un giudicato sull’oggetto della lite ancora pendente in primo grado, forse allora il tribunale non poteva neppure deciderne, data la sussistenza di una preclusione all’esercizio dei suoi poteri. Ma può poi la preclusione sortire da un appello di una sentenza di primo grado ancora da pronunciarsi? Sentenza che, quando infine viene pronunciata, si scontra con un giudicato già formatosi in un appello su un’altra sentenza che non solo aveva un altro oggetto ma – lo dice espressamente la Corte – non aveva neppure esorbitato da tale oggetto!
Un bel pasticcio, non c’è che dire. Mettere ordine non è facile, ma uno sforzo di chiarificazione è imposto dalla assoluta implausibilità della conclusione a cui è
pervenuta la S. C. Conclusione implausibile e pericolosa: il giudicato a sorpresa è un attentato alla parità delle armi, e quindi all’idea del giusto processo.
3. Separazione di cause e decisione in appello di rapporti sub judice in primo grado. – La prima osservazione è che la sentenza ha disinvoltamente cassato la regola1 per cui, nel giudizio di appello della sentenza parzialmente definitiva, il potere decisorio del giudice di secondo grado deve intendersi strettamente delimitato dall’oggetto della controversia specificamente decisa nella sentenza impugnata: il giudice del grado successivo “deve limitare il proprio esame alla sola materia che ha formato oggetto della decisione di primo grado, e non può estenderlo alle questioni per le quali vi sia stata riserva di pronuncia, essendo rispetto a queste funzionalmente incompetente”.2. E qui a maggior ragione la regola è applicabile, posto che – rispetto alla causa B – non vi era stata alcuna decisione del Tribunale.
L’assoluta incompetenza rispetto alle questioni riservate al primo grado di giudizio impedisce pertanto di concepire una decisione per implicito di tali questioni.3 E impone di vedere nella declaratoria di insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda già negativamente decisa dal primo giudice, solo una valutazione strumentale all’oggetto specifico di quanto devoluto al giudice dell’impugnazione. Considerare tale valutazione alla stregua di decisum significa legittimare una indebita estensione alle questioni ed ai profili della causa per i quali vi è stata riserva di decisione.
4. Estensione del giudicato? – Questa regola deve però essere apparsa troppo banale alla S. C. che, per concludere in senso opposto, ha sentito il bisogno di trasportare l’argomentazione nella sfera, decisamente più opaca, della formazione del giudicato in corso di causa e della interpretazione della decisione.
1 Ricondotta dalla giurisprudenza di legittimità al principio del doppio grado: v. Cass.
n. 3789/1983; n. 2435/1985; n. 595/1985; n. 4151/1992; n. 7666/1994.
Scrive la Corte che la produzione del vincolo di giudicato sulla responsabilità degli amministratori non necessita di una sentenza che pronunci su tale specifico oggetto; pur essendo infatti vero che il giudice d’appello era chiamato a decidere della responsabilità del solo Comune, e che non poteva decidere di un oggetto ancora sub judice in primo grado. Per arrivare a pronunciare della responsabilità del Comune, la sentenza ha comunque conosciuto della responsabilità degli amministratori e, così facendo, la soluzione della questione della responsabilità degli amministratori ha operato come presupposto logico-giuridico della decisione e, come è noto, il giudicato si estende ai suoi presupposti logico-giuridici.
Il ragionamento è suggestivo ma doppiamente fallace.
Innanzitutto l’estensione “per implicazione” non riguarda l’ambito soggettivo del giudicato bensì quello oggettivo. Con essa si intende che le parti del rapporto deciso non possono rimettere in discussione i presupposti indispensabili del decisum. Nessuno però dubita che questo vale, appunto, tra le parti del rapporto oggetto della decisione, non mai invece per altri soggetti ancorché titolari di rapporti connessi. Ne consegue che – se si esclude (come espressamente fa la C. S.) che la sentenza d’appello abbia deciso del rapporto danneggiato-amministratori – quel che la sentenza d’appello attribuisce o nega a soggetti diversi dal Comune è sì rilevante, ma solo nei confronti del Comune e relativamente al rapporto da questi intrattenuto con il danneggiato. Questo è il rapporto accertato, ed è tra le parti di esso che possono prodursi i vincoli corrispondenti alle implicazioni necessarie dell’accertamento.
Anche però a voler in ipotesi prescindere dalla diversità dei soggetti, l’estensione del giudicato alle situazioni pregiudiziali (ivi ricompresa la più modesta preclusione a differenti soluzioni di questioni pregiudiziali) è sicuramente preclusa tutte le volte che queste situazioni sono oggetto specifico ed attuale di un diverso giudizio pendente tra le rispettive parti: appunto il caso in esame. Se così non fosse, se un giudice potesse comunque conoscere con effetti di giudicato delle questioni pregiudiziali attualmente sub judice davanti ad un altro ufficio, ne conseguirebbe che laddove non venga sospesa la causa dipendente in pendenza di causa pregiudiziale, la sua decisione varrebbe da decisione sulla causa pregiudiziale,
impedirebbe che ne decida il giudice di essa investito sostituendosi alla sentenza che questi abbia per accidente pronunciato. Assurdo! E assurdo al quadrato se si considera che, nella specie, si era avuta una formale di separazione delle cause con destinazione della causa contro gli amministratori all’istruttoria del primo grado, e quindi senza la pronuncia di una sentenza che li riguardasse.
L’unico inquadramento plausibile per l’intervenuta cognizione della posizione degli amministratori resta allora quello della cognizione incidenter tantum. E non solo per le ragioni di ordine generale appena viste, ma anche perché, se è vero che un giudice d’appello decide ... su un appello, che razza di appello è mai quello che conosce di una responsabilità su cui non si è avuta decisione in primo grado? E’
evidente che la cognizione incidenter tantum (cioè, per definizione, senza efficacia di giudicato) è l’unica opzione sensata.
Per poter considerare effettivamente decisa la posizione degli amministratori, occorrerebbe postulare che la sentenza d’appello sulla causa del Comune … ne decise. Ma ciò è proprio quel che la sentenza della S. C., rifugiandosi nell’estensione, ha negato in tesi!
5. L’equivoco della partecipazione e l’integrità del contraddittorio. – La dimensione retorica assunta dalla motivazione della S.C. conta su un’altra suggestione: gli amministratori comunque parteciparono al giudizio d’appello. La causa fu trattata e decisa nel rispetto del contraddittorio e questo è sintomo significativo della realtà dell’accertamento.
Qui, però, il concetto di partecipazione è quantomeno equivoco. Non solo infatti, non si vede come questa partecipazione sarebbe in grado di superare l’assenza di decisione fin qui segnalata, ma occorre anche considerare che gli amministratori non furono destinatari dell’impugnazione: non potevano esserlo, non essendo stata decisa la loro posizione e non potendo quindi l’appellante essere soccombente nei loro confronti. Né, tantomeno, essi proposero o avrebbero potuto proporre impugnazione, per la stessa ragione che non esisteva alcuna decisione nei loro riguardi. Gli amministratori “parteciparono” al giudizio d’appello sulla base
Tale denuntiatio – certamente non necessaria nella specie (l’art. 332 c.p.c.
presuppone che sia già intervenuta la decisione dell’insieme di cause scindibili cumulate) – aveva aperto la strada ad una partecipazione a carattere necessariamente formale vista l’indeducibilità di proprie posizioni sostanziali, non ancora oggetto di decisione in primo grado, e quindi non decidibili in sede di appello.
Ma è possibile aggirare queste considerazioni a favore di una interpretazione
“sostanzialistica” del contraddittorio? No di certo! L’osservazione, fatta propria dalla S. C., che gli amministratori si difesero con pienezza di mezzi in quella sede, potrà significare che il contraddittorio si concretizzò per essi, non per il danneggiato. Questi infatti, nell’appello proposto dal Comune aveva l’onere di difendersi e di contraddire sul relativo oggetto, cioè sulla responsabilità del Comune, non su questioni la cui decisione era riservata alla diversa sede del primo grado! Come si può affermare che, difendendosi in appello nei confronti del Comune, il danneggiato avrebbe perfezionato il contraddittorio nei confronti degli amministratori, se il suo onere era quello di contraddire le posizioni di questi ultimi in primo grado? Tanto più che risulta che la prova della responsabilità degli amministratori fu effettivamente fornita nell’istruttoria tenuta ad hoc e trovò il suo epilogo nella sentenza favorevole del tribunale! Sarebbe del tutto legittimo e plausibile – ed evidentemente insindacabile – l’atteggiamento di chi, nella disputa con il Comune, avesse riservato le sue difese alla dimostrazione della responsabilità degli amministratori nella sua sede naturale.
L’integrità del contraddittorio è quindi un abbaglio che, trascurando la reale dinamica degli interessi, mostra solo l’indifferenza di una certa giurisprudenza per i principi di base del giusto processo.
6. Inapplicabilità dell’art. 336, c. 2 c.p.c. – Per scrupolo di completezza potrebbe ipotizzarsi che la Corte Suprema abbia avuto in mente il fenomeno della c.d.
efficacia espansiva esterna (art. 336 c. 2 c.p.c.), postulando un rapporto di dipendenza e facendo valere gli effetti della decisione d’appello sul provvedimento dipendente. Per più ragioni, però, la cosa non funziona.
Tanto per cominciare l’art. 336 c. 2 fa dipendere la proiezione degli effetti su altri provvedimenti da una “riforma”, e qui la sentenza d’appello non aveva riformato un bel niente. Più di questo conta, però, il fatto che l’idea stessa di dipendenza sarebbe equivocata: la dipendenza di cui tratta l’art. 336 c. 2 c.p.c. non è la dipendenza logico-giuridica del contenuto di un provvedimento rispetto al contenuto di un altro provvedimento, bensì la dipendenza dell’emissione del provvedimento dalla sentenza poi rimossa. Ora, nel nostro caso di tale fenomeno non v’è traccia per il semplice fatto che la sentenza di primo grado che ha accertato la responsabilità degli amministratori non è affatto un provvedimento dipendente, essendo essa stata pronunciata nell’esercizio di un potere autonomo e non in ragione di un titolo esterno poi rimosso. Essa infatti fu autonomamente pronunciata dal Tribunale in virtù della formale e legittima separazione delle cause.
7. Domande implicite ed estensione dell’accertamento. – Resta da dire dell’orientamento, invocato dalla Cassazione, secondo cui “parti del giudizio nei cui confronti fa stato l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, sono non soltanto quelle contro le quali la domanda sia stata formalmente proposta, ma anche quelle che, pur non dirette destinatarie della domanda stessa, non siano estranee alle questioni decise ed abbiano partecipato al giudizio con piena possibilità di far valere eccezioni e deduzioni contrarie, a tutela dei propri interessi”. Si tratta di un orientamento talora affiorante in giurisprudenza ma che – giusto o sbagliato che sia – non si confà al caso di specie per due distinte (ancorché connesse) ragioni.
La prima ragione sta nel fatto che, con esso, si regola l’ipotesi dell’accertamento coinvolgente parti nei cui confronti sembra non direttamente esercitata un pretesa sostanziale: l’ipotesi è tipica della comunanza di causa dell’art.
106 c.p.c., in cui una delle parti della controversia chiede di coinvolgere nell’accertamento anche una parte diversa da quelle originarie affinché questa non possa in futuro servirsi dell’eccezione di res inter alios acta. Ove queste parti abbiano partecipato al processo esse vengono considerate assoggettate
La cosa è essenzialmente diversa dalla vicenda in esame, nella quale a due distinte pretese esercitate nei confronti di due distinte parti, corrispondono – sciolto il cumulo iniziale – due separati giudizi ognuno dei quali ha, per definizione, un oggetto specifico inconfondibile con l’altro. Nelle ipotesi a cui si richiama la S. C., l’ampliamento dell’accertamento corrisponde ad una decisione della posizione altrui in quanto è stato possibile ravvisare una richiesta di deciderne, ancorché tale richiesta non abbia assunto le forme canoniche della domanda: il fenomeno è diverso, consistendo nella decisione (palese) di una domanda implicita, ma ragionevolmente enucleabile dalla posizione in concreto assunta della parte.
Nel nostro caso l’inestensibilità dell’accertamento di un determinato oggetto dipende invece dalla premessa che la sentenza non ha deciso su tale oggetto: il postulato è appunto che, nei successivi gradi di impugnazione della sentenza, il giudice ha conosciuto del comportamento dei soggetti del rapporto, ma non ne ha deciso: la riserva al primo giudice scaturente dalla separazione e dalla rimessione in istruttoria della causa non esclude infatti la trattazione del tema, ma nel senso precipuo di cognizione strumentale all’oggetto devoluto, mentre ne esclude la decidibilità, e, di conseguenza, la possibilità di fare stato. Quel che in altre parole si verifica è un caso esemplare di “mera cognizione incidenter tantum” in quanto opposto alla figura dell’accertamento incidentale.
Invocare formule è facile; ragionare è faticoso. E non è rassicurante scoprire che la Corte che dovrebbe garantire il rispetto delle regole del giusto processo manca della sensibilità per evitare che, di formula in formula, si arrivi a celebrare il giudicato a sorpresa.