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Un inedito epitaffio per la pregiudizialità costituzionale

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Academic year: 2021

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1. A ben guardare, nella sentenza n. 10/2015 si assiste a una vera e propria rimozione normativa. Il considerato in diritto della decisione, infatti, non cita mai l’art. 1, legge cost. n. 1 del 1948.

In particolare, laddove (§7) ricostruisce il quadro ordinamentale degli effetti temporali delle pronunce d’incostituzionalità, tracciando i confini tra ciò che compete al giudice comune e ciò che compete alla Corte costituzionale, il principio generale di retroattività è agganciato solo agli artt. 136 Cost. e 30, legge n. 87 del 1953. Né l’omissione normativa è colmata quando poi (§8) il rivendicato potere di regolare gli effetti della propria decisione di accoglimento viene calibrato sulla vicenda in esame, decretandone un’efficacia solo pro futuro.

Ora, come insegna la psicanalisi, la rimozione è sempre il sintomo di un problema. Analogamente, tale rimozione normativa segnala il problema di natura processuale della sentenza n. 10/2015.

2. Si può, infatti, anche condividere l’interpretazione data a talune categorie processuali in sentenza, che in ciò rivela un’evidente vocazione dottrinale e un’altrettanto manifesta natura programmatica.

Così, ad esempio, per la rilevanza (art. 23, legge n. 87 del 1953), restituita alla sua originaria natura di requisito di ammissibilità unidirezionale, di esclusiva pertinenza dell’autorità remittente, strettamente inerente al solo giudizio a quo, estranea per questo al sindacato della Corte se non per la sussistenza di una sua adeguata motivazione.

Così, egualmente, per la categoria dei rapporti giuridici esauriti (art.

30, legge n. 87 del 1953), la cui individuazione è correttamente rimessa all’interpretazione giurisprudenziale della specifica disciplina di settore, non trattandosi di un problema di diritto processuale costituzionale.

Al limite – almeno per i convinti fautori di un «innesto ragionevole della giustizia costituzionale nella nostra forma di governo» (Mezzanotte) - può ritenersi non implausibile anche la flessibilità ora riconosciuta all’art.

136 Cost., nel nome di una tutela della Carta fondamentale «come un tutto unitario» e della Corte «come custode della Costituzione nella sua integralità», chiamata per questo a modulare le decisioni anche sotto il

*

Lo scritto riproduce l'intervento al Seminario organizzato da Quaderni costituzionali sulla sentenza n. 10/2015, svoltosi presso la Biblioteca de “il Mulino” il 18 marzo 2015 e i cui atti saranno pubblicati in uno dei prossimi fascicoli della Rivista.

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profilo temporale, se in casi particolarissimi - dunque residuali, quindi eccezionali - ciò le è imposto da un corretto bilanciamento tra principi costituzionali. Del resto, come suggerisce la sentenza guardando ad altre Corti costituzionali, così fan tutte.

Ciò che fa problema – ed è un problema serio – è, invece, la possibilità di spingere tale modulazione diacronica fino alla pretesa di attribuire alla pronuncia d’illegittimità costituzionale effetti solo ex nunc decorrenti dal giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Con ciò scardinando quella pregiudizialità costituzionale prescritta dall’art. 1, legge cost. n. 1 del 1948, laddove esige che la quaestio sia «rilevata d’ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio».

Prevedendo come regola l’accesso alla Corte in via incidentale, infatti, tale fonte costituzionale non impone di riconoscere necessariamente alle sentenze di accoglimento un generalizzato effetto retroattivo. Ma, certamente, pretende che la norma dichiarata incostituzionale non trovi applicazione ai fatti oggetto del giudizio a quo.

3. Sotto questo profilo, salvo mio errore, si tratta di un’assoluta novità processuale per la giurisprudenza costituzionale. La sentenza n.

10/2015 richiama alcuni precedenti, in cui la Corte ha graduato gli effetti temporali di proprie dichiarazioni di illegittimità costituzionale. Ma in nessuno di questi il nesso di pregiudizialità costituzionale è stato messo in gioco come accade ora.

L’inedito problema della violazione dell’incidentalità del giudizio costituzionale è, ovviamente, estraneo alle sentenze nn. 370/2003, 13/2004 e 423/2004, perchè risolvono questioni di legittimità promosse in via d’azione.

Né il problema si è posto con le sentenze nn. 501/1988, 124/1991, 416/1992, tutte decisioni di accoglimento ad efficacia retroattiva circoscritta, il cui effetto ex tunc, per quanto parziale, includeva comunque il giudizio a quo.

Quanto alle sentenze nn. 266/1988 e 50/1989, è vero che entrambe – strutturalmente - si presentano come decisioni di accoglimento operanti solo pro futuro, coniugando il relativo dies a quo con la loro data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, in ciò ricalcate dalla sentenza n.

10/2015. Allora come ora, dunque, l’efficacia temporale dell’accertata

incostituzionalità è rimasta fuori dal perimetro del giudizio da cui pure la

quaestio era sorta. Eppure anche qui resta un’irriducibile differenza, che

attiene alla relativa ratio decidendi. In quei due lontani precedenti, infatti,

era stata accertata un’incostituzionalità sopravvenuta (per inerzia

legislativa), che per sua stessa natura esige una coerente graduazione

degli effetti temporali della relativa dichiarazione, «dal momento in cui» il

contrasto con la Costituzione si è manifestato. Quella accertata nella

sentenza n. 10/2015, invece, è un’incostituzionalità originaria, che

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accompagna la norma impugnata fin dalla sua entrata in vigore: un vizio, dunque, la cui rimozione – a rigore – non ammetterebbe alcuna crono- modulazione.

4. Se confrontata con tutti i precedenti citati, la sentenza n. 10/2015 mostra un’altra differenza, che merita di essere marcata con l’evidenziatore.

Fatta eccezione per la sola decisione n. 423/2004, nelle altre occasioni in cui la Corte costituzionale ha graduato gli effetti temporali dell’accertata incostituzionalità, i dispositivi delle relative pronunce ne recano traccia, attraverso appropriate formule esplicative. Su tutte, la più eloquente è la sentenza n. 50/1989, dove l’incostituzionalità veniva dichiarata – cito dal suo dispositivo - «a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, ferma restando la validità di tutti gli atti anteriormente compiuti».

Diversamente, il dispositivo della sentenza n. 10/2015 è privo di un’analoga clausola di sanatoria quanto ai rapporti pendenti, limitandosi ad affermare che la dichiarazione d’illegittimità costituzionale vale «a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica», mera parafrasi della regola costituzionale generale scolpita nell’art. 136, comma 1, Cost.

Conosco l’obiezione: l’assenza di una adeguata formulazione nel dispositivo della sentenza n. 10/2015 è agevolmente rimediabile ricorrendo al canone ermeneutico del c.d. principio di totalità. In realtà, interpretandone – come pure si deve fare – la parte dispositiva alla luce della sua parte motiva, emerge a mio avviso un’ulteriore anomalia nel P.Q.M. della sentenza n. 10/2015.

La sua motivata efficacia ex nunc, infatti, appare incompatibile con il suo dispositivo di accoglimento: accoglimento di che cosa, è legittimo chiedersi, avendo la Corte escluso l’esistenza di un vizio di costituzionalità operante nel giudizio a quo? Se il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ha un senso, il dispositivo della sentenza n. 10/2015 avrebbe semmai dovuto essere di rigetto per infondatezza.

Invece di celarla, questa intrinseca contraddizione va portata alla luce, e messa a valore. Essa, infatti, ci segnala come, in realtà, la sentenza in esame riassuma in sé una doppia pronuncia (che sarebbe stato bene esplicitare nel dispositivo): di rigetto per tutti i rapporti pendenti, ivi compreso quello principale; di accoglimento per tutti i rapporti futuri.

Così formulato, oltre che più coerente con la sua motivazione, il P.Q.M.

avrebbe avuto anche il merito di fotografare il carattere del tutto inedito della pronuncia assunta dalla Corte costituzionale. Nemmeno altrove, infatti, si ritrovano precedenti simili.

Forse, l’episodio giurisprudenziale più prossimo alla tecnica

decisoria adottata nella sentenza n. 10/2015 è la nota pronuncia n.

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360/1996, che accese il semaforo rosso alla prassi illegittima della c.d.

reiterazione dei decreti legge. Anche allora, come ora, venne accertata un’incostituzionalità non sopravvenuta ma originaria (trattandosi di un vizio formale). Anche allora, come ora, la Corte costituzionale si fece carico di governare le conseguenze ordinamentali dell’incostituzionalità accertata (dichiarando salvi gli effetti dei decreti legge iterati o reiterati già convertiti o in corso di conversione). Ma, diversamente da ora, allora la disposizione impugnata non sfuggì alla mera dichiarazione d’illegittimità (come da dispositivo), assicurandosi così il suo divieto di applicazione anche nel giudizio a quo. Altra conferma, dunque, del tratto di novità che connota la sentenza n. 10/2015.

Novità che resiste anche nel confronto con un altro precedente, da alcuni invocato: la sentenza n. 1/2014, incardinata su un’eccezione d’incostituzionalità dall’incidentalità più che dubbia. Ma, diversamente dalla sentenza n. 10/2015, allora la pregiudizialità costituzionale indubbiata mancava in entrata, non in uscita. Se stiamo, infatti, al seguito della sentenza n. 1/2014 nel giudizio a quo, la Cassazione (cfr. sentenza n. 8878/14, dep. 16 aprile 2014) ha potuto avvalersi della dichiarata illegittimità della legge elettorale impugnata, definendo nel merito l’azione di accertamento del diritto di voto in seno alla quale la quaestio era sorta.

5. Stiamo discutendo, dunque, una decisione del tutto inedita. In termini di teoria generale del processo, la si può raccontare così: per la prima volta il nesso di pregiudizialità costituzionale tra giudizio a quo e giudizio ad quem viene spezzato in presenza di un vizio di legittimità ab origine della disposizione legislativa impugnata.

E’ la pregiudizialità costituzionale, dunque, ad andare in arresto cardiaco. E quando c’è un arresto cardiaco, le sue conseguenze si diffondono in ogni direzione. Di esse, la pregevole relazione introduttiva di Roberto Romboli ha già fatto l’antologia. Per parte mia, inviterei tutti a un gioco di ruolo: immedesimiamoci, per un momento, nel nostro giudice a quo, la Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia.

Da giudice remittente, si vede chiamato ad applicare nel giudizio principale una disposizione che la Corte costituzionale, da lui agìta, ha accertato come illegittima in motivazione e dichiarato tale nel dispositivo della propria sentenza. La sua posizione non gli lascia scampo. Se è vero che la sentenza n. 10/2015 cela – per il passato – un implicito dispositivo di rigetto, nulla impedirà a tutti gli altri giudici di analoghi giudizi ancora pendenti di reagire alla pretesa applicazione ulteriore della disposizione dichiarata illegittima, riproponendo identica quaestio: una decisione di rigetto, infatti, non ha efficacia erga omnes. Mantiene, invece, tutto il suo effetto preclusivo nei confronti del solo giudice remittente che l’ha eccitata.

E così – come in un mondo capovolto – proprio quel giudice che ha

esercitato il suo diritto-dovere di promuovere l’incidente di costituzionalità

sarà l’unico a doversi rassegnare ad applicare una norma illegittima. E

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dovrà farlo a danno di quella parte processuale che aveva eccepito con apposita istanza censure evidentemente fondate, fatte proprie e riprodotte

«testualmente e per esteso» dalla Commissione tributaria nella sua ordinanza di rinvio.

Forse è meglio dirlo in termini generali: cancellare – con un tratto di penna – la pregiudizialità costituzionale significa inventarsi un’impossibile coesistenza tra opposti. Da un lato, l’obbligo per il giudice di sospendere il giudizio di fronte a un dubbio rilevante di costituzionalità. Dall’altro, l’obbligo per quello stesso giudice di applicare una disposizione di legge riconosciuta incostituzionale. Si ottiene così il contraddittorio risultato finale di una relativizzazione della rigidità costituzionale proprio all’interno del rapporto giuridico che – primo tra tutti – ha messo in moto il rimedio esattamente predisposto per reagire alla violazione della rigidità costituzionale. Un gioco a somma zero.

C’è dell’altro. E’ anche il diritto ad agire in giudizio (art. 24, comma 1, Cost.), ad entrare in aritmia, quando una parte processuale non può beneficiare degli effetti di una decisione di accoglimento resa proprio in riferimento al suo giudizio. Tanto più se tale preclusione deriva dalla volontà soggettiva della Corte, espressa e imposta in deroga a quanto prescritto dalla volontà giuridicamente oggettiva di una fonte costituzionale (l’art. 1, legge cost. n. 1 del 1948).

E’ un effetto collaterale che inviterei la Consulta a non sottovalutare. Come si legge nella sua epocale sentenza n. 238/2014, gli artt. 24 e 2 Cost. sono «inestricabilmente connessi a presidio della dignità della persona, tutelando il suo diritto ad accedere alla giurisdizione». Un diritto che – ha scritto la Corte nella sentenza n. 26/1999 - «non si lascia ridurre a mera possibilità di proporre istanze o sollecitazioni».

Se così è (ed è così), si rivela davvero un magro premio di consolazione che «gli interessi della parte ricorrente trovino comunque una parziale soddisfazione nella rimozione, sia pure solo pro futuro, della disposizione costituzionalmente illegittima» (§7).

6. Se veramente la strada ora intrapresa è quella di ritenere

«consentita anche nel sistema italiano di giustizia costituzionale» la facoltà per il Giudice delle leggi di regolare gli effetti temporali di una sentenza di accoglimento, è almeno necessario non renderla inutiliter data per il giudice a quo che pure l’ha sollecitata. Per quel che vale, dunque, prima di replicare in futuro lo schema della sentenza n. 10/2015, suggerirei alla Corte di pensarci sopra non sette volte ma settanta volte sette.

E’ un invito alla prudenza non appagato dal «principio di stretta

proporzionalità» evocato cautelativamente in sentenza, e declinato nel

rigoroso rispetto di «due chiari presupposti» - opportunamente esplicitati in

sentenza (§7) - necessari perché si possa derogare al principio generale

di retroattività: [1] «l’impellente necessità di tutelare uno o più principi

costituzionali i quali, altrimenti, risulterebbero irrimediabilmente

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compromessi da una decisione di mero accoglimento», e [2] «la circostanza che la compressione degli effetti retroattivi sia limitata a quanto strettamente necessario per assicurare il contemperamento dei valori in gioco».

Posso tradurre? Ridotto all’essenziale, il potere rivendicato (ed esercitato) dalla Corte costituzionale incontra il solo limite dell’obbligo di una motivazione congrua. Ma questo è un limite che, se valicato, si rivela privo di conseguenze effettive: ai sensi dell’art. 137 Cost., infatti, contro una decisione costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione; il che preclude la possibilità di eccepirne un eventuale vizio della motivazione.

E’ il problema di sempre che ritorna: quis custodiet custodes? E ritorna, come sempre accade ogni qual volta la Corte costituzionale ritiene

«il rispetto delle regole processuali un valore “interno” all’opera di bilanciamento» (Romboli), quando invece ne rappresenta la cornice esterna. Per come la vedo io, il rispetto della pregiudizialità costituzionale non è collocabile su uno dei due piatti della bilancia, semplicemente perché di quella bilancia è ingranaggio indispensabile al suo corretto funzionamento.

** Università di Ferrara

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